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Torino Film Festival 2/ Magellan di Lav Diaz
Presentato in Italia a novembre, al Torino Film Festival, dopo una prima partecipazione alla Cannes Première Selection in maggio e un ancor più significativo debutto nelle Filippine in settembre, il film di Lav Diaz è la drammatica cronaca dell’ascesa e caduta dell’esploratore portoghese Ferdinando Magellano, che per primo ha aperto la via alla navigazione verso il Pacifico, doppiando il Cabo de Hornos, nei primi anni ‘20 del XVI secolo. Regista e sceneggiatore filippino, Diaz ha lavorato per oltre due decenni sui temi della storia, della memoria e del loro intreccio con il sanguinoso presente del suo paese. Da tempo – dichiara – intendeva realizzare un racconto sulle grandi esplorazioni del passato e sulla presenza – e la resistenza – delle popolazioni filippine in questa storia. La figura di Magellano, vero e proprio incunabolo della sanguinosa storia del colonialismo europeo, si prestava perfettamente a questa impresa. > Ben interpretato dall’enigmatico Gael García Bernal, Magellano compie l’intera > parabola che lo porta dall’iniziale idealismo e sete di avventura allo > sfrenato delirio di conquista e di sottomissione dei nativi. Il movente economico è praticamente assente nella vicenda. Non si parla né si sogna di inesauribili miniere d’oro o del mitico paese di Cuccagna. Tutto è molto circoscritto, limitato, quasi modesto. I conquistatori scoprono piccoli villaggi sulla costa, abitati da innocui e pacifici nativi, con cui la comunicazione è a malapena possibile. La religione ci mette lo zampino col tentativo monoteista di soppiantare i culti locali. Rappresentato in tutta la sua dimensione superstiziosa, il cristianesimo sembra avere la meglio per un attimo, prima che si scateni l’inevitabile rivolta, a causa della sua pretesa di unicità e la sua ossessione di superiorità, difficile da far digerire anche ai più pacifici “selvaggi” E tuttavia l’imposizione si farà: le Filippine sono oggi il paese più cattolico in tutta l’Asia e il culto del “Santo Niño”, alla cui introduzione proprio da parte di Magellano assistiamo nel film, è ancora ampiamente diffuso. Il tono complessivo è sobrio, con colori e luce naturali che ricordano le atmosfere tropicali di Aguirre, furore di Dio, con una camera molto statica e riprese in stile documentaristico, per uno sguardo talvolta etnografico (penso alla Colchide nella Medea di Pasolini) e una felice ossessione per i dettagli, magistralmente curati sia nelle scene terrestri che in quelle di navigazione. La pioggia, il vento, la vegetazione “parlano” tanto quanto gli umani, che faticano a capirsi tra di loro e con se stessi: che cosa fa perdere a Manuel I, re del Portogallo, l’occasione di servirsi delle conoscenze e del coraggio di Magellano, che si farà finanziare dagli Spagnoli con l’appoggio dei lungimiranti banchieri Fugger? Che cosa impedisce a Magellano stesso, dopo l’epocale exploit nautico, di approfittare della benevolente accoglienza e del relativo successo inizialmente ottenuto con i capi locali? Non i nativi ma gli europei, nella loro sorda monomania, sembrano i veri selvaggi, Magellano incluso, per cui il film non mostra alcuna simpatia. Insieme a Bernal nei panni del protagonista, il film lascia spazio ad attori non-professionisti che, spiega il regista, danno spesso luogo a qualcosa di inatteso, a una vitalità e spontaneità emotiva che arricchisce l’intero processo cinematografico. > Diaz spiega di prediligere l’”irripetibile” per come si mostra nella sua > nudità, di fronte alla camera. Per questo afferma di realizzare, per > principio, soltanto una singola ripresa per ogni scena, senza effettuare > ripetizioni, senza una seconda chance: gli attori danno tutto, in uno sforzo > unico e irripetibile. Da questa unica ripresa piena di tensione emotiva, > spiega Diaz, esce quasi sempre qualcosa di buono. Questa impostazione di metodo mi sembra una ricchissima metafora, particolarmente adatta proprio al film storico, perché della storia coglie appunto il ritmo unico, irripetibile, in un certo senso eracliteo: non c’è spazio per ripetizioni o pentimenti, tutto si fa una sola volta nel grande fiume degli eventi. Nell’immagine di copertina un fotogramma del film SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Torino Film Festival 2/ <em>Magellan</em> di Lav Diaz proviene da DINAMOpress.
Torino Film Festival 1/ Highest 2 Lowest di Spike Lee
Spike Lee torna in duetto con Denzel Washington per la quinta collaborazione in un remake dell’epocale High and Low del maestro Kurosawa (anch’egli in duetto con Toshiro Mifune, con cui totalizzarono però ben 16 collaborazioni). La critica sembra dividersi su questo film, mai noioso (è vero) ma anche un po’ scontato (altrettanto vero). Il canovaccio è semplice e ruota intorno al dilemma morale (e anche un po’ materiale, visti i 17,5 milioni di dollari in gioco) che un imprenditore afroamericano di immenso successo nell’industria musicale deve affrontare quando scopre che, a causa di un involontario scambio di persona, il riscatto chiesto per il rapimento del figlio dovrebbe in realtà servire a liberare il figlio del suo migliore amico, nonché autista personale. Due sono gli elementi socio-politici attorno a cui il film viene costruito, entrambi cari alla cinematografia precedente di Lee (e di Washington), cioè la classe e la “razza”, termine che impiego per comodità, in quanto di uso comune nell’inglese-americano, in cui è considerato neutro e descrittivo, ma giustamente non potabile nel nostro idioma, non solo per il portato storico ma per l’assoluta inconsistenza scientifica che, a buon diritto, prevale sull’impiego retorico. Classe e razza, dunque, di cui si pena un po’ a capire come l’uno si innesti sull’altro o se uno dei due abbia alla fine il sopravvento nel film. La domanda servirebbe a chiarire il messaggio politico (di cui stupirebbe l’assenza in un’opera dell’autore di BlacKkKlansman, Malcolm X e When the Levees Broke, solo per citare alcuni dei suoi precedenti capolavori). Purtroppo però, nello scintillio di una regia eccessivamente sfarzosa, la domanda evapora, ingoiata da un lieto fine che lascia tutto al proprio posto, sia la razza, sia la classe. Né in conferenza stampa (al Torino Film Festival, dove il film è stato presentato) Lee è stato più esplicito su questa o su qualcuna delle domande più politiche che gli sono state rivolte. Commentando il recente incontro, che si voleva distensivo, tra il neo-Sindaco di New York Zohran Mamdani e Donald Trump, Lee ha affermato, non proprio perentoriamente, che… «we shall see what we shall see», staremo a vedere. Ci si poteva aspettare qualcosa di più… La produzione e la distribuzione hanno avuto un ruolo preponderante, come lo stesso Lee ha spiegato rammaricandosi della brevissima permanenza della pellicola nelle sale (soltanto nord-americane) prima dell’uscita globale su AppleTV a inizio settembre 2025. Tuttavia si ha l’impressione (e qui forse ci sarebbe stato qualcosa di più da dire intorno al tema della classe) che Lee sia perfettamente a suo agio nel celebrare il duro lavoro, l’onestà intellettuale, la caratura morale (seppur con qualche comprensibile tentennamento visti i milioni di dollari in gioco) e i sani valori del protagonista David King, magnate e dirigente della gloriosa Label Stackin’ Hits Record. Ma il buon capitalista – potremmo dire – salva anche il capitalismo: il tenore e lo stile di vita, il ruolo sociale, i rapporti coi pari e gli inferiori (da high a low) non sono mai per un momento sottoposti a critica. King è il sogno (afro-)americano che ha trovato il suo posto al cuore, anzi al vertice, del capitalismo metropolitano, poco importa la linea del colore. Stupisce un po’, in sintonia con questo, anche la sfrontata presenza di placement pubblicitari nel film, come il brand della squadra degli Yankees (OK, il film è su New York…), dei pianoforti Steinway & Sons e, soprattutto, dell’iphone di Apple. Anche la rappresentazione della città di New York va in questo senso. La sequenza dell’inseguimento sui binari e nelle stazioni della metropolitana (reminiscente dell’iconico e analogo inseguimento in The French Connection di William Friedkin), girata nel bel mezzo di una celebrazione dell’orgoglio portoricano, è un ritratto della New York dal basso, del popolo colorato e festivo del South-Bronx. Tuttavia, nel film prevale nettamente l’immagine da cartolina di una New York dall’alto, quella dello skyline sfarzoso di South Manhattan, ripreso dai droni o dalla terrazza del milionario penthouse in cui risiede King e la sua felice famiglia, che altro non è, poi, che il vero Olympia Dumbo di Brooklyn, inaugurato e aperto ai suoi milionari residenti nel 2023, in piena crisi degli alloggi nella metropoli americana. > Naturalmente non si deve commettere l’ingenuità di identificare i valori del > personaggio King con quelli del regista Lee. Tuttavia, una certa nota > autobiografica è apertamente rivendicata, sia per il ruolo, simile a quello di > King nel film, che Lee ha giocato e continua a giocare come riferimento > culturale per l’intera nazione afroamericana, sia per come il regista si > auto-cita nel film, ad esempio collocando sui muri dell’appartamento di King > larga parte della collezione d’arte… di proprietà privata dello stesso Lee! Senza dire di più sulla trama, per non svelare l’intrigo che Lee si sforza, ma non sempre con successo, di mantenere incerto e aperto, segnalo in chiusura la colonna sonora, su cui la produzione e il regista hanno lavorato con grande cura, sia per la scelta “alta” delle melodie, dei testi e delle icone musicali black da celebrare, sia per la figura chiave del rapper Yung Felon, interpretato da A$AP Rocky, a rappresentare la miseria, il violento cinismo e l’opportunismo rivendicato fino all’ultimo, per cui né King-Washington né Spike Lee riescono a provare alcuna comprensione, né tantomeno alcuna simpatia. Irenismo fraterno e lieto fine sì, dunque, ma entro certi limiti. Contraddizione di classe all’interno della razza? In ogni caso è di una certa blackness che il film fa l’apologia, quella senz’altro più prossima allo highest del capitalismo culturale americano che al lowest dei ghetti metropolitani. Nell’immagine di copertina un fotogramma del film SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Torino Film Festival 1/ <em>Highest 2 Lowest</em> di Spike Lee proviene da DINAMOpress.
Senza confini
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno. Non credo che lo facciano per opportunismo e che sia imputabile a singoli dirigenti. Dall’89 hanno perso la loro collocazione storica e i loro riferimenti e sono passati dall’altra parte. Con qualche sfumatura. Vogliono tornare al governo senza alcuna probabilità e pensano che questo dipenda dalle relazioni con i gruppi dominanti e con l’opinione maggioritaria moderata e di destra. Considerano il loro terzo di elettorato un intralcio più che l’unica risorsa disponibile. Si sono gettati alle spalle la guerra con un voto parlamentare consensuale. Non la guerra irachena ma la guerra americana preventiva e permanente. Si fanno dell’Onu un riparo formale e non vedono lo scenario che si è aperto. Ciò vale anche per lo scenario italiano, dove il confronto è solo propagandistico. Non sono mille voci e una sola anima come dice un manifesto, l’anima non c’è da tempo e ora non c’è la faccia e una fisionomia politica credibile. È una constatazione non una polemica. Noi facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata. Le nostre idee, i nostri comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica delle cose, rispetto all’attualità e alle prospettive. Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. > Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere > un’opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione > del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una > pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell’uccisione e della soggezione di sé e dell’altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un’altra parola antica che andrebbe anch’essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste. 24 aprile 2003 (Luigi Pintor è morto il 17 maggio 2003) La copertina è di Gabriella Mercadini/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto LEGGI IL COMUNICATO STAMPA E PARTECIPA ALL’EVENTO FACEBOOK SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Senza confini proviene da DINAMOpress.
In Sudan l’emorragia non si ferma
Cosa sta succedendo in Sudan? È impossibile rispondere davvero a questa domanda se intesa in termini politici oltre che umanitari, o almeno lo è da una prospettiva europea. C’è chi legge la situazione sudanese come il risultato di scontri etnici ereditati dall’epoca coloniale, chi significa la guerra come frutto di conflitti d’interesse legati alla ricchezza di risorse presenti sul territorio (oro, terre rare, gomma arabica, petrolio) e chi invece vede la crisi umanitaria e politica come figlia di un vuoto di potere emerso durante e dopo la lotta di liberazione dalla dittatura di Omar al-Bashir. Sicuramente tutte queste ipotesi hanno un fondo di verità, tutte sono necessarie ma non sufficienti a spiegare la più grande crisi umanitaria al mondo e i più terribili crimini contro l’umanità della storia recente. Le Forze di supporto rapido (Rsf) sono l’eredità della milizia Janjaweed, che nei primi anni Duemila si è macchiata di crimini di guerra, contro l’umanità e persecuzioni di matrice etnica: nel 2013, infatti, il governo a guida al-Bashir ha formalizzato il gruppo paramilitare delle Rsf organizzando così l’allora formazione “a briglie sciolte” Janjaweed sotto un’autorità più controllabile. Lo stesso Mohamed Dagalo – detto Hemedti, attuale leader delle Rsf – era una figura di spicco tra le loro fila. I gruppi che subivano le violenze dei Janjaweed, come i Masalit e i Fur, sono gli stessi che subiscono le stragi delle Rsf. Inizialmente le Forze di supporto rapido erano incaricate di sopprimere i movimenti di insurrezione ed effettuare operazioni di “controllo dei confini”, incarichi ben presto trasformatisi persecuzione etnica e crimini contro l’umanità, per i quali sono sotto indagine dal 2023 presso la Corte Penale Internazionale, in riferimento alle azioni all’interno del conflitto scoppiato nell’aprile dello stesso anno. Anche le Forze armate sudanesi (Saf, esercito nazionale “regolare”), non sono senza macchia: inizialmente sotto il controllo del governo al-Bashir, di cui erano letteralmente il braccio armato, poi con la guida di Abdel Fattah al-Burhan al fianco dei ribelli e delle Rsf nel suo rovesciamento nel 2019. Dopo la destituzione del dittatore trentennale hanno mantenuto la fragile alleanza con le Rsf, formando un governo di transizione con una componente civile durato solo fino al 2021. > Con un altro colpo di stato hanno assunto un potere di natura militare, ma la > coalizione con la milizia – già di per sé problematica – ha retto solo fino al > 2023: il 15 aprile è scoppiata la guerra civile che ancora oggi devasta il > paese. Qui si comprende qualcosa di quel vuoto di potere, o meglio di quelle > rivendicazioni di potere strabordanti e irriducibili fra loro, di cui sopra. La ricchezza di risorse ha portato questo conflitto a eccedere i confini del Sudan, interessando il Ciad, la Libia, il Sud Sudan e, soprattutto, gli Emirati Arabi. Anche l’Egitto fa buon viso a cattivo gioco con il governo di al-Burhan, basti considerare che il Nilo, prima di raggiungere il territorio egiziano, passa per il Sudan: lì, infatti, confluiscono Nilo bianco e Nilo azzurro. L’attore più controverso rimane Abu Dhabi: da sempre accusato dal governo di Khartoum di foraggiare la guerra sostenendo le Rsf, a cui fornirebbe armi e mercenari (anche internazionali, in particolare colombiani) in cambio di risorse, ha di volta in volta rimandato le accuse al mittente, ma le prove di un coinvolgimento sono ormai schiaccianti. Numerosi rapporti delle Nazioni Unite, un primo datato gennaio 2024, un secondo aprile 2025, dimostrano una catena logistica che dagli Emirati arriva fino a Nyala – capitale del Darfur del Sud sotto il controllo delle Rsf – passando per Ciad orientale, Sud Sudan e Libia. I report indicano un tracciamento di aerei cargo non registrati che, in direzione Am Djarass (aeroporto del Ciad nordorientale), spariscono per qualche ora dai radar all’altezza di Nyala, per poi ricomparire ad Am Djarass. Pur non riuscendo a verificare il contenuto dei voli cargo, la catena logistica è innegabile. Da Nyala si irradia la rete infrastrutturale che raggiunge tutte le roccaforti della milizia, da ultima El Fasher. Da un altro report, questo confidenziale ma pubblicato in esclusiva sul “Guardian“, emerge il ritrovamento di passaporti emiratini sul campo di battaglia, nelle zone dello stato di Khartoum precedentemente controllate dalle Rsf e poi riconquistate dall’esercito. > Lo stesso documento indica che gli Emirati potrebbero aver fornito droni > modificati per lo sgancio di bombe termobariche, artiglieria controversa e con > capacità di distruzione molto maggiori rispetto ad altri tipi di arsenale > dello stesso calibro, testimoniate poi dalla sofferenza e dalla morte dei > sudanesi che ne hanno subito gli effetti. È bene ricordare, a questo proposito, che i bombardamenti non hanno mai risparmiato siti civili: ne sono un esempio gli attacchi, perpetrati anche nei primi mesi di quest’anno, sui mercati di El Fasher e Omdurman, che hanno provocato decine di morti e centinaia di feriti. El Fasher, poi, è stata teatro della più grande strage degli ultimi anni in Sudan: la sua capitolazione a fine ottobre, per mano delle Rsf, ha comportato migliaia di morti e dispersi, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati. Le maggiori organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e Amnesty International, invocano un’indagine per crimini contro l’umanità sulle azioni delle Rsf a El Fasher, che hanno rievocato e superato per crudeltà l’assedio sul campo profughi di Zamzam (l’offensiva più devastante è avvenuta ad aprile 2025). Senza un sostegno esterno, la milizia non avrebbe potuto perpetrare queste atrocità, né conquistare tutto questo terreno: controlla infatti ormai quasi tutta la regione del Darfur e parte del Kordofan – dove ha già raggiunto alcune delle principali città, come Bara, e punta alla capitale El Obeid. IL COINVOLGIMENTO USA ED EUROPEO Nel frattempo, l’aspirante Nobel per la pace Donald Trump ha messo in piedi una task force dedicata alla crisi sudanese: il gruppo Quad vede tra le sue fila Arabia Saudita, Egitto, Stati Uniti, e non potevano mancare proprio gli Emirati Arabi. Si comprende come le proposte di un cessate il fuoco avanzate dal team Quad avessero già perso in partenza, Al-Burhan ha definito l’ultima «la peggiore ricevuta finora», perché, oltre alla presenza compromessa di Abu Dhabi, non prevede il ritiro e disarmo delle Rsf, che hanno invece accettato volentieri il piano, dichiarando unilateralmente un cessate il fuoco di tre mesi lunedì 24 novembre. Tregua che già martedì 25 novembre è stata violata dalla milizia e i suoi alleati: il Movimento popolare per la liberazione del Sudan del Nord (Splm-N), parte del governo parallelo guidato da Hemedti, ha rapito oltre 150 ragazzi, tra cui svariati minori, dalla miniera di Zallataya (Kordofan sud); le Rsf, invece, hanno attaccato una base militare nel Kordofan occidentale (secondo una dichiarazione dell’esercito che non è ancora stata verificata indipendentemente). Il consigliere speciale Usa per l’Africa Massad Boulos, inviato ad Abu Dhabi per discutere di Sudan, ha invitato «tutte le parti ad accettare il piano così com’è stato proposto, senza precondizioni», bocciando da subito le richieste di al-Burhan di prevedere quantomeno il disarmo della milizia. L’Unione Europea, dal canto suo, condivide le lacrime di coccodrillo trumpiane: dopo aver imposto delle sanzioni al numero due delle Rsf, Abdelrahim Dagalo, emesse dal Consiglio affari esteri, il Parlamento di Strasburgo il 27 novembre ha convocato una votazione su una Risoluzione legata alle ingerenze esterne nella guerra in Sudan. > Se la prima bozza condannava direttamente il coinvolgimento degli Emirati, > proponendo addirittura di interrompere il trattato di libero commercio delle > armi con Abu Dhabi (che sarebbe semplicemente una mossa ottemperante > all’embargo sulle armi e alla legislazione internazionale in materia di > commercio bellico in teatri di guerra), il documento finale che è stato > approvato non nomina neanche lo stato del Golfo persico. La presenza, nelle vesti di osservatori, dei diplomatici emiratini durante il voto parla da sé rispetto a questa virata angolare e repentina: Lana Nusseibeh, l’inviata di Abu Dhabi per l’Europa, è volata a Strasburgo insieme al suo entourage, dove ha partecipato a incontri con numerosi membri del Parlamento europeo. A tracciare la sottile linea rossa che ha determinato la cancellazione degli Emirati dalla risoluzione è stato il PPE, ma anche Marit Maij – negoziatrice capo per il gruppo S&D (socialisti e democratici) – ha ammesso a Politico di aver incontrato la delegazione emiratina su richiesta di quest’ultima, affermando però di avergli fatto presente che gli elementi del loro supporto alle Rsf sono schiaccianti. Il sito europeo ha ironicamente sottotitolato il servizio: «Gli ufficiali emiratini hanno condotto una spinta lobbista eclatante mentre i parlamentari pasticciano una risoluzione sul devastante conflitto africano». Nel frattempo, il 19 novembre, l’italiana Leonardo spa ha ufficializzato una Joint Venture con il gruppo Edge (Emirati Arabi), di cui quest’ultimo deterrà il 51% e ne commercializzerà i prodotti in casa. Da tutto ciò emerge un filo di legami politici, economici e finanziari che esulano dal contesto sudanese e rendono molto difficile individuare gli interessi concreti che muovono gli attori esterni a interferire nel conflitto e soprattutto la catena di beneficiari che non finisce certo ad Abu Dhabi. Tracciare il profilo delle dinamiche estrattiviste, lobbiste e quasi sempre neocoloniali non è semplice, ma a pagarle da più di cent’anni rimane il popolo sudanese. La copertina ritrae il campo profughi di Khor Abeche (Sud Darfur) dopo un attacco delle Rapid Support Force avvenuto il 22 marzo 2014. L’immagine è di Enough project (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo In Sudan l’emorragia non si ferma proviene da DINAMOpress.
Stile e lezioni di Pintor
Il mio rapporto con il gruppo storico del “manifesto” è stato altalenante, perché agli inizi degli anni ’60 le nostre posizioni di opposizione all’interno del Pci erano diverse, accomunate prevalentemente dalla critica della destra amendoliana, ma diverse nel giudizio su Togliatti e nella pratica oppositoria (io ero un “entrista”, figura archeologica imposta dal divieto di correnti organizzate dal basso). Comunque il mio apprendistato nella Fgci l’avevo fatto a “Nuova Generazione” sotto la direzione di Luciana Castellina e di un altro maestro eccezionale di giornalismo, Sandro Curzi. La frequentazione di Ingrao e della sinistra ingraiana veniva dunque da sé, con percorsi paralleli. Il rapporto era più facile con quelli che erano di poco più grandi di me e con Natoli, che per il ruolo politico tenuto a Roma aveva una grande capacità interlocutoria. Rossanda, in apparenza la più inavvicinabile per età, biografia “milanese” e statura intellettuale, aveva invece un’insaziabile curiosità per le idee nuove e per questi “giovani”, stimolando il dialogo e il confronto. Luigi Pintor aveva un carattere più riservato, al limite dell’ostico, ma l’ammiravo moltissimo come giornalista (allora dirigeva il quotidiano del Pci e fu fatto fuori da Alicata, che io consideravo quasi un nemico personale per le mie esperienze al “Contemporaneo”, a “Critica marxista” e sulle questioni ideologiche in generale (ebbe peraltro i suoi meriti resistenziali e prima ancora aveva sceneggiato Ossessione per Visconti). > Pintor, come Natoli, aveva fatto la resistenza antinazista nella Roma occupata > e questo conferiva loro, come ai gappisti di via Rasella, un’aura di rispetto > presso i ragazzi con le magliette a strisce che erano scesi in piazza contro > Tambroni nel 1960 immaginandosi di ripetere Porta San Paolo 1943. Vabbè, sono storie di altri tempi, in cielo volavano ancora gli pterodattili, mica i droni. Poco dopo tornammo tutti, volenti o nolenti, a respirare aria libera. Era arrivato il ’68 – e una mano al suo scoppio gliela avevamo data tutti ma l’evento ci sorpassava di gran lunga ed era internazionale – eravamo ormai fuori del Pci e con la successiva segmentazione (sciagurata ma inevitabile) del movimento in partitini ci trovammo agli estremi opposti dello spettro politico “sovversivo”. Il manifesto quotidiano restava però un punto di riferimento ineludibile e per tanti anni facevo il mio pellegrinaggio affabulatorio una volta a settimana a via Tomacelli, libreria e redazione, passando di stanza in stanza a salutare i compagni, fino a concludere con lunghe conversazioni, al piano e al bar di sotto, con Valentino Parlato – che non era il più “a sinistra” del gruppo, ma una fonte inesauribile di storie e mi raccontava anche della Libia, per me esotica, al punto che andai a vedere dall’esterno la sua casa di allora, quando andai a Tripoli da turista nel 2001, nella vecchia citta-giardino italiana. Anche allora non mi azzardavo a disturbare Pintor, il cui amore per la solitudine e l’avversione alle chiacchiere erano leggendari. Il mio periodo di maggior frequenza e scrittura al “manifesto”, cadde fra il 1988 e il 1991, quando Virno diventò redattore culturale e inaugurò un breve periodo sperimentale di resistenza non nostalgica all’ilare e tossica restaurazione degli anni ‘80. Rossanda chiamava ancora me e Paolo “i giovani”, anche se non lo eravamo più e un’intera generazione, la nostra, era stata massacrata, incarcerata o zittita. Al di là delle relazioni personali, spesso dettate da casualità e impulsi affettivi, resta il giudizio sul politico, sul maestro di stile giornalistico e naturalmente sullo scrittore, altrettanto essenziale e impegnato su un arco di emozioni e ricordi ben più profondi dalle miserie di cronaca su cui un editorialista è costretto a esprimere valutazioni. > Pintor era famoso, ben fuori della sua parte, per i corsivi fulminanti e > tutt’altro che d’occasione, tanto che in alcuni casi potrebbero essere > riproposti oggi tali e quali (su Israele, sulle allocuzioni ministeriali > sollecitanti la formazione di una coscienza alimentare nazionale, sullo > stillicidio degli infortuni sul lavoro). La forza dell’approccio di Pintor, espressa negli editoriali del “manifesto”, stava e resta nel suo tenere insieme la crisi del Pci (e metamorfosi susseguenti) con la dinamica dei movimenti, soprattutto dopo le rotture epocali del 1989 per il primo e del 1978 per i secondi, che facevano venir meno la dialettica, a volte malsana ma in fondo produttiva per cui una serie di istanze rivoluzionarie erano tradotte in importanti riforme negli anni ’70, con una tacita complicità bilaterale (almeno fino al 1977) al di là del dissidio strategico e dalla virulenza del linguaggio. Il muro della “fermezza” eretto dal Pci contro la componente terroristica post-sessantottina finì per tagliar fuori tutto lo spirito del movimento , che in maggioranza dal terrorismo era alieno, compresa l’eterogenea moltitudine che si radunò e si sciolse nel mitico convegno bolognese del 1977. In questa situazione Pci e movimenti si suicidarono ciascuno per conto suo, alla Bolognina e a via Fani. Il neoliberismo, una volta schiacciati i sovversivi (non senza l’aiuto dei riformisti), si dedicò a fagocitare i riformisti e poi a disperderli – il tutto in un contesto internazionale di riflusso in cui la caduta del Muro di Berlino sovradeterminava scioglimenti e rifusioni locali. Pintor non aveva nessuna nostalgia del Pci, pur essendo cresciuto proprio nella costruzione del Partito nuovo a partire dal 1943-1944, ma aveva capito che le periodiche insorgenze dal 1960, del 1968 e di tutti gli anni ’70 in polemica aspra con il Pci implicavano appunto la loro esistenza a sinistra di un corpaccione malandato che faceva opposizione e resistenza fisica ai vari comitati d’affari che la borghesia di volta in volta metteva su, con il sostegno Usa, per tenere insieme il Paese. > I movimenti potevano rifluire temporaneamente e il corpaccione mescolarsi alle > formule di governo, ma le distinzioni di fondo rimanevano e una certa idea di > “sinistra” restava in piedi, checché insinuassero certi estremisti che la > vedevano morta. Lo scioglimento del Pci, sulla scia del crollo del campo socialista e Est, cambia i termini del problema. Non possiamo neppure immaginare cosa avrebbe scritto Luigi del personale politico del Pd attuale sui campi larghe e stretti, ma più interessante è che il verdetto di morte del Pci (sotto il nome ormai di Pds) Pintor lo formula proprio nel momento di massimo fulgore post-Bolognina, durante la segreteria (1994-1998) e ancor più il governo (1998-1999 e 1999-2000) di Massimo d’Alema – eh già, di quel leader maximo che oggi spicca come un gigante in confronto ai piddini prostrati a Biden e von der Leyen. Ne scriveva il 2 giugno 2001: «Evidentemente Massimo D’Alema non ha alcuna intenzione di farsi da parte e neppure di ridimensionare se stesso. Pochi (o nessuno) peccano di modestia nel mondo politico di oggi, dove il leaderismo e l’aspirazione al primato prevalgono su ogni altra considerazione. Forse, nel suo caso, dipende anche dal carattere, da quel senso di superiorità che ha sempre ostentato senza mai spiegarne il fondamento biografico». Un cameo validissimo anche per le sue più recenti comparsate in Tv. Compresa la sua olimpica allergia all’autocritica per gli errori commessi in un periodo «difficile ma non sfavorevole», in cui ha insanamente coinvolto l’Italia nelle guerre balcaniche con il bombardamento di Belgrado del 1999 e con i rapporti amichevoli e subalterni con Condoleezza Rice in epoca successiva, da ministro degli Esteri del secondo governo Prodi. D‘Alema – sempre secondo Pintor – aveva leso «l’immagine stessa della sinistra, deprivata di ogni sensibilità sociale e divenuta ancella di tutto ciò che ha sempre combattuto nella sua lunga storia, degenerando fino all’elogio della guerra: che non è stata una necessità subita ma una occasione coltivata». E di ciò il Presidente non aveva mostrato allora «alcun turbamento» e, a dire il vero, non lo mostra neppure oggi, nelle pensose e brillanti interviste che rilascia irridendo giustamente alla miseria della politica corrente. E Pintor profetizza con assoluta puntualità: «Se i diessini superstiti prenderanno questa strada non avranno futuro e anche l’Ulivo ne patirà le conseguenze». > Riprendendo il tema, alla vigilia della morte, nel suo ultimo editoriale > dell’aprile 2003, Pintor afferma seccamente che «la sinistra italiana che > conosciamo è morta», sia essa quercia o margherita o ulivo, per subalternità > irreversibile «non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e > alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno». Il passaggio dall’altra parte si è compiuto nell’89, nel decennio successivo perdendo anche «la faccia e una fisionomia politica credibile». E neppure «facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata». Con la seconda guerra del Golfo era tramontata l’illusione del movimento come seconda potenza mondiale e la politica abituale si era impadronita del movimento di Genova, soffocandolo con ben maggiore efficacia della repressione targata Berlusconi-Fini-De Gennaro.  Il mondo si è diviso in due parti per il sentire, ma non per l’agire, rispetto a cui i movimenti sono impotenti. E comunque questa spaccatura non segue più le linee divisive di un tempo: «Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine». E, alla fine della vita, Luigi Pintor suggerisce di sostituire a una bandiera una «pratica di vita», non un’organizzazione formale bensì una «formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza», – una moltitudine, ­vorremmo dire con termine che l’autore non usava – di “compagne e compagni” non gelosi di stretto riconoscimento ma «senza confini», propensi in tempi più lunghi di domani a «reinventare la vita» di cui il neoliberalismo ci priva giorno dopo giorno. Apocalittico? Pessimista? Disfattista? No, presa d’atto di una chiusura di ciclo. Però i movimenti sono sopravvissuti e si sono ripresi, dopo un letargo più che decennale, senza una dialettica con il sistema dei partiti (dissolto nell’astensionismo oggi maggioritario e nella perdita di progettualità),dunque oggettivamente indeboliti (e qui il pessimismo di Pintor ci aveva colto), ma definitivamente liberati dalla nostalgia di quella forma, incerti ed espansivi, in parte autonomi dei vincoli destinali della geopolitica. Una pagina bianca, chissà. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Stile e lezioni di Pintor proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor: discontinuità della memoria generazionale
Dal primo giorno in cui ci siamo proposti di ricordare i cento anni dalla nascita di Luigi Pintor, io e altri compagni di lunghissima data, di quelli che la loro vita professionale e politica (e umana, aggiungerei) l’hanno trascorsa al fianco di Luigi, mi assedia una domanda: ne vale la pena? Ovviamente sì, mi sono risposto dopo il convegno di Cagliari, in settembre, e dopo il corso di formazione per giornalisti, in novembre a Roma. La partecipazione, l’interesse, i ragionamenti e sì, i ricordi, sono stati tali, e così calorosi da convincermi che di una “piazza Pintor”, come abbiamo battezzato l’incontro sardo e si chiamerà il prossimo, il 5 dicembre, alla Nuvola dell’Eur, a Roma, c’è proprio bisogno, almeno tra la gente della nostra età, o poco meno. Però un dubbio mi è rimasto e riguarda la faglia generazionale, tra noi sessantottini e i più giovani. In fondo, dalla morte di Luigi sono passati più di vent’anni, giusto una generazione. E poi, si sa, una faglia, o frattura, c’è sempre, e necessariamente, tra i vecchi e i giovani, come diceva Pirandello. Per esemplificare: quando andai in un liceo a raccontare un mio romanzo ambientato nel ’68 e chiesi: questo numero vi dice qualcosa?, un ragazzo alzò la mano e rispose: sì, nel 1968 è nata mia madre. E fui molto colpito quando, in viaggio a Berlino, andammo alla commemorazione di Rosa Luxemburg, migliaia di persone intorno alla sua tomba inventata perché il corpo di Rosa, assassinata dai gruppi di ex-militari nazionalisti che poi sarebbero diventati nazisti, non fu mai ritrovato. E c’erano moltissime ragazze e moltissimi ragazzi, quel giorno, nonostante il fallimento del regime comunista, anche in Germania. > Che cosa spingeva quelle ragazze e quei ragazzi a portare fiori e a mettere > bandiere rosse a un monumento abusivo, in tutti i sensi? E cosa aveva spinto noi, sessantottini, a coltivare, studiare, pezzi del comunismo, da Marx a Lenin, da Gramsci a Rosa Luxemburg, appunto, e moltissimo eccetera? Eppure eravamo noi, allora, i “nuovi”, molto eccentrici e deragliati dal marxismo-leninismo, libertari in tutto, al punto che uno di noi, studente ribelle, si diede fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, per protestare contro i carri armati sovietici alla maniera dei bonzi vietnamiti che si opponevano all’invasione statunitense? Mi è capitato di vedere occhi smarriti o inespressivi di ragazze e ragazzi che sentivano nominare Pintor. Chi sarà mai? Non c’è niente di male, certo, ma in questo periodo non si può dire che siano indifferenti, le ragazze e i ragazzi. Le gigantesche manifestazioni femministe e quelle per la Palestina, la tenace opposizione alla distruzione della natura, tra le altre cose, mostrano che al di là della faglia generazionale c’è vita, e vivace. E su quale scia storica e culturale, esattamente o confusamente o in quale miscela, si addensano le intenzioni, lo spirito, il rifiuto della resa al mondo così com’è, spinge a manifestare, cercare nuovi simboli universali, come la bandiera palestinese, riunirsi, inventare nuovi linguaggi, creare occupazioni di scuole e la miriade di azioni che costituiscono la nebulosa della ribellione? Allora, a che serve la memoria di Pintor? Se riuscissimo, noi veterani, a far leggere loro qualcuno degli editoriali di Luigi, a cominciare dall’ultimo, che apre un orizzonte oltre il comunismo novecentesco, penso che avremmo compiuto il nostro dovere. Quando cominciammo a muoverci, alla fine dei Sessanta, nutrivamo quasi un culto della Resistenza e il 25 aprile divenne davvero, venticinque anni dopo la fine della guerra, un rito civile, un modo di dirsi che se l’hanno fatto loro lo possiamo fare anche noi. Una mattina mi son svegliato. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor: discontinuità della memoria generazionale proviene da DINAMOpress.
“Fuori Leonardo S.p.A. dai centri di formazione professionale”
La complicità di Leonardo S.p.A. nel genocidio in Palestina è ormai di dominio pubblico. Nonostante il tentativo di smentita dell’Amministratore delegato Roberto Cingolani in una recente intervista al “Corriere della Sera”, l’azienda produttrice di armamenti, il cui maggior azionista è il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha rifornito e continua a rifornire Israele, stato sotto accusa per genocidio alla Corte Internazionale di Giustizia, con le armi prodotte nei suoi stabilimenti. Dai cannoni prodotti dalla controllata Oto Melara in dotazione alla marina israeliana con i quali sono stati effettuati bombardamenti sulla Striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 in poi, alla componentistica prodotta da Leonardo per gli F-35 utilizzati per radere al suolo Gaza, alla fornitura di elicotteri Agusta per l’addestramento delle forze di occupazione, alla produzione da parte di MBDA, partecipata di Leonardo, di componenti di ali direzionali per le bombe GBU-39, responsabili, come documentato dal quotidiano britannico “The Guardian”, di almeno decine di vittime civili. Questa complicità, ben documentata anche dalla Relatrice Speciale per il territorio palestinese occupato Francesca Albanese nel suo penultimo rapporto, ha spinto alcune associazioni e una cittadina palestinese a denunciare la scorsa settimana Leonardo S.p.A. al Tribunale Civile di Roma. Di fronte a tali responsabilità ineludibili, Leonardo non dovrebbe unicamente essere messa sotto inchiesta nei tribunali: non dovrebbe avere più nessuna legittimità negli spazi pubblici di questo paese, men che meno nei luoghi della formazione. > E invece, come documentato da “Altreconomia” nel numero di Ottobre, almeno 23 > atenei pubblici hanno legami con Leonardo. Queste collaborazioni possono > prendere la forma di progetti di ricerca finanziati da Leonardo, ma anche > borse di studio o contratti a tempo determinato per ricercatori/ricercatrici, > fino a indirizzare la didattica, con insegnamenti tenuti proprio da docenti > riconducibili a Leonardo. Un legame atenei pubblici – Leonardo S.p.A. che non solo pone seri interrogativi sull’autonomia dei saperi e sul ruolo sociale dell’Università e della ricerca pubbliche, che dovrebbero essere luoghi di elaborazioni di saperi critici nell’interesse collettivo. Queste collaborazioni svolgono anche la funzione di peace-washing, cercando di riabilitare l’azienda bellica occultando, o quanto meno facendo passare in secondo piano, le proprie responsabilità nelle violazioni dei diritti umani. > A questo rapporto consolidato fra istituzioni universitarie e Leonardo, dal > 2023 si aggiunge un accordo di collaborazione stretto fra l’azienda bellica e > la Città Metropolitana di Roma Capitale per la «realizzazione di percorsi > formativi innovativi da realizzarsi presso i Centri Metropolitani di > Formazione Professionale». L’accordo di collaborazione, istituito con il decreto n. 94 del 13/06/2023 e poi finalizzato l’anno successivo con il decreto n. 7 del 22/01/2024, consente a Leonardo di entrare nel Centro Metropolitano di Formazione Professionale di Acilia allestendo «un laboratorio specialistico in materia di cyber security brandizzato con propri loghi e marchi» Leonardo inoltre, nell’ambito dell’accordo, svolgerà «il ruolo di Azienda madrina per gli studenti del 1° anno [ragazz3 di 14 anni], accoglierà gli studenti del 2° e 3° anno in alternanza scuola-lavoro rinforzata e potrà sottoscrivere contratti di apprendistato». Il risultato di questa collaborazione è la progettazione di un percorso formativo triennale, gratuito per student3 dai 14 ai 17 anni, che abilita la figura di Operatore Informatico in Ambiente Cybersecurity. L’operazione di peace-washing messa in piedi da Leonardo è palese, con il supporto inaccettabile della Città Metropolitana di Roma Capitale, che in tal modo dimostra disprezzo della giurisdizione internazionale e della vita dei e delle palestinesi (che il genocidio israeliano continua a uccidere dimostrando quanto strumentale sia questo “cessate il fuoco” per la normalizzazione del massacro). Chiediamo quindi l’immediata rescissione della collaborazione fra Leonardo S.p.A. e la Città Metropolitana di Roma Capitale: come previsto nell’articolo 5 dell’Accordo, tale rescissione sarà senza oneri per la Città Metropolitana in quanto «non darà diritto ad alcuna indennità o risarcimento, a qualsiasi titolo e di qualsiasi natura». Chiediamo inoltre l’immediata espulsione di Leonardo e di tutti gli attori che hanno supportato il genocidio, l’occupazione e l’apartheid dal mondo della formazione: i saperi devono essere liberi, contro le guerre e per l’auto-determinazione dei popoli. BDS Roma Docenti per Gaza RUP – Rete Ricerca e Università per la Palestina Immagine di copertina di Dinamopress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo “Fuori Leonardo S.p.A. dai centri di formazione professionale” proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor: il 5 dicembre l’evento per celebrare i cento anni dalla sua nascita
Un incontro con testimoni, amiche e amici, compagne e compagni e rappresentanti del mondo politico per ricordarne la figura e soprattutto l’attualità. Questo è l’obiettivo dell’iniziativa “Piazza Pintor”, l’appuntamento dedicato alla vita di Luigi Pintor che si terrà venerdì 5 dicembre alle 16.30 presso La Nuvola di Fuksas all’Eur (Roma), all’interno dell’Area Biblioteche della Fiera della piccola e media editoria “Più libri, più liberi”. Luigi Pintor è stato uno dei rappresentanti più significativi del Novecento per aver preso parte alla Resistenza, dato vita ad un quotidiano unico nel panorama dell’editoria, indipendente dai partiti e dai poteri economici e rappresentato una voce fuori dal coro della politica. Ma anche per aver scritto alcuni mirabili romanzi, “Parole al vento”, “Servabo”, “La Signora Kirchgessner”, “Il Nespolo”, di recente raccolti in un unico volume da Bollati Boringhieri. Quella del 5 dicembre sarà la terza delle iniziative promosse dal Collettivo Pintor. La prima, il 20 settembre scorso, si è svolta a Cagliari, grazie al sostegno della Fondazione di Sardegna, Agorà di Legacoop e il manifesto, Con la presenza, tra gli altri, di Luciana Castellina (cofondatrice del manifesto), che sarà presente anche a Roma. La seconda è stato un corso di formazione per giornalisti professionisti fortemente voluto dal Presidente dell’Ordine dei giornalisti di Roma e del Lazio, Guido D’Ubaldo, con la partecipazione, tra gli altri, di Paolo Serventi Longhi, già segretario nazionale della Federazione della Stampa. L’iniziativa, promossa dal Collettivo Pintor e realizzata da DinamoPress, è resa possibile grazie al contributo dell’Assessorato alla cultura di Roma Capitale, di Zètema e dell’ospitalità dell’Istituzione Biblioteche di Roma. LEGGI IL COMUNICATO STAMPA E PARTECIPA ALL’EVENTO FACEBOOK La copertina è a cura di DinamoPress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor: il 5 dicembre l’evento per celebrare i cento anni dalla sua nascita proviene da DINAMOpress.
Migliaia in corteo a Messina: il Sud unito contro il Ponte sullo Stretto
Ancora una volta in migliaia abbiamo percorso le strade di Messina. Lo abbiamo fatto insieme a tante realtà del Sud con le quali condividiamo la decisione di difendere i nostri territori dalla furia devastatrice delle politiche coloniali ed estrattiviste. In questi giorni la governance del ponte ha subito un duro colpo, ma noi non ci facciamo illusioni. È possibile che tornino ancora, perché il dispositivo del ponte è uno strumento troppo succulento per il blocco sociale che lo sostiene. Noi ci saremo ancora, ma, soprattutto, continueremo la nostra lotta per rivendicare le risorse destinate al ponte affinché vengano soddisfatti I bisogni che i nostri territori esprimono. Abbiamo fatto un altro passo. Tantissime volte ci siamo ritrovati in questa piazza alla fine di un corteo no ponte. E siamo sempre stati in tanti. Sì, perché questo è sempre stato il movimento no ponte, un movimento di popolo, un movimento dal basso, un movimento di abitanti che vogliono decidere del proprio futuro. Questo è sempre stato il movimento no ponte, un luogo d’incontro per tutte le lotte territoriali. Oggi, collegati con la manifestazione che intanto si svolge a Roma, questo luogo è anche la Palestina. > Perché Gaza è oggi il nome comune di ogni ingiustizia e perché il progetto di > ricostruzione di Gaza è la manifestazione più feroce delle politiche > estrattiviste e coloniali di cui anche il ponte è espressione. Quelle stesse > politiche estrattiviste e coloniali che portano con sé morte e repressione, > repressione che colpisce i movimenti con arresti, multe, misure sempre più > restrittive della libertà di manifestare, Saremmo potuti venire in piazza convinti di dovere dare l’ultima spallata, convinti che, alla fine, un giudice metterà fine a questa follia e che ci preserverà dalla devastazione. Saremmo potuti venire in piazza convinti che fosse riconosciuta la ragionevolezza delle nostre argomentazioni, che, alla fine, le bugie hanno le gambe corte e la giustizia prevale sempre. Noi, però, abbiamo imparato che non è così. In tutti questi anni abbiamo imparato che la storia del ponte è fatta di un’alternanza di fasi e che a uno stop segue sempre una ripresa. Non è, d’altronde, solo la storia del ponte. È la storia delle grandi opere e avviene perché intorno alle grandi opere si forma un blocco sociale che si nutre delle risorse pubbliche. Per questo ci fidiamo così poco delle forze politiche, perché gli abbiamo visto cambiare opinione troppe volte. E anche quando si sono schierate per il no al ponte gli abbiamo visto usare troppo spesso un no condizionato. «Il nostro non è un no ideologico», dicono. E quale sarebbe il no ideologico? «Questo progetto non sta in piedi», dicono. E, se stesse in piedi, diventeremmo per quello a favore del ponte? Noi pensiamo, invece, che dalla storia del ponte bisogna uscire definitivamente. Il ponte non è emendabile, non esiste il ponte ecologico, non esiste il progetto che non impatta sul territorio, soprattutto non esiste un ponte che non sperpera enormi quantità di risorse pubbliche che andrebbero usate per la messa in sicurezza del territorio, per scuole, ospedali, reddito. Così come abbiamo scritto nell’appello “Il Sud unito contro il ponte”. * * di Flashmood …MA CHE COS’È QUESTO SUD? Potremmo partire dal dire che c’è sempre qualcuno più a Sud… nel piccolo e nel grande: a Messina, città del Sud, c’è una zona sud: quella che non ha la spiaggia più bella secondo il National Geographic, quella che nei decenni è stata sacrificata prima all’industria e poi al consumo, quella che non fa notizia, non esiste, non importa… e quella che, in qualche modo, è colpa di chi ci abita se ogni giorno è ancora là… Il Sud: il Sud dove manca il progresso (quella nozione circondata dalla nebbia che, come ricordavamo questa estate, anche nella teoria di chi ci governa dovrebbe essere tutt’altro da una grande opera inutile e impattante); il Sud dove manca la civiltà; il Sud dove manca la voglia di lavorare; il Sud dove manca la coscienza; il Sud dove manca la legalità. Ma non si sa perché a nessuno interessa che manchino (queste davvero) la sanità, la cultura, la cura per i territori, le basi per avere la libertà di decidere come vivere… E in questo contesto un po’ di spaesamento con qualche deriva razzista, noi, che siamo il Sud dell’Italia, guardiamo al Sud del Mediterraneo, al Nord Africa, per cercare alleati, amici, compagni; e loro, quelli del Nord dell’Africa, a loro volta guardano al Sud del Sahara, e forse si continua così fino al polo, chissà… Se fossimo (per dirne una) nei Balcani, o anche egiziani (strano ma vero), le nostre percezioni cambierebbero: non ci sentiremmo “a Sud” ma “a Est”; e allora potremmo dire che c’è sempre qualcuno più a Est (palestinesi, siriani, curdi, iracheni, iraniani, afgani e via dicendo…). E questo è già un primo paradosso. Il secondo paradosso è che negli ultimi anni è diventata palese una strana emigrazione di “progresso”: i meccanismi più beceri di estrazione di profitto sono arrivati, palesemente, al Nord: cantieri senza una fine, incompiute, opere pubbliche fatte coi piedi, ricatto occupazionale… Insomma: quelle cose che sono cose del Sud… E intanto, dall’altro versante, la “democrazia illiberale” (come la chiamano in tv per non allarmarci troppo), quella cosa dell’Est, si è palesata, senza più veli, a Ovest: repressione sempre più violenta, pene sempre più severe, giustizialismo sempre più cieco, un’emergenza eterna e l’idea che dietro ogni parola non conforme c’è un nemico. Repressione che in questi mesi ha colpito con arresti, multe e denunce le lotte contro il ponte e il ddl sicurezza, il movimento contro la guerra e solidale col popolo palestinese. > Sud, Nord, Est, Ovest… sono convenzioni per capire dove siamo su una cartina > geografica (che è a sua volta una convenzione) e vengono, da chi ha più > potere, usate come convenzioni anche per stabilire chi sta sopra e chi sta > sotto. Perché il sistema ha bisogno di qualcuno che sia sempre più in basso; > di qualcuno a cui manchi sempre qualcosa; di qualcuno a cui continuare a > togliere per poi dargli l’illusione di ricevere una grazia. Ma non sono le convenzioni stabilite da altri che possono definire chi siamo, che è indissolubilmente legato a dove scegliamo di essere, ai territori che decidiamo di vivere. E quindi, tornando alla domanda: che cos’è questo Sud? Quello che vogliamo che sia. Tutto quello che ha di potenziale nei nostri desideri. Il Sud può diventare, se lo vogliamo, un concetto intersezionale: non un modo per tracciare nuovi confini identitari, ma una parola collettiva che riunisce e rimanda a tutte le comunità e singolarità che ogni giorno, in ogni parte del mondo vengono ingannate, sfruttate, impoverite, tarpate, ignorate, bombardate, asfaltate e continuano a resistere. Il Sud, può essere la parola con cui immaginiamo, in un mondo che ci vorrebbe tutti uguali sotto i più uguali degli altri, una collettività delle differenze. * * di Flashmood CONVERGENZE E forse è per questo che siamo qua: se è vero (e, in fondo, è vero) che nessuno si salva da solo, vogliamo desiderare, insieme, un nuovo modo di resistere e di esistere; e andare in quella direzione. Ed è in risposta a tutto questo che oggi abbiamo dato vita a questo bellissimo spezzone, ampio e plurale, che ha riempito le strade di Messina e che si ritrova qui, con le tantissime di persone di questa piazza. Una piazza che mette al centro la lotta contro l’estrattivismo delle grandi opere, contro la devastazione di tutti i territori di tutti i Sud e che parte dalla necessaria urgenza della solidarietà tra tutte le comunità in lotta, ecco una piazza così, questa piazza non può che essere invasa dalla consapevolezza che tocca a noi adesso chiudere definitivamente la partita del ponte. Solo la nostra mobilitazione può far sì che i nostri territori smettano di essere ostaggio di un’opera già crollata su se stessa e che i 13 miliardi e mezzo di euro destinati al ponte vengano impiegati per realizzare scuole, ospedali, infrastrutture di mobilità sostenibile, messa in sicurezza idrogeologica e sismica, riammodernamento della rete idrica e tanto altro. Siamo chiare, siamo chiari: tocca a noi farlo. È una lotta che non possiamo, né vogliamo delegare. È una lotta delle persone, dei comitati, dei collettivi, dei movimenti, delle comunità – e nessuno se ne può appropriare. E il primo obiettivo per archiviare la questione ponte per noi è evidente: chiudere la Stretto di Messina SpA. Lo gridiamo forte a chi è al governo – a Meloni, Salvini, Tajani –, ma lo ricordiamo anche a chi ha avuto responsabilità di governo in passato e non lo ha fatto. Oggi alcuni di questi soggetti hanno manifestato per le strade di Messina, ma vogliamo essere chiare, e altrettanta chiarezza pretendiamo, con chi magari un giorno tornerà al governo del Paese: chiudere la Stretto di Messina SpA. Il problema non è solo il ponte di Salvini, il problema è il ponte in sé. * * di Flashmood Questa piazza chiama anche i governi regionali e locali a un’assunzione collettiva di responsabilità, perché non siamo disposte, e mai lo siamo state, a tollerare complicità più o meno aperte con questi progetti di saccheggio da parte di chi dovrebbe tutelare gli interessi dei territori in cui viviamo. E non possiamo che cominciare dal sindaco di Messina, Federico Basile, che chiamiamo, per l’ennesima volta, a prendere una posizione chiara e netta, a dirci se vuole assumere una iniziativa politica in difesa di Messina o contribuire a regalare la città a Webuild, in cambio di quattro spicci per le opere compensative. Questo spezzone, questa piazza, ci consegnano ancora una volta la piena consapevolezza che la lotta No ponte è molto più di una battaglia ambientale o locale. È il punto cruciale in cui i territori del Sud tornano a essere voce collettiva, tornano a mettere al centro se stessi, i propri bisogni, la propria dignità. No al ponte, ma, ancora di più, no a una classe politica che per anni ci ha trattato come territori di conquista, come luoghi da sfruttare e svuotare. > E allora lo ripetiamo, limpide e determinate, quello che vogliamo. Vogliamo > che i miliardi oggi destinati alla devastazione dei territori e alle armi > vengano invece investiti nei servizi essenziali e per la tutela dei diritti > fondamentali, dalla Palestina allo Stretto, passando per tutti gli altri Sud. > Vogliamo una sanità pubblica efficiente, capillare, di qualità. Vogliamo > infrastrutture davvero sostenibili, che uniscano persone e comunità, non che > le dividano. Vogliamo l’acqua nelle case, vogliamo scuole e ospedali che funzionino, vogliamo poter nascere, crescere e invecchiare con dignità, con servizi pubblici che non lascino indietro nessuno. Vogliamo poter scegliere: scegliere di restare o di partire, senza essere costrette a scappare. Vogliamo questo e molto di più. Dalla piazza di Messina, da questa piazza, nasce un’onda che non potrete fermare. Copertina e galleria di fotografie dal corteo a cura del collettivo Flashmood, che ringraziamo per la collaborazione. Il comunicato No Ponte è stato pubblicato sulla pagina facebook No Ponte. SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Migliaia in corteo a Messina: il Sud unito contro il Ponte sullo Stretto proviene da DINAMOpress.
L’Ecuador dice no a Noboa: bocciate in blocco le riforme del Presidente
Dopo mesi di tensioni, il 16 novembre il popolo ecuadoriano ha inviato un segnale inequivocabile al presidente Daniel Noboa: un netto quanto inaspettato “no” ai quattro quesiti del referendum costituzionale fortemente voluto dal Presidente. Si tratta della prima importante battuta di arresto per Noboa, che proprio in questi giorni celebra il suo secondo anno al potere. DALLE PROTESTE ALLE URNE: IL NETTO RIFIUTO ALL’AGENDA DI NOBOA Il presidente aveva indetto queste votazioni – le terze del 2025 e le settime in soli due anni – presentandole come una risposta urgente alla crisi multidimensionale che attanaglia il Paese, specialmente sul fronte sicurezza. Tuttavia, l’appuntamento elettorale è giunto nel mezzo di un clima molto teso, segnato dalle proteste popolari di settembre e ottobre contro le misure neoliberiste del governo, guidate dalla CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador). La mobilitazione, nata contro l’eliminazione dei sussidi al gasolio e il conseguente carovita, è stata repressa duramente: polizia e militari, inviati in massa a sedare le proteste, hanno risposto con un uso spropositato della forza, causando numerosi arresti, feriti e tre morti. Contestualmente, l’esecutivo ha promosso una criminalizzazione del dissenso, dipingendo le e i manifestanti come “terroristi”. A questo si sono aggiunti persecuzione e censura, procedimenti penali abusivi e il congelamento dei conti bancari a diverse organizzazioni e leader sociali. In questo contesto di frattura sociale e crescente autoritarismo, la mossa referendaria di Noboa si è rivelata controproducente, trasformando il voto in un giudizio politico sul suo operato, con la maggior parte dell’elettorato che ha giudicato i quesiti distanti dalle reali necessità del Paese. I QUATTRO NO CHE BOCCIANO LA RIFORMA COSTITUZIONALE Il risultato del Referendum, che ha colto di sorpresa molti osservatori, può essere letto come un rifiuto non solo delle specifiche proposte, ma dell’agenda generale del governo Noboa. L’esito è stato inequivocabile: il “no” ha prevalso largamente su tutta la linea. Il primo quesito, il più delicato in termini geopolitici, proponeva l’eliminazione del divieto costituzionale di installare basi militari straniere sul territorio nazionale. Il 60,8% dei votanti ha optato per il no, difendendo l’articolo 4 della Costituzione che definisce l’Ecuador come una «zona di pace». Alcuni hanno letto il voto come una decisione di proteggere la sovranità nazionale, allontanando le ombre dell’ingerenza statunitense, tristemente note in America Latina. Se avesse vinto il “sì”, gli USA avrebbero potuto riattivare presidi strategici come l’ex-base di Manta, sulla costa pacifica, fondamentale per le loro operazioni nella regione. Noboa, stretto alleato del presidente statunitense Donald Trump, aveva giustificato la misura come necessaria per la lotta al narcotraffico, problema cruciale per l’Ecuador e causa diretta dell’altissimo tasso di mortalità che colloca il Paese, un tempo uno dei più pacifici della regione, tra i primi posti al mondo nella triste classifica. Anche sugli altri fronti, i risultati sono stati chiari. Il 58,3% degli ecuadoriani ha respinto l’eliminazione dei finanziamenti pubblici ai partiti politici. La misura, presentata come un risparmio per lo Stato, è stata percepita come un rischio per la democrazia, che minacciava di limitare la partecipazione popolare rendendo la politica appannaggio esclusivo delle élite economiche. Un aspetto rilevante, considerando che lo stesso Noboa è erede di uno dei più grandi imperi economici del Paese. Il margine più stretto (53,7%) è stato registrato sulla riduzione dei parlamentari da 151 a 73. Il rifiuto ha impedito che la manovra, presentata come misura di austerità, potesse tradursi in una riduzione della rappresentanza democratica all’interno della Asamblea Nacional, favorendo un eccessivo accentramento di potere nelle mani di un esecutivo che ha già più volte manifestato insofferenza verso lo stato di diritto e la separazione dei poteri. Infine, il rifiuto più netto (61,8%) ha riguardato la proposta di convocare un’Assemblea Costituente che sarebbe stata incaricata di redigere una nuova Costituzione per sostituire quella del 2008, la cosiddetta Constitución de Montecristi, considerata una delle più importanti al mondo in materia di diritti. BUEN VIVIR, DIRITTI COLLETTIVI E DELLA NATURA: LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE DEL 2008 In molti la chiamano “la costituzione correista” – in riferimento all’allora presidente Rafael Correa, figura divisiva ma fondamentale nella storia recente del Paese (2007-2017) – ma la Carta di Montecristi è molto di più, rappresentando la cristallizzazione giuridica di decenni di lotte dei movimenti indigeni e della società civile, soprattutto in difesa dei diritti indigeni e della natura. > La Carta ha inserito il concetto di Buen Vivir (Sumak Kawsay in kichwa), > letteralmente “Buon Vivere”: un paradigma alternativo di sviluppo che cerca > l’armonia tra le persone e la Pachamama (la Madre Terra), privilegiando il > benessere collettivo su quello individuale e ponendo l’accento sulla > dimensione spirituale, culturale e affettiva della vita, oltre alla > soddisfazione dei bisogni materiali. Un principio in netta contrapposizione > con la logica neoliberista promossa dall’attuale amministrazione. Altro pilastro è il riconoscimento della plurinazionalità, con il conferimento di diritti specifici alle diverse comunità, popoli e nazionalità (pueblos y nacionalidades) che abitano l’Ecuador. Spiccano l’autodeterminazione, il diritto al territorio ancestrale e, punto cruciale, il diritto alla Consulta Previa, Libera e Informata sui progetti che li coinvolgono, tra cui quelli di sfruttamento estrattivo. Il tentativo di Noboa di riformare la Costituzione poneva potenzialmente a rischio questi strumenti di partecipazione democratica e tutela del territorio, a favore dei progetti minerari e petroliferi che il governo intende promuovere. Infine, l’Ecuador è stato il primo Paese al mondo a riconoscere la Natura come soggetto di diritto (derechos de la naturaleza). Il “no” è servito a riconfermare queste tutele legali per fiumi, foreste ed ecosistemi, minacciati dall’agenda estrattivista. Per quanto l’applicazione reale di questi principi sia ancora imperfetta e spesso disattesa, la vittoria del “sì” avrebbe rischiato di smantellare un quadro giuridico unico al mondo, vanificando lotte decennali. LE RAGIONI CHE HANNO PORTATO AL NO Il risultato alle urne, con un’affluenza record dell’80% della popolazione (il voto è obbligatorio tra i 18 e i 64 anni), può essere letto come la prosecuzione elettorale della mobilitazione sociale che aveva infiammato l’Ecuador poche settimane prima, figlia a sua volta di un lungo e radicato processo di lotta popolare. I movimenti protagonisti dello sciopero nazionale (paro) avevano sospeso la protesta “fisica” per concentrare le risorse su una campagna in difesa dei diritti e della Costituzione, una strategia che sembra aver dato i suoi frutti. Ma cosa c’è dietro a un rifiuto così netto? Il “no” risponde a una lunga crisi multidimensionale e alla percezione che le ricette del governo siano state sostanzialmente inefficaci. In primis, sulla questione sicurezza, che rimane irrisolta e anzi continua a peggiorare, nonostante la propaganda ufficiale e la massiccia militarizzazione. I dati smentiscono la narrazione di successo dell’esecutivo: dal suo insediamento nel novembre 2023 all’ottobre 2025, si sono registrati 15.561 omicidi, con una media di 22 al giorno. A questo si somma una grave crisi sociale ed economica, segnata dal progressivo smantellamento dello stato sociale – evidente nella drastica riduzione dell’apparato statale, il disinvestimento nella sanità pubblica (cronica carenza di medicinali e beni di prima necessità negli ospedali) e nell’istruzione – oltre che dall’aumento del costo della vita. Si aggiunge poi il timore di una deriva autoritaria, alimentato anche dal lungo scontro con la Corte Costituzionale che, secondo il Presidente, avrebbe ostacolato molti dei suoi sforzi per combattere le bande criminali nel Paese e che egli stesso ha più volte definito «nemica del popolo». Infine, rilevanti sono stati i numerosi tentativi di indebolire i diritti indigeni e della natura. Tra questi, la controversa fusione nel luglio del 2025 del Ministero dell’Ambiente con quello dell’Energia e delle Attività Estrattive (che ha subordinato di fatto la tutela ecologica agli interessi minerari e petroliferi) e il mancato rispetto del referendum del 2023 che sancì lo stop allo sfruttamento petrolifero nel Parco Nazionale Yasuní, un’area amazzonica di inestimabile biodiversità e casa di popoli in isolamento volontario. Il chiaro risultato del voto segna il rigetto dell’agenda politica di Noboa, testimoniando che, nonostante il Presidente abbia goduto finora di una certa approvazione, gli ecuadoriani non hanno voluto consegnargli un “assegno in bianco” per riformare lo Stato. ALL’INDOMANI DEL VOTO Mentre l’esecutivo ha mantenuto un generico silenzio sulla strategia post-elettorale, il giorno successivo al voto Noboa ha proceduto a un drastico rimpasto di Gabinetto, allontanando sei ministri in un tentativo di ricalibrare la squadra dopo la sconfitta elettorale. Di contro, dal referendum escono rafforzati i movimenti di opposizione, in primis quelli sociali e indigeni, promotori delle proteste, come la CONAIE, che ha rivendicato la vittoria del popolo ecuadoriano, per cui il mese di paro nacional è stato fondamentale. Risultato molto favorevole anche per il principale partito di opposizione, Revolución Ciudadana, con Luisa González alla guida dei fedelissimi dell’ex-presidente Correa. González ha dichiarato che il “no” esprime il rifiuto popolare alla trasformazione dell’Ecuador in una estensione della «corporación Noboa», gestita come patrimonio privato del presidente e del suo gruppo economico. A catalizzare l’attenzione nazionale in questi ultimi giorni è soprattutto la condotta poco trasparente dell’esecutivo in materia di politica estera. La bocciatura delle basi militari straniere getta incertezza sul futuro delle relazioni tra l’Ecuador e gli USA (poco dopo la visita della segretaria alla Sicurezza, Kristi Noem) oltre a rallentare il piano riformista del Presidente. I rapporti però non sembrano essersi interrotti, anzi. Subito dopo la débâcle elettorale, Noboa si era recato negli Stati Uniti per un viaggio ufficiale di qualche giorno, la cui agenda era però rimasta confidenziale, generando polemiche all’interno della Asamblea e dell’opinione pubblica. Poco dopo, la Presidenza aveva annunciato un secondo viaggio negli USA a fine mese. La trasferta, inizialmente classificata come ufficiale, è stata poi ridefinita come «personale» tramite un decreto correttivo nel giro di poche ore. Questa mancanza di chiarezza, unita all’annuncio che il Presidente trascorrerà fuori dal Paese oltre 30 giorni (tra viaggi ufficiali e di carattere personale) tra fine novembre e gennaio, ha alimentato dubbi sull’attività presidenziale e polemiche da parte dell’opposizione e dell’opinione pubblica, che contestano la gestione di un esecutivo che si allontana dal Paese in piena crisi economica, sanitaria e di sicurezza. Solo il 29 novembre, nella prima intervista rilasciata dopo il referendum, Noboa ha ammesso che il voto è stato «uno scossone per i membri dell’Assemblea, i ministri e persino per il nostro movimento politico», promettendo però di insistere sulle riforme necessarie attraverso l’Assemblea o nuovi emendamenti, pur rispettando la volontà popolare. QUALI PROSPETTIVE PER IL NUEVO ECUADOR? Nonostante l’imponente campagna mediatica e il massiccio dispiegamento militare, il voto ha dimostrato che il Nuevo Ecuador proposto da Noboa non convince. Si mantiene invece vivo lo spirito di resistenza di un popolo che, malgrado provato dai lunghi anni di crisi, ha scelto di difendere una delle Costituzioni più avanzate al mondo. > Diversi attivisti e organizzazioni della società civile ricordano come il > risultato non debba essere visto come un traguardo, ma come un punto di > partenza. Per riflettere e organizzarsi, per continuare ad arginare il > progetto autoritario ed estrattivista, riaffermare la sovranità e proteggere i > diritti e i territori. Nel tempo si vedrà se il Governo saprà modificare la sua ricetta politica, ridefinendo le priorità e gli strumenti per ascoltare le istanze della popolazione, o se per l’Ecuador si prospetta un nuovo inasprimento della polarizzazione politica e della tensione sociale. La copertina è di Ronald Reascos SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’Ecuador dice no a Noboa: bocciate in blocco le riforme del Presidente proviene da DINAMOpress.
Le sfide della rivista “Teiko”: una bussola per orientarsi nel caos
“Una bussola per orientarsi nel caos sistemico del presente”: così si presenta sul sito la rivista Teiko, la cui ambizione emerge fin dal nome (un sostantivo giapponese traducibile con resistenza, uguale sia al femminile che al maschile) con cui il collettivo redazionale dichiara la propria intenzione di pensare nuove militanze: «Connettere voci e prospettive, dall’Italia ma guardando fin dall’inizio al mondo; costruire una cartografia del dominio e delle lotte e interpretarla politicamente; rilanciare lo sguardo dell’operaismo rivoluzionario coniugandolo e contaminandolo con altre tradizioni: sono queste alcune delle linee di ricerca che Teiko, con cadenza semestrale, cercherà di seguire». Abbiamo intervistato il collettivo redazionale per dare vita a un dialogo tra le due esperienze. Quale discussione vi ha spinto a dar vita a questo esperimento politico-editoriale? Come ha preso forma il collettivo redazionale che sostiene la rivista? Mettendola in un modo che potrebbe rischiare di risultare eccessivamente enfatico, ma che è assolutamente concreto: “Teiko” nasce dalla profonda inquietudine per il tempo storico che stiamo abitando – la crisi egemonica planetaria turbolenta, le guerre, il riscaldamento climatico, il genocidio a Gaza, e si potrebbe continuare…, e dalla passione politica che spinge a rovesciare l’inquietudine in possibilità di trasformazione. Più nel piccolo, la discussione che ha condotto verso questa nuova rivista è stata legata anche dal registrare una certa impasse nel mondo dei “movimenti” in Italia (e non solo). “Teiko” si propone infatti come uno stimolo all’approfondimento, alla discussione e riflessione, al rilancio di pratiche di inchiesta e di produzione di teoria politica radicale. Infine, nell’editoriale del numero Zero, a giugno, scrivevamo: «abbiamo avuto spesso la sensazione, negli ultimi anni, a una fase indecifrabile e violenta si contrapponesse – contrapponessimo – il deserto. [… Ma] la sensazione di vivere un momento di scarsa attivazione politica è frutto di un’erronea illusione». Come dire… Quanto successo a inizio autunno non può che rafforzare la necessità di cercare nuove lenti con le quali guardare il nostro tempo. Con l’idea di costruire dunque uno strumento utile a tracciare nuove coordinate politiche per una militanza da reinventare e a connettere, come indica il sottotitolo, soggetti, movimenti e conflitti, il collettivo redazionale si sta costituendo a partire da una serie di eventi elaborati dalla rete Euronomade nel corso del 2024, apertasi a nuovi contributi e con l’ottica di dare vita a un progetto autonomo. Il collettivo redazionale di Teiko è tuttora in divenire. Immaginiamo questo progetto come una processualità aperta, che si potrà strutturare di numero in numero e anche in base a come si muoveranno le condizioni nelle quali lottiamo. Dagli anni Sessanta fino all’inizio dei Duemila, la produzione di riviste nel movimento italiano è stata una delle vie principali attraverso cui si è sviluppato il dibattito critico (pensiamo ad esempio all’importanza che queste hanno avuto nella tradizione dell’operaismo). Cosa significa, oggi, riconnettersi a quella eredità e reinterpretarla nell’attuale scenario politico e sociale? Lo sfondo storico che richiamate è sicuramente parte della genealogia di “Teiko”, ma non ci interessa «rifare una rivista», come in passato, o simili. Diciamo che la nostra ricerca nasce piuttosto dal domandarsi come poter elaborare un equivalente funzionale di quello che sono state in passato le esperienze delle riviste di movimento. Una delle necessità che vediamo oggi è quella di provare a contribuire a dare vita a un nuovo “noi” da inventare, costruire, creare, riempiendo un vuoto politico e aprendo uno spazio inedito, in cui ricominciare da capo con l’ottica di elaborare strumenti per una nuova militanza politica. Per questo, la rivista nasce in Italia, ma proietta la sua analisi all’interno del contesto globale in tumultuosa trasformazione, connettendo voci e prospettive, nella consapevolezza che il contesto territoriale non può essere separato da quello globale, con tutte le sue dinamiche, le sue contraddizioni, i suoi laceranti conflitti. Con questa rivista non intendiamo solo cartografare queste voci e prospettive, ma provare a interpretare politicamente questa cartografia e a dare un orizzonte di senso che possa concretizzarsi nella costruzione di convergenze. Infine, giustamente indicate nell’inizio degli anni Duemila il momento in cui le sperimentazioni di riviste si concludono. Cos’è successo? Tantissime cose, ovviamente, ma almeno una può valere la pena menzionarla: il ruolo di Internet. Indymedia prima, la stagione dei “portali di movimento”, poi i social media, fino a oggi – tutto ciò ha ampiamente trasformato la concezione del come si comunica, si fa informazione, inchiesta, teoria, dibattito… Oggi, lo ripetiamo, non si tratta evidentemente di “tornare indietro” nello sperimentare un “ritorno alla carta” come soluzione, ma di ri-sperimentarsi provando a lavorare su più piani e strumenti. Una rivista cartacea in questo senso ci sembra un qualcosa sul provare a investire per connettere forme di dibattito, formazione, inchiesta, produzione teorica. A chi è indirizzata la rivista? Quali luoghi e pratiche immaginate per la circolazione di “Teiko” e per il suo incontro con chi legge? In che modo pensate che possa essere utilizzata – nei movimenti, negli spazi sociali, nei percorsi di ricerca e di formazione politica? Una prima risposta potrebbe seccamente dire che “Teiko“ si indirizza a compagne e compagni, alle militanze politiche, all’attivismo diffuso, a che agisce nei movimenti sociali. Ma ci rendiamo conto che sono tutte parole che devono oggi essere riqualificate. Possiamo quindi dire che “Teiko“ si rivolge a tutte le persone che vogliano provare a capire il tempo che viviamo, che siano alla ricerca di un pensiero critico e di un dibattito. Il proporre una “rivista militante” è anche, in altre parole, parte di una ricerca collettiva da compiere su quali sono oggi le traiettorie di soggettivazione, quali i possibili terreni di incontro tra generazioni politiche differenti. E questo incide anche sulla seconda domanda. Teiko si compone di un sito, dove è possibile scaricare liberamente i numeri e che funziona anche come laboratorio per altri tipi di contributi: abbiamo ad esempio lanciato una call per un’inchiesta collettiva sul recente movimento. Stiamo costruendo anche dei profili social, e ragionando su come poter valorizzare le singole specificità di questi differenti strumenti oltre al cartaceo. Rispetto a quest’ultimo aspetto, oggi non esistono reti di distribuzione autogestita a livello nazionale e per chi conosce il mondo dell’editoria proprio il tema della logistica e della distribuzione è oggi elemento dolente, tra l’emergere di colossi come Amazon e il ruolo spesso parassitario delle aziende di distribuzione. Anche questa è dunque per noi una nuova sfida, che potrà muoversi tra spazi sociali e librerie indipendenti, aule universitarie e percorsi di lotta che potranno avere interesse a usare lo strumento-“Teiko” nei modi che più potranno essere opportuni. Come dicevamo prima, pensiamo che la rivista si presti a numerosi utilizzi e si tratterà di co-costruirli assieme alle persone e le realtà collettive che possano avere interesse a cooperare con noi. Quali urgenze vi hanno portato a scegliere l’organizzazione come tema del numero Zero? È una parola importante, densa, segnata da equivoci e ideologismi: qual è la posta in gioco intorno all’organizzazione, anche alla luce dell’enorme ondata di mobilitazioni a sostegno della Palestina? Come dite, il tema del numero Zero possiamo dire che è stato immediatamente riqualificato da quanto successo tra metà settembre e metà ottobre per la Palestina. E ci pare che lo rilanci. Certo, il riferimento all’organizzazione è antico quanto la storia dei movimenti rivoluzionari, ma pensiamo si ripresenti sempre in modo inedito nel corso della storia, e quindi anche nel nostro presente. L’organizzazione è presentata come “enigma”, nel numero Zero, che abbiamo dunque strutturato come un’inchiesta su come tale tema si è presentato come problema negli ultimi 15 anni di lotte, conflitti, insurrezioni, scioperi, movimenti. Per questo abbiamo elaborato una cartografia che porta in luce una serie di nodi che sono appunto rinvenuti al mettine anche negli ultimi mesi. Qual è il rapporto tra dinamiche transnazionali dei movimenti e le loro determinazioni territoriali – guardando ad esempio a Ni Una Menos, alla Palestina globale, a Black Lives Matter, ai movimenti climatici, alle forme acampada-Occupy, ai riot e alla insurrezioni che hanno punteggiato gli scorsi quindi anni? Su questo si componeva la prima sezione della parte monografica della rivista, mentre la seconda ragionava di come sono mutate alcune “forme politiche”, tra autonomie (femminismi, zapatismo, Rojava, spazi sociali italiani), forme mutualistiche e di lotta come GKN, le trasformazioni del sindacalismo (confederale e di base), o anche nuovi partiti che sono emersi, studiando in particolare il caso de La France Insoumise. Ecco, ci pare urgente oggi ridiscutere collettivamente di come, ad esempio, si è posto il rapporto tra sciopero, blocco e marea nella mobilitazione palestinese, di come si sono determinate le interazioni tra sindacati, movimenti e istanze internazionaliste come la Flottilla, ma soprattutto per pensare come andare avanti, ora. Per chiudere, lasciateci dire che oltre alla sezione monografica di volta in volta dedicata a un tema, “Teiko” si compone anche di altre due sezioni: Rubriche (che contiene racconti di lotte e inchieste, dialoghi con pensatori e pensatrici o realtà collettive, ma anche pagine su arte, report di seminari e frammenti di memorie) e Materiali (dove raccogliamo recensioni a libri, serie tv, dischi musicali, mappe e interviste). Quali saranno i prossimi terreni di ricerca che immaginate di esplorare con la rivista? Il prossimo numero, in uscita a dicembre, si chiamerà “Mondi”. Laddove nel numero Zero abbiamo elaborato un’inchiesta e una cartografia planetaria delle lotte dell’ultimo quindicennio, qui intendiamo proporre un’altra mappa focalizzata in primo luogo sui processi e le dinamiche che “strutturano il mondo” nel capitalismo contemporaneo. La sezione monografica sarà composta di una dozzina di interventi e interviste che spaziano dal ruolo di guerra, finanza e digitale quali vettori del mondo contemporaneo a come si stanno trasformando le spazialità – spaziando dal Sudan all’America Latina, dal Sud Est asiatico agli Stati Uniti, con anche forme di inchiesta che portano in luce il ruolo di frizioni, resistenze e lotte nel comporre il mondo unico e fratturato di oggi. In linea con l’idea processuale e in divenire di “Teiko”, chi ha letto il numero Zero potrà notare numerose novità nel prossimo numero, sia a livello di grafica e formato che nella sua interazione con il sito e i social. E possiamo già anticipare che per il 2026 intendiamo procedere in un lavoro collettivo di ricerca e inchiesta procedendo nella costruzione di una “architettura” che di numero in numero possa erigere nuove bussole, assemblando sguardi, analisi, intuizioni, teorie, inchieste che dall’Italia continuino a guardare al mondo. In questa direzione, stiamo riflettendo su due macro-ambiti per il 2026, che in via preliminare possiamo etichettare come “territori” e “digitale”. Ci sembra infatti che questi due vettori siano già a più riprese emersi nel corso dei numeri Zero e Uno della rivista e che possano costruire una necessaria integrazione e approfondimento di come movimenti e lotte di oggi si riproducono, diffondono, confliggono. La copertina è di Loke_Artemis da Pixabay SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le sfide della rivista “Teiko”: una bussola per orientarsi nel caos proviene da DINAMOpress.
Il Leviatano e i sentimenti: riflessioni sul disastro elettorale in Cile
Lo scorso 16 novembre si è tenuto il primo turno elettorale delle presidenziali cilene: seppure è arrivata al primo posto la candidata della sinistra, Jeannette Jara, del Partito Comunista – Unidad por Chile, con il 26,78%, gli altri candidati della destra, divisi in almeno tre liste, rendono assolutamente complicato il ballottaggio del prossimo 14 dicembre. Al secondo posto, l’estrema destra di José Antonio Kast, del Partito Repubblicano, con il 24,02%, che andrà al ballottaggio contro Jara. Al terzo e quarto posto, rispettivamente, altri candidati di destra, Franco Parisi Fernández, del Partido de la Gente, al 19% e Johannes Kaiser Barents con il 13%. Indicativamente sosterranno tutti Kast, uscito sconfitto quattro anni fa dal ballottaggio contro Boric e oggi principale candidato alla vittoria presidenziale. Pubblichiamo un testo di analisi dello scenario politico ed elettorale cileno a cura di Rordrigo Karmy Bolton, docente dell’Università del Chile. Quanto destituito dalla rivolta del 2019 è stato capitalizzato dalla nuova destra. La sinistra ha finito per espellere la moltitudine che si era mobilitata al punto di arrivare a redigere una nuova Carta Fondamentale, depoliticizzando tutto il processo e infarcendolo di discorso giuridico (il ripristino di un sapere giuridico che ha oscurato la dimensione politica dei sentimenti), al punto che il “legalismo” della sinistra si è concentrato molto più sul contenuto esatto che sull’effetto politico della Nuova Carta redatta da quell’entità, tanto sfuggente quanto problematica nella storia cilena, chiamata “il popolo”. La sinistra ha sostituito il popolo con il diritto. In questo scenario, la destra ha fatto la sua parte e, attraverso i meccanismi oligarchici del Senato, lo ha spogliato del suo potere costituente. Però il processo costituente è rimasto aperto, nonostante molte proposte siano state respinte sia nella prima che nella seconda Assemblea Costituente. Tuttavia, tra le due Assemblee Costituenti [2020 e 2022 – ndt] si è verificata una congiuntura decisiva: le coalizioni tradizionali, sia progressiste che neoliberiste conservatrici, sono state rimaste fuori dai giochi. Altri attori sono entrati in scena, altri volti sono emersi. È in questo “fuori dai giochi” che irrompe sulla scena il Frente Amplio con al timone. Gabriel Boric [Presidente della Repubblica dal 2022 – ndt] e Daniel Jadue [candidato sconfitto alle primarie del Frente Amplio – ndt] Tuttavia, la situazione affrontata dal governo Boric ha fatto sì che, anziché essere un governo di trasformazione, diventasse un governo di “normalizzazione”, replicando così la razionalità politica concertativa degli ultimi 30 anni, ma in un momento storico in cui il governo era stato destituito dalla rivolta del 2019. Da allora, non potendosi fondare su alcun patto costituzionale, il governo Boric è rimasto un governo etereo. Con il pretesto delle “divergenze” su questioni di sicurezza, il governo ha accettato l’agenda della destra con l’ingresso di Carolina Tohá [ex Ministra dell’Interno,  candidata alle presidenziali per il PPD – Partito per la Democrazia – ndt] e per questo, invece di munirsi di un nuovo patto giuridico e istituzionale, hanno concertato un accordo performativo per la sicurezza. La sicurezza (ovvero il meccanismo fondamentale della guerra civile globale) si è trasformata in un sostitutivo della Costituzione, nonostante fosse stata respinto per ben due volte da una cittadinanza in agitazione. > Il progressismo (o la sinistra, per i più ottimisti) è rimasto intrappolato > dal governo per quattro anni: nella misura in cui ha optato per la razionalità > “transitoria” già destituita, non ha potuto rinnovare il proprio immaginario > politico e, non potendolo fare, ha ceduto alla destra il terreno della > mobilitazione emotiva. A questo proposito, è fondamentale affrontare la questione del contatto. Per quanto sia stato decisivo nella rivolta del 2019, nella misura in cui non è stato altro che un incontro affettivo che ha generato una connessione erotica all’interno della moltitudine, ha però sofferto le pene dell’inferno durante la pandemia di Covid19, visto che , con il senno di poi, il contatto non è stato semplicemente oggetto della repressione giuridico-statale, ma piuttosto di gestione biopolitica nella quale bisognava imporre il “distanziamento sociale” e utilizzare le mascherine. Il “contatto” è stato doppiamente pericoloso: per la polizia durante la rivolta e per motivi sanitari durante la pandemia. Di conseguenza, la sinistra intrappolata al governo è stata piuttosto il sintomo di una situazione in cui l’affetto cristallizzato nel “contatto” era stato criminalizzato e patologizzato e, in questo senso, completamente dis-affezionato. Così, il governo di Gabriel Boric ci ha proposto uno scenario ormai vecchio e non ha generato altro che “rabbia” (emozione gioiosa che grida giustizia), immediatamente trasformata dalla destra in “odio” (emozione triste e xenofoba). > La sicurezza ha prevalso. Sia a livello “legale” che “medico”. Ma non come un > punto all’ordine del giorno, bensì come un macchinario mitologico che potuto > compensare con fantasia, attraverso una serie di meccanismi statali, grandi > società di sicurezza private e mezzi di comunicazione in mano agli oligarchi, > lasciando incompiute le trasformazioni costituzionali. Torniamo al punto precedente: il progressismo è stato manchevole di immaginazione politica perché, intrappolate al governo, le masse erano già state tagliate fuori da ogni “contatto”. Tutto è diventato individuale,  tutto apparteneva a “ognuno”, e “l’altro” è diventato un nemico assoluto. La giustizia è stata cancellata dalle priorità e il cammino verso il fascismo internazionale è iniziato proprio in questi anni. L’eventuale vittoria di José Kast [candidato di estrema destra del Partito Repubblicano, fondato nel 2019 da alcuni fuoriusciti dall’UDI Unione Democratica Indipendente – ndt] al secondo turno delle elezioni presidenziali non farà che confermare formalmente il seguente punto: il progressismo ha trovato conforto nella freddezza del Leviatano (lo Stato, secondo Hobbes), ma la nuova destra ne ha catturato l’anima (le emozioni). In breve, il progressismo ha governato seguendo una razionalità politica (la transizione dalla dittatura) che non è riuscita a mobilitare le emozioni. E, di conseguenza, è stata proprio la destra a gestire le anime dei cileni. Stiamo assistendo alla fine del progressismo neoliberista e della visione di transizione che ha rappresentato. La democrazia è diventata così profondamente securitaria che funzionerà come nuova forma di dittatura “civile” (o cibernetica, se vogliamo), precipitando il Paese nella dilagante guerra civiles globale. Ovviamente, tutto questo deve essere spiegato nel contesto globale del trionfo delle destre. Ma nulla può essere spiegato se non si analizza l’impatto locale della mobilitazione emotiva del fascismo alimentata dalla paralisi governative e delle istituzioni. Nulla può essere spiegato se non riconosciamo la sua metamorfosi in quella ragione politica di transizione che la cittadinanza stessa aveva rifiutato. Lo spettro di Portales [Diego Portales, politico cileno durante la Repubblica Conservatrice, ucciso durante un’insurrezione contro la guerra contro la Confederazione Perù-Bolivia del 1836-1839 – ndt], (immagine che riassume il panorama politico della storia cilena) è più attuale che mai: Diego Portales ha instaurato una dittatura e in caso di vittoria al secondo turno, José Kast non eserciterebbe una dittatura nel senso tradizionale del termine, ma intensificherà l’intero apparato securitario che la democrazia fornisce già per iniziare a interferire in spazi ed erodere diritti un tempo considerati inalienabili. Immaginare che la “democrazia liberale” sia l’unico orizzonte politico per la sinistra non è soltanto ingenuo, ma anche complice della trappola in cui è stata catturata. La copertina ritrae Gabriel Boric dopo l’elezione presidenziale (wikimedia) Articolo pubblicato originariamente sul sito lavozdeloquesobra.cl. Traduzione a cura di Michele Fazioli per DinamoPress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il Leviatano e i sentimenti: riflessioni sul disastro elettorale in Cile proviene da DINAMOpress.