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Come scioperare il 22 settembre? Le FAQ verso la mobilitazione
Dopo la partenza della Global Sumud Flotilla e le grandi mobilitazioni che ne sono seguite, diversi Sindacati di base hanno indetto uno sciopero generale in solidarietà con la Palestina, per la fine del genocidio e in supporto alla Global Sumud Flottila per lunedì 22 settembre. In un secondo momento, la CGIL ha convocato un mobilitazione per la giornata del 19 settembre con alcune ore di sciopero solo per alcuni settori industriali e non per la maggior parte dei settori e categorie economiche. E questo sta creando molta confusione nei luoghi di lavoro. > Procediamo con ordine, e cerchiamo di risolvere alcuni dubbi, rispetto allo > sciopero generale del 22 settembre. Prima di tutto, lo sciopero è un diritto costituzionale, garantito dall’art. 40 della nostra Costituzione, “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e le leggi che lo regolano hanno cercato in molti modi di limitare questo diritto, così come l’attacco padronale e visioni molto corporative della pratica sindacale. Molte, però, sono state le pratiche per rivendicare un pieno diritto di sciopero, a partire dallo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo che negli ultimi dieci anni ha posto il tema di cosa significa scioperare in un economia che si regge sul lavoro precario, in nero, grigio, sottopagato, e sempre più frammentato, e dove ancora il lavoro di cura è riproduttivo non viene considerato come un lavoro. Proviamo a rispondere, quindi, ad alcune domande sullo sciopero. Non sono iscritta/o a nessun sindacato, posso scioperare? Il diritto di sciopero in Italia è libero, non bisogna essere iscritte/i a un sindacato per poter scioperare. Serve l’indizione della giornata di sciopero da parte di un sindacato, cosa che esiste per la giornata del 22 settembre, per tutti i settori pubblici e privati. L’indizione dello sciopero arriva alle aziende direttamente dalla Commisione Garanzia per lo Sciopero. Spesso il datore di lavoro non conosce le regole per l’indizione degli scioperi, non è preparato, e minaccia sanzioni, ma non ti devi preoccupare. Se non ha ricevuto la comunicazione di indizione puoi fargliela inviare, chiedi le informazioni specifiche al/la delegato/a sindacale, o scrivi direttamente ai sindacati di base che hanno indetto lo sciopero per maggiori informazioni sul tuo specifico settore. Ma ricorda che è un tuo diritto scioperare in qualunque luogo di lavoro. Il 22 settembre è sciopero generale, quindi possono scioperare tutti i settori? Lo sciopero è stato indetto per tutti i settori pubblici e privati. Ed è valido praticamente in tutti settori. Nel nostro Paese alcuni settori pubblici sono considerati essenziali (come la sanità, i trasporti) e sono sottoposti a una legislazione specifica (legge 146/1990), questi settori devono rispettare fasce orarie di garanzie e tempi più lunghi per l’indizione. Lo sciopero del 22 è stato indetto garantendo il preavviso previsto dalla legge, e la Commissione di Garanzia ha escluso soltanto alcune categorie e settori, come il trasporto aereo, che comunque sciopera il 26 settembre, oltre ad alcune realtà territoriali.  Se fai parte di un settore essenziale devi seguire le regole del tuo settore, ma è importante che lo sciopero sia valido e indetto. Chiedi le informazioni specifiche al/la delegato/a sindacale, o scrivi direttamente ai sindacati di base che hanno indetto lo sciopero per maggiori informazioni sul tuo specifico settore. Ma ricorda che è un tuo diritto scioperare in qualunque luogo di lavoro. Nel mio posto di lavoro, il delegato sindacale ha detto che non sono rispettati i termini per l’indizione dello sciopero per il 22 settembre, è vero? Lo sciopero del 22 settembre è valido in tutti settori, a parte nel settore dei trasporti aerei, e con alcune specifiche territoriali (qui puoi trovare tutti i dettagli). Per tutti i settori pubblici e privati lo sciopero è valido. In che modo dichiaro al mio datore di lavoro la mia decisione di scioperare? Devo darne notizia scritta? Non sei obbligato/a a comunicare la tua decisione di scioperare al datore di lavoro, né in forma scritta, perché l’astensione dal lavoro è un tuo diritto e non richiede giustificazioni, quindi puoi scegliere se farlo o meno. Puoi essere invitata/o a manifestare la tua intenzione, ma non puoi essere obbligato/o a rispondere, quindi l’adesione allo sciopero anche all’ultimo momento e senza preavviso è legittima. Nella mia scuola non è ancora stata pubblicata la circolare per lo sciopero del 22 settembre, posso scioperare? Le circolari nelle scuole pubbliche, come nelle amministrazioni pubbliche, stanno uscendo in questi giorni. Se non fossero ancora circolate si può sollecitare la segreteria amministrativa perché sia data debita informazione all’utenza e alle famiglie. La presidenza non può obbligare il personale scolastico a dare comunicazione obbligatoria della propria intenzione di scioperare o meno. L’immagine di copertina è di Gabriele Campanale Domande e risposte sono state elaborate e riviste insieme al sindacato di base Clap – Camere del lavoro autonomo e precario SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Come scioperare il 22 settembre? Le FAQ verso la mobilitazione proviene da DINAMOpress.
Somayeh Rostampour: «Internazionalismo è ascoltare l’eco delle proprie lotte nelle lotte altrui»
Somayeh Rostampour è una militante curda iraniana, impegnata nella lotta curda e nel femminismo rivoluzionario. Fa parte di Roja, un collettivo femminista internazionalista indipendente e diasporico, costituito a seguito dell’assassinio di Jina (Mahsa) Amini e del movimento «Jin, Jiyan, Azadî» («Donna, Vita, Libertà») in Iran nel settembre 2022. Dall’implicazione politica appassionata, Somayeh ha scritto Femmes en armes, savoirs en révolte. Du Militantisme Kurde à la Jineolojî [Donne in armi, saperi in rivolta. Dal militantismo curdo alla Jinealogia], pubblicato da Éditions Agone nel 2025. Si prende così sul serio il lavoro teorico quanto il paziente lavoro di collegamento con cui ella contribuisce a un internazionalismo dal basso in alleanza con il collettivo Los Pueblos Quieren. Nel giugno 2025, abbiamo potuto conversare a lungo con lei a Parigi, dove vive in esilio dal 2016. L’impegno teorico radicale e il desiderio urgente di cambiare tutto si sono intrecciati con l’ospitalità e il cibo, l’umiltà e l’umorismo, in un’intervista di quasi quattro ore di cui pubblichiamo una versione editata. Verónica Gago e Marta Malo: Vogliamo cominciare chiedendo come stai leggendo la congiuntura attuale, a partire dal genocidio a Gaza, e che ogni giorno impegna nuovi fronti bellici, come con i recenti attacchi di Israele e Stati Uniti contro l’Iran. Per il momento, risulta molto difficile da un punto di vista femminista anti-imperialista capire e seguire ciò che sta succedendo. Ci piacerebbe che ci spiegassi cosa significa la posizione “campista” (che divide tutto lo scenario geopolitico in unicamente due campi e posizioni possibili) con la quale vi confrontate. Ora che, con molteplici regimi di guerra simultaneamente, sentiamo tutti questi dibattiti come più urgenti, ma i loro termini cambiano ogni giorno. Somayeh Rostampour: La nostra lettura si costruisce a partire da due punti: il punto di vista femminista e l’esperienza della rivoluzione in Iran nel 1979, che fu una rivoluzione anti-imperialista, un esempio molto importante per molti intellettuali e militanti, da Foucault a Sartre. Fu una rivoluzione contro lo Shah, ma poiché lo Shah era una figura affine agli Stati Uniti, fu anche una rivoluzione contro l’imperialismo, contro la politica e i valori occidentali imposti, il cui spirito risale al colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti due decenni prima contro Mohammad Mosaddeq. Tra i curdi, c’è una coscienza antiimperialista molto chiara collegata alla spartizione del Kurdistan tra Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna dopo la Prima Guerra Mondiale. Ma la rivoluzione anti-imperialista in Iran ebbe conseguenze tragiche per molte persone, in particolare per le donne e per le minoranze nazionali che vivono in Iran (anche baluchi, arabi, ecc.) a partire da un’interpretazione oppressiva dei valori persiani e islamici, come simbolo di resistenza contro i valori occidentali. Nella mia esperienza come curda, la memoria collettiva della rivoluzione in Iran è inseparabile dalla jihad di Khomeini contro il Kurdistan, appena pochi mesi dopo la rivoluzione. E nella mia esperienza come donna, è legata a ciò che alcune femministe chiamano apartheid di genere: uno Stato e una società ipermaschilisti, che ci pongono in disuguaglianza ovunque, nell’educazione, nel lavoro, davanti alla legge, nello spazio politico o pubblico. Per noi, Stati Uniti, Israele, Europa sono imperialisti, non abbiamo alcun dubbio al riguardo. Ma la domanda è se non siano imperialisti anche altri paesi come Cina e Russia, che stanno aiutando Iran, Siria e tutti questi paesi postcoloniali, costruiti all’inizio del XX secolo, molto diversi dalle socialdemocrazie occidentali. La mia riflessione punta anche alla costruzione degli Stati-nazione, dove il nazionalismo e le identità nazionali hanno un peso molto importante e sono uno strumento di cancellazione delle minoranze. Nel caso dell’Iran, la nazione si collega all’identità persiana, con riferimenti glorificanti a una presunta età dell’oro dell’Impero persiano, quando il 40% della popolazione dell’Iran non è persiana. Dopo la rivoluzione, a questo racconto nazionalista si aggiunse uno strato islamista. In entrambe le ottiche, i curdi e altre minoranze sono completamente assenti, come se non esistessero. Nel caso delle donne, in paesi come Turchia, Egitto o Iran negli anni Sessanta, il racconto nazionalista era più ambivalente, perché includeva un femminismo liberale, con quell’idea occidentalista della donna istruita, che è anche madre della nazione. Ma in Iran, con la Repubblica costituita dalla rivoluzione, la donna cessò di esistere. Quando parliamo della fascistizzazione della società, la prima cosa che visualizzo è questa violenza prodotta in questi regimi postcoloniali, che sono sostenuti dall’Occidente o da altre potenze che sono anch’esse imperialistiche, come Russia o Cina, o dalla stessa Repubblica dell’Iran. Non bisogna dimenticare l’intervento dell’Iran in Siria, nello Yemen, ecc., per non vederlo solo come una vittima dell’imperialismo. In particolare ora che l’immagine di vittima si intensifica con l’attacco di Israele e Stati Uniti. L’Iran ha partecipato a massacri, a crimini in molti paesi. Per i curdi tutto ciò è molto chiaro. Durante i primi dieci anni della costruzione della Repubblica dell’Iran, ci fu molta violenza, molti prigionieri politici, è una storia molto conosciuta, ma c’è un’altra violenza continua, che si è mantenuta fino a oggi, di cui si parla meno. Per noi, questa fascistizzazione è collegata alla violenza dello Stato, quindi non possiamo separare la violenza statale dal nostro analisi anti-imperialistica. Dal nostro esilio, come diaspora, cerchiamo di cambiare il racconto in cui ci sono solo due campi contrapposti e bisogna schierarsi da una parte o dall’altra. Dal nostro punto di vista, non c’è solo la violenza imperialistica di Stati Uniti e Israele, innegabile, ma anche di altri imperi che intervengono nella regione, come Cina e Russia, o di Stati come Iran o Turchia, che sono espansionisti o semi-imperialisti. Possiamo definire la loro posizione come vogliamo, ma l’importante è che, pur essendo vittime di grandi imperialismi nella storia, partecipano anch’essi e contribuiscono a una dinamica globale imperiale e ella loro competizione per ritagliarsi un posto nell’ordine globale, opprimono altre popolazioni nella loro regione, rubando territori e compiendo pulizie etniche. Senza l’intervento dell’Iran in Siria, Assad sarebbe caduto con la Primavera araba. La conseguenza di questo aiuto fu lo spostamento di migliaia di persone e l’uccisione tragica di altre migliaia. Questo impulso espansionistico è accompagnato dalla violenza dello Stato contro i propri cittadini e dalla militarizzazione dei confini del paese, in particolare dei confini curdi. Quando ora parlo con compagne curde, quasi tutte mi dicono: «Siamo in stato di guerra da quaranta anni, non è qualcosa di nuovo». La vita quotidiana sotto il regime della Repubblica dell’Iran è stata segnata da questa militarizzazione. Per chi è cresciuto in questa cultura politica, è ridicolo dire che il nemico sono solo gli Stati Uniti e che la Repubblica dell’Iran sia solo una vittima. Come parte della diaspora, era fondamentale spiegare questo. L’Iran è stato molto isolato e la resistenza ha poche risorse, la maggior parte dei materiali non è tradotta, ecc. Io stessa non ho abbastanza informazioni su molti paesi africani, quindi cerco compagne fidate che possano informarmi. Per questo stiamo cercando di costruire reti, per avere un discorso internazionalista radicato nei territori. Ma le persone con posizioni più campiste nemmeno ci interrogano: hanno già l’analisi fatta e non vogliono che mettiamo in discussione il loro discorso. L’anti-imperialismo campista, che ammette solo una dualità di aggressore e aggredito, a volte serve a sciacquare regimi profondamente autoritari: è una specie di antiimperialist-washing che funziona come il pink o il green-washing, come operazione politica e cognitiva che appiattisce la nostra lettura degli ordini geopolitici. Questo antiimperialist-washing ha contribuito a ricostruire la legittimità internazionale che la Repubblica Islamica aveva perso con la sollevazione nazionale del 2022 e la ribellione di Jina, in particolare tra la sinistra e i femminismi. Agisce cioè in direzione contraria a tutti gli sforzi dei/lle combattenti all’interno del paese. Le donne in Iran hanno un trauma legato a questo. L’8 marzo successivo all’instaurazione della Repubblica dell’Iran, fu convocata una grande mobilitazione contro l’obbligo dell’hijab. Migliaia di donne scesero in strada a Teheran e in molte città del Kurdistan. Molte organizzazioni di sinistra non solo rifiutarono di unirsi alla manifestazione, ma attaccarono le donne che avevano convocato la manifestazione, dicendo che non si poteva mettere in discussione in quel modo una rivoluzione anti-imperialistica. Alcune delle figure più visibili del movimento femminista in Iran di quel periodo registrarono video dichiarando che erano disposte ad accettare l’hijab come simbolo di identità e resistenza contro l’imperialismo. Lo difendevano come un prezzo da pagare per la rivoluzione. Ora ci rendiamo conto che fu un grande errore, che non vogliamo ripetere. Nessuna rivoluzione può chiedere di accettare la propria oppressione. VG/MM: Quali sono oggi le posizioni dei femminismi rispetto a queste dinamiche? SR: Tra le femministe di sinistra, penso ci siano tre posizioni differenti. Non parlo delle femministe liberali, perché la maggior parte è pro-occidentale, applaude l’imperialismo e la guerra alimentando l’islamofobia. Penso, ad esempio, a Masih Alinejad, che la Repubblica dell’Iran ha cercato di uccidere, vive negli Stati Uniti ed è invitata costantemente dai media europei, con un discorso che nemmeno menziona il genocidio in Palestina, che crede nella guerra per portare la democrazia in Medio Oriente, ecc. Ridicolo. Queste figure non ci rappresentano affatto. Come femministe di sinistra sappiamo che non possiamo ignorare il potere militare di Israele, sostenuto da quasi tutti i paesi, e le dinamiche della regione, dove gli Stati Uniti possono attaccare dove e quando vogliono. Non possiamo nemmeno ignorare l’effetto delle sanzioni, che non colpiscono il governo o l’oligarchia iraniana, che si è arricchita, ma la popolazione che vive nel paese. Tenendo conto di questa dinamica e, in particolare, del genocidio in Palestina, alcune compagne pensano che ora non sia il momento di parlare della violenza della Repubblica dell’Iran o del colonialismo interno subito dai curdi, per esempio per l’asimmetria di potere tra Israele e Repubblica dell’Iran. C’è un’altra posizione, sempre di sinistra, molto centrata sulla Repubblica dell’Iran, che dice: «Siamo contro il genocidio, riconosciamo il potere coloniale di Israele, ma la nostra prima causa, il nostro primo nemico, è la Repubblica dell’Iran, perché è ciò che affrontiamo nella vita quotidiana, la repressione e la violenza della Repubblica dell’Iran». Questa posizione non è solo di persone politicizzate di sinistra, ma è la più comune tra chi non è molto politicizzato. Noi sosteniamo una terza posizione, che intreccia la dinamica globale, la denuncia del genocidio a Gaza, con la militarizzazione regionale, dove l’Iran ha un ruolo, perché questa militarizzazione serve anche a mantenere la dittatura. Abbiamo memoria dell’alto prezzo pagato per aver trascurato la questione curda e quella delle donne nella rivoluzione anti-mperialistica in Iran. Non possiamo ignorare o dimenticare le migliaia di persone uccise nelle carceri nei primi dieci anni della costruzione rivoluzionaria. Molte erano donne marxiste: più di duemila furono assassinate in prigione senza processo, con torture severe. Non possiamo nemmeno dimenticare la jihad di Khomeini contro i valori curdi e delle minoranze in generale, che continua da 40 anni. Non possiamo dimenticare ciò che viviamo ogni giorno come iraniane nella Repubblica dell’Iran, come donne, persone queer, curde, ecc. Non possiamo rimandare tutto questo finché la Palestina non sarà liberata o la guerra non sarà finita. A dire il vero, pensiamo che sia il contrario: dopo la guerra, tutte queste persone saranno il primo obiettivo del regime e questa è la realtà che viviamo la maggior parte del tempo. Così è stato ora: il giorno dopo il cessate il fuoco tra Israele e Iran, in Iran sono state giustiziate tre persone afghane, accusate di lavorare per il nemico, senza processo o prove. Poi furono giustiziati tre portatori curdi. Quindi, quando scendiamo in strada, chiediamo il cessate il fuoco, denunciamo Stati Uniti e Israele, ma denunciamo anche l’oppressione della Repubblica dell’Iran e nominiamo questi arresti ed esecuzioni arbitrarie, che aumentano in momenti di maggiore militarizzazione. Siamo contro la guerra, ma anche per l’autodeterminazione dei popoli e contro i confini imposti colonialmente dal regime iraniano. VG/MM: Questo mi ricorda la guerra delle Malvinas, che permise alla dittatura argentina di mobilitare e manipolare un sentimento anti-imperialistico, nazionalista, contro l’Inghilterra, mentre continuava la repressione contro i militanti rivoluzionari e gestiva campi di concentramento. L’idea di combattere contro l’Inghilterra e il suo potere coloniale cercava di “legittimare” le proprie azioni all’interno del paese, e allo stesso tempo fu una strage di giovani soldati, sottoposti a condizioni proprie della dittatura sul campo di battaglia. Come vedi il legame tra la mobilitazione nazionalista in Iran e questo tipo di strumentalizzazione del nazionalismo in altri contesti, specialmente considerando il movimento «Jin, Jiyan, Azadî» e la partecipazione della diaspora? SR: All’interno della popolazione curda esiste anche una lotta per l’autodeterminazione territoriale che la Repubblica Islamica dell’Iran ha cercato di presentare come retrograda, separatista, terroristica, contrapponendo il nazionalismo iraniano, supposto rivoluzionario, a un presunto nazionalismo curdo arretrato. Ma nel 2022, con il movimento «Jin, Jiyan, Azadî», si verificò una svolta. Per la prima volta in 100 anni si creava un’unità popolare contro il regime. Per esempio, a Teheran si cantava: «Il Kurdistan è la luce e gli occhi dell’Iran». Ci furono molti slogan in turco per i curdi e slogan curdi per i turchi. Fu molto bello. Ho scritto un articolo sul perché il Kurdistan fosse stato il centro del movimento «Jin, Jiyan, Azadî» nel 2022: senza il Kurdistan, senza la sua memoria politica, senza le sue reti organizzative, un movimento del genere in Iran non sarebbe stato possibile. Purtroppo, a partire dalla guerra dei dodici giorni, siamo di nuovo in piena reazione, con molto nazionalismo anti-curdo. VG/MM. La tua lettura della situazione è costituita dalla tua stessa condizione di diasporica. Insieme a Los Pueblos Quieren, hai concettualizzato l’esperienza diasporica come base di un nuovo internazionalismo. Puoi sviluppare questa idea e raccontarci il tuo percorso? SR. Io sono stata in esilio, sono tornata in Iran e poi non mi è più stato possibile rientrare. Non torno dal 2016. Quando ti sposti, le tue esperienze rivoluzionarie viaggiano con te e c’è la sfida di come mantenerle vive ovunque tu arrivi, ma anche la questione di come impegnarti nel nuovo luogo, nel mio caso la Francia, un paese coloniale e profondamente razzista, in cui voglio impegnarmi e lottare. In questo senso, credo che l’esperienza come femminista curda iraniana mi abbia aiutata molto, perché sono sempre stata costretta a essere un po’ “polipo” per unire diverse lotte, cosa che tocca fare in esilio e in immigrazione. Ovviamente è difficile, perché quando arrivi in un paese come questo sei solo una lavoratrice, affronti molti problemi amministrativi e sei vittima del razzismo strutturale, non solo del razzismo quotidiano. Vivi un declassamento sociale e improvvisamente non c’è spazio per politica e militanza. Devi inoltre imparare un sacco di nuovi codici per integrarti, senza le risorse individuali e collettive che avevi nel tuo paese. È vero che gli scoppi rivoluzionari nei nostri paesi cambiano anche la situazione nella diaspora, e così è stato con il movimento «Jin, Jiyan, Azadî», che ha preso piede in tutta la diaspora iraniana. Mi ha dato l’opportunità di incontrare persone che avevano vissuto il 1979 iraniano e che fanno parte di un’altra tradizione rivoluzionaria che in Iran è stata sterminata: non le incontri nel paese, perché tutti sono morti o si sono zittiti per sempre dopo la prigionia e la tortura. Il mio stesso esilio e la nuova rivolta mi hanno permesso di conoscere chi allora riuscì a fuggire e di accedere attraverso di loro a un racconto completamente nuovo di quanto accadde in Iran nel ’79. Ricordo un giorno, tornando dalla biblioteca, che scoprii una libreria con libri in persiano e francese. Entrai e incontrai l’uomo che la gestiva, che aveva vissuto la rivoluzione in Iran. Cominciai ad andarci tre o quattro volte a settimana, a prendere il tè con lui e a conversare. Grazie a lui scoprii un altro mondo, un’altra storia dell’Iran. Scoprii, ad esempio, il ruolo della Confederazione degli Studenti dell’Iran nella lotta contro lo Shah, come organizzarono l’intera diaspora iraniana per rovesciare la monarchia. Tutti tornarono in Iran alla caduta dello Shah, ma della loro memoria non resta nulla. Il regime di Khomeini non solo uccise persone, ma anche i racconti e tutti i portatori dell’aspirazione rivoluzionaria di sinistra. La diaspora mi ha anche permesso di conoscere e parlare con siriani che avevano partecipato al movimento contro Assad; di capire il ruolo dell’intervento iraniano nel soffocare la rivolta, non solo intellettualmente, ma anche costruendo insieme un racconto alternativo dei movimenti nella nostra regione, basato sui riflessi tra un contesto e l’altro e sullo sforzo di mantenere vive tutte le nostre aspirazioni. La seconda ondata della primavera araba, quella dopo il 2018-2019, con rivolgimenti dal Sudan al Libano, dall’Iraq all’Iran, segna un punto di svolta che ci permette di intensificare le conversazioni. E, a partire dal 2022 e dal movimento «Jin, Jiyan, Azadî», si verifica tutta l’unità di cui vi parlavo anche nella diaspora iraniana. Tuttavia, a partire dal 7 ottobre, la divisione è tornata a sostituire la solidarietà, perché l’Iran sta strumentalizzando la questione palestinese. L’ha trasformata in una questione del regime e già dal primo anno di scuola i bambini sono obbligati a partecipare alle manifestazioni per la Palestina. È un rituale nazionale. Lo stesso accadeva nella Siria di Assad. Molte persone applicano la logica del “il nemico del mio nemico è mio amico”, per cui chi è contro il regime oppressivo iraniano, che è la maggioranza della popolazione del paese, è riluttante a sostenere la causa palestinese. Per noi, come persone di sinistra che sostengono la Palestina ma che sono anche contro il regime iraniano, la posizione è molto difficile. Abbiamo messo grande impegno nel costruire narrazioni e pratiche autonome, che permettessero di dare senso a entrambe le posizioni insieme e di contribuire al dibattito traducendo e favorendo una circolazione reciproca. Ma è vero che le cose si sono complicate dal 7 ottobre. Come diaspora, abbiamo una posizione vulnerabile, subiamo razzismo quotidiano e istituzionale e non siamo sufficientemente organizzate, quindi è stato facile dividerci. Ho la sensazione che viviamo due guerre: una guerra estesa, imposta sui nostri territori da Stati Uniti e Israele, e un’altra guerra tra di noi. I cambiamenti geopolitici sono così rapidi che non riusciamo a seguirli alla velocità con cui accadono. Ti senti sotto pressione costante, esausta di lottare ovunque: contro la Repubblica Islamica come femminista e curda, contro il razzismo, l’islamofobia e le narrative coloniali sui paesi musulmani qui in Europa come immigrata ed esiliata, per la Palestina e per la liberazione delle donne e del popolo curdo come persona internazionalista e di sinistra, ecc. E allo stesso tempo, la confusione: rendersi conto che la nostra lotta viene strumentalizzata, che Trump, ad esempio, ha approfittato della gioia per la caduta della dittatura in Siria dopo l’uscita di Assad; che Israele, con il supporto degli Stati Uniti, beneficia della repressione storica delle minoranze nazionali ed etniche nella regione; che alcune femministe islamofobe (spesso con inclinazioni coloniali e imperialiste) si sono appropriate delle lotte pionieristiche e radicali delle donne curde in Rojava o delle donne in Iran, mettendole al servizio di narrazioni eurocentriche, islamofobe, orientaliste e talvolta belliciste; e persino quelle che nel 2022 hanno difeso con forza il movimento «Jin, Jiyan, Azadî», oggi tacciono di fronte agli attacchi di Israele contro le stesse donne in Iran, perché condannare Israele significherebbe esprimere solidarietà alla Palestina, e non possono o non vogliono posizionarsi contro il genocidio in corso contro il popolo palestinese. VG/MM. Quali sarebbero le chiavi o gli strumenti fondamentali per produrre queste narrazioni e pratiche autonome che, al tempo stesso, sono impegnate e posizionate in lotte concrete ma non sempre note o facili da conoscere? SR. L’esperienza diasporica è senza dubbio una chiave, perché da qui è più facile capire come si articolano capitalismo, colonialismo e razzismo proveniente dagli Stati-nazione. Allo stesso tempo, arrivi con il bagaglio del tuo paese: hai vissuto sotto una dittatura, sotto leggi islamiche, in società patriarcali come tutte e porti con te una memoria politica. Il crocevia di tutto questo ti permette di ricostruire un nuovo mosaico della tua esperienza e, allo stesso tempo, di avere una visione più globale e inclusiva. Amiche femministe iraniane ci chiedevano: «Perché vi preoccupa tanto l’islamofobia? Noi viviamo sotto le leggi islamiche e ne siamo stanche». Capisco la loro posizione, ma dall’Europa la prospettiva è diversa: veniamo identificate come immigrate provenienti da paesi musulmani e poco importa se la mia interpretazione dell’Islam è diversa o se non sono praticante. Sono due facce della stessa medaglia: in Iran siamo obbligate a portare il velo, qui in Francia siamo obbligate a scoprirci. Questo sarebbe un primo strumento: il confronto di prospettive, che si arricchisce anche con la possibilità di incontrare movimenti femministi, queer, trans e altre diaspore. Abbiamo già parlato dell’incontro con le compagne siriane. Un altro incontro molto ispiratore per me è stato con le compagne sudanesi. Credo che, dopo Rojava, sia stata la rivoluzione che più mi ha ispirato. Non si tratta solo di incontrarsi e imparare da altre esperienze, ma anche di costruire fiducia reciproca, ascoltare l’eco delle proprie lotte nelle lotte altrui, constatare che non siamo una minoranza, che siamo molte a vivere eventi rivoluzionari, a essere femministe, a essere contro la dittatura nei nostri paesi, ma anche contro Stati Uniti e Israele. Da lì nasce uno sforzo cosciente di convocarsi e costruire insieme, nonostante le poche risorse disponibili. Così ci siamo incontrate con compagne di Algeria, Palestina, Afghanistan… Nella diaspora comprendiamo meglio anche le dinamiche di riappropriazione delle nostre narrazioni. Ad esempio, ci sono stati due momenti cruciali in cui la narrativa femminista rivoluzionaria di Rojava è stata strumentalizzata dal femminismo liberale, imperiale e coloniale. Il primo nel 2014-2015, quando le combattenti curde di Rojava combattevano contro l’ISIS. Il movimento curdo è stato presentato come puramente militare, ignorando che si tratta di un’organizzazione rivoluzionaria con milioni di persone e dimensioni sociali e politiche molto più rilevanti di quelle militari. Inoltre, la lotta delle donne curde per la sopravvivenza, contro l’ISIS e contro le forze di Assad, è stata utilizzata per alimentare narrazioni islamofobe, come se fossero le uniche donne liberate della regione. Il coraggio delle donne curde si costruiva casa per casa, strada per strada, dalle prigioni alle montagne, attraverso un’attivismo femminista della vita quotidiana, non elitario, molto politicizzato e al contempo popolare. Vedere tutto questo strumentalizzato per alimentare islamofobia e giustificare interventi di potenze coloniali in Medio Oriente è stato orribile. Il secondo momento di strumentalizzazione è stato nel 2022, con «Jin, Jiyan, Azadî», un movimento femminista rivoluzionario. Lo slogan, proveniente dal movimento curdo, ha un chiaro contenuto anti-imperialistico e anti-coloniale. Noi lo portavamo alle manifestazioni a Parigi dal 2014, anche se molte delle mie compagne femministe iraniane lo hanno sentito per la prima volta nel 2022, a causa della distanza tra curde e altre iraniane. La narrativa curda fino al 2022 era periferica, non aveva spazio nella narrativa femminista generale in Iran. È difficile portare proposte politiche periferiche al centro; di solito accade il contrario: le proposte arrivano dal centro e noi ci limitiamo a consumarle. L’autonomia significa anche rompere questa dinamica di consumo e produrre la propria narrativa. Allora, a partire dal 2022, lo slogan «Jin, Jiyan, Azadî» trova un suo spazio, nel paese e ovunque, e mantiene quel potenziale femminista e rivoluzionario. Ma, per la seconda volta, assistiamo alla sua strumentalizzazione qui in Europa. Donne liberali a cui non importa nulla della vita di nessuna donna nei paesi musulmani, che non si erano mai preoccupate delle nostre lotte o dei nostri problemi, all’improvviso si interessano perché vedono la questione dell’hijab al centro. Ma il movimento del 2022 non riguardava solo l’hijab: era un movimento intersezionale contro un intero sistema. Queste persone “solidarizzano” con il nostro movimento perché è utile a legittimare la loro islamofobia e attaccare le donne musulmane che vivono in Europa, umiliandole per il loro hijab, e ora sostengono o restano silenziose davanti al genocidio di Israele contro la Palestina. C’è una televisione persiana con sede nel Regno Unito, molto seguita nelle case in Iran. È un canale molto reazionario, filo-israeliano. Bene: giornaliste di questo canale sono andate a Gaza e hanno scritto sulle rovine «Mujer, Vida, Libertad». È stato terribile. Queste sono cose che forse, se vivi in Iran o Siria, non noti con tanta chiarezza, perché non subisci il razzismo come lo viviamo qui, sei immersa nella tua lotta, nella tua causa, nella tua sopravvivenza. Nella diaspora tutto questo si chiarisce. Vedi che la strumentalizzazione delle nostre lotte non ha nulla a che fare con la solidarietà, ma è piuttosto un altro tipo di estrattivismo: fanno estrattivismo delle nostre lotte come fanno estrattivismo delle nostre terre, rubano e svuotano i nostri slogan nello stesso modo in cui rubano e svuotano i pozzi di petrolio. Questo, naturalmente, non deve portarci ad abbandonare le nostre lotte e i nostri slogan, perché sarebbe cedere alla controrivoluzione in corso. Come diaspora resistiamo a questa banalizzazione dei nostri discorsi, restiamo femministe e queer, combattiamo per ricaricare i nostri slogan di tutto il loro significato. Sono slogan pieni di storia e memoria rivoluzionaria, che ci hanno richiesto decenni per costruire insieme: non possiamo buttarli via così, sarebbe cedere al saccheggio. Ma l’appropriazione occidentale dei movimenti radicali del Sud Globale costringe quegli stessi popoli a lottare anche per dimostrare la legittimità delle loro lotte. Nel caso di «Jin, Jiyan, Azadî», dopo gli usi strumentali, la legittimità del movimento si è indebolita tra le correnti di sinistra e decoloniali esterne e oggi il suo recupero non è solo una necessità urgente, ma richiede da parte nostra uno sforzo raddoppiato. VG/MM. Parlaci un po’ di più della genealogia dello slogan “Donna, Vita, Libertà”. SR. La storia risale al movimento politico curdo creato nel 1978 in Turchia. I Curdi rappresentano circa il 20% della popolazione turca, ma per anni sono stati chiamati “turchi delle montagne”, negando la loro esistenza e identità. La prima donna a entrare nel Parlamento turco fu Leyla Zana, una donna curda condannata a dieci anni di carcere per aver invocato l’unità tra Curdi e Turchi in Parlamento, parlandone in curdo. La sua storia è molto interessante. Suo marito era coinvolto nel PKK ed è stato incarcerato, così lei si è trovata sola con i figli, molto giovane, quasi senza istruzione, senza parlare né scrivere turco, dovendo occuparsi della difesa del marito, delle visite in carcere, ecc. Lì, davanti alle porte del carcere, incontrò altre donne curde e poco a poco iniziò a politicizzarsi, fino a diventare la prima donna parlamentare nella storia del movimento curdo. Questo è il nucleo del movimento curdo: molto popolare e per lo più contadino. Il PKK era marxista fino al 1995, quando, con il crollo dell’Unione Sovietica e della situazione globale, cambiò paradigma e discorsi, orientandosi verso un comunalismo con tre basi principali: donne, ecologia, beni comuni. «Jin, Jiyan, Azadî» nasce in questo contesto, come slogan contro il femminicidio all’interno del movimento curdo e non parla solo di violenza contro le donne da parte dei partner o di altri uomini, ma anche della violenza statale contro le donne curde e contro la vita in generale. C’è inoltre una particolarità del movimento delle donne curde. In molte rivoluzioni ci sono state donne combattenti, ma ci sono pochissimi movimenti in cui la causa rivoluzionaria e quella delle donne vanno insieme. Nella maggior parte delle rivoluzioni storiche si dice che la lotta femminista deve aspettare, perché la contraddizione principale è un’altra. Ma “dopo” significa “mai”. Nel movimento curdo non è così: la rivoluzione femminista è prioritaria ed è bellissimo. La prima generazione dovette lottare duramente per ottenerlo, ma furono tenaci: dissero che la rivoluzione è rivoluzione, significa ribaltare tutto. Oggi il movimento delle donne curde è autonomo. Tutte le decisioni sul genere, sia nelle organizzazioni miste sia in quelle femminili, sia per strada sia tra le montagne, dipendono dalle donne. Esiste un tessuto organizzativo molto ricco, casa per casa, con spazi di formazione femminile in ogni quartiere, dove puoi vedere una studentessa con un master in sociologia a Istanbul parlare con una donna con cinque figli che non ha mai frequentato la scuola, discutendo insieme sulla violenza contro le donne e organizzandosi insieme. La danza, le canzoni, le storie hanno un ruolo molto importante. È un movimento non elitario, molto popolare, molto potente. Ovviamente, quando lo racconti, sembra bellissimo, ma non bisogna dimenticare che dietro c’è una violenza terribile. Nella mia regione abbiamo vissuto molta violenza, ma non ho mai conosciuto una violenza così spietata come quella dell’esercito turco contro i Curdi. Non sono solo i massacri, ma anche i tanti sfollamenti forzati, le vite distrutte dalla guerra, giovani che a quattordici o quindici anni si politicizzano e a diciotto si uniscono alla lotta armata – la maggior parte muore assassinata prima dei trent’anni. La morte è sempre in agguato. È raro conoscere qualcuno che non abbia 2-4 persone care martirizzate dal governo, alcune fino a dieci persone. Di fronte a questa morte onnipresente, imposta dallo Stato turco, vivere diventa una parte fondamentale della lotta e il ruolo delle donne, come portatrici della memoria dei martiri, è cruciale. Credo ci siano risonanze con le Madri di Plaza de Mayo in Argentina, che sono state un’ispirazione per le donne curde. In molte manifestazioni, in prima fila, ci sono le madri curde con le immagini dei loro figli assassinati. Lo slogan «Jin, Jiyan, Azadî» è nato in maniera più o meno spontanea a partire dal 2008 in queste manifestazioni. Poi si è consolidato, fino a quando le combattenti di Rojava lo hanno adottato come slogan. Se le chiedi, dicono che è uno slogan contro il potere misogino, contro la disciplina del corpo, contro i sistemi patriarcali, familiari e religiosi, ma anche contro il potere imperialistico che vuole annientarle. Ricordo una donna che incontrai al confine di Kobani nel 2014, quando Kobani era assediata dall’ISIS. Vedemmo con i nostri occhi le bandiere dello Stato Islamico. Questa madre mi disse: «Meritiamo, come esseri umani, la libertà di vivere, non è questo un diritto fondamentale?». La libertà in quel contesto non ha nulla a che fare con il liberalismo. Lì, ogni notte, salutavamo giovani che partivano all’alba per non tornare mai, quindi la libertà di cui parlava quella madre era legata alla sopravvivenza, alla riproduzione della vita, che era in crisi. VG/MM. Nel tuo libro racconti come le donne si armano e il conseguente spostamento soggettivo. Come si trasforma lì la virilità bellica? SR. Il femminismo che incontriamo nella tradizione curda è un femminismo decoloniale molto militante, che politicizza la vita quotidiana ed è intimamente legato al movimento sociale e alla lotta di liberazione. In effetti, possiamo dire che non è un femminismo figlio delle ondate globali del femminismo, ma figlio del movimento di liberazione curdo stesso, che impatta ogni aspetto della vita. In Kurdistan non si usa la parola “femminismo”, ma preferiscono dire “movimento di liberazione delle donne curde” e usano il termine “jinealogía”, scienza delle donne. Ritengono che il femminismo sia stato recuperato e strumentalizzato dall’imperialismo coloniale in Turchia, quindi preferiscono distinguersi con un’altra terminologia. Questo ha a che fare con la storia del movimento femminista in Turchia, specialmente negli anni ’80: fu un femminismo costruito intorno a una definizione universale di donna, che non si interessava della violenza dello Stato contro i Curdi, né contro le donne curde. Il movimento curdo, nei suoi inizi, era un movimento di liberazione come tanti altri, con molta centralità di figure maschili, l’eroe che prende le armi e salva la nazione, rappresentata come madre. Conosciamo questa narrativa nazionalista-maschilista dei movimenti di liberazione. Ma ciò che è interessante nel movimento curdo è che, a partire dal 1992, di fronte a una violenza statale sempre più brutale, si opta per mobilitare tutti, anche le donne. Per la prima volta, migliaia di donne si uniscono alla lotta armata e le cose iniziano a cambiare. C’è una prima generazione che entra nella logica di incorporare le idee maschiliste per dimostrare di poter combattere come un uomo, o anche meglio. Si instaura un paradigma sacrificale, dove le donne danno tutto in famiglia e tutto in politica. Ma il fatto di essere così numerose permette loro poco a poco di prendere coscienza e distanziarsi da questo paradigma. Al tempo stesso, iniziano a creare un’organizzazione non mista nella guerriglia, tra le montagne, e poi replicano questa organizzazione nella struttura politica. Tra il 1992 e il 1995, si passa dal primo battaglione solo donne al primo esercito di sole donne. I media occidentali furono impressionati quando, nel 2014, furono le donne a guidare la liberazione di Kobane, a Rojava, ma per noi era qualcosa di logico, la conseguenza di tutto il processo precedente. Questo ha cambiato completamente i significati di mascolinità e femminilità nell’immaginario collettivo curdo. Credo ci siano due elementi chiave per capire questa trasformazione. Da un lato, c’è l’idea di un’organizzazione molto di base, che porta la lotta in ogni ambito della vita quotidiana, nei quartieri, nei luoghi di lavoro, casa per casa, con molto sostegno reciproco e formazione politica. Questo fa sì che le combattenti siano sempre in contatto con altre donne, con conversazioni aperte su violenza, politica, economia. L’altro elemento decisivo è aver creato strutture proprie e mantenuto costantemente una doppia militanza, in spazi di sole donne e in spazi misti. Questo equilibra le relazioni di potere. Ovviamente ci sono molte contraddizioni. La lotta armata resta ancorata a valori maschilisti. Dall’altra, la potente organizzazione non mista riflette anche la grande segregazione tra uomini e donne nella società. Come sostenere una senza rafforzare l’altra? La terza contraddizione è il femminismo. Quando ho conosciuto il movimento delle donne curde, la prima cosa che ho pensato è stata: «che movimento femminista potente!», ma loro, per le ragioni già spiegate, non si identificano come femministe, pur avendo pratiche femministe e legami con tutti i movimenti femministi rivoluzionari, dall’India all’America Latina, passando per l’Europa. I loro motivi per non chiamarsi femministe sono legittimi, ma come sostenere questa posizione senza alimentare la nuova ondata antifemminista, sia di Trump sia di Erdogan? Quella stessa ondata che legittima l’incarceramento in Iran delle mie compagne femministe in nome dell’anti-imperialismo e della sovranità nazionale? In alcuni discorsi di sinistra, ho l’impressione che si parli come se Hillary Clinton fosse il principale riferimento del femminismo. Non so se lo sia negli Stati Uniti, in altri contesti sicuramente no. A volte ascoltiamo questi discorsi, che non hanno nulla a che fare con il femminismo nel Sud Globale. D’altra parte, chiamarsi “movimento delle donne” comporta anche il rischio di essenzialismo del femminile, che esclude la questione queer. Per questo è così interessante quando collettivi e movimenti indigeni di Abya Yala dichiarano che il binarismo è un dispositivo coloniale, che non esisteva prima della colonizzazione. VG/MM. Fai riferimento alla jinealogía come a una ricostruzione, a partire della rivolta, di saperi strappati, e colleghi questo al ruolo che i saperi hanno nel nutrire la resistenza. Puoi sviluppare questa idea? SR. Jine significa donna, logía significa scienza, quindi jinealogía è letteralmente “scienza della donna”. Nel movimento popolare curdo c’è una forte scommessa sul sapere e sull’educazione popolare, rispetto al sapere accademico elitista, completamente preso dal capitalismo coloniale, ma anche rispetto all’educazione nazionalista oppressiva imposta dallo Stato. La lingua è il simbolo estremo di questo colonialismo educativo. Con tutte le proibizioni e restrizioni, oggi buona parte della mia generazione ha perso il curdo. Non si poteva parlare neanche in casa. Le famiglie non lo trasmettevano per proteggere i figli. C’è una storia famosa di un prigioniero politico incarcerato per dieci anni: sua madre parlava solo curdo e, quando lo visitava in carcere, dovevano incontrarsi in silenzio perché era proibito parlare curdo. Questa realtà ha portato a prendere molto seriamente l’educazione: non solo l’insegnamento del curdo con corsi in montagna, nei villaggi, nelle città, per resistere all’annientamento della lingua, ma anche la formazione politica a tutti i livelli, come in Algeria durante la colonizzazione francese: la formazione politica come compito fondamentale nella resistenza contro il colonialismo. L’idea viene dalla tradizione marxista classica, ma con un approccio molto popolare. Se stiamo creando una nuova società, serve una nuova formazione, non elitista, che non separi teoria e pratica, come fa l’istituzione accademica, dove puoi avere un discorso democratico ma nella vita quotidiana non importarti nulla di nessuno. Nel movimento curdo pensiamo: se dici qualcosa, devi praticarla; ciò in cui credi deve riflettersi nella tua retorica e nel tuo agire. Perwerdeya significa educazione. Ed è alternativa all’educazione statale, ma anche uno strumento di resistenza. È anche uno strumento per diffondere sapere ovunque, per discutere con tutti e integrare le esperienze collettive, integrare le nuove generazioni, permettere loro di politicizzarsi. La jinealogía fa parte di questa perwerdeya. Non è solo per militanti, non è solo per femministe, non è solo per persone colte. È legata all’educazione sociale, è un modo per cambiare la vita quotidiana e uno strumento di autodifesa, per essere capaci di difendersi dal padre, dal marito o da un’autorità, in casa, in strada o tra le montagne. Niente di tutto questo esclude la formazione ideologica. Se questo movimento vive da quarant’anni, nonostante la repressione enorme, è perché ha un nucleo ideologico molto solido e una memoria collettiva che si trasmette di generazione in generazione. In questo quadro, la jinealogía produce una nuova lettura della storia delle donne in Medio Oriente, in particolare delle donne curde; partendo dalla Mesopotamia, che resistono alla storia eurocentrica, al mito dell’origine greca della civiltà, che è un mito maschilista. All’interno della jinealogía ha un ruolo molto interessante il mito di Sahmaran, metà donna metà serpente. Sahmaran ha un grande palazzo ed è guardiana della saggezza e di tutti i segreti. Si innamora di un uomo, completamente umano, e gli consegna tutto il suo sapere. Lui la tradisce, rivelandone i segreti e facendo in modo che venga uccisa. Noi Curdi siamo cresciuti con questo mito, ma dalla jinealogía viene rivisitato per presentarlo come una storia di femminicidio e di furto del sapere femminile da parte di narrazioni maschiliste. Ovviamente, l’integrazione della mitologia tradizionale ha i suoi limiti, ma è interessante come dal movimento di liberazione curdo, dal movimento delle donne, si tenti continuamente di collegare questi miti alla realtà e ai saperi quotidiani. Non si tratta solo di parlare di Sahmaran, ma di riviverla, per recuperare il sapere che ci è stato rubato, un sapere che è esistito e che è possibile riprendere. Così, a Rojava, ci sono molti luoghi dove si lavora su questo sapere femminile, soprattutto medico e di guarigione, ma esiste anche Jinwa, un villaggio solo per donne vittime di violenza, organizzato interamente da donne. VG/MM. Per concludere, ci piacerebbe chiederti: come immagini un internazionalismo femminista in un contesto di guerra globale, dove si scontrano diversi patriarcati e il patriarcato occidentale gioca la carta dei diritti delle donne? SR. Certamente, abbiamo visto l’Occidente giocare questa carta in molti contesti, con quell’atteggiamento “civilizzatore”, dicendo alle donne: «vi salveremo e vi libereremo dai vostri modi arcaici di vivere». Lo abbiamo visto nelle guerre in Iraq e in Afghanistan e nei discorsi di Netanyahu durante gli attacchi contro l’Iran. Questa è un’altra delle ragioni per cui il movimento delle donne curde è reticente a definirsi femminista. In ogni caso, l’internazionalismo non è un’opzione. Forse lo è per persone bianche, che possono scegliere se supportare o meno Assad, se supportare o meno l’Iran, ma per noi non c’è scelta possibile. Non possiamo sostenere la Repubblica Islamica dell’Iran, il prezzo è la vita, così come non possiamo sostenere il genocidio in Palestina. L’internazionalismo è ciò che ci permette di comprendere e mantenere insieme le nostre militanze come Curde, come femministe e come persone di una sinistra rivoluzionaria. Non mi piace la parola intersezionale, perché a volte è molto superficiale, ma la questione è come possiamo collegare nella pratica la lotta curda con la lotta femminista, con la lotta contro l’estrattivismo, con la lotta ecologica; lotte che in realtà sono intrecciate. E la Realpolitik, con il suo presunto pragmatismo, non ci serve, perché alla fine ci lascia affidare tutta la speranza agli Stati e alla loro geopolitica, facendoci credere che per la liberazione della Palestina dobbiamo sostenere Stati misogini e maschilisti come quello della Repubblica Islamica dell’Iran. Al contrario, un internazionalismo dal basso sì, perché nel dialogo concreto è molto chiaro perché non posso sostenere uno Stato che incarceri me e le mie compagne, una volta per essere Curde e un’altra per essere femministe. Penso a questo internazionalismo come a una pratica di collegamento, un modo per connettersi, ascoltarsi e impegnarsi tra contesti diversi. A volte è molto difficile. Come collegare, ad esempio, la rivoluzione siriana con il movimento di liberazione curdo? Ci siamo riuscite, ma è stato duro, doloroso. Nell’internazionalismo stiamo cambiando continuamente il territorio della lotta e a volte è difficile orientarsi, capire cosa sia più importante, dove concentrarsi. Impariamo l’una dall’altra. È anche difficile capire come parlare della propria lotta locale con gli altri. Come quando ho scritto il libro sul movimento delle donne curde: sono arrivata a riscrivere frasi 25 o 30 volte. Riflettevo mille volte su come formularle per evitare che fossero strumentalizzate. Volevo essere giusta, perché la gente rischia molto, ma volevo anche permettermi di essere critica. A volte vedo femministe bianche francesi così appassionate al movimento delle donne curde, senza alcuna critica o riflessione. Per me quell’atteggiamento è il rovescio della visione coloniale, dove non prendi davvero sul serio la lotta delle altre. Capisco che dalla loro posizione sia diverso, ma nel mio caso si tratta della mia lotta, e per me era importante permettermi uno sguardo critico. Questo mi ha provocato un conflitto interno: come trovare le parole giuste? Devo parlarne o no, in che modo, consapevole che è un conflitto molto violento, una situazione di guerra? È stato un dolore durato dieci anni. Non è stato un libro che ho scritto “da intellettuale”, ma da militante, perché la mia militanza è più forte del mio lato intellettuale. Immagine di copertina di Matt Hrkac (da wikimedia) Articolo pubblicato in spagnolo sul sito della collettiva femminista transnazionale La Laboratoria. Traduzione in italiano a cura di Alessia Arecco per DinamoPress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Somayeh Rostampour: «Internazionalismo è ascoltare l’eco delle proprie lotte nelle lotte altrui» proviene da DINAMOpress.
Crisi climatica, bisogna agire: la terra è sempre più calda
Bisogna agire, e in fretta. È quello che un appello, firmato da decine di ricercatori e ricercatrici di rilevanza nazionale, chiede al governo e al Ministero dell’Ambiente e della Transizione Energetica. L’appello riguarda l’obiettivo suggerito dal European Scientific Advisory Board on Climate Change (Comitato Scientifico Europeo sul Cambiamento Climatico, ESABCC) di ridurre le emissioni di gas climalteranti del 90%-95% entro il 2040 (calcolate rispetto al 1990).   «La preoccupante realtà del surriscaldamento globale non può più essere negata. Per questo è necessario che tutti facciano la loro parte per ridurre le emissioni climalteranti, in particolare quei Paesi come l’Italia e l’Europa che hanno una chiarissima responsabilità storica», recita una parte dell’appello. Tra le firme si trovano un gran numero di studiose e studiosi­ che si occupano di ricerche collegate al riscaldamento globale, tra cui Giorgio Parisi, Nobel in fisica, il climatologo del CNR Antonello Pasini, le climatologhe Elisa Palazzi (Università di Torino), Susanna Corti (Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR), e molte altre figure rilevanti nell’ambito. > Quest’appello giunge in un momento in cui l’azione per contrastare il > riscaldamento climatico è più importante che mai: il 2024 è stato l’anno più > caldo registrato nella storia, durante il quale la World Meteorological > Organization (WMO) ha rilevato una temperatura media globale 1,55°C sopra i > livelli pre-industriali. Ciò accade mentre si è registrato il record di emissioni di CO2 da combustibili fossili, come riportato di nuovo dalla WMO stessa. La strada per evitare le conseguenze più catastrofiche della crisi climatica è stretta ma è ancora percorribile, come descritto nell’ultimo report dell’International Panel on Climate Change (IPCC) e passa necessariamente per l’abbattimento delle emissioni di gas serra, al fine di raggiungere il livello net zero. Il tempo con cui si raggiunge questo obiettivo è cruciale: i gas climalteranti permangono in atmosfera, dunque più rapida è la transizione e minori saranno le conseguenze delle emissioni sul clima del pianeta. L’appello al governo riguarda esattamente il punto della rapidità dell’azione contro la crisi climatica. Tra gli stati europei, l’Italia è tra paesi che più è (e sarà) colpito dalle conseguenze del riscaldamento globale: il record della temperatura più alta mai registrata in Europa è stato raggiunto nel 2021 in Sicilia con 48.8­°C.  Oltre a ciò, nel 2025 sono stati osservati 110 eventi climatici estremi in Italia, solamente nei primi 5 mesi dell’anno. Tra questi ricordiamo l’alluvione in Piemonte ad aprile, con picchi registrati di oltre 400 mm di pioggia nel giro di 24 ore, un evento climatico estremo che ha causato lo sfollamento di oltre 200 persone e la morte di una. Ricordiamo anche l’alluvione in Emilia Romagna nel 2023, che ha causato 17 vittime e decine di migliaia di persone sfollate. > Quest’estate ha visto il manifestarsi di notevoli ondate di calore in Europa: > uno studio pubblicato su “Nature”, che considera 12 città europee, mostra che > 1500 delle 2300 morti a causa di temperature elevate avvenute in un arco di 10 > giorni a giugno, il 65%, siano direttamente collegate all’incremento di > temperatura causato dalle emissioni legate ai combustibili fossili Le conseguenze del riscaldamento globale saranno sempre più rilevanti con il passare del tempo se i provvedimenti per la transizione ecologica tardano ad arrivare. A giugno di quest’anno, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha stimato che, nello scenario di politiche climatiche invariate, l’Italia nel 2050 si troverebbe a spendere annualmente il 5% del PIL per fronteggiare le conseguenze di fenomeni meteorologici estremi, valore da confrontare con lo 0.9% nel caso in cui l’obiettivo di neutralità carbonica entro il 2050 venga raggiunto. Nonostante questo, la presidente Meloni risulta essere una delle voci più critiche in Europa nei confronti del Green Deal: ad esempio in aprile, a seguito della minaccia dei dazi statunitensi, la premier ha suggerito di rivedere «le normative ideologiche del Green Deal e l’eccesso di regolamentazione in ogni settore» in quanto «costituiscono dei veri e propri dazi interni che finirebbero per sommarsi in modo insensato a quelli esterni». Affermazione a cui ha fatto eco anche il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso a un question time alla Camera. L’antagonismo del governo verso le istanze della transizione ecologica trova sponda in Europa, dove il PPE (Partito Popolare Europeo), che durante la scorsa legislatura ha appoggiato l’introduzione del Green Deal, guarda sempre più spesso a destra verso i Conservatori e Riformisti (ECR), collaborando a provvedimenti che complicano il percorso di transizione, ad esempio votando per l’istituzione di una commissione con il fine di rivedere il budget assegnato alle ONG che si occupano di temi legati all’ecologia e affossando una proposta di direttiva contro le pratiche di greenwashing. Tutto questo accade mentre l’attenzione dei media sul tema della crisi climatica non sembra essere commisurata con la gravità della situazione. Ne abbiamo già parlato in un articolo di Riccardo Carraro. Al contrario, si vede una diminuzione della copertura mediatica: nel 2024 c’è stato un dimezzamento del numero di notizie riguardanti la crisi climatica rispetto al 2023, sia su carta sia sui telegiornali, come riporta Greenpeace. Il momento migliore per agire per fermare la crisi climatica era decine di anni fa, il secondo momento migliore è oggi. Per questo è estremamente importante agire in modo collettivo, al fine di mantenere alta l’attenzione sul tema e di spingere i governi a intraprendere azioni urgenti su questo fronte. > Gli occhi sono puntati sulla COP30, che avverrà a novembre a Belém, città > brasiliana nelle vicinanze della foresta amazzonica. Sarà un momento cruciale > di mobilitazione per attiviste e attivisti da tutto il mondo e per le > popolazioni indigene, i cui territori si sono dimostrati resistenti > all’aumento delle deforestazione che ha caratterizzato gli anni della > presidenza Bolsonaro. La COP29, che ha avuto luogo in Azerbaigian l’anno scorso, ha visto la partecipazione di un folto gruppo (più di 1700 persone) di lobbysti delle industrie del petrolio, carbone e gas, più numeroso delle delegazione di gran parte dei paesi partecipanti. Probabilmente, anche per via di ciò, il documento finale della conferenza ha deluso le aspettative di diverse organizzazioni ambientaliste e di molti paesi del sud globale, che sottolineano, tra le altre cose, una mancanza di finanziamenti atti a fronteggiare la crisi climatica. Anche per questo è importante la mobilitazione in vista della COP30. La Direttrice Esecutiva della Conferenza delle Parti di quest’anno, Ana Toni, sostiene che «il clima è la nostra guerra più grande», si tratta però di agire di conseguenza. L’autore dell’articolo ha frequentato il Corso di giornalismo sociale 2025 organizzato da Dinamopress L’immagine di copertina è di Marta D’Avanzo SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Crisi climatica, bisogna agire: la terra è sempre più calda proviene da DINAMOpress.
Zaga for Gaza: in piazza per fermare il genocidio
Zagarolo è scesa in piazza, con più di 500 persone che hanno risposto all’appello di Zaga for Gaza «Restiamo umani, fermiamo il genocidio». Il bisogno di reagire umanamente in solidarietà col popolo palestinese, infatti, ha spinto a partecipare al corteo anche numerose persone di altri paesi limitrofi e della provincia tutta. Una partecipazione emozionante, pacifica, colorata e intergenerazionale. Una iniziativa nata dal basso ed in maniera spontanea che, finalmente, è riuscita ad unire invece che dividere. Zagarolo si è associata alla voce dei movimenti che in tutto il mondo stanno scuotendo la terra e il mare, per chiedere la fine di un genocidio di un intero popolo, quello palestinese. Il diritto a essere e restare bambini, la Libertà di un Popolo e il riconoscimento di uno Stato. A costo di bloccare tutto e di «non fare uscire più nemmeno un chiodo», come hanno dichiarato i lavoratori e le lavoratrici portuali di Genova. Tra la commozione generale nel ricordare Vittorio Arrigoni e sentire la sua presenza ancora viva in mezzo a noi, abbiamo voluto ripercorrere insieme 78 anni di storia e di occupazione. Abbiamo voluto leggere i numeri, scandendo chiaramente le cifre dei civili morti e dei feriti, degli ospedali distrutti, delle scuole bombardate. > Abbiamo gridato quanto il pensiero dominante occidentale ed eurocentrico – di > cui facciamo parte – in realtà ci schiacci e ci renda impotenti. Abbiamo voluto dare voce alle docenti di scuola, le stesse voci che lo stesso sistema tenta di imbavagliare e mettere a tacere per non “turbare gli animi” delle bambine e dei bambini. Ma sappiamo bene che la rivoluzione più importante è quella culturale ed è anche dalla scuola che è necessario ripartire, perché rendere partecipi ed esseri partecipi è un dovere morale. Abbiamo voluto esprimere la nostra rabbia di fronte alla complicità dei governi occidentali. Ma, soprattutto, abbiamo voluto reclamare l’intervento e l’azione concreta da parte di tutte le istituzioni affinché riconoscano lo Stato di Palestina e, partendo dal comune di Zagarolo, richiedere l’esposizione, all’esterno di una delle sedi comunali, della bandiera della Palestina autoprodotta proprio in occasione del 12 settembre. Vogliamo confidare in una presa di posizione chiara e definitiva sul tema, affinché il nostro comune possa essere di esempio anche per le amministrazioni limitrofe. Ciò che è accaduto venerdì 12, forse non è accaduto mai a Zagarolo, ma abbiamo appena cominciato. Nelle prossime settimane continueremo a sostenere e organizzare iniziative a sostegno del popolo palestinese e per fermare il genocidio in atto. Continueremo a seguire e chiedere di tutelare l’equipaggio della Global Sumud Flotilla, fino a che non saranno consegnati gli aiuti e saranno tornati tutti sani e salvi. Continuate a seguirci, a supportarci e soprattutto a partecipare. Aiutiamoci a restare umani! L’immagine di copertina è di ZagaForGaza (Facebook) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Zaga for Gaza: in piazza per fermare il genocidio proviene da DINAMOpress.
Emergenza imprese recuperate, in Argentina il decimo incontro internazionale
La rete internazionale “Economia dei lavoratori e delle lavoratrici” è nata a partire dall’esperienza del programma di ricerca ed estensione universitaria “Facultad Abierta” dell’Università di Buenos Aires, che da oltre quindici anni si occupa di imprese recuperate, autogestione del lavoro in Argentina e a livello internazionale, coordinato dall’antropologo Andrés Ruggeri. Il meeting è concepito come parte integrante di più «ampi processi sociali volti a un cambiamento della società, sulle basi dell’eguaglianza, della solidarietà, della libertà e dell’autogestione». L’Incontro Internazionale, che si svolge ogni due anni, alternato con incontri regionali in America del Sud, del Centro e del Nord, e in Europa, (si è tenuto un incontro a Marsiglia, nel 2014 presso la fabbrica recuperata Fralib, poi un incontro nel 2016 in Grecia presso la Viome di Salonicco e un incontro nel 2019 in Italia, presso la RiMaflow di Trezzano sul Naviglio) rappresenta un progetto comune di tante realtà, movimenti ed esperienze a livello internazionale, con l’obiettivo di articolare dibattito e costruzione politica coinvolgendo ricercator*, lavoratori e lavoratrici di imprese recuperate, cooperative, sindacati e movimenti a livello internazionale, dall’America Latina all’Europa, con partecipazioni e interlocuzioni da America del Nord, Africa e Asia. Con un appello alla solidarietà internazionale, pubblicato in italiano su Jacobin Italia, l’antropologo e coordinatore dell’Incontro Internazionale Andrés Ruggeri denuncia la grave crisi delle imprese recuperate e del movimento dell’autogestione in Argentina a causa delle politiche economiche e repressive del governo di estrema destra di Javier Milei lanciando un appello alla solidarietà internazionale, che invitiamo a sottoscrivere e diffondere [intro della redazione] «Il ruolo della solidarietà internazionale deve essere rilanciato per preservare un movimento che genera non solo lotta, ma anche speranza che un altro modo di produrre e vivere sia possibile e auspicabile, in un mondo sempre più carente di esempi da difendere e seguire. Le imprese recuperate sono importanti per riflettere una realtà che richiede la sopravvivenza dell’autogestione come strumento per la classe operaia, sia per combattere la disoccupazione e la chiusura delle fonti di produzione, sia per formulare relazioni di lavoro più umane e trasformative rispetto alle convenzionali relazioni capitale-lavoro nell’economia capitalista. Ma anche perché le imprese autogestite, in quanto rappresentanti ultime dell’essenza collettiva del lavoro e della produzione, sono forse la manifestazione ultima di ciò che il presidente ha ripetutamente definito «collettivismo maledetto». Per queste ragioni, a nostro avviso, la situazione delle Ert è di enorme importanza. Per questo, diverse organizzazioni e personalità di diversi paesi, in gran parte – ma non esclusivamente – partecipanti alla rete Economia Internazionale dei Lavoratori e delle lavoratrici, hanno deciso di allinearsi al Comitato Internazionale di Solidarietà con l’Autogestione in Argentina, con l’obiettivo di collaborare a sostegno del movimento, tanto nella diffusione delle sue azioni e nelle campagne di solidarietà attive per aiutare l’organizzazione dell’Argentina quanto nella circolazione dei suoi prodotti, come forma di visibilità e di aiuto economico, in diversi paesi del mondo, veicolando l’esempio del lavoro e della produzione senza padroni. In questo comitato ci sono già rappresentanti di organizzazioni autogestionarie e operaie di vari paesi europei (come Spagna, Italia, Francia, Germania e Grecia), dell’America del Nord (Canada e Stati Uniti) e, ovviamente, dell’America Latina.  Questo sostegno è fondamentale e ogni volta più importante quanto più si avvicina il momento difficile e inevitabile dell’esplosione di un modello invivibile per i popoli, quando, più che mai, l’incoraggiamento e la solidarietà internazionale diventano una carta fondamentale, come è stato in molti altri momenti della storia della classe mondiale.  Leggi il testo integrale dell’appello Facciamo appello a quanti vogliano collaborare e solidarizzare a far parte di questo comitato e organizzare e proporre azioni per rafforzare e sostenere un’esperienza che è esempio globale di autogestione e di lotta. Aderisci all’appello Per aderire e proporre azioni alle realtà italiane si può scrivere a 1871internazionale@gmail.com Pubblichiamo l’invito alla partecipazione e alla presentazione di proposte di articoli e di papers, con indicazioni su contenuti, struttura organizzativa e modalità di partecipazione per il 10° Incontro internazionale “L’economia dei lavoratori e delle lavoratrici” che si svolgerà nella città di La Rioja, in Argentina, dal 27 al 29 novembre 2025. Invitiamo i lavoratori e le lavoratrici delle imprese recuperate e autogestite, delle cooperative e delle organizzazioni sociali e popolari, nonché le organizzazioni sindacali e gli accademici interessati e impegnati nelle pratiche di autogestione e nel progetto di una nuova economia dei lavoratori a partecipare a questa nuova edizione dell’Incontro, uno spazio di dibattito e di presentazione delle esperienze di autogestione del lavoro, delle organizzazioni sociali e comunitarie e della classe operaia in generale, che si propongono di discutere i loro problemi e i loro relisultati, insieme agli spazi di militanza e accademici, nella ricerca di un’alternativa a partire dal lavoro e dall’autogestione di fronte alla crisi a cui il capitalismo neoliberista globale sta sottoponendo i nostri popoli. L’Incontro Internazionale si tiene ogni due anni dal primo appuntamento del 2007 a Buenos Aires, Argentina, poi ancora a Buenos Aires (2009), e successivamente in Messico (2011), Brasile (Joao Pessoa, 2013), Venezuela (Punto Fijo, 2015), Argentina (Pigüé, 2017), Brasile (Guararema, Escuela Nacional Florestan Fernandes, 2019) poi di nuovo in Messico (2021 in modalità virtuale) e infine in Argentina nella città di Rosario (2023). A loro volta, dal 2014 si sono tenuti incontri regionali, organizzati per area (Sud America, Nord e Centro America, Europa). Il successo del IV Incontro Latinoamericano che si è tenuto nella provincia di La Rioja nel 2024, organizzato dalla storica cooperativa Copegraf, editrice di “El Independiente Media” e da altre organizzazioni del resto dell’Argentina, è stata decisiva per la decisione di ripetere la sede quest’anno, ma questa volta per l’incontro internazionale che include partecipanti da altri continenti. Le sessioni si terranno nella capitale della provincia di La Rioja, nel nord dell’Argentina, presso il Paseo Cultural Pedro Ignacio de Castrobarros, proprio nel centro della città. IL CONTESTO E I DIBATTITI DEL DECIMO INCONTRO Questo nuovo Incontro si terrà nel contesto di una situazione sempre più critica sia in Argentina che nella regione, con l’aggravarsi della crisi economica internazionale, gli attacchi sempre più frequenti e profondi alle conquiste storiche della classe operaia e l’espulsione permanente di milioni di persone verso la precarietà e l’informalità, in un mondo attraversato da una gigantesca crisi ambientale che mette a repentaglio la vita stessa del pianeta, aggravata dall’esacerbazione della concentrazione della ricchezza e dall’accumulazione a livello esponenziale del capitale a spese del lavoro. La preponderanza sempre più aggressiva delle opzioni di destra e ultradestra in molti Paesi e il frequente ricorso alla guerra per risolvere situazioni di conflitto tra le nazioni e all’interno di esse, insieme alle politiche imprevedibili ma pericolose della potenza imperialista ancora egemone, soprattutto in ambito militare, gli Stati Uniti, rendono la situazione più volatile e pericolosa. Gli attacchi e le deportazioni dei migranti, il genocidio a Gaza, le guerre taciute in Africa, la distruzione delle condizioni di vita e delle politiche sanitarie, educative, abitative e del lavoro accelerate in diversi Paesi dell’America Latina, tra le altre calamità contro i popoli, minacciano anche le lotte della classe operaia. È in questo contesto che governi come quello di Javier Milei in Argentina mettono in discussione non solo le condizioni di vita minimamente dignitose del popolo, ma scelgono come nemico esplicito la classe operaia e soprattutto le organizzazioni e le tendenze politiche che cercano il bene collettivo. L’autogestione e l’economia dei lavoratori sono una visione opposta a quella della crescente ultradestra. Esprimiamo un progetto alternativo al capitale e, pertanto, dobbiamo discutere i problemi, la situazione e le realizzazioni delle nostre idee e realtà, nonché le possibilità della loro articolazione, crescita e consolidamento. In questo modo, le nostre traiettorie e idee possono essere presentate come una delle poche espressioni in grado di mostrare un’alternativa reale ed efficace, basata sulla pratica e sull’esperienza di imprese recuperate, cooperative, organizzazioni comunitarie, in città e in campagna, che nonostante le difficoltà esistono e creano quotidianamente una logica diversa. Rafforzare queste esperienze alternative attraverso lo scambio, il dibattito e l’articolazione locale, regionale e internazionale è stato lo scopo di questo incontro fin dalla sua fondazione, diciotto anni fa. A partire da questa convinzione, invitiamo a partecipare a questa nuova edizione, con l’obiettivo di rafforzare e ampliare il dibattito e l’organizzazione e di poter ripensare un progetto di economia e di società a partire dalla classe operaia e dalle sue esperienze e organizzazioni. TEMI E LINEE GUIDA DELL’INCONTRO: Ogni asse costituisce una linea guida per i temi di dibattito che saranno discussi durante l’incontro e un riferimento per l’organizzazione del programma sulla base delle proposte ricevute, compito che sarà assunto dal comitato organizzativo locale e internazionale. Assi principali: 1. Analisi della situazione della classe operaia nella crisi politica, economica e ambientale del capitalismo globale. Autogestione di fronte alla sfida delle nuove e vecchie destre. 2. L’autogestione come pratica e progetto alternativo. 3. Sfide organizzative e politiche del sindacalismo e di altre forme di organizzazione dei lavoratori salariati e di altre forme di organizzazione nel capitalismo neoliberale globale. 4. Precarizzazione e informalizzazione del lavoro nel capitalismo globale: esclusione, inclusione o riformulazione delle forme di lavoro? 5. L’economia dei lavoratori da una prospettiva di genere. 6. Problemi e sfide della produzione industriale autogestita, della commercializzazione e della loro articolazione nell’economia dei lavoratori. 7. Produzione agricola autogestita e comunitaria nell’economia dei lavoratori. 8. Stato e politiche pubbliche nell’economia dei lavoratori. 9. Che ruolo hanno la formazione, l’autosviluppo e l’innovazione? Scadenze per la presentazione di proposte di lavori: presentazione degli abstract: 30/9/25; accettazione degli abstract 10/10/25; presentazione degli articoli completi: 31/10/25. Le proposte devono essere presentate come abstract di non più di una pagina. Si raccomanda di accompagnare la proposta con un suggerimento in quale dei 10 assi tematici proposti dovrebbe essere incluso. Se la proposta viene approvata, l’elaborato non dovrà essere più lungo di 10 pagine, in Times New Roman o Arial 12, con interlinea 1,5. I lavori approvati saranno caricati su un sito web prima della riunione. Per la presentazione di documenti in altri formati, si prega di contattare gli organizzatori. La presentazione di relazioni o proposte deve essere inclusa nel modulo di iscrizione e inviata all’indirizzo e-mail xencuentrolarioja@gmail.com. Scadenze per la presentazione di proposte per workshop, presentazioni di libri e riviste e presentazioni audiovisive: presentazione: 30/9/25; accettazione: 10/10/25. Nel caso di presentazione di workshop, questi dovranno essere giustificati in termini di tema, metodologia, partecipanti e relazione con i temi principali dell’incontro. Queste proposte saranno valutate anche in base alla loro rilevanza e alla disponibilità di spazio all’interno dell’incontro. Registrazione (gratuita) su: https://forms.gle/Ak9DiHeywQt9YFbM8 Termine ultimo per la registrazione come partecipante fino all’inizio dell’Incontro. La partecipazione è gratuita e verranno rilasciati attestati di partecipazione e di relatore (per ottenere l’attestato di partecipazione, l’iscrizione deve essere effettuata entro il 20/11/2025). Maggiori informazioni su www.recuperadasdoc.com.ar Comunicazioni a xencuentrolarioja@gmail.com Immagine di copertina di Ri Maflow, incontro euromediteraneo Economia dei lavoratori e delle lavoratrici. La prima immagine nell’articolo è dell’Incontro in Grecia (foto dinamopress) e la seconda di Alioscia Castronovo, 2017, incontro presso la fabbrica recuperata Textiles Pigué, provincia di Buenos Aires, Argentina L'articolo Emergenza imprese recuperate, in Argentina il decimo incontro internazionale proviene da DINAMOpress.
Luigi Pintor, cento anni in un giorno
Ha senso chiamare a parlare, in un giorno di fine settembre, chi ha conosciuto Luigi Pintor, e anche chi non lo ha conosciuto, in occasione dei cento anni dalla sua nascita?  È lecito chiederselo e perciò vale la pena trovare risposte adeguate all’uomo Luigi Pintor e al secolo che ha attraversato, a volte in buona compagnia, a volte meno, e in piccola parte vissuti assieme, al “manifesto”, il “quotidiano comunista”. Cercare qualche risposta è lo scopo principale dell’incontro che si terrà a Cagliari il 20 settembre prossimo, dal titolo “Piazza Pintor”, organizzato dal Collettivo Pintor, in collaborazione con Il Manifesto e grazie al sostegno della Fondazione Sardegna e alla cooperativa Agorà Legacoop.  Come fosse la targa di una via cittadina, nella locandina c’è la data di nascita, 1925, e quella della sua imprevista scomparsa, il 2003. Ma c’è anche una riga che spiega, per chi non lo sa, chi era Luigi Pintor: «Giornalista, scrittore, comunista, sardo». La targa è anche un auspicio: che al «più grande giornalista italiano», come lo aveva definito Enrico Berlinguer, la città che lo ha visto nascere dedichi una strada, un luogo, una memoria indelebile. Così come hanno fatto a Orgosolo i cittadini che lo hanno immortalato nel murale che compare sulla locandina che chiama, chi lo ha conosciuto e chi no, a un incontro costruito sui ricordi ma anche su una visionaria idea di futuro. Così come è stata la biografia di Pintor. È stato giornalista nel senso migliore di questa accezione, ormai caduta in prescrizione, perché ha saputo costruire dal nulla, assieme a un piccolo gruppo di suoi pari, un oggetto scandaloso e perciò straordinario: un giornale fuori dai partiti e dai potentati economici, frutto della sapienza e della irriverenza verso ogni dottrina. Un’eresia, senza però la pretesa di dar vita a una nuova religione. Da quel 1971 (e dalla radiazione dal Pci), per trent’anni ogni mattina Luigi, Rossana, Valentino e un pugno di giovani per la maggior parte senza bussola, hanno potuto navigare in direzione ostinata e contraria a volte arrancando ma sempre imponendo un punto di vista originale e dissacrante. Con quel «pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà» di cui Pintor è stato uno dei più degni interpreti. Ed è stato scrittore di libriccini piccoli ma densi e sapienti e commoventi e laceranti che hanno sbaragliato la metrica e l’ortografia regalando quattro petali di un fiore desinato a non appassire mai. Chi li ha letti li ha anche letti di nuovo e forse continuerà a farlo fino a che quella sua intima storia raccontata con pudore, quasi con timidezza, non tracimerà restituendoci l’immagine migliore e più disperata di un paese assediato. È la storia di un mondo che non c’è più del quale Pintor è stato testimone distaccato e al tempo stesso protagonista. Ed è la sarditudine indelebile con il suo accento che non ha mai perso le vocali e il suo stupore condito con oassione e orgoglio per questo mare troppo azzurro per essere vero e queste erbe troppo verdi per essere nate su terreni aridi. Ed ecco, infine, perché è stato comunista sempre, con o senza il Partito. Comunista nello sguardo sulle persone, sugli eventi che hanno segnato il Novecento, sui processi, sulle sconfitte. Sulla volontà di ricominciare senza perdere un briciolo della capacità di interpretare il presente per immaginare il futuro. Perfino nel suo ultimo editoriale, Senza confini, riesce a non farsi travolgere dalle devastazioni culturali e politiche pur capendone la carica dirompente. Io vorrei che  tutti lo leggessero (è stato scritto nel 2003, pochi mesi prima della morte). Anzi, forse, se fosse stato letto e capito allora, l’orrore del presente avrebbe potuto essere meno devastante. Qualche riga, e chi vuole può andare a leggerlo o a rileggerlo sul sito della Fondazione Pintor: «Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C’è un’umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all’altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un’opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una pratica di vita». L’immagine di copertina è tratta dal manifesto dell’iniziativa SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Luigi Pintor, cento anni in un giorno proviene da DINAMOpress.
Tira un vento nuovo: verso lo sciopero del 22 settembre
Si respira un’ aria diversa in Italia in questi giorni, è innegabile. All’inizio lo abbiamo solo sussurrato, per paura che non fosse vero. Dopo le manifestazioni della sera di martedì 9 invece in moltə si sentono più liberə di condividerlo e commentarlo. Da quando è in carica il governo Meloni per la prima volta si ha la netta sensazione di riuscire a ritrovare in piazza una ampiezza di soggettività che va ben oltre la cerchia dei gruppi organizzati. Va detto e va ripetuto, il movimento transfemminista, anche nei duri anni della pandemia, non ha mai smesso di continuare a creare maree in occasione di momenti come l’8 marzo, il 25 novembre o a seguito di tremendi episodi di violenza di genere e femminicidi. È sempre stato molto più complesso riuscire a raggiungere paragonabili mobilitazioni su altre tematiche anche gravi e urgenti. Sono innumerevoli le ragioni di questa difficoltà che prosegue quanto meno dalla pandemia e le motivazioni sono varie e complesse, e forse difficili da comprendere. Potrebbe essere  utile, invece, comprendere le ragioni della eccedenza di mobilitazione davanti alla quale ci troviamo, una eccedenza da preservare e sostenere. Le mobilitazioni di Genova per la partenza della Global sumud flotilla e di Venezia durante il festival del cinema sono state evidentemente dei cortei di massa con una partecipazione eccezionale. Il corteo milanese a seguito dello sgombero del Leoncavallo ha continuato a produrre mobilitazione variegata e plurale. La marea notturna di domenica 7 a Roma e le mobilitazioni coordinate in decine di città contemporaneamente, per rispondere all’attacco notturno contro la Global Sumud Flotilla martedì 9 sono state una significativa conferma. > Ci troviamo davanti a momenti di attivazione larghi e orizzontali che riescono > a riempire le piazze in un arco di tempo notevolmente circoscritto. > Intendiamoci, non sono piazze scevre da complessità, ci sono posizionamenti > variegati, e anche problematici, pensiamo semplicemente alla partecipazione di > alcuni  sindaci del PD ai cortei. Ma l’enorme partecipazione ha di fatto preso > il centro della scena, oltrepassando e limitando le strumentalizzazioni > possibili. Nella piazza di Genova hanno partecipato partiti del campo largo e sindacati confederali, ma il messaggio centrale è stato quello dei portuali, circolato in tutta Europa: “Se qualcosa succede alla Flotilla, blocchiamo tutto!”   Un elemento che contraddistingue tutte queste mobilitazioni – che differenziandole rispetto a passate manifestazioni sulla Palestina – è il tentativo di essere marea, ossia ritrovarsi assieme senza bandiere che non siano quella palestinese e senza identità o afferenze partitico-sindacali, cercando linguaggi e slogan inclusivi e radicali al tempo stesso. Non a caso questo è un tratto comune a tutte le chiamate di piazza del movimento transfemminista.  Il secondo fattore caratterizzante è la volontà di difendere i simboli della possibilità di costruire solidarietà vera ed efficace, espressione concreta di quella umanità di cui ci scriveva Vittorio Arrigoni da Gaza quindici anni fa. Si scende in piazza perchè ci si sente un po’ sulla barca anche noi, e vorremmo tuttə partire per Gaza per provare a fermare il genocidio.  Il terzo fattore è dato probabilmente da un senso di saturazione rispetto alla morte e alla violenza che si vive a vari livelli e che la minaccia incombente della guerra in Europa rende insostenibile, una risposta al senso di impotenza che si sente di fronte gli schermi guardando le immagini del genocidio in corso in Palestina senza riuscire a fare nulla. La GSF è la materializzazione concreta di una reazione. La possibilità di parlare di vita, dignità, solidarietà mentre attorno tutto si incupisce, in Italia come all’estero, tra spese militari alle stelle, restrizione dello spazio democratico, arretramento socioculturale e guerra. > Si può pure immaginare che l’accanimento grottesco con cui la destra sta > strumentalizzando l’omicidio di Charlie Kirk – promettendo leggi securitarie > contro la “violenza rossa” –  sia pure spinto da qualche timore che queste > mobilitazioni prendano piede, o, ancora più opportunisticamente, sia il > preambolo di una strategia di repressione a tappeto di scioperi, occupazioni > studentesche o altro che l’autunno possa portare. Il nostro paese negli ultimi anni non ha mai smesso di assistere a piccole o talvolta grandi forme di mobilitazione nei luoghi di lavoro, nei collettivi delle scuole, nelle acampade studentesche, nei comitati a difesa del territorio, nelle associazioni di quartiere. Purtroppo però, spesso le realtà organizzate, presidiando le proprie nicchie, o non hanno intercettato questi contesti o non li hanno attraversati e supportati in forma sufficientemente efficace e rispettosa. Di conseguenza ciclicamente queste mobilitazioni sono tornate nella loro dimensione carsica – anche per la repressione che è sempre in aumento –  senza connettersi ad altri rivoli, senza diventare, appunto, marea. Forse è proprio questa la sfida più grande che ci troviamo di fronte. Riusciranno le realtà organizzate a sostenere, facilitare e allargare le mobilitazioni in corso? Riusciranno a fermare le mosse delle strutture identitarie che invece tendono in queste situazioni a massimizzare il ritorno e il vantaggio solo per la propria organizzazione? Ormai è evidente a tuttə che è necessario fare un passo indietro per farne due avanti, ma farli assieme oppure qualcuno cercherà che il vento giri solo verso la propria vela?  > La sfida è quella di superare il carattere ancora frammentario che > contraddistingue le tante mobilitazioni programmate per l’autunno prossimo. La > sfida è porsi su un livello più alto: organizzare uno sciopero contro la > guerra europeo.  Un primo passo è lo sciopero del 22 settembre. La chiamata, lanciata da USB, sta raccogliendo sostegno e adesione trasversale, e potrebbe essere la prima giornata che si muove nell’ottica del “blocchiamo tutto” lanciato dal CALP di Genova e che risuona con il “Bloquons tout” del 10 settembre francese. Se poi si arrivasse ad una convocazione di sciopero in forma unitaria da parte sindacale, forse allora qualcosa sarebbe cambiato per davvero.  Se saremo all’altezza della sfida, saremo davvero marea, qualcosa di incontenibile e radicale che potrebbe porsi l’ambizione di invertire la rotta e creare un problema reale, tanto al governo fascistoide quanto all’opposizione liberale, totalmente inadeguata rispetto alla gravissima situazione attuale.  La flottilla che salpa da Catania sembra dirci che le sfide vanno raccolte anche quando sono difficili, in alto mare bisogna stare insieme, conoscersi e darsi supporto, sarà in grado l’equipaggio di terra di fare altrettanto? L’immagine di copertina è di Milos Skakal SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Tira un vento nuovo: verso lo sciopero del 22 settembre proviene da DINAMOpress.
Consumo di suolo e diritti eco-sistemici: guarda il nostro videopodcast
Aree verdi, corridoi ecologici, fauna urbana, ripristino e deurbanizzazione.. Questi sono solo alcuni dei temi affrontati nella prima puntata del videopodcast curato da DINAMOpress. La puntata ha visto la partecipazione di Alessandra Valentinelli, del Forum exSnia, e di Stefano Simoni, ricercatore del dipartimento di Urbanistica dell’università La Sapienza, ed è stata presentata da Milos Skakal, della redazione di DINAMOpress. Qual è il ruolo che giocano le aree verdi nel tessuto urbano della città di Roma, e perché è importante preservarle? Questa la domanda che ha guidato la nostra conversazione. Gli spazi non edificati e non cementati sono a tutti gli effetti dei regolatori della temperatura della città, e hanno per questo un ruolo fondamentale nel proteggere la salute della cittadinanza. Le aree verdi sono anche delle oasi dove la fauna e la flora urbane riescono a trovare spazi esistenziali dove poter vivere e riprodursi. La biodiversità, cioè la presenza di tante specie diverse nello stesso territorio, rende più forti gli spazi verdi, perché parassiti e malattie hanno meno possibilità di riprodursi. Al contrario, lì dove il verde è prevalentemente omogeneo, con piante tutte uguali, gli alberi corrono maggiori rischi di ammalarsi e di morire. Per questo i corridoi ecologici, dei veri e propri ponti naturali che collegano le aree urbani con la città, sono fondamentali preparare Roma ai cambiamenti climatici del prossimo futuro. Ma la questione dello spazio verde è collegata anche con il diritto alla città e alle lotte sociali. A causa del suo sviluppo urbano sregolato, le cui logiche sono sempre state più inclini a favorire gli interessi di costruttori e proprietari terrieri, Roma incorpora nel suo perimetro vaste aree verdi, di campagna e agricole. Queste zone non edificate sono state difese dalle lotte dal basso, passate e presenti, che hanno riunito cittadine e cittadini intorno alla difesa di spazi sottratti al cemento. E oggi, di fronte alla crisi climatica, la questioni delle aree verdi e naturali in città è sempre più importante. > Guarda il video e facci sapere cosa ne pensi! Continuiamo la discussione venerdì 19 alle 18.30 a Esc Atelier autogestito. Al primo dibattito “Roma divorata dal cemento” del progetto “Rome for Climate Justice” insieme alle realtà sociali che animano alcune tra le più emblematiche lotte ecologiche della città, tra cui il Comitato Pratone di Torre spaccata, Collettivo No Porto di Fiumicino, Comitato territoriale Parco delle Energie – Lago exSnia e il Coordinamento cittadino Parco di Pietralata. Le iniziative si svolgono nell’ambito del progetto “Rome for Climate Justice”, un’iniziativa promossa da Esc Atelier Autogestito con il contributo della Città metropolitana di Roma Capitale L'articolo Consumo di suolo e diritti eco-sistemici: guarda il nostro videopodcast proviene da DINAMOpress.
Il processo di Budapest
Con la dicitura Processo di Budapest, facciamo riferimento ai diversi procedimenti giudiziari che hanno preso il via in seguito alle contestazioni alle celebrazioni neonaziste in occasione delle cosiddette “Giornate dell’onore”, tra il 9 e l’11 febbraio del 2023. Queste giornate, che ufficialmente celebrano la “resistenza” contro l’Armata Rossa, sono di fatto un insieme di parate e rievocazioni nostalgiche, finanziate direttamente dal governo ungherese, in cui si radunano i partecipanti delle peggiori sigle neonaziste da mezza europa tra cui: Legio Hungaria, Hammerskin, Blood&Honour e Nordic Resistance. Nell’ambito delle contromanifestazioni che si sono tenute in quei giorni sono state denunciate delle aggressioni al alcuni partecipanti ha portato l’11 febbraio 2023  all’arresto a Budapest di Ilaria e due cittadini tedeschi, Tobi e Anna. > Ad oggi ci sono 15 imputati di cui 3 italiani a piede libero e 12 in germania > di cui 2 a piede libero, 8 in varie carceri tedesche e un* in carcare in > Ungheria. Il processo, che in diversi casi ha come perno le dichiarazioni di noti neo-nazisti, ha ben presto acquisito una dimensione europea non solo per effetto del MAE – mandato di arresto europeo – spiccato ai danni delle e degli antifascisti imputati, ma anche per la solerzia delle autorità nazionali dei Paesi coinvolti nel coordinamento della caccia al militante antifascista. Inoltre l’uso del reato associativo ha permesso l’applicazione di lunghissimi periodi di carcerazione preventiva e restrizioni nelle comunicazioni, intercettazioni, pressioni e violenze nei confronti di amici e familiari degli imputati, e accuse che prevedono molti anni di carcere. Difornte a un quadro così complesso e preoccupante la solidarietà deve essere all’altezza di questo apparato repressivo e sempre più si devono moltiplica le azioni di solidarietà e lotta a sostegno dei prigionieri antifa in Ungheria, Germania e ovunque in Europa! ILARIA Dopo 16 mesi di detenzione a Budapest, è stata liberata nel giugno 2024 perché eletta al Parlamento europeo. Il governo ungherese ha chiesto al Parlamento di revocarle l’immunità e la commissione dovrà decidere sul suo caso tra settembre e ottobre. Qualora l’immunità venisse revocata, il processo a suo carico riprenderebbe e Ilaria rischierebbe nuovamente di essere arrestata ed estradata in Ungheria. GABRI È attualmente libero in Italia con divieto di espatrio. Nel marzo del 2024, dopo 3 mesi di domiciliari, la corte d’appello di Milano ha respinto la richiesta di estradizione dell’Ungheria a causa delle condizioni disumane di detenzione nelle carceri magiare. Il suo processo è ripreso insieme a quello per Maja e per ovvi motivi non sta partecipando alle udienze. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: www.instagram.com/comitato_antirep_milano GINO Gino è stato liberato. Al momento si trova  piede libero in attesa che il processo a Budapest riprenda anche per lui. Per tutte le informazioni sul processo la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/liberez_gino/ MAJA Maja è stat* arrestat* a Berlino nel dicembre 2023 e, dopo aver trascorso sei mesi in prigione a Dresda, è stat* illegalmente deportat* in una prigione di Budapest il 27 giugno 2024. Nel luglio 2025, Maja ha intrapreso uno sciopero della fame durato 40 giorni e ora si trova in un ospedale penitenziario a più di 200 km da Budapest, vicino al confine rumeno. A settembre riprenderanno le udienze del processo, per il quale rischia fino a 24 anni di carcere. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/free.maja/ PAUL, NELE, CLARA, ZAID, MORITZ, LUCA, PAULA ED EMMI Il 20 gennaio 2025, sette compagni che erano in fuga da quasi due anni si sono consegnati alle autorità tedesche. A loro si è aggiunta Emmi, che si è consegnata due mesi dopo. Nel maggio 2025, Zaid è stato rilasciato dal carcere poiché è stato incriminato solo dalle autorità ungheresi e non anche da quelle tedesche.  Gli altri sette compagni sono attualmente detenuti nelle carceri di Lipsia, Amburgo, Chemnitz e Bielefeld, in attesa della decisione delle autorità tedesche sulla richiesta di estradizione dell’Ungheria. I loro processi si terranno a Dresda e Düsseldorf (a centinaia di chilometri dal luogo di residenza delle loro famiglie). Sono accusati di far parte di un’organizzazione criminale (articolo 129 del codice penale tedesco) e di tentato omicidio. A causa della loro giovane età, alcuni potrebbero essere processati come minorenni. Zaid, in particolare, rischia di essere estradato in Ungheria, o addirittura deportato in Siria, perché non è cittadino tedesco. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/budapest.soli.duesseldorf/ ANNA  È stata arrestata a Budapest con Ilaria Salis e Tobi nel febbraio 2023. Ora si trova in Germania con alcune restrizioni. Attualmente è sotto processo a Budapest in contumacia. TOBI Tobi è stato arrestato a Budapest nel febbraio 2023 e condannato a 22 mesi di carcere dopo aver accettato il patteggiamento del pubblico ministero. Dopo aver scontato la pena in Ungheria nel dicembre 2024, è tornato in Germania dove è stato immediatamente arrestato di nuovo. È stato poi trasferito nella prigione di Burg in Germania, dove ora dovrà affrontare il processo per il caso Antifa Ost davanti alla Corte regionale superiore di Dresda. Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://www.instagram.com/free.tobi161/ HANNA È stata arrestata nel maggio 2024, prima imprigionata a Norimberga, poi trasferita nella prigione di Monaco. Il suo processo è iniziato nel febbraio 2025 ed è ancora in corso. Il procuratore ha chiesto per lei una pena di un anno, il suo processo dovrebbe concludersi il 15 settembre.  Per tutte le informazioni sul processo e la campagna di solidarietà segui: https://alleantifa.noblogs.org/ PAUL E JOHANN Johann è stato arrestato nel novembre 2024 a Weimar dopo aver trascorso diversi anni in clandestinità. Johann sarà processato davanti alla Corte d’appello regionale di Dresda a partire da questo autunno, insieme ad altri tre detenuti (Paul, Tobias, KW-Thomas/Nanuk) e tre compagni che non sono in carcere.  INIZIATIVE DI SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE In questi anni si sono tenute decine di iniziative a sostegno degli imputati del processo, sia per raccogliere fondi sia per dimostrare azioni di solidarietà concreta e dibatitto sul tema dell’antifascismo. In Germania il movimento di solidarietà per il caso Budapest è iniziato nel febbraio 2023, quando Tobi e Ilaria sono stati arrestati.  Naturalmente, a causa della repressione estremamente dura che gli antifascisti subiscono nel Paese, le manifestazioni contro la repressione non si limitano a singoli casi giudiziari, ma affrontano un contesto più ampio. Alcune delle più grandi manifestazioni contro la repressione si sono svolte durante il Tag X a Lipsia nel 2023, il giorno in cui il tribunale di Dresda ha pronunciato le sentenze di reclusione per gli attivisti di Antifa Ost, e la manifestazione contro la repressione a Jena nel giugno 2025, dove più di 10.000 persone hanno marciato insieme. Regolarmente vengono organizzate manifestazioni davanti alle prigioni dove sono detenuti gli antifascisti. > In Italia fin dall’arresto di Ilaria ci sono state manifestazioni e iniziative > che si sono intensificate soprattutto a partire da gennaio 2024 con > l’organizzazione di giornate di mobilitazione a Milano che sono iniziate con > il corteo nazionale Free All Antifas del 13 gennaio per concludersi con la > revoca dell’estradizione per Gabri nel mese di febbraio. Per tutto l’anno si sono poi sviluppate inizative di approfndimento e benefit fino all’arresto di Gino a Parigi a dicembre che ha visto iniziative coordinate in Francia e in Italia per opporsi alla richiesta di estrazizione in Ungheria. In Francia si è assistito a una grande mobilitazione dal basso che ha coinvolto personaggi della società civile insieme a collettivi, spazi sociali e squadre di sport popolare in una campagna di pressione sulle autorità che ha portato proprio alla negazione dell’estradizione di Gino. In Italia ricordiamo inoltre il corteo Free All Antifas dell’1 marzo 2025 e le successive mobilitazioni per l’anniversario di Dax che hanno declinato il motto Antifascismo è Anticapitalismo anche attraverso la solidarietà agli imputati e ospitando durante l’assemblea internazionale gli interventi dei comitati da Francia e Germania. CAMPAGNA DI RACCOLTA FONDI La solidarietà ha bisogno anche di impegno concreto, per questo la campagna di raccolta fondi ha pagato gli avvocati.e, viaggi di parenti e amici .he e sostegno diretto ai prigionieri con le donazioni raccolte tramite decine di benefit, un corwfoundig ospitato da Produzioni dal Basso e le vendite del fumetto Questa Notte Non Sarà Breve di Zerocalcare. Tuttavia non si è ancora concluso il primo grado di giudizio e le pene previste sono molto alte, è importante continuare a sostenere la cassa nei mesi a venire! L’associazione Brigate di Solidarietà ha creato un conto dedicato esclusivo per questa causa ed è possibile effettuare donazioni tramite bonifico o pagamento su PayPal. IBAN: IT20Z0623001616000015293082 Beneficiario: Brigate Volontarie per l’Emergenza ODV Paypal: https://www.paypal.com/paypalme/brigatevolontarie Per restare aggiornati sul processo e sulle azioni di solidarietà seguia la Campagna Free All Antifas – Italy Sito: https://freeallantifas.noblogs.org/  Canale telegram: http://t.me/freeallantifas Comitato Antirepressione Milano: www.instagram.com/comitato_antirep_milano/ Mail: freeallantifasitaly@inventati.org Budapest Antifascist Solidarity Committee (in tedesco) Sito: https://www.basc.news/  Instagram https://www.instagram.com/freebudapesttwo/ Questa mappa è stata presentata il 5 settembre 2025 in contemporanea al festival Renoize – in ricordo dell’omicidio di Renato Biagetti (Roma) e al COA T28 (Milano)- in occasione dell’assemblea pubblica cittadina e della cena benefit per il processo. Immagine di copertina di Budapest Antifascist Solidarity Committee L'articolo Il processo di Budapest proviene da DINAMOpress.
Narco-stato e fascismo criminale in Messico
Ciao a tutt*, siamo qui a dare la nostra parola come collettivo internazionalista Nodo Solidale, un piccolo gruppo di militanti con un sogno rivoluzionario, piantato su due sponde dell’oceano, una in Messico e l’altra in Italia. Partendo dalla nostra umile e specifica esperienza politica, speriamo di stimolare e nutrire il dibattito, necessario, che ci propone questa meravigliosa realtà che ringraziamo e di cui ci sentiamo parte. Perché Renoize è la memoria viva di Renato, idea e pratica mai sopita di antifascismo comunitario che ancora ci unisce in questa città sempre più delirante e difficile. Come molt* già sanno, per il nostro collettivo esserci oggi è una questione d’infinito, inesauribile, amore ribelle.  Come bianchx europex che attraversano, vivono, amano e si riconoscono complici di quel Messico “dal basso”, ribelle e resistente, proveremo a tradurre in questo intervento ciò che osserviamo da circa vent’anni, citando talvolta i nostri stessi contributi su nodosolidale.noblogs.org Il tema che ci convoca è la guerra contro l’umanità che stiamo vivendo. Ormai sappiamo che le guerre servono all’autocrazia mondiale – passatecelo come concetto critico e metaforico – per «distruggere e spopolare» per poi «riordinare e ripopolare i territori» secondo gli interessi di un unico vincitore: il capitale. È questa la formula coniata dagli e dalle zapatiste dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) per leggere la «Quarta guerra mondiale». “Quarta” perché durante quella che fu definita “Guerra fredda” si sono combattutte più di un centinaio di guerre in tutto il pianeta, insomma di freddo c’era poco… La guerra globale permanente che sta combattendo il capitale globale contro l’umanità.  Il genocidio in Palestina preparato da anni di occupazione, assedi e attacchi sistematici al popolo palestinese, ne è tragicamente la dimostrazione più feroce e palese. «L’atto finale del colonialismo bianco», così lo definisce il giornalista Bellingausen. Come scrive Rita Laura Segato, ci sono massacri che non si limitano allo sterminio fisico: colpiscono la trama stessa del vivente. Non si uccidono soltanto corpi: si spezzano genealogie, si interrompono legami, si devastano comunità. È un femminicidio mondiale, dove ciò che è relazionale, ciò che custodisce e protegge la vita, viene ferito al cuore, proprio perché la vita è l’antitesi del capitalismo. Accade oggi in molte parti del mondo quello che giustamente qui chiamate «regime di guerra». E non si tratta soltanto del cosiddetto «modello Orbán“ delle destre: anche governi che si proclamano progressisti riproducono, con maschere nuove e un lessico più seducente per le masse, le stesse logiche di dominio e sfruttamento del capitale globale. In questo senso, il Messico e la guerra non dichiarata che vi si consuma, rappresentano oggi un laboratorio “anomalo” di potere e sfruttamento, un esempio drammatico che non possiamo ignorare e che vorremmo provare a inquadrare insieme. LA QUARTA TRASFORMAZIONE Citiamo ancora l’EZLN che, in uno dei suoi comunicati più recenti ha descritto il pianeta come un unico e grande latifondo: i padroni sono le grandi imprese multinazionali, mentre i governi non sono altro che i caporali che si alternano nella gestione tirannica del pezzo di proprietà loro assegnato. L’alternanza fra i diversi caporali è quella che chiamano democrazia. E  In quest’ ottica, l’arrivo di Morena (Movimiento de REgeneración Nacional) al governo non ha cambiato il sistema, ma soltanto chi lo amministra, il caporale, appunto. In Messico, dopo due sconfitte elettorali, Andrés Manuel López Obrador decise di abbandonare il PRD e fondare appunto Morena, un nuovo movimento che si presentava come voce della sinistra popolare e alternativa al sistema dei partiti tradizionali: un partito costruito intorno alla sua figura, più che su un progetto collettivo. Nel 2018, al terzo tentativo, ha conquistato la presidenza con un consenso senza precedenti, presentandosi come paladino della “Quarta trasformazione” del Paese, dopo l’Indipendenza (1810-’21), la Riforma liberale (1867) e la Rivoluzione Messicana (1910-’17). > Al posto di una vera democratizzazione si è consolidato invece un potere > personalistico, con programmi sociali più utili al consenso che alla giustizia > strutturale. La militarizzazione della sicurezza è proseguita, smentendo gli > impegni iniziali, mentre le politiche economiche hanno favorito le pratiche > estrattiviste. Nel 2024 Claudia Sheinbaum è diventata la prima donna presidenta del Messico, ma la sua elezione è stata solo un sigillo di continuità con il governo precedente. Sul piano sociale, a livello micro-economico, si è tentata una ridistribuzione dei redditi, soprattutto nelle campagne e nelle zone più povere del Paese, attraverso numerosi programmi puramente assistenzialistici. Questi interventi, infatti, pur alleviando un po’ le difficoltà immediate di sopravvivenza, restano privi di una reale prospettiva di cambiamento strutturale delle vite e spesso sono stati utilizzati in chiave controinsorgente: per cooptare, comprare le coscienze e indebolire le lotte sociali e i movimenti popolari, soprattutto quelli autonomi.  A livello macro-economico, i governi progressisti di López Obrador e Claudia Sheinbaum hanno invece continuato e, in certi casi, approfondito il solco delle politiche neoliberali imposte dal Fondo Monetario Internazionale e da organismi finanziari continentali come il Banco de Desarrollo Interamericano. In questo contesto, il Messico si presenta come nuova potenza regionale “latina”, sia culturalmente che politicamente, ma il suo rapporto di sudditanza con gli Stati Uniti resta invariato: la dipendenza economica e politica limita le possibilità di indipendenza e di trasformazione reale, consolidando invece il modello di sviluppo orientato al mercato e alle élite transnazionali più che ai bisogni della popolazione.  Foto Nodo Solidale I MEGA-PROGETTI E IL MODELLO ESTRATTIVISTA Il progetto trentennale di riordino strutturale e geostrategico, noto come Plan Puebla-Panamá, ostacolato storicamente dalle resistenze locali, trova oggi nuova linfa con i governi progressisti messicani. In Messico l’estrattivismo resta il vero motore dell’economia, con i settori minerario, petrolifero e forestale che servono principalmente a garantire profitti alle grandi imprese, calpestando i diritti delle comunità locali. I governi recenti hanno puntato a rafforzare la Comisión Federal de Electricidad (CFE) come strumento di sovranità nazionale, ma al contempo hanno aperto sempre più spazi alle grandi imprese e investitori esteri, che continuano a esercitare un’influenza decisiva. Nel 2025 il governo di Sheinbaum vanta il record di investimenti stranieri: 36 miliardi di dollari. I progetti di energia rinnovabile, spesso promossi come sostenibili, convivono con centrali fossili e idroelettriche ad alto impatto sociale e ambientale, che espropriano terre e risorse delle comunità locali. Progetti energetici come la raffineria di Dos Bocas a Tabasco non mirano tanto allo sviluppo interno, quanto a fornire energia agli Stati Uniti, rafforzando un modello di subordinazione economica e geopolitica.  Così sviluppo, estrattivismo e controllo politico si intrecciano, trasformando risorse naturali e territori in spazi di messa a valore, mentre le popolazioni locali pagano il prezzo ambientale e sociale.  Progetti come il Tren Maya rappresentano uno specchietto per le allodole: presentati come iniziative di sviluppo turistico e valorizzazione culturale, dietro il marketing verde e sostenibile si nasconde un impatto ambientale e sociale devastanti. La costruzione della ferrovia attraversa ecosistemi fragili, distruggendo porzioni significative di selva maya e habitat naturali, mettendo a rischio specie animali e piante endemiche. Allo stesso tempo, le comunità indigene e rurali lungo il percorso subiscono espropri, pressione economica e marginalizzazione, senza ricevere veri benefici dal progetto. Su quei binari viaggiano soprattutto merci, mentre il turismo promesso risponde agli interessi delle grandi imprese e degli investitori, riducendo territori ricchi di biodiversità a semplici scenografie per flussi rapidi e superficiali. Così, il Tren Maya diventa un altro esempio di come il discorso di sviluppo sostenibile possa mascherare pratiche estrattiviste, neoliberali e di sfruttamento dei territori e delle popolazioni locali.  Il Corredor Transístmico rappresenta uno dei progetti infrastrutturali più ambiziosi di questi governi progressisti. Attraversando l’istmo di Tehuantepec, collega l’Oceano Pacifico con l’Atlantico, posizionando il paese come alternativa commerciale strategica al canale di Panama. Il progetto integra porti, ferrovie, strade e zone industriali in un corridoio che trasforma radicalmente il territorio: vaste aree rurali e indigene sono espropriate, gli ecosistemi fragili vengono travolti dalla linea ferroviaria di altà velocità e il paesaggio naturale riscritto per accogliere infrastrutture logistiche e attività produttive intensive. Dal punto di vista logistico, il corridoio accelera in maniera vertiginosa i flussi di merci, materie prime e persino turisti, integrando il Messico in catene globali di commercio e consolidando la sua funzione di hub regionale a beneficio delle élite e del capitale internazionale.  Non si tratta solo di Grandi Opere o Mega-progetti, ma di dispositivi geopolitici di controllo su territorio e popolazione. La trasformazione non è mai neutra: diventa accumulazione capitalistica e controllo sociale, mentre i benefici restano simbolici o concentrati in poche mani. I mega-progetti messicani mostrano così il volto reale di uno sviluppo estrattivista e politicizzato, dove tutto è subordinato a profitto e potere. UN’IMMENSA FRONTIERA Nella logica violenta del riordino territoriale rientra naturalmente anche la gestione delle frontiere. Il Messico, sotto la pressione costante degli Stati Uniti, continua, per esempio, ad applicare il Plan Frontera Sur, rilanciato e inasprito nel 2024 con nuovi fondi statunitensi, droni di sorveglianza e pattugliamenti congiunti. L’obiettivo dichiarato: contenere le migrazioni prima che arrivino al confine nordamericano. L’obiettivo reale: esternalizzare il confine USA fino al Guatemala, trasformando tutto il Messico in una immensa zona di frontiera. Mentre il governo federale stringe accordi con Washington per contenere il flusso migratorio, intere regioni diventano zone cuscinetto, dove la migrazione è gestita come una minaccia militare invece che come una crisi umanitaria. Il dramma migrante in Messico, infatti, non è solo il risultato di rotte pericolose o confini militarizzati, ma è il frutto di un sistema che trasforma la mobilità umana in problema di sicurezza. La migrazione viene gestita come minaccia, mentre chi fugge da fame, violenza o disastri climatici si trova intrappolato tra politiche repressive, gruppi criminali e frontiere invisibili che segnano territori e corpi. Centri di detenzione, pattugliamenti, accordi internazionali con gli Stati Uniti e controllo tecnologico del territorio rendono ogni passo del cammino un percorso di costante rischio, mentre i diritti fondamentali vengono negati e la dignità calpestata. I dati ufficiali parlano di un flusso verso il nord di circa un milione e mezzo di migranti all’anno, ma solo nel 2024 questo governo di “sinistra” ha dichiarato di averne arrestati 925.000. > Circa 9.000 le denuncie di migranti desaparecid@s, scomparsi, numero > nettamente inferiore alla realtà, perché ovviamente è estremamente complicato > per i familiari di un altro Paese realizzare la pratica della denuncia in > Messico.  La presenza dei cartelli del narcotraffico, poi, lungo le rotte migratorie di Chiapas, Oaxaca, Veracruz, Tabasco, con percorsi secondari in Guerrero e Campeche, si intensifica sempre di più: sequestri per estorsione, stupri a fini di tratta e reclutamento forzato. Desaparecid@s in tutto il Paese. I migranti sono costretti a lavorare come sicari o come braccianti nei campi di oppiacei o nei laboratori di metanfetamina, mentre le donne sono trascinate nel girone infernale della prostituzione forzata e della tratta. La frontiera non è una linea: è una trappola, un labirinto di checkpoint, milizie, sequestri, fosse comuni e omertà che pervade il Paese. La migrazione diventa così un altro laboratorio di sfruttamento, esclusione e violenza, dove lo Stato, le mafie e gli interessi geopolitici definiscono chi usare, chi può sopravvivere, chi deve arretrare e chi scompare nell’oblio di rotte invisibili.  Per anni la frontiera nord del Messico è stata il simbolo del dramma, con il muro che separava famiglie, sogni, vita e morte. Ma anche al sud la violenza era già presente e oggi si è moltiplicata, trasformando intere regioni in teatri di guerra silenziosa. Nord e Sud sono ormai scenari di un conflitto che colpisce migranti e comunità locali, lasciando dietro di sé terre devastate e vite spezzate: una narco-dittatura, feroce forma di fascismo criminale in America Latina. Foto Nodo Solidale NARCO-STATO: FRAMMENTARE, IMPAURIRE, SORVEGLIARE E PUNIRE  Insomma, questa politica del riordino territoriale che “distrugge e spopola” per “ricostruire e ripopolare” che è tipica del capitalismo estrattivista globale, si innesta anche in Messico e lo fa su di un elemento nazionalista: l’uso della forza dello Stato non solo come strumento di controllo ma anche di gestione economica. Gli appalti per le grandi opere vengono assegnati alle imprese costruttrici tramite la SEDENA (Secretaría de Defensa Nacional, il ministero della Difesa) e custoditi dalle forze militari grazie a un decreto che definisce questi mega-progetti «territori di rilevanza strategica nazionale». Con gli ultimi due governi progressisti, l’Esercito messicano ha rafforzato il proprio peso politico, assumendo funzioni civili e di polizia, fino all’incorporazione nel 2024 della Guardia Nacional nella SEDENA. Ispirata al modello dei Carabinieri italiani, la Guardia è nata nel 2019 come corpo militarizzato alternativo alla corrotta Policia Federal. Oggi conta 130.000 agenti, assorbiti dalle Forze Armate e dispiegati in tutto il paese. In particolare, sono concentrati lungo la frontiera sud e in quei luoghi considerati strategici per l’economia nazionale, fungendo sia da barriera per respingere i migranti in arrivo dal Centroamerica, sia da protezione del capitale investito nelle grandi opere e nelle attività estrattiviste.  In definitiva, è una mercificazione capitalista dei territori, sostenuta e difesa dal braccio armato dello Stato: l’Esercito federale. Un’alleanza potente e spaventosa, soprattutto quando è risaputo – e dimostrato – che in Messico le forze armate sono complici e socie dei consorzi criminali, specialmente dello storico cartello di Sinaloa. Al di là della rappresentazione simbolica che spoliticizza i “narcos” – o addirittura li rende accattivanti attraverso serie tv e film –, infatti, crediamo che il fenomeno vada letto come una forma di organizzazione specifica dell’economia capitalistica neoliberale e globalizzata. Ci azzardiamo a dire che in molte parti del mondo l’economia criminale sta penetrando nelle relazioni economiche come un vero e proprio modo di produzione capitalistico, un modo assolutamente violento, quindi “fascista” in senso ampio. Non è una peculiarità esclusiva del Messico o dell’America Latina, basti pensare alle mafie europee, come quella russa, alle organizzazioni camorristiche e ‘ndranghetiste in Italia capaci di muovere capitali globali, alle “scam cities” asiatiche, alle triadi cinesi, alla Yakuza giapponese o ai cartelli africani legati ai traffici di materie prime e migranti.  > Se il profitto economico è il principio cardine della politica contemporanea, > il crimine organizzato è l’attore perfetto della distopia capitalista: si > presenta come un imprenditore dotato di capitali inesauribili, capaci di > scorrere dai mercati sommersi a quelli formali, contaminandoli. Le sue fonti di ricchezza sono le più estreme forme di mercificazione: i corpi (con il traffico di organi, la prostituzione, lo sfruttamento dei migranti), le armi, le droghe e tutto ciò che può generare valore di scambio. La mano d’opera quasi schiavizzata, tra precarietà assoluta e negazione di ogni diritto lavorativo, permette inoltre l’immpennata della curva del plusvalore, accelerando l’accumulazione di ricchezza. Oltre a questa presenza attiva nel mercato, il crimine organizzato, che nei fatti si fa socio della classe politica che corrompe e protegge, rappresenta anche il “nemico perfetto” nel discorso pubblico dei governi perché si consolida come il pretesto inoppugnabile per incentivare le spese militari, estendere la militarizzazione, aumentare gli effettivi di polizia, affinare le forme di tecno-controllo sulla popolazione, che, di fronte alla reale e spietata violenza di questi consorzi mafiosi, spesso applaude addirittura le politiche securitarie e repressive.  Così che l’applauso del popolo e la narrativa delle istituzioni distolgono l’attenzione da un fatto socialmente comprovato: il crimine organizzato è parte viva e integrante tanto dell’apparato economico, amministrativo e repressivo come del suo tessuto sociale. È un elemento fondamentale e attivo dell’economia attuale di un Paese come il Messico, solo per rimanere nell’esempio di cui stiamo parlando. È una struttura fluida e diffusa che pervade imprese e istituzioni.  Infine il crimine organizzato offre allo Stato la possibilità di una repressione in “outsorcing”: fuori dai corpi armati ufficiali del potere, le bande di criminali diventano, infatti, i mercenari e i paramilitari contemporanei che, mentre generano terrore nella popolazione per sottometterla alle proprie necessità economiche, eliminano selettivamente chiunque si opponga o denunci queste convivenze criminali. Giornalist*, compagn*, attivist* sociali, ambientalisti, madres buscadoras, leader indigeni o comunitari, vengono tutt* falciati dalle smitragliate dei “narcos” o fatti sparire, mentre i governi, anche quelli progressisti, se ne lavano le mani, giocando ad accusare la criminalità “narco” di questi tristi, interminabili e sempre impuniti delitti. > In Messico, questa guerra invisibile e “democratica” va avanti dal 2006, dalla > cosiddetta “guerra al narcos” di Felipe Calderón fino al 2025, ha già prodotto > 532.609 morti, di cui almeno 250.000 sotto i governi progressisti di López > Obrador e Sheinbaum. Parallelamente, 123.808 persone > risultano desaparecidas (dato ufficiale al 13 marzo 2025), quasi 50.000 negli > ultimi sei anni. La tragedia avviata dalle destre non si è fermata con il progressismo: si è moltiplicata. Tutti i governi, senza distinzione ideologica, hanno le mani sporche di sangue. È da più di quindici anni che, come collettivo, ci uniamo a quella parte della società civile organizzata che denuncia questa guerra negata, manipolata o romanticizzata, per esempio, lo ripetiamo, nelle serie televisive dedicate al narcos. Si tratta invece di una guerra e di un modello eminentemente capitalista, che accumula enormi ricchezze attraverso il traffico di merci, armi e corpi. Quelli dei migranti, delle donne e dei bambini rapiti, dei giovani attratti da offerte di lavoro ingannevoli e arruolati a forza. Corpi torturati, smembrati, sciolti nell’acido, ridotti a niente. È la fabbrica del terrore, la necro-produttività capitalista. La repressione e il terrore, in questo contesto, non sono più diretti solo contro guerriglieri o attivisti, ma diventano una forma di governance flessibile e spietata: un dispositivo che disciplina territori e popolazioni, che difende il capitale e normalizza l’orrore. Questo meccanismo, oltre a reificare e mercificare tutto, persone, corpi, spazi e tempi di vita, ha anche un ruolo ideologico decisivo: spoliticizzare la lotta di classe, trasformare la resistenza in “criminalità”, oscurare il saccheggio dietro la retorica della sicurezza. Si potrebbe pensare, ironicamente, che «almeno non piovono le bombe dal cielo», che il Messico non sia come la Palestina, la Siria, il Kurdistan, il Sudan o l’Ucraina. Eppure il numero delle vittime è paragonabile, a volte persino superiore. Non è una guerra simmetrica tra eserciti, né la classica guerra asimmetrica tra Stato e nemico interno.  Il Messico è quindi il laboratorio di una nuova forma di conflitto: una guerra di frammentazione territoriale. Le aree più colpite sono le periferie rurali e semi-rurali, ma anche città e metropoli subiscono gli effetti di questa guerra fatta di micro-conflitti ad altissima intensità di fuoco, disseminati e invisibili, che devastano la vita civile, condotta da una moltitudine di attori armati come cartelli, paramilitari, bande giovanili, forze speciali di polizia come i Pakales, esercito federale, Guardia Nacional e gruppi di autodifesa più o meno legittimi che si contendono territori e mercati. Ripetiamo: Stato e crimine non sono blocchi contrapposti e monolitici, ma componenti fluidi di un vasto mercato condiviso, dove politici, giudici, militari, narcos e imprenditori si intrecciano in una feroce lotta per risorse, corpi, territori e flussi economici. In Chiapas, dove vari compagn* del nostro collettivo vivono, il sud profondo del Paese, la situazione è esplosiva. Si contano 15,000 “desplazados“, sfollati di intere comunità indigene e contadine costrette ad abbandonare le proprie terre a causa dell’intensificarsi dei conflitti armati, con il cartello di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación che si intrecciano a forze di sicurezza e paramilitari. Solo in questi primi sei mesi del 2025 sono state scoperte 27 fosse comuni clandestine nella zona a ridosso la frontiera. In varie aree, lo Stato si ritira. In altre, convive o subappalta al crimine organizzato la gestione della res publica come l’elezione pilotata dei sindaci (o la loro soppressione), la riscossione delle “tasse” o il pizzo, la gestione delle licenze, l’imposizione di orari di coprifuoco. Altrove, lo Stato reprime. Sparizioni forzate, imboscate e sparatorie in pieno giorno, femminicidi come pratica sistematica, villaggi rasi al suolo e fosse comuni clandestine sono l’orrore quotidiano di questa guerra di frammentazione territoriale, dove ogni metro quadrato del Chiapas sembra ardere per un conflitto diverso, per il moltiplicarsi degli attori armati in gioco. E non si sa mai bene chi è stato, perché il nemico è ovunque, volutamente spoliticizzato, cangiante, feroce. Resta dunque una domanda cruciale: Come ci si scontra con le mafie quando queste governano? Come ci si ribella a un nemico politicamente impalpabile? Non a un esercito in uniforme, ma a una moltitudine camaleontica di imprenditori della violenza, senza regole, senza etica, senza patto sociale. Contro chi dirigere la rabbia sociale? A chi chiedere giustizia? Questa è la potenza terribile del dispositivo: rendere la rivolta quasi impossibile.  Eppure, nonostante tutto, comunità e movimenti continuano a resistere, a costruire autonomia, isole di speranza nel mare infuocato di questa guerra anomala. Nella selva del Chiapas, sulle coste del Pacifico, nelle periferie delle megalopoli, negli assolati deserti del nord decine di collettivi, organizzazioni popolari, comunità indigene costruiscono spazi di speranza, mantenendo una fiammella accesa in questa terribile oscurità… con il sogno di veder bruciare un giorno i palazzi del potere e costruire sulle loro macerie un mondo più umano.  Immagine di copertina di Nodo Solidale, manifestazione a Città del Messico Articolo pubblicato originariamente sul blog Nodo Solidale SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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In Nepal la Gen-Z sta facendo una rivoluzione
Da inizio settimana il Nepal ha cambiato faccia. In molte e molti giovanissimi, con ancora indosso le divise scolastiche, hanno risposto alla chiamata alla mobilitazione della ONG nepalese “Hami Nepal” – Noi siamo il Nepal – a scendere in piazza contro la messa al bando di 26 piattaforme social – tra cui WhatsApp, Facebook, Instagram, YouTube ed X. Una decisione simile venne presa nel novembre 2023, con il temporaneo ban di TikTok e Viber, poi ritirato nell’agosto successivo in seguito all’adeguamento delle piattaforme alle normative sulla privacy nazionali. Con la motivazione ufficiale di tutelare la sicurezza nazionale attraverso il monitoraggio e la regolazione dei contenuti, il governo di Khadga Prasad Sharma Oli, appoggiato dal Partito del Congresso Nepalese e dal Partito Comunista (Unificato Marxista-Leninista), ha approvato la misura di regolazione delle piattaforme. > Il provvedimento impone il blocco delle piattaforme in caso di non adeguamento > alla normativa, configurandosi di fatto come censura. Negli ultimi mesi, gli esponenti del governo sono stati oggetto di serrate critiche su corruzione e crescita delle diseguaglianze nel paese. Gli occhi della popolazione sono stati puntati verso i “Nepo-kids”, nome con cui si fa riferimento ai figli di funzionari, uomini delle istituzioni o uomini d’affari vicini al governo, che ostentano le proprie ricchezze sui social. È proprio sugli stessi social che si sono organizzate le manifestazioni di massa. La comunicazione delle indicazioni generali sulle mobilitazioni su Instagram e il costante monitoraggio degli eventi nelle piazze con conversazioni in tempo reale su Discord, hanno garantito il coordinamento nei cortei. Un diffuso sentimento di ostilità verso la classe dirigente ha fatto sì che la protesta eccedesse le intenzioni pacifiche degli organizzatori. Anil Baniya, membro di Hami Nepal, ha dichiarato ad AlJazeera «Durante le prime ore, è andato tutto come previsto, fino a quando alcune forze esterne e militanti di partito si sono uniti alla protesta fronteggiando le forze armate e lanciando pietre». Dai primi jersey divelti da giovani e uomini palestrati, è stata evidente l’incontenibilità del movimento. Le immagini delle giovanissime e dei giovanissimi in uniformi scolastiche che attraversano le barricate intorno ai palazzi istituzionali di Kathmandu, dei fuochi di copertoni agli angoli delle strade, hanno avuto forte presa sull’immaginario, restituendo plasticamente il desiderio di massa di rompere con l’attuale stato di cose esistenti della giovane Repubblica parlamentare nepalese nata nel 2008. Gli eventi della stessa giornata hanno portato alla morte di 19 persone ed oltre 400 feriti; numeri ad oggi saliti a circa 30 morti, e migliaia di feriti. Primo risultato politico delle mobilitazioni sono state le dimissioni del Ministro degli Interni Ramesh Lekhak nella mattinata di lunedì, seguite poi dalla dichiarazione del Ministro delle Telecomunicazioni, Prithvi Subba Gurung, di revoca della legge sulla regolazione delle piattaforme. Eventi che hanno dato forza alle mobilitazioni: come riportato da un inviato di TheWire sul campo, le e i manifestanti «non vogliono dare una lezione al governo, vogliono che se ne vadano tutti». > I messaggi di rottura scanditi nelle piazze si alimentano di un immaginario > che unisce l’iconografia piratesca di One Piece — con bandiere raffiguranti il > Jolly Roger dal cappello di paglia, già simbolo di rivolte in Indonesia — a un > repertorio di tattiche prese in prestito dai recenti movimenti anti-sistemici > in Bangladesh e Sri Lanka. Nel secondo giorno le proteste sono aumentate con ancor più decisione, portando alle dimissioni del primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli e di componenti del suo governo. Sorte peggiore è toccata al Ministro delle Finanze, Bishnu Paudel, alla Ministra degli Esteri, Arzu Rana Deuba, e a suo marito, l’ex primo Ministro Sher Bahadur Deuba: sono stati picchiati in pubblica piazza davanti alle telecamere. Numerosi altri ministri e parlamentari sono stati recuperati dagli elicotteri dell’esercito, unico mezzo a disposizione per sfuggire dalla furia della folla. Al termine dei primi due giorni di rivolta, è il dato simbolico a restituire la portata degli eventi: con i palazzi del potere esecutivo, legislativo e giudiziario dati alle fiamme sembra essere imminente l’alba di un nuovo stato di cose esistenti. Assieme a questi, sono stati dati alle fiamme gli uffici centrali del partito del Congresso nepalese, residenze private di primi ministri, ministri ed ex-ministri, centri di affari, hotel di lusso, ed interi complessi ministeriali. Con il palazzo della Corte Suprema dato alle fiamme, sono sparite decine di migliaia di fascicoli giudiziari ed oltre 7.500 detenuti sono evasi dalle patrie galere. Le violenze di massa hanno portato ad assalti generalizzati alle caserme di polizia ed esercito, tanto da portare il neonominato Comandante dell’esercito e capo della sicurezza nazionale, Ashokraj Singdel, a dover dichiarare ciò che non è più ovvio in tempi di rivolta: i civili trovati con equipaggiamento dell’esercito o della polizia indosso saranno arrestati. La dichiarazione è stata già presa come una sfida dalle e dai manifestanti, che sui social postano foto con fucili o attrezzature dell’esercito. LE RAGIONI DELLA PROTESTA La mobilitazione ha dato libero sfogo all’insoddisfazione popolare contro il governo, reo non solo di provare a censurare le critiche sui social, ma anche di essere fortemente corrotto, incapace di garantire un deciso sviluppo al Paese e sanare le diseguaglianze. Dopo le prime violenze della polizia, il programma di minima del movimento Gen-Z ha fissato alcune richieste non negoziabili: dissoluzione del Parlamento, dimissioni di massa dei parlamentari, sospensione immediata degli ufficiali che hanno dato l’ordine di aprire il fuoco contro i manifestanti, e programmazione di nuove elezioni. La percezione dell’alta corruzione in Nepal trova conferma nei dati di Transparency International: nell’Indice del 2024, il Paese si classifica 107esimo su 180 a livello mondiale. Il sentimento di insoddisfazione si rinforza nel tam-tam social di pagine Instagram sulle immagini delle ville di ministri, funzionari di governo ed ex parlamentari; nei video delle e dei manifestanti che lanciano in aria i soldi appena presi da residenze di uomini di governo o da uffici di partito. Altrettanto critiche sono le diseguaglianze. Nel Paese himalayano martoriato dai disastri naturali, le diseguaglianze mostrano l’incapacità delle istituzioni ad attuare una traiettoria di sviluppo per le masse. > Con un reddito pro-capite di 1.400 dollari l’anno ed un tasso di > disoccupazione pari al 20%, il Nepal è il Paese più povero della regione sud > asiatica. Altrettanto preoccupante è l’esodo di massa dal Paese: sono oltre 1,4 milioni le e i nepalesi all’estero per ragioni economiche registrati nel 2023, a cui vanno aggiunti parte degli 839.266 richiedenti permessi di lavoro in uscita dell’anno fiscale 2024/25. Ad oggi si stima che il 7,5% dei nepalesi, migranti lavoratrici/lavoratori e non, viva all’estero. Le rimesse da loro inviate ai familiari in Nepal costituiscono il 33,1% del PIL e risultano essenziali per il mantenimento dei conti pubblici dello Stato. I numeri della diaspora parlano indirettamente degli effetti collaterali del ban delle piattaforme social. Con famiglie ed affetti divisi da migliaia di kilometri di distanza, queste app sono tra i pochi mezzi di comunicazione a disposizione per restare in contatto con i propri cari, per sentirsi ancora parte di una comunità che si è dovuto abbandonare per assicurarsi un futuro migliore. Tutto questo in un Paese fortemente diseguale dove «Il 10% più ricco dei nuclei familiari possiede oltre il 40% dei terreni, mentre un’ampia quota della popolazione rurale povera è senza terra o, potremmo dire, quasi senza terra», e non ha accesso a un’educazione di qualità, e dove lavori o redditi alti sono scranno delle stesse élite spesso colluse con esponenti di governo. Diseguaglianze fortemente amplificate dai social. Oltre il 90% delle e degli abitanti li utilizza, e proprio su queste piattaforme l’ostentazione della ricchezza è diventata un potente catalizzatore di odio di classe. DUBBI SULLA TRANSIZIONE, PROTAGONISTI ED ESITO FINALE Mercoledì, nel terzo giorno della rivoluzione della Gen-Z, iniziano a presentarsi le prime scelte difficili del movimento: quali direzioni deve intraprendere il movimento rivoluzionario? Chi decide per esso? Domande a cui ha iniziato a rispondere la stampa locale, individuando dei primi referenti in Sudan Gurung – a capo della ONG Hami Nepal –, Balendra Shah – trentacinquenne sindaco di Kathmandu, ex-rapper molto popolare tra i giovani –, e, in minor parte, Rabi Lamichhane – leader del partito centrista Rashtriya Swatantra Party, quarta forza politica nepalese, ex vice-ministro, ed ex conduttore televisivo – fino a martedì in carcere con accuse di frode fiscale. Seppur non in linea con l’età media del Paese, di 25 anni, i personaggi indicati come potenziali nuovi leader sono molto più giovani dell’attuale classe dirigente nepalese, abbondantemente sopra i settant’anni d’età. > Ancorati ad una vecchia visione del mondo e responsabili di aver affossato la > recente rivoluzione anti-monarchica in nome dei propri interessi personali, i > governanti appena scacciati rappresentano un vecchio mondo di cui la > popolazione non ha memoria. Anche per questo sono molteplici i dubbi che arrivano sulla transizione tra il vecchio ordine ed il nuovo assetto post-rivoluzionario. Dubbi sedati mercoledì, con la nomina condivisa da militari e manifestanti di Sushila Karki, settantatreenne ex presidente della Corte Suprema nota per il suo approccio integerrimo, come prima ministra nominata per guidare la transizione di potere. La proposta della nomina di Karki è arrivata durante un incontro partecipato da migliaia di persone sulla piattaforma Discord, dove dopo una lunga discussione, è emerso il nome dell’ex presidente della Corte Suprema. Con i dubbi sempre meno pressanti di passaggio dei poteri ai vertici militari, Khadga Prasad Sharma Oli disperso, e le rassicurazioni di gran parte del movimento Gen-Z di rifiutare pratiche violente, la transizione pacifica sembra poter essere possibile. La soluzione trovata da movimento e giunta militare sembra poter essere adeguata all’assetto istituzionale nepalese. La nomina di Karki, inizialmente ad interim, dovrà incassare in un secondo momento la fiducia attraverso il voto favorevole della maggioranza dei membri dell’assemblea legislativa. Sarà interessante osservare gli esiti del voto in un Parlamento dove non vi è alcuna presenza di membri della Gen-Z. RIVOLUZIONE O RESTAURAZIONE MONARCHICA? Tra i dubbi che più insidiano la transizione di poteri c’è il risorto revanscismo pro-monarchico. Cresce il numero dei sostenitori del vecchio ordine monarchico rappresentato dal Re Gyanendra Bir Bikram Shah, già protagonisti di numerose manifestazioni di piazza tra la fine di maggio e l’inizio di giugno. Gyanendra è l’ultimo discendente al trono e unico superstite del massacro reale in cui dieci membri della famiglia reale si ammazzarono nella notte del 1 giugno 2001 per accaparrarsi la guida del Paese. La sua famiglia ha unificato i reami del Nepal nel 1768, ed ha governato il Paese fino al 2008, anno in cui dopo dieci anni di serrata lotta armata, le fazioni guidate dai maoisti deposero il governo dispotico di Gyanendra istituendo la Repubblica del Nepal. La Costituzione repubblicana arrivò sette anni dopo. I 10.000 che il 29 maggio accolsero Gyanendra a Kathmandu, giunto per un tour nella parte occidentale del paese, non furono un evento di colore, ma un segnale che il vento politico stava cambiando. Gli scontri sanguinosi di quei giorni sono altrettanto rappresentativi del revanscismo presente e della forte conflittualità politica. Dall’accoglienza trionfale alle manifestazioni esplicitamente pro-monarchiche il passo è stato breve. Gli slogan pronunciati proprio il 29 maggio dalla folla «Liberate il palazzo reale per il Re. Torna, Re, salva il Paese. Lunga vita al nostro amato Re. Vogliamo la monarchia», si sono trasformati in manifestazioni pro-monarchiche a Kathmandu il 12 giugno. A muovere questo sentimento popolare, al momento non di massa, sono il sentore di stabilità politica sotto l’egida del Re, ed il rampante nazionalismo hindu; se della stabilità monarchica non ci si sorprende troppo, anche grazie ai 14 governi succedutisi in soli 17 anni di Repubblica, sulle seconde ragioni occorre allargare lo sguardo dalla monarchia nepalese alle fazioni nazionaliste hindu indiane. > Un primo indizio sulle traiettorie del nazionalismo hindu filo-monarchico > nepalese è dato dalle icone portate dai monarchici in piazza. Non è raro vedere nelle piazze di questi i quadri di Yogi Adityanath, santone, governatore dell’Uttar Pradesh in quota Bharatiya Janata Party e capo della milizia armata Hindu Yuva Vahini, portato in spalla dai manifestanti. A unire monarchi e Adityanath, è l’intenzione di istituire l’Hindu Rashtra, ovvero uno Stato dove identità, cittadinanza, e leggi sono fondati sui principi e valori della cultura hinduista. Tra i mezzi politici utilizzati per fomentare l’hindu-nazionalismo nel Nepal, Paese a prevalenza di popolazione di fede hinduista, il partito Rashtriya Prajatantra Party, associazioni hindu-nazionaliste socio-culturali parallele a quelle indiane, ed il legame storico-religioso tra il tempio di Gorakhnath Mutt – di cui Adityanath è capo spirituale – e la dinastia reale della famiglia di Gyanendra. Fattori da attenzionare, certo, ma al momento minoritari. In questo momento di transizione, connotato da un’esigenza di rinnovamento, nella forza del movimento Gen-Z espressa nelle piazze e nel metodo assembleare di decisione delle candidature emerge l’insoddisfazione delle masse impoverite da classi politiche predatorie. L’esigenza delle e dei giovani attaccate e attaccati ai telefonini per fare la rivoluzione, per cambiare l’ordine presente resettando universo simbolico istituzionale e adottando un immaginario pirata degno della ciurma di Luffy, è in piena continuità con quella delle masse rivoluzionarie di Bangladesh e Sri Lanka recentemente insorte. Nel Sud Asia la storia è in movimento, il suo domani è ancorato ai desideri delle masse. L’immagine di copertina è di हिमाल सुवेदी, da wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo In Nepal la Gen-Z sta facendo una rivoluzione proviene da DINAMOpress.
Sumud, ora e sempre
Sumud, resilienza un cazzo, resistenza piuttosto, sforzo di perseverare o, come si diceva quando una lingua comune dell’Occidente esprimeva l’impulso rivoluzionario marrano, conatus, per cui ogni cosa in suo esse perseverare conatur, fa valere la sua essenza attuale. La lenta e un po’ scompigliata partenza della Global Sumud Flotilla e il suo avvicinamento contrastato a Gaza segnano un salto di qualità nell’impegno solidale di un movimento internazionale e anticoloniale. Un balzo di scala non solo rispetto alla passività complice dei governi occidentali, in primo luogo di quello italiano, ma anche rispetto a precedenti manifestazioni di piazza, raccolta di aiuti e boicottaggio dei movimenti e dello stesso movimento italiano che solo a luglio aveva raggiunto livelli paragonabili con quelli europei, superando anteriori divisioni e incertezze. Naturalmente la spinta è venuta dal precipitare della situazione sul fronte di Gaza e della Cisgiordania, essendo la politica israeliana sempre più determinata dal ricatto parlamentare delle formazioni più estremiste e dalla spinta sociale dei coloni e delle bande dei “ragazzi delle colline”, feroci e disadattati che fanno da braccio armato sussidiario e provocatorio ai coloni inquadrati nell’esercito e nella polizia di Ben Gvir. La degenerazione profonda di Israele rispetto alle fasi precedenti del colonialismo sionista risulta dalla compattezza del voto parlamentare nel rigetto della soluzione “due popoli due Stati”, che cancella formalmente gli accordi di Oslo e di cui il permanente sostegno elettorale a una maggioranza di estrema destra è soltanto il coronamento. Inoltre, questa maggioranza parlamentare non fa che implementare il passaggio, sancito con atto costituzionale, di Israele da Stato ebraico e democratico (1948) a Stato ebraico (2018). A oggi i processi di radicalizzazione si intensificano, grazie anche allo sfacciato sostegno trumpiano, e si ha l’impressione che, nonostante il succedersi di importanti manifestazioni della società civile israeliana (che peraltro solo in forma minoritaria investono la condizione dei gazawi), tale deriva sia nel breve e medio periodo irreversibile e che si prospetti più una lenta emigrazione degli scontenti che uno scontro aperto fra tendenze. L’immediato futuro è fatto di finte trattative e stragi raddoppiate a Gaza, espropri e annessioni in Cisgiordania, stillicidio di attentati fai-da-te e rappresaglie in Israele, omicidi mirati all’interno e all’estero. di Renato Ferrantini PERCHÉ È UN PASSO DECISO IN AVANTI L’iniziativa della Sumud Flotilla allude per la prima volta, in questa fase, a un’interposizione o comunque a un coinvolgimento internazionale che sarebbe legittimo in caso di attacco piratesco israeliano in mare aperto ma anche lungo le coste di Gaza, che non è superficie acquatica israeliana de iure malgrado l’occupazione illegale de facto. Di ben altro che di tutela diplomatica o consolare si tratterebbe, qualora, come già è cominciato con il drone a Sidi Bou Said, le Idf tramutassero in azioni offensive le minacce di Ben Gvir contro i “terroristi” della Flotilla. La stessa Commissione Ue critica l’iniziativa umanitaria come escalation proprio perché teme di doversi far carico delle spropositate reazioni israeliane che smaschererebbero tutta la politica pilatesca di alcuni Stati e della Commissione del suo complesso. Adesso all’ordine del giorno è una tutela militare della libertà di navigazione nel Mediterraneo da parte degli Stati sovrani rivieraschi e di quelli cui appartengono gli equipaggi. Ma un compito primario spetta al c.d. “equipaggio di terra”, cioè alle forze che sostengono la Flotilla in mare e che hanno già minacciato (come i camalli di Genova) il blocco dei porti in caso di operazioni terroristiche di Israele – ciò vale tanto più per l’Italia, il cui governo, a differenza dalla Spagna, non ha preso nessuna iniziativa di boicottaggio o sanzione e dove quindi si è aperto un problema di supplenza dal basso. > Avremo anche noi nei prossimi giorni un bloquons tout! come in Francia, se la > situazione dovesse precipitare – e tutto lo lascia pensare. LE REAZIONI MEDIATICHE Il disastro di immagine di Israele è stato colto perfino dal suo complice-in-chief Donald Trump e viene ogni giorno amplificato su alcune fogne a cielo aperto della stampa italiana – “Il Foglio”, “Libero” “Il Tempo”, ”Il Riformista” – mentre sempre più circospette sono diventate le Tv nazionali e le pagine molinariane di “Repubblica” (per non parlare dei pensosi silenzi di Paolo Mieli e dei tormenti interiori di Adriano Sofri). La corporazione dei giornalisti ha sentito sulla schiena il brivido dei troppi reporter assassinati e quelli che si finanziano con le vendite e la pubblicità qualche conto se lo saranno pur fatto, visto l’orientamento dell’opinione pubblica. Una bella frotta di ipocriti e di umanisti a scoppio ritardato cerca di issarsi (a parole) sulle navi della Flotilla, ma siano i benvenuti, come ogni omaggio che il vizio concede alla virtù – meglio tardi che mai e ci siamo pure divertiti a vedere quanti, esitando a saltare, sono scivolati in acqua dalla sdrucciolevole banchina… In tenace obbrobrio sopravvive la Sinistra per Israele che abbraccia le ragioni imperscrutabili del colonialismo sionista deplorando al massimo gli eccessi di Netanyahu e Ben Gvir. Perfino in un’area un tempo sovversiva abbiamo anche noi, diciamolo di sfuggita, i nostri “ragazzi delle colline”, invero più miei coetanei che non ragazzi. Poveri coglioni da social che d’inverno scherzavano sul “gelicidio” a Gaza e d’estate invocano gli dei degli uragani per affondare i “croceristi” della Flotilla, ma anche più sofisticati ideologhi che si lanciano in prolisse disquisizioni sulla perfetta composizione di classe dei movimenti sovversivi –  la sempiterna tentazione di insegnare ai gatti ad arrampicarsi. Oppure c’è chi contesta per impotente populismo la stessa indignazione spontanea per i misfatti degli oppressori, come Luca Sofri sul “Il Post”, che se la prende con il movimento pur così significativo e mondiale scaturito dall’opuscolo Indignez-vous del remoto 2011, insensibile perfino al fatto che il suo estensore, il 93-enne pubblicista ebreo Stéphane Hessel, fosse il figlio reale della coppia resa mitica come Jules e Catherine nel film di Truffaut Jules et Jim… di Renato Ferrantini FLUTTUAZIONI PERIODICHE Una volta spiegati i motivi razionali per cui è cresciuta in tutto il mondo l’indignazione e la protesta attiva di massa contro il genocidio israeliano (e perché il termine stesso di “genocidio” sia stato sdoganato, lasciando a combattere nella giungla il solo Galli della Loggia), una volta riconosciuto l’immenso lavoro da formichine che tutte e tutti noi abbiamo fatto – scrivendo, dibattendo sino alla sfinimento con ogni tendenza italiana e palestinese, documentando i soprusi e le uccisioni “sproporzionate”, i massacri e le pratiche di apartheid e pulizia etnica, gestendo le faticose e frustranti manifestazioni che, a differenza delle grandi capitali estere, si allargavano dalle mille alle 10.000 persone (e facevano festa) –, messo in conto l’effetto amplificatore dell’arroganza sionista e dei filo-sionisti, il sostegno controproducente di Trump con la grottesca operazione Riviera di Gaza e la sostituzione stragista e inefficiente della Gaza Humanitarian Foundation alle espulse agenzie Onu, scontato tutto questo e il consenso alla causa palestinese alimentato nel mondo cattolico dai gesti profetici di papa Bergoglio, non ritrattati dal suo successore, resta una domanda: perché proprio ora, quasi tutto d’un colpo, è diventato arduo sul piano morale e mediatico non dirsi pro-Pal e non agitare la bandiera rosso-verde-nera? Con tutti gli opportunisti e gli istrioni al seguito, grazie comunque e ancora. > Una risposta del tutto razionale non c’è, però altre volte ho visto fenomeni > simili, ondate internazionali più o meno estese, più o meno legate a momenti > di crisi sociale ed espressive di interessi di classe. È successo nel 1960 simultaneamente in Italia, Turchia, Giappone e Corea del sud, si è ripetuto su scala planetaria nel 1966 nei campus statunitensi e subito dopo in tutta Europa e in Cina, con lunghi strascichi e rimbalzi negli anni ’70. Abbiamo poi (solo in Italia) il movimento chiamato della Pantera (1989-1990), l’ondata mondiale no global di fine millennio, con gli episodi salienti di Seattle e Genova, e, dopo la dura repressione, ancora una stagione di lotte fra il 2008 e il 2011, che si salda alla fine con gli Indignados, Occupy Wall Street e primavere arabe, e confluisce con una seconda stagione del movimento femminista. Un andamento carsico, di volta in volta con motivazioni precise, con innovazioni strumentali decisive (il ciclostile – angeli inclusi -, le radio libere, il fax, il primo embrionale uso di Internet, Indymedia, i social), successi e sconfitte, e tuttavia resta una zona d’ombra nel capire il quando e il perché, il rapporto fra esplosione e durata, fra cause spesso limitate ed effetti strepitosi, eterogeneità di motivazioni e legame molto fluido con la composizione di classe che risultava invece evidente fra il 1960 e il 1978. Di qui le farneticazioni sulla deriva woke e il rimpianto della limpida struttura classista delle insorgenze novecentesche. Mais où sont les neiges d’antan, ovvero ginocchia, fiato e ormoni di allora? L’unica spiegazione plausibile è un periodico ricambio di generazioni, che riaccendono le lotte cambiandone composizione di genere, aspirazioni e pratiche e smaltendone come scorie nostalgia e reducismo.   Tuttavia la carsicità e l’incertezza sulle cause scatenanti non tolgono il fatto essenziale. Che queste fratture tumultuarie periodiche sono “occasioni” che vanno colte al volo e, per quanto possibile, gestite, sedimentate in soggettività temporanee. Il movimento non può suscitare a piacere le rotture congiunturali, ma si costituisce nella misura in cui riesce ad afferrarle e organizzarle, garantendone tenuta ed efficacia. Ebbene, l’ondata pro-Pal si presenta con questi caratteri di sorpresa e irruenza, accompagnandosi ad altre tematiche conflittuali non direttamente connesse con la lotta anti-imperialistica e anti-coloniale. Basti vedere l’ampiezza che ha preso la difesa dei centri sociali dopo la provocazione milanese sul Leoncavallo. E non dubito che altri episodi ci saranno, con l’imminente riapertura delle scuole e la crisi economica che scuote l’Europa e su cui al momento galleggia la nostra stagnazione. > Tira un buon vento e disporre bene le vele è affar nostro! L’immagine di copertina è di Renato Ferrantini SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Sumud, ora e sempre proviene da DINAMOpress.