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Piccola arringa in difesa della letteratura
UN GRUPPO DI GIOVANI UNIVERSITARI NAZISTI NEL MAGGIO 1933 SACCHEGGIA UNA LIBRERIA. PORTANO IL CAMION SULLA STRADA: VI BUTTANO DENTRO I LIBRI DECLAMANDONE I TITOLI ALLA FOLLA CON ARIA DI SCHERNO. UNO DI QUESTI SI CHIAMA NIE WIEDER KRIEG. MAI PIÙ GUERRA. È LA FOTOGRAFIA DEL MOMENTO ESATTO IN CUI IL NAZISMO SI IMPONE. OGGI SIAMO TORNATI SU QUEL MARCIAPIEDE DI BERLINO, PIÙ O MENO NELLO STESSO INCROCIO DELLA STORIA: L’INTELLIGENZA SI È DISSOCIATA DALLA COSCIENZA E LA COSCIENZA SEMBRA DISINTEGRATA. “MA È QUESTA LA RAGION D’ESSERE DELLA LETTERATURA E DELL’ARTE – DICE FABIO STASSI – IMPEDIRE LA DISINTEGRAZIONE DELLA COSCIENZA, SCRIVEVA ELSA MORANTE… NON SONO I LIBRI A ESSERE PERICOLOSI, SONO I LETTORI. PERCHÉ RAGIONANO CON LA LORO TESTA… È IL LETTORE IL VERO DETECTIVE E IL VERO PROTAGONISTA DELLA LETTERATURA. NON ERA FORSE UN LETTORE DON CHISCIOTTE?… QUEST’ESTATE HO VISTO UNA FOTOGRAFIA: UN GRUPPO DI CURDI, NEL NORD DELLA SIRIA, AVEVANO ACCETTATO LA FINE DELLA LOTTA ARMATA E STAVANO GETTANDO DELLE ARMI IN DEI GRANDI BRACIERI. BRUCIARE LE ARMI, NON I LIBRI. ABBANDONARE L’IDEA DEGLI STATI NAZIONALI. APPARTENERE SOLTANTO ALLA LETTERATURA…” Firenze, quartiere Le Piagge: biblioteca comunitaria “Ridare la parola” (pag. fb) -------------------------------------------------------------------------------- Gentili giurate e giurati, gentilissima corte, non pronuncerò in quest’aula di tribunale un’arringa a sostegno di un libro, ma vorrei sviluppare con voi un breve discorso in difesa della letteratura stessa. Ho una domanda da cui partire: a quale letteratura appartengo, a quale letteratura apparteniamo? È una domanda contundente, esplosa per me durante quel grande rogo esistenziale, storico e politico che è stato la pandemia e che in gran parte la società e i mezzi di informazione hanno cercato di rimuovere. Ma quel rogo ha determinato il presente che stiamo vivendo. In quel periodo, molte cose sono andate a fuoco nella mia vita, e nella vita di tutti. Ho perso alcuni affetti, una certa idea di realtà, un’idea di letteratura. Ho capito che non avrei più potuto scrivere con lo stesso inchiostro di prima. Né leggere, né ricordare. Ma, soprattutto, è andata a fuoco la parola pace, la parola su cui questa parte di mondo, l’Occidente, aveva costruito, a parte la tragedia delle guerre Jugoslave, rimosse anche loro dalla coscienza collettiva, la nostra convivenza per oltre settant’anni. In quei giorni di Berlino del 1933 in cui si bruciavano i libri, a poche ore dal rogo della notte del 10 maggio a Bebelplatz, un gruppo di giovani universitari nazisti saccheggiò la libreria di un piccolo editore liberalpacifista. Portarono il camion sulla strada. Vi buttarono dentro i libri declamandone i titoli alla folla con aria di scherno. Uno di questi si chiamava Nie wieder Krieg. Mai più guerra. Lo tennero con due dita, come un rettile, poi lo gettarono nel mucchio, ridendo forte proprio mentre transitava dall’altro lato del marciapiede una signora ben vestita. La passante si fermò a guardare e alla fine si mise a ridere con loro e a ripetere: mai più guerra, che assurdità! È la fotografia del momento esatto in cui il nazismo si impose. Prima di bruciare quel libro, avevano già bruciato l’idea che conteneva, contagiato a tutti l’assuefazione alla parola guerra e convinto quella signora che passava lì per caso che un mondo costruito sulla pace fosse un’assurdità. Incenerendo anche il libro, volevano cancellarla per sempre, quell’idea: che a nessun altro venisse in mente, leggendolo, una follia del genere. Che nessuno potesse più contestare l’uso dei gas o delle mine antiuomo, delle bombe a grappolo, dei campi di concentramento, dei bombardamenti dall’alto e sui civili, delle bombe atomiche. È un episodio che non riesco a dimenticare. Ora che siamo nuovamente circondati da uomini fatti di carattere e non di libri, come auspicava Goebbels, a Bebelplatz, nell’ora degli inquisitori e delle streghe; ora che altri atti forti e simbolici vengono comunicati al mondo per mostrare le proprie intenzioni; ora che comprendiamo meglio l’affermazione di Alberto Moravia per cui il vero vincitore della Seconda guerra mondiale era stato Adolf Hitler perché la sua idea della soluzione finale si è affermata persino nella mentalità delle sue vittime; ora siamo tornati su quel marciapiede di Berlino, nello stesso incrocio della storia. E come esseri umani, come cittadini, come lettrici e lettori siamo chiamati a una responsabilità. Sta a noi, adesso, prendere posizione. Opporci all’“invasione dell’irrealtà” e provare a restituire l’integrità del reale. Perché forse mai, nella storia dell’umanità, l’uomo ha vissuto in un tempo più irreale e virtuale di quello in cui viviamo noi, un tempo senza più testimoni, in cui l’intelligenza si è dissociata dalla coscienza, e la coscienza si è disintegrata, si è disintegrato il diritto, si è disintegrata la realtà. Ma è questa la ragion d’essere della letteratura e dell’arte. Impedire la disintegrazione della coscienza, scriveva Elsa Morante. Ed è questa la letteratura degenerata, marchiata da un marchio di infamia, a cui appartengo. È la letteratura che ci ha trasmesso l’elogio della libertà, della gioia, della risata, dell’amore, dell’amicizia; il cosmopolitismo mediterraneo e l’utopia di una Costituzione Mondiale; l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antimilitarismo; l’antifascismo radicale; il rifiuto del patriarcato che sta alla base di tutte le dittature. C’è un filo che ci lega ai libri che abbiamo letto. E che li lega tra loro. La letteratura è un’alleanza, una confederazione, una consegna. Ma perché non si spezzi, questo filo, non bisogna stancarsi di riannodarlo, di ritrascrivere la sua lista nera, nome per nome, idea per idea, libro per libro, di ripopolare la biblioteca devastata e poi murata di don Chisciotte. Così, accanto ai nomi degli messi al bando dai nazisti e dai fascisti (Pietro Aretino, Emilio Salgari, Giuseppe Antonio Borgese, Ignazio Silone e Maria Volpi) vorrei aggiungerne altri più recenti, anche se sono soltanto una piccola e incompleta lista: Giuseppe Ungaretti, Emilio Lussu, Primo e Carlo Levi, Elio Vittorini, Alba de Céspedes, Italo Calvino, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Luciano Bianciardi, Gianni Rodari, Carlo Cassola, che fondò la Lega per il disarmo unilaterale dell’Italia, e Aldo Capitini, Danilo Dolci, Goffredo Fofi, Tiziano Terzani, Antonio Tabucchi… Bebelplatz è ormai un luogo simbolico, che si rinnova ogni volta che sono messi a tacere e censurati gli uomini fatti di libri – come noi, in quest’aula -, e altre scrittrici, scrittori, poeti, questi esseri inermi sempre incarcerati nella storia, torturati, fucilati. Per i poeti, la letteratura è “l’unica forma di assicurazione morale di cui la società può disporre”, “l’antidoto permanente alla legge della giungla”. Abita dal lato della devianza e della diversità. Non ammette nessun vincolo con il potere, con nessun potere. È la protesta più intransigente all’ordine omicida del mondo e a ogni forma di nazionalismo e di conformismo. Per questo è sempre stata perseguitata. Così diceva duemila anni fa il portavoce dell’imperatore cinese: chiunque usi la storia – e intendeva la memoria, la fantasia, l’immaginazione – per criticare il presente sarà giustiziato insieme alla sua famiglia. Chissà se avessero letto di più i nostri governanti, se davvero il mondo sarebbe stato un luogo migliore. Non so se si tratta di un’illusione, ma ora che intorno a noi sono tornate a risuonare le stesse parole d’ordine del passato recente e remoto dobbiamo ricordarci che la lettura è un diritto e va difeso e che leggere è un atto politico, un esercizio di responsabilità oltre che di amore. Ma è un diritto che non è garantito dovunque. In molte parti del mondo, in Medio Oriente come in qualche stato d’America, entrare in una biblioteca può essere pericoloso. Ci sono polizie politiche che controllano il registro dei prestiti. Che perquisiscono le case. In alcune circostanze, bisogna disfarsi dei propri libri, ed è come amputarsi una parte del corpo. In definitiva, non sono i libri a essere pericolosi, sono i lettori. Perché ragionano con la loro testa. Perché usano il pensiero critico. Perché aprono sempre un’inchiesta intima e collettiva quando leggono un libro o un romanzo. È il lettore il vero detective e il vero protagonista della letteratura. Non era forse un lettore Don Chisciotte? Non legge forse un libro Amleto, la prima scena in cui appare? La letteratura, come diceva Antonio Tabucchi, ha gli stessi nemici di sempre, gli stessi sicari. Ma nessuno è mai riuscito a zittirla. In Kenya, la polizia ha emesso un mandato di cattura contro un personaggio di romanzo, credendolo una persona in carne e ossa, per l’entusiasmo con cui i contadini si raccontavano oralmente le sue avventure. Ma un personaggio di romanzo non lo si potrà mai catturare. E se anche incenerissero tutti i libri e i nuovi Re dei Tarli – ogni epoca ne incorona qualcuno – divorassero tutte le Biblioteche della terra, ci sarà sempre un’altra scrittrice o scrittore a riprendere la voce e a difendere la libertà di espressione e di parola. Per tutto questo continuo a credere nell’utopia di una letteratura che abbia ancora al centro il personaggio-uomo, e che sia libera e cosmopolita, sguardo molteplice e senza gerarchie, senza confini, senza frontiere. A trattenere l’idea di un socialismo liberale e internazionalista, di un umanesimo mediterraneo, di una identità multipla. Ad avere fiducia nelle biblioteche come luoghi extraterritoriali, simili alle ambasciate, alle chiese, luoghi che danno ricovero a chi è o si sente in esilio, dove non serve nessun permesso di soggiorno. Quest’estate ho visto una fotografia: un gruppo di attivisti curdi, nel nord della Siria, avevano accettato la fine della lotta armata e stavano gettando delle armi in dei grandi bracieri. Bruciare le armi, non i libri. Abbandonare l’idea degli Stati nazionali. Appartenere soltanto alla letteratura. Ecco, forse la lettura e la letteratura non sono altro che questo: prendere in consegna il lumicino della ragione da chi ci ha preceduto, evitare che cada nelle mani di chi lo vuole estinguere, e farlo durare. È l’ultima candela che ci è rimasta. La stessa con cui leggeva Mastro Geppetto nel ventre della balena o Don Chisciotte nella sua stanza dei libri. Di questo parlano i romanzi, dell’inadeguatezza dell’incantesimo in un mondo senza incantesimo. Ed è con un ultimo deliberato atto di ottimismo che vorrei salutarvi: soltanto attraverso la letteratura, la musica, il teatro, il cinema, la danza, l’arte tutta, potremo continuare a custodire la speranza in un mondo senza speranza. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Fabio Stassi Bebelplatz. La notte dei libri bruciati e Notturno francese, entrambi editi da Sellerio. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Imparare a pensare la speranza -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI EMILIA DE RIENZO: > La cultura non basta -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Piccola arringa in difesa della letteratura proviene da Comune-info.
Quando l’arte fa l’impossibile
IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DI CINEMA DELLE DONNE A GAZA: UN ESEMPIO DI RESISTENZA CIVILE, UNA STORIA DA RACCONTARE Gaza. Palestinesi si avviano a presentare il festival (foto da Ezzeldeen Shalah) Non potremo che ricordare questo evento come un’ “utopia realizzata”, tra il 26 e il 31 ottobre 2025, a Deir el Balah nella striscia di Gaza. Anche chi, come me, stentava un anno fa a credere che questo progetto avrebbe preso corpo nel corso di un genocidio, nella distruzione di Gaza, sotto i continui crimini dell’esercito israeliano, con la paura delle bombe, le condizioni di sofferenza, di fame, di mancanza di tutto della popolazione, ha dovuto ricredersi. Sembrava una sfida impossibile, di fronte alle difficoltà materiali, enormi, ma anche al sentire delle persone, forse distanti da questa utopia, nel momento della sofferenza e dei bisogni fondamentali: un festival di cinema non era un lusso insostenibile? Credo che mi abbia convinto a sostenerlo, come ha convinto tutti coloro che hanno aderito attivamente al progetto, la determinazione del suo ideatore Ezzeldeen Shalah, critico e regista, di cui abbiamo più volte ascoltato da Gaza, nelle conversazioni online dei mesi di preparazione, la voce ferma, le parole convinte e irremovibili che dicevano di andare avanti, comprese quelle dette in uno dei momenti più terribili degli attacchi dell’esercito israeliano, l’invasione di terra unita a incessanti bombardamenti, di Gaza City: “se io non ci sarò più, continuate questo lavoro…”. Parole che ci hanno stretto il cuore, ma anche rafforzati nella convinzione di sostenere la realizzazione del progetto, in tutti i modi possibili. E’ stato presentato, raccogliendo fondi, in varie iniziative in Italia, e in molti paesi delle associazioni e festival di cinema che compongono l’ampia rete internazionale: è arrivato a Cannes, a Venezia, a Firenze gemellandosi con il Festival di cinema delle donne e poi al Festival dei Popoli dove il suo fondatore ha meritatamente ricevuto il premio SUMUD, parola che appartiene storicamente alla cultura palestinese: la perseveranza, la resistenza civile. Ezzeldeen Shalah Ancora una volta la cultura ha mostrato di essere non lusso, ma risposta a esigenze fondamentali: la speranza in un futuro possibile, la sua capacità di essere vita contro la morte, una forma alta di resistenza. E a chi gli domanda se ha senso parlare di cultura in tempi di genocidio e di fame, Ezzeldeen risponde: “Sì, ed è fondamentale. Il cinema è vita, è una presenza ostinata contro il nulla. Realizzare un festival tra le macerie significa dire che siamo ancora qui, che resistiamo e che c’è speranza. È il nostro modo di sfidare la morte con la vita. Vogliamo trasmettere al pubblico una carica di fiducia: la speranza, in questi tempi, è già una forma di resistenza”. (fonte: https://pungolorosso.com/2025/08/17/gaza-il-cinema-che-resiste/) Dunque a dispetto di tutti gli ostacoli e le difficoltà, il festival si è fatto, il tappeto rosso è stato steso, le persone che potevano hanno partecipato numerose e attente. E’ iniziato, come previsto, il 26 ottobre, data scelta per ricordare la Giornata delle donne palestinesi e la prima Conferenza delle donne palestinesi tenutasi a Gerusalemme nel 1929. S i è aperto con la proiezione del film vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia: “La voce di Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania, tunisina, Leone d’Argento a Venezia. Sconvolgente racconto dell’attesa e poi dell’uccisione sotto decine di colpi israeliani, di una bambina in un’auto con i familiari. Terribile e straordinariamente commovente, realizzato con grande capacità tecnica, fa rivivere quei dolorosi momenti in mezzo al genocidio di Gaza. I 79 film in programma, tra documentari, cortometraggi e lungometraggi di finzione provengono da 28 paesi. Tutti raccontano le vite, le voci e le lotte delle donne. Il Festival è stato poi sospeso per i nuovi bombardamenti nel corso della cosiddetta “tregua” (!) e si è concluso il 31 ottobre con le premiazioni. Qui trovate conclusioni e assegnazione dei premi. La realizzazione di questa edizione del Festival incoraggia a lavorare ad una seconda edizione, come assicura il suo fondatore : “Desideriamo assicurarvi che, a partire da domani, inizieremo i preparativi per la seconda edizione” dichiara davanti al pubblico Ezzaldeen Shalah, presidente e animatore instancabile del festival che, dal cuore di Gaza, a Deir al-Balah, dove il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha offerto la sua sede, ha parlato al cuore del mondo. > “Gaza International Women’s Cinema”. Chiusa la prima edizione si lavora già > alla seconda Continuiamo a sostenerlo https://gofund.me/d28029779 “Il cinema è la nostra voce quando il mondo non ci ascolta. E’ la luce che rimane accesa, anche sotto le macerie” NOTE LE GIURIE: Presidente onoraria del Festival è Monica Maurer , regista e ricercatrice da decenni lavora sulla memoria visiva palestinese. Si sono espresse due giurie: una per i film di finzione e una per i documentari. La giuria per la finzione è stata presieduta dalla sceneggiatrice e regista francese Céline Sciamma , affiancata dal regista marocchino Mohamed El Younsi , dall’attrice italiana Jasmine Trinca , dalla scrittrice e regista palestinese Fajr Yacoub e dall’attrice e regista teatrale algerina Moni Boualam . Annemarie Jacir , regista del film Palestine 36 , candidato agli Oscar, ha presieduto la giuria del documentario, insieme al produttore del Bahrein Bassim Al Thawadi , alla produttrice italiana Graziella Bildesheim (presidente dell’European Women’s Audiovisual Network ), al regista kuwaitiano Abdulaziz Al-Sayegh e alla montatrice cubana Maricet Sancristobal . LA RETE INTERNAZIONALE DI SOSTEGNO: Patrocinio del Palestinian Ministry of Culture, e la collaborazione di 100autori – Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva, ABP – Association belgo palestinienne, AFIC – Associazione Festival Italiani di Cinema, All for One, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), Associazione Cultura è Libertà, una Campagna per la Palestina, Associazione Spazio Libero, Astràgali Teatro, Bookciak Magazine, Carmel Sweden Foundation – chaired by Mohammed Al-Sahli, Casa Internazionale delle Donne, Cinema senza diritti, Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños – Cuba, EWA – European Women’s Audiovisual Network, International Federation of Arab Film Festivals – 25 festivals, chaired by Ezzaldeen Shalah, Jerusalem International Festival of Gaza, Leeds Palestinian Film Festival, NAZRA – Palestine Short Film Festival, Palestine Cultural Platform, Palestine Film Institute, Palestine Museum US, Resistance Culture Foundation – chaired by Brazilian filmmaker Yara Lee, Rete Ricerca e Università per la Palestina – RUP, Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese, Sumer Ad and Art Production, Visionarie – Donne tra Cinema, Tv e Racconto, Women’s International Democratic Federation – WIDF – FDIM, 46th Florence International Women’s Film Festival, Dar Al Thaqafa Academy – Libano).  I PAESI DA CUI PROVENGONO I FILM IN CONCORSO Italia, Francia, Iraq, Egitto, Marocco, Siria, Libano, Algeria, Tunisia, Oman, Kuwait, Qatar, Canada, Svezia, Emirati Arabi Uniti, Argentina, Iran, Australia, Belgio, Giordania, Sudan, Kenya, Yemen, Arabia Saudita, Australia, Germania, Finlandia, Danimarca. v. anche https://palestinaculturaliberta.org/2025/10/24/gaza-international-festival-for-womens-cinema-si-fara-nella-striscia-con-quello-che-resta/ L'articolo Quando l’arte fa l’impossibile proviene da Comune-info.
Campania Popolare vuole una legge regionale per i diritti di artisti e lavoratori della cultura
ART IS WORK Sacrificare la cultura, rendere precari gli artisti ed i lavoratori dell’intero comparto in nome di un turismo mordi e fuggi, svuotato di effettivo valore sociale è questo uno degli obiettivi primaria dell’ideologia neoliberista. Questo ridurre la progettazione culturale a puro e vuoto business avviene anche in Campania, […] L'articolo Campania Popolare vuole una legge regionale per i diritti di artisti e lavoratori della cultura su Contropiano.
Cultura per non colti
SIAMO IN GRADO DI TRASFORMARE BIBLIOTECHE E TEATRI SPESSO SEMIVUOTI? COME RIVITALIZZARE LA VITA SCOLASTICA? POSSIAMO PARTECIPARE IN MODO DIVERSO A UN CONVEGNO? FORSE ABBIAMO BISOGNO DI ASCOLTARE GLI OUTSIDER PER CAPIRE COME RAGIONA CHI RESTA AI MARGINI O NON ENTRA. “COME SAREBBE UNA SCUOLA FATTA DA CHI L’HA SOFFERTA O L’HA ODIATA, OVVERO DOVE A INSEGNARE FOSSE PROPRIO CHI PATIVA INSUCCESSI SCOLASTICI, UMILIAZIONI DAI DOCENTI O DAI COMPAGNI, SENSO DI INUTILITÀ DI QUEL TEMPO SEDUTO AL BANCO – SCRIVE STEFANO LAFFI – O COME SAREBBE UN MUSEO CURATO DA NON L’HA MAI AMATO, SI ANNOIAVA A MORTE DA BAMBINO NELLE VISITE GUIDATE E SOLO DOPO HA IMPARATO A DIALOGARE CON LE OPERE, MAGARI DA SOLO NELLA SUA STANZA. UNA SELEZIONE DEL PERSONALE PER TITOLI ALLA ROVESCIA: POTREBBERO ESSERE LORO I DEPOSITARI DELLE ALTERNATIVE AL PRESENTE…”. IN QUESTO TESTO, TRATTO DAL LIBRO IMMAGINA (FELTRINELLI), UN MAGNIFICO QUADERNO DI APPUNTI, LAFFI RACCONTA COSA È ACCADUTO QUANDO HA PROVATO A RIPENSARE UNA BIBLIOTECA CON UN GRUPPO DI ADOLESCENTI NON FREQUENTATORI. DI CERTO, SUGGERISCE QUEL LIBRO, POSSIAMO TUTTI RE-IMPARARE A IMMAGINARE PER CAMBIARE L’ORDINE DELLE COSE, DISEGNARE UN PRESENTE DIVERSO A COMINCIARE DAI DISSENSI, CONDIVIDERE NUOVE DOMANDE: POSSIAMO IMPARARE MOLTO, IN UN MONDO PIENO DI IMMAGINI MA PRIVO DI IMMAGINAZIONE, DA CHI PRATICA L’ARTE, DA CHI SI RIBELLA, DA CHI RIPENSA LA VITA DI OGNI GIORNO. SICURAMENTE DAI BAMBINI E DALLA BAMBINE Uno dei frutti colorati del Laboratorio d’arte “L’ultimo fiore d’autunno”, promosso nei giorni scorsi alla Casa del bambino di Castel Volturno, meraviglioso centro educativo comunitario di un territorio difficile della provincia di Caserta -------------------------------------------------------------------------------- Partiamo da un dato preoccupante: il pubblico sembra sempre più distante dall’offerta culturale tradizionale. Si legge sempre meno, si frequenta sempre meno il cinema e il teatro, si investe sempre meno in cultura, aumenta l’abbandono scolastico. Certo, oggi molti consumi culturali avvengono online, ma questo non risolve il destino delle istituzioni culturali fisiche. Negli anni si è tentato di innovare: musei che escono dalle loro sedi, bibliobus, teatro a domicilio, cinema nei cortili. Eppure, il problema di base rimane: come rivitalizzare scuole, biblioteche e teatri spesso semivuoti? Se ragiono con l’emisfero sinistro, affino l’offerta, arricchisco il patrimonio, diversifico i prezzi, vario la programmazione… insomma valorizzo quello che faccio, cerco di far apprezzare e comunicare il valore della cultura, convinto della mia missione. È tuttavia improbabile che le soluzioni offerte dal pensiero analitico degli esperti aprano le porte a chi non pensa nemmeno di entrare. Proviamo a ribaltare tutti gli elementi, a considerare gli altri personaggi della storia, a guardare dal di fuori: forse abbiamo bisogno di ascoltare gli outsider, di capire come ragiona chi non ci crede, chi non entra, chi non sa. È il contrario di quello che succede oggi, dove tutto è per addetti ai lavori, appassionati già convinti, e lo capisci dagli applausi ai convegni o agli spettacoli. A una mostra o a un’opera teatrale sul soccorso ai migranti verranno coloro che già ne riconoscono il valore, ma così non si allarga la consapevolezza, e la cultura rischia di trasformarsi in un’operazione consolatoria, per sentirsi “dalla parte giusta”. Peraltro, con una certa probabilità che alla mostra o allo spettacolo i migranti non vengano. Il confronto con gli outsider, invece, va fatto senza nessuna presunzione di superiorità, anzi, proprio a partire dalle buone ragioni che essi hanno per non avvicinarsi ai luoghi della cultura, per non partecipare, per non esserci. Questo per scoprire perché quei luoghi, visti da fuori, risultano supponenti, discriminanti, incomprensibili, inaccessibili, costosi, percepiti come poco utili da chi conduce una vita stretta da mille altre necessità. Diversi adolescenti che abbandonano la scuola si chiedono a che cosa serva, perché nel frattempo frequentano corsi sul Web e seguono tutorial per sperimentare altro; in altre parole, rifiutano la scuola, non lo studio. E se cambiassimo radicalmente il modo di concepire queste istituzioni? Come sarebbe una scuola fatta da chi l’ha sofferta o l’ha odiata, ovvero dove a insegnare fosse proprio chi pativa insuccessi scolastici, umiliazioni dai docenti o dai compagni, senso di inutilità di quel tempo seduto al banco. O come sarebbe un museo curato da non l’ha mai amato, si annoiava a morte da bambino nelle visite guidate e solo dopo ha imparato a dialogare con le opere, magari da solo nella sua stanza. Una selezione del personale per titoli alla rovescia: potrebbero essere loro i depositari delle alternative al presente. Ho provato a ripensare una biblioteca insieme a un gruppo di giovani non frequentatori. Ecco che cosa è emerso. 1. Lo spazio esterno conta quanto quello interno: per loro, il “fuori” è fondamentale: è lì che ci si incontra, si chiacchiera, si sta insieme. La biblioteca deve essere prima di tutto un “medium di relazioni”, un luogo dove si va per gli amici, non solo per i libri. I volumi diventano quasi un pretesto, un alibi. Questa chiave obbligata, per dirla con Rodari, del “medium di relazioni” vale sempre con le fasce di età giovanili: qualsiasi proposta – scolastica o extrascolastica – avrà valore solo se consentirà di stare insieme. Ma, in fondo, la formula “medium di relazioni” non è un’ottima definizione di cultura? E allora, tanto per fare un esempio, perché imporre il silenzio in biblioteca e non creare piuttosto aree di parola, dove studiare insieme? Insomma, perché non fare della biblioteca, della scuola o del museo – quindi dei loro spazi, dei loro arredi, delle loro regole – dei luoghi di amicizia, che è certamente un valore più universale e più immediatamente accessibile rispetto alla lettura di libri? 2. Superare la soglia invisibile: l’ingresso tradizionale, con il bibliotecario in attesa, crea ansia. Meglio iniziare con uno spazio neutro: un bar, un’area ristoro. Insomma, uno spazio neutro che non divida il mondo fra lettori e non-lettori, e sia quindi più accogliente, metta voglia di entrare o almeno tolga il disagio nel farlo. Attenzione: sono le aziende più innovative a dotarsi di aree ristoro, a considerarle decisive nella generazione di idee, e quel gruppo di progettazione di non-lettori sta sposando senza saperlo quella stessa soluzione. Di più, è il capitale relazionale quello che risulta oggi decisivo per le giovani generazioni nel procurarsi opportunità – lavoro, casa, viaggi …– quindi quello scambio di vedute al caffè diviene anche strategicamente prezioso. 3. A ogni età il suo spazio e i suoi arredi: in una pianta dell’edificio che alla fine risulterà esagonale, a spicchi, la prima sala dopo l’ingresso informale è quella di lettura, a scaffale aperto, con divani e angoli morbidi, con arredi fatti da materiali di recupero. Insistono che non ci siano tavoli ma solo sedute comode, perché la vista dei tavoli evoca in loro studio e fatica, mentre la lettura avviene in un’altra posizione. Accettano di convivere in quella che sentono “la loro sala” anche con anziani dediti alla lettura di giornali e riviste, mentre preferiscono che le mamme con bambini stiano in un’altra sala: forse vogliono rimarcare la distanza da quella situazione, anagraficamente vicina ma assai lontana nel loro immaginario. Le due sale che seguono in questa forma esagonale sono la sala studio tradizionale – tavoli, prese, wi-fi – e quella della playstation, per la fascia dei preadolescenti, più eventuali giochi da tavolo: quest’ultima deve essere di uso esclusivo e insonorizzata, perché “accanto a chi gioca non si può fare altro”, spiegano loro. 4. Uno spazio per produrre cultura, non solo consumarla: la sorpresa finale è uno spazio espositivo, per artisti emergenti del territorio, giovani produttori di cultura, non solo consumatori. Pensano di meritare uno spazio in biblioteca, in cui poter esporre quadri, testi musicali o altre opere di coetanei. Chiedono che questa sala sia a vetri, ben visibile da fuori, sostengono che quella sarà una buona leva per fare entrare giovani in biblioteca. Così ripenso al fatto che, in effetti, la cultura non li rispecchia mai: nei musei, a teatro, in biblioteca, al cinema non si trova mai qualcosa fatto da un coetaneo. L’ultima sala sembra suggerirci una chiave. Forse la loro diserzione dipende dal loro esilio, dal non sentirsi parte di quella scena. Se l’adolescenza vedesse riconosciuto il suo potenziale, anche nella produzione culturale, si sentirebbe più a casa in tutti quei luoghi nei quali le si chiede sempre di tacere, ascoltare, guardare. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cultura per non colti proviene da Comune-info.
L’amore mio non muore: la scrittura invadente di Saviano e la memoria delle vittime dimenticate
DAL PALCOSCENICO DEL TEATRO AUGUSTEO DI NAPOLI, ROBERTO SAVIANO INTRECCIA POESIA E CRONACA PER RESTITUIRE VOCE A ROSSELLA CASINI, GIOVANE UCCISA DALLA CAMORRA. UN MONOLOGO CHE DIVENTA RIFLESSIONE CIVILE SULLA MEMORIA E SUL NUMERO ANCORA DRAMMATICO DELLE VITTIME DELLE MAFIE. Un teatro gremito, un silenzio sospeso, la voce di Roberto Saviano che scende lenta, come un respiro trattenuto. Così è iniziato L’amore mio non muore , in scena al Teatro Augusteo di Napoli: un monologo che unisce fatti reali, poesia e memoria, restituendo presenza a una giovane donna di cui si è parlato troppo poco. Sul grande schermo compare il volto della protagonista, Rossella Casini , venticinque anni, studentessa fiorentina uccisa dalla camorra. Saviano racconta che l’unica immagine rimasta di lei proviene da un vecchio documento universitario, ritrovato molti anni dopo negli archivi dell’ateneo dove studiava. Un volto neutro, senza sorriso, come si usava all’epoca per le foto ufficiali. Proprio per questo colpisce: è privo di posa e di difesa, e diventa un simbolo di assenza, il ritratto di un giovane che la società ha dimenticato. La sua storia è ricostruita attraverso frammenti, testimonianze, memorie spezzate: il racconto di un cugino, le parole di un pentito, i pochi documenti rimasti. Saviano non ne fa un personaggio, ma una presenza viva. Dove i fatti non bastano, chiede aiuto alla poesia. Cita Apollinaire, Pavese, Rilke, Szymborska. A loro affidano le parti mancanti, le domande senza risposta, le ferite che non hanno trovato voce. All’inizio dello spettacolo, spiega con lucidità: «Non ho una scrittura evasiva, ma invadente. Non voglio far evadere chi mi legge, voglio invaderlo di domande, di dubbi, di inquietudini.» È una definizione che rovescia l’idea di letteratura come fuga. Saviano non cerca rifugio nella parola: la usa per entrare nella realtà, per costringere lo spettatore a guardarla senza difese. Sul palco alterna toni lirici e passaggi di analisi più dura. Racconta la logica delle faide, la violenza come regola, la paura come linguaggio. E dentro quella spirale chiusa, Rossella appare come un gesto di libertà: una giovane che credeva nell’amore più della vendetta, nella possibilità di rompere le catene del potere criminale. « Ho deciso di scrivere questo romanzo per raccontare la storia d’amore più drammatica e potente in cui mi sia imbattuto. Raccoglie tutti i colori dell’umano sentire: l’ingenuità e lo slancio, la devozione e l’ossessione, l’amicizia, il desiderio, il coraggio, la delusione, il fraintendimento, il tradimento e la tragedia. Eppure la certezza che proprio nell’amare risieda l’unica possibilità di verità e di senso non viene mai meno. L’amore non muore. » — Roberto Saviano , L’amore mio non muore (Einaudi, 2025) Queste parole, lette o evocate sul palco, danno corpo al senso profondo dell’opera: l’amore come atto di verità, come ultimo spazio di libertà possibile. Ma L’amore mio non muore non è soltanto una storia individuale. È un invito a guardare più in profondità, a interrogarsi su quante altre vite siano rimaste nell’ombra. Secondo l’ Osservatorio Vittime Innocenti di Mafia , in Italia sono migliaia le persone uccise dalla criminalità organizzata, spesso nel silenzio. Molti erano cittadini comuni, giovani, donne, migranti, lavoratori. Vite cancellate come se la loro morte non avesse peso, come se la violenza fosse ormai una componente accettata del paesaggio sociale. Saviano, con la sua “scrittura invadente”, riporta in superficie queste assenze. Non come cronista, ma come testimone. E nel farlo rinnova un gesto di resistenza che appartiene non solo al teatro, ma alla coscienza civile di un Paese intero: opporsi alla normalità della violenza, al tempo che cancella, al sonno delle coscienze. Il messaggio che arriva da questo spettacolo supera i confini di una città o di una nazione. In ogni parte del mondo, la lotta contro l’indifferenza è la stessa: ridare voce a chi l’ha perduta, riaccendere una memoria collettiva che unisca e non divida. Perché l’amore, quello che resiste alla paura e alla morte, non muore davvero. Muore solo il silenzio, quando qualcuno trova il coraggio di parlare. Lucia Montanaro
Il Museo sorvegliato speciale: il dissenso dal palazzo al posto di lavoro
Cosa succede se il dissenso viene represso non solo tramite parole ed eventi di chi detiene il potere ma anche tramite misure sul posto di lavoro? Succede quello che sta avvenendo in queste ore ai dipendenti e alle dipendenti della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea (GNAMC). I e le dipendenti sono stati allontanati dal posto di lavoro per via del Forum Incontri sul Processo di Aqaba, iniziato ieri, si tiene da lunedì 13 ottobre 2025 a mercoledì 15, giorno in cui è prevista la presenza della presidente del consiglio Giorgia Meloni, oltre a tante altre importanti eminenze del settore militare e politico, come il Re di Giordania Abd Allāh II, ideatore del Forum. Il personale in questione – “assentato” dal posto di lavoro – vive così una vicenda analoga e conseguente a quella avvenuta nell’ottobre dello scorso anno, quando alla GNAMC è avvenuta la presentazione del libro “Perché l’Italia è di destra – Contro le bugie della sinistra” – edito da Solferino – dell’ex deputato Italo Bocchino, attuale direttore del giornale “Il Secolo d’Italia”, edito dalla fondazione di Alleanza Nazionale, insieme al presidente del Senato Ignazio La Russa. Quell’ottobre, prima dell’evento, alcune e alcuni dipendenti del museo scrissero una lettera indirizzata alla direttrice, Renata Cristina Mazzantini, chiedendo che l’evento venisse annullato, in quanto “inopportuno” per via della sua natura propagandistica e per l’uso politico degli spazi della Galleria. > La lettera, sottoscritta da 40 dipendenti dell’istituzione museale, volle > chiedere chiaramente di annullare la presentazione. Nella lettera veniva sostenuto infatti che: “Il personale della Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea esprime il proprio fermo dissenso per l’utilizzo degli spazi del Museo a finalità di propaganda, e chiede pertanto di cancellare l’inopportuna presentazione nel rispetto della nostra istituzione culturale, della sua storia e della sua reputazione. Confidando in un suo sollecito riscontro, siamo disponibili a eventuali confronti e chiarimenti. In caso contrario potremmo ricorrere a forme di protesta atte a contestare l’utilizzo di un luogo pubblico a fini di parte e a difendere il ruolo democratico che un museo dello Stato non dovrebbe ipotecare per nessun motivo”. In risposta, la direttrice segnalò al Ministero della Cultura (e ad altre autorità competenti) i nomi dei lavoratori che avevano firmato la lettera di dissenso. L’evento si svolse nonostante tutto. Bocchino replicò: “scatta il razzismo ideologico e politico per cui io sarei un cittadino di serie B, un figlio di un dio minore”. Ma insieme scattò subito la solidarietà e il sostegno ai e alle dipendenti coinvolti, soprattutto da parte dei sindacati vicini al museo e delle principali forze politiche di opposizione, come PD, M5S e realtà sociali e associative. In seguito alla vicenda, tre membri su quattro del comitato scientifico si licenziarono: Augusto Roca, Stefania Zuliani e Federica Muzzarelli. L’Unione Sindacale di Base – USB – riportò in una nota la preoccupazione riguardo l’accaduto esprimendo il proprio sostegno ai lavoratori e alle lavoratrici che si ritrovarono a far parte di una situazione anomala e propagandistica. > Ora, a distanza di un anno, i lavoratori e le lavoratrici della GNAMC, in > vista del Forum militare che vedrà la presenza di alti funzionari dello Stato > e delle istituzioni, sono stati allontanati dal luogo di lavoro per svolgere > un corso di formazione – non lavorativamente fondamentale – per ben tre > giorni, presso la sede del Ministero della Cultura del Collegio Romano, > proprio quanto il tempo di durata del grande evento. Sono inoltre stati avvisati solo tre giorni fa, proprio a ridosso dell’evento che sta militarizzando in questi giorni l’intera zona della Galleria, anche se il contenuto dettagliato del Forum resta un segreto. Infatti chi lavora in Galleria fino all’ultimo momento non ha avuto informazioni su quali fossero i dettagli dell’evento per cui c’è stato il bisogno di allontanare i dipendenti. Sappiamo che saranno probabilmente presenti capi di Stato e che il dibattito riguarderà l’area militare, il terrorismo e le limitazioni della pirateria in Africa Occidentale. Insomma, un congresso sull’antiterrorismo in pieno centro a Roma. Non tutti i e le dipendenti del Museo sono stati allontanati per seguire un corso di formazione: alcuni sì e altri no. Anche questo non è mai accaduto. Tra coloro i quali sono stati allontanati, ci sono gli stessi che lo scorso anno sono stati coinvolti dalla vicenda Bocchino, quando vennero segnalati al MIC dalla direttrice del Museo, circa il 60% dei dipendenti. Una situazione complicata, ora, per molti di loro, in quanto tanti lavoratori e lavoratrici del Museo sono turnisti, con tanti doppi turni e riposi programmati, che ora, per via dell’accaduto, dovranno essere rimodulati nella totalità. Inoltre, la dislocazione in questi tre giorni dal museo per i precettati appare come obbligatoria: chi ha chiesto di poter lavorare nella propria sede, presso lo GNAMC, ha avuto esito pienamente negativo, con la conseguenza di dover passare tre giorni con la negata possibilità di lavorare, venendo di fatto esclusi per un motivo difficile da considerare valido. Quello che emerge è un clima a tratti intimidatorio, indifferente alle richieste di confronto sindacale e democratico, che trascende la missione istituzionale dell’ente. Nonostante questo, la Galleria sembra smentire quanto accaduto. > Il cardine del problema va ben oltre la vicenda e riguarda l’uso degli spazi. > Se si entra sul sito di biglietteria online Ticket One, i biglietti al Museo > non sono disponibili. Il Forum ospite in queste ore della GNAMC ha generato la chiusura di un sito della cultura per ben tre giorni: un caso con pochi precedenti, soprattutto dopo il Decreto Franceschini, o cosiddetto Decreto Colosseo (chiamato così per via di alcune chiusure di luoghi iconici, come il Colosseo, relativamente ad assemblee sindacali, suscitando critiche per il disservizio verso il pubblico e i turisti). Il Decreto infatti – voluto dall’ex Ministro della Cultura Dario Franceschini – introdusse nel 2015, tra le altre cose, l’essenzialità dei beni museali per tutela ma anche per fruizione. Così, i luoghi della cultura (siano essi statali, comunali, pubblici o privati) divennero beni pubblici essenziali, con conseguenze sulle prestazioni dei lavoratori e delle lavoratrici del settore, diventati a loro volta essenziali. Infatti, dopo il decreto, la chiusura, si configura un vero e proprio disservizio verso il cittadino, l’utente o il turista. Il servizio essenziale alla fruizione dei luoghi di cultura ha così quasi superato anche il diritto allo sciopero, nonostante le limitazioni di alcuni casi. Ma non nel caso – come dimostrano oggi i fatti – del Forum militare! Insomma, i dipendenti in caso di sciopero – che siano, come accaduto, anche solo due ore di assemblea al Colosseo – possono essere precettati a lavoro, ma in caso di congressi con la presenza della Presidente del Consiglio, al contrario, vengono allontanati. > La Galleria Nazionale di Roma viene spesso affittata per eventi privati, ma > solo e necessariamente quando non è aperta al pubblico: non è mai successo che > chiudesse per vari giorni nella sua fruizione con, inoltre, una percentuale di > dipendenti trasferiti obbligatoriamente in altra sede. Il Museo ha sempre garantito le aperture, anche in condizioni difficili, e ad oggi invece non si possono neanche fare i biglietti. Il potere negoziale è stato così ipotecato. Mentre arrivano i primi venti di solidarietà e note sottoscritte anche dai sindacati vicini alle e ai dipendenti del Museo, come CGIL, USB e UIL, ci si chiede fino a dove si può spingere il clima di legittimità alla chiara deriva autoritaria del Governo. Il Governo e le istituzioni hanno chiesto di usare lo spazio della Galleria Nazionale D’Arte Moderna e Contemporanea, ma questo spazio – come le istituzioni stesse hanno sostenuto negli anni – non è uno spazio come gli altri, bensì un bene pubblico. Allora, quando il pubblico ha il diritto inderogabile di accedere ai beni pubblici? Quale è il limite delle eccezioni? I musei sono o non sono servizi essenziali per la fruizione? Alcune di queste riflessioni vanno chiaramente ben oltre il Museo. Un fatto grave, se confermato nella sua totalità. Presto dovranno arrivare le risposte a queste domande, in un modo o nell’altro, se si vorrà sventare un clima di tensione ulteriore nell’industria culturale. L’arbitrarietà dei diritti e delle regole al tempo del Governo Meloni è in piena fase di attrito sociale. La copertina è di Helix 84 (Wikimedia) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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30. Rapper’s Delight: Sylvia Robinson e la Sugar Hill Records
Oggi parliamo di una storia che è mito: la Sugar Hill Records. Non solo la prima etichetta Hip-Hop di successo, ma anche la storia della sua fondatrice, Sylvia Robinson, una figura la cui genialità è inestricabilmente legata a successi e polemiche. Il nome stesso, Sugar Hill, è evocativo. Ci riporta al quartiere storico di Harlem, […]
L’elefante nella stanza si chiama integrazione. Intervista con Enrico Gargiulo
La parola “integrazione” è un mantra nel dibattito pubblico sulle migrazioni. Politicə, giornalistə, amministratorə locali e parte del mondo accademico la evocano come un obiettivo indiscutibile: un bene comune trasversale, una promessa di convivenza pacifica, una cornice dentro cui programmare le politiche e le pratiche rivolte a chi arriva da fuori. Ma cosa nasconde davvero questo termine? Quali presupposti epistemologici e politici porta con sé? E soprattutto: a chi giova? Discutere oggi di integrazione può sembrare una scelta fuori tempo, in un contesto dominato da altre urgenze: l’affermarsi di un regime globale di guerra, lo smottamento degli argini democratici, l’ascesa delle destre radicali e – sul piano delle migrazioni – l’imminente implementazione del Patto europeo, che segna un’ulteriore torsione autoritaria nella gestione della mobilità. Eppure, proprio in questa fase, il libro Contro l’integrazione di Enrico Gargiulo, sociologo dell’Università di Torino e attivista, restituisce centralità a un paradigma dato per neutro e incontestabile. “Integrazione” non è una parola tra le altre: è un dispositivo che plasma il modo in cui pensiamo i rapporti sociali, le gerarchie politiche e la stessa idea di cittadinanza. La lettura del testo, denso ma accessibile, fornisce chiavi interpretative che consentono di illuminare ciò che normalmente rimane in ombra: non soltanto le pratiche quotidiane di esclusione, ma anche i presupposti storici ed epistemici che legittimano l’ordine esistente. Attraverso un lavoro che intreccia genealogia dei concetti, analisi critica delle politiche e attenzione per le forme del linguaggio, Gargiulo mostra come l’integrazione agisca come meccanismo di normalizzazione, nascondendo le radici materiali delle disuguaglianze e spostando il conflitto su un terreno culturalizzato. Per questo, il libro non si limita a smontare una parola, ma invita a ripensare in profondità le categorie con cui guardiamo alla mobilità, al confine e alla cittadinanza. In tempi in cui le migrazioni vengono governate da logiche securitarie o condizionate alla loro funzionalità, Contro l’integrazione è uno strumento prezioso per chi vuole indagare, criticare e trasformare il presente. A partire da questi temi abbiamo intervistato l’autore, Enrico Gargiulo. Quale urgenza politica ti ha spinto, in questa specifica congiuntura, a scrivere un libro che propone una critica radicale all’integrazione? Mi ha spinto un fastidio consolidato, crescente, ormai non più riformabile, verso l’uso della parola “integrazione”, i significati che ha assunto e l’insieme di concetti e categorie a cui rimanda. “Integrazione” evoca rapporti intrinsecamente asimmetrici, un mondo fondato sugli Stati e sui rapporti capitalistici mai messi in discussione, in cui la legalità e l’illegalità della mobilità sono date per scontate. Si presume che le persone appartengano a gruppi culturalmente omogenei che coincidono con lo Stato. Oltre a legittimare l’esistenza stessa degli Stati, si dà per naturale che ogni persona debba essere inclusa in uno di essi e appartenere alla relativa cultura nazionale. Vengono così negate forme di appartenenza substatali o sovrastatali – anch’esse problematiche, certo – ma che incrinerebbero l’immaginario semplificato e funzionale a chi governa le migrazioni. L’urgenza, dunque, è colpire al cuore il discorso sulle migrazioni: delegittimarne le premesse storiche ed epistemologiche, smontare i fondamenti politici. Qualunque discorso che neghi la libertà di movimento e legittimi i confini deve essere messo in discussione. “Integrazione” sembra un concetto più soft, perché riguarda chi è già “dentro” e non chi attraversa la frontiera. In realtà, è strettamente legato al confinamento. L’integrazione viene spesso presentata come un “bene comune”, evocato trasversalmente dalla politica istituzionale. Perché è invece una prospettiva da disarticolare criticamente e non da riformare? È percepita come un bene comune perché chi arriva da fuori viene rappresentato come portatore di culture diverse, potenzialmente in conflitto, e quindi da “armonizzare”. Questo discorso si declina anche in forme progressiste e benevole: si sostiene che chi migra possa incontrare difficoltà nel sistema culturale e istituzionale italiano, e che “fare integrazione” significhi aiutarlo, più per lui che per noi. Il problema è che in tutti questi ragionamenti c’è un “noi” e un “loro” presupposti e continuamente ribaditi. La mia non è una critica all’integrazione da destra, ma agli usi stessi del termine: apparentemente opposti, in realtà convergono. L’elefante nella stanza è la visione del mondo basata su entità culturalmente distinte e in conflitto, che cancella la prospettiva del capitalismo, delle disuguaglianze prodotte nei rapporti sociali, della proprietà privata come fondamento legale e legittimo delle esclusioni. Difenderla significa creare diseguaglianze e impedire a una parte della popolazione di costruirsi un futuro migliore. Con la lente dell’integrazione tutto questo svanisce. Per questo va radicalmente disarticolata e sostituita, non riformata. Nel libro l’integrazione è una lente attraverso cui leggere il governo della mobilità, le gerarchie giuridiche e sociali. Possiamo dire che è una leva per interrogare in profondità la società? Sì, perché usare la chiave dell’integrazione e leggere differenze e conflitti culturali come se fossero naturali è un modo – purtroppo molto efficace – per rimuovere le questioni di fondo. Criticare l’integrazione significa riportare lo sguardo là dove serve: alla nascita del capitale, alle recinzioni delle terre, alla privatizzazione dei mezzi di produzione, all’espropriazione del cosiddetto “Nuovo Mondo”, al colonialismo, alla costruzione di concetti di appartenenza presentati come ovvi e normalizzati. Nel primo capitolo mostro come il concetto di integrazione nasca nella teoria sociologica come risposta al conflitto di classe, interno alla società, dunque legato a rapporti materiali. In seguito viene trasposto negli studi migratori in chiave culturalista. Questo slittamento serve a normalizzare la società: renderla conforme a determinate norme. L’integrazione funziona così: definisco differenze culturali, le trasformo in fratture radicali e legittimo così il mio intervento. Anche la costruzione dei confini trova giustificazione: se le persone sono “pericolose” per la loro cultura, allora i confini diventano necessari. Non sono discorsi descrittivi, ma performativi: producono e impongono una certa normalità. Moltə attivistə e operatorə si chiedono quali termini alternativi utilizzare. Quale vocabolario politico può aiutarci a sottrarci a questa gabbia concettuale? È una domanda giusta. Io stesso faccio fatica a dare una risposta definitiva, anche se ci provo. Ci sono proposte non mie con cui dialogo, come “riarticolazione” o “ricomposizione”. A differenza di inclusione o integrazione, non evocano un inglobamento. Non rimandano a mancanze da colmare, ma a processi continui di messa in discussione, di rinegoziazione delle regole del gioco – materiali e non solo culturali. Questa prospettiva è possibile solo se si mette in discussione la radicale asimmetria del mondo, con il regime di restrizione della mobilità dettato dalle esigenze economiche. In questo contesto è difficile pensare che un semplice cambio di parole basti. Però, in un’ottica di riduzione del danno, se chi opera sul campo iniziasse a riflettere sull’uso delle parole, qualcosa potrebbe cambiare nel lungo periodo. È comunque un passaggio necessario. A chi ti rivolgi con questo libro? Vorrei raggiungere un pubblico il più ampio possibile. La rete “Sociologia di posizione” ha avviato con Meltemi due collane: una di saggi più accademici e una di testi posizionati e diretti. Il mio libro appartiene a questa seconda collana: fornisce strumenti per indagare criticamente la realtà. Penso in primo luogo a chi lavora nelle politiche migratorie: operatrici e operatori dell’accoglienza, avvocate e avvocati, educatrici ed educatori, personale scolastico. Nelle presentazioni già fatte ho visto una particolare attenzione proprio da parte della scuola. Ma spero anche di raggiungere lettrici e lettori che non appartengono a questo ambito: può essere un’occasione di riflessione più ampia. In generale, ho immaginato il libro come uno strumento di comprensione e di azione, utile nella vita quotidiana, nel lavoro e nella militanza politica. L’immagine di copertina è di Elena Torre da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’elefante nella stanza si chiama integrazione. Intervista con Enrico Gargiulo proviene da DINAMOpress.
Chi controlla il passato, controlla il futuro
Lo scontro interno alla classe dirigente statunitense questa volta non è su quale di due frazioni del tutto simili debba prevalere tra un’elezione e l’altra, ma verte – anche, oltre che su interessi economici divergenti tra capitalismo industriale, speculazione finanziaria e “capitalismo delle piattaforme” – sul ridisegno o meno dell'”identità […] L'articolo Chi controlla il passato, controlla il futuro su Contropiano.
Palestina: la cultura prende parola
Con due compagne in studio parliamo di questo comunicato    “La giustizia e i diritti umani non possono essere selettivi” Vittorio Arrigoni   Le lavoratrici e i lavoratori del Ministero della Cultura firmatari di questo documento manifestano la propria ferma condanna rispetto al genocidio messo in atto da Israele a Gaza e in Cisgiordania, ed esprimono piena solidarietà nei confronti della martoriata popolazione palestinese. L’opinione pubblica è ormai in larghissima parte consapevole delle ingiustificabili violenze ai danni dei civili che vengono perpetrate da quasi due anni: le centinaia di migliaia di persone scese in piazza in decine di città italiane in occasione dello sciopero generale del 22 settembre scorso lo hanno dimostrato in modo inequivocabile, smentendo la rozza e offensiva equiparazione con l’antisemitismo di ogni forma di manifestazione di dissenso rispetto alle politiche di Israele. Di fronte a questa formidabile mobilitazione dal basso appare sempre più urgente una presa di posizione sui luoghi di lavoro che dia spazio a manifestazioni di dissenso, come lo sciopero, capaci di incidere sull’andamento politico ed economico del Paese. Auspichiamo dunque che la piena convergenza in questo senso di tutte le sigle sindacali possa essere considerata un punto fermo. Ma soprattutto sembra necessario che gli amministratori locali e i rappresentanti del Governo superino le imbarazzate esortazioni alla pace e le generiche dichiarazioni di intenti espresse fino ad ora e adottino tempestivamente misure concrete, volte a isolare Israele sul piano militare, economico, diplomatico e politico. Chiediamo che l’Italia si allinei alla stragrande maggioranza dei Paesi mondiali riconoscendo lo Stato di Palestina; che tenga conto dei pronunciamenti e delle risoluzioni dell’ONU e delle richieste della Corte Penale Internazionale in merito alle violazioni del diritto internazionale e ai crimini di guerra imputabili a Israele e ai rappresentanti del suo Governo; che vengano congelati i trattati politici e, soprattutto, commerciali con lo Stato di Israele e che questo sia sottoposto a sanzioni; che siano immediatamente sospese le forniture di armamenti e prodotti dual use e che sia interrotto ogni supporto logistico alle sue operazioni militari. Chiediamo che siano intensificate e non ostacolate le iniziative volte a garantire vie di uscita da Gaza, al momento limitate a malati gravi e gravissimi, attraverso ogni strumento a carattere culturale, quali il conferimento di borse di studio a studenti universitari gazawi o forme di gemellaggio.Chiediamo che nei confronti della missione della Global Sumud Flotilla il Governo si attivi in maniera determinata per consentire la creazione di un corridoio umanitario, quanto mai urgente in questa fase, e per fornire supporto immediato al fine di garantire la sicurezza di tutti i partecipanti e il rispetto del diritto internazionale e del diritto della navigazione. Respingiamo ogni tentativo di presentare l’iniziativa della Flotilla come un’operazione avventata o, peggio, come un attacco diretto al nostro Governo. I lavoratori e le lavoratrici del Ministero della Cultura sono spesso percepiti come burocrati o custodi di una Bellezza astratta e fuori dal tempo, quando non intrattenitori di un pubblico di visitatori e turisti. Ci preme invece ribadire che gli Istituti del Ministero, in cui il nostro patrimonio culturale viene tutelato, studiato e raccontato, non possono non configurarsi come laboratori di riflessione sulle dinamiche della Storia e sulla realtà contemporanea. Chiediamo dunque che nei nostri Istituti siano promosse iniziative di solidarietà nei confronti della popolazione palestinese e di sensibilizzazione rispetto agli eventi in corso; che il Ministero renda pubblici eventuali accordi in essere con Istituti della cultura israeliani e che si impegni a sospendere, sulla scia di quanto sta accadendo in diversi Atenei, ogni collaborazione con quelli direttamente o indirettamente coinvolti con le politiche governative di Israele. Chiediamo infine che venga presa una posizione netta nei confronti della devastazione del patrimonio monumentale e archeologico della Striscia di Gaza, che avviene sistematicamente da mesi ormai, in spregio alle disposizioni della Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione, salvaguardia e rispetto di beni culturali in casi di conflitto armato, di cui anche Israele è firmatario; riteniamo che questa azione delle forze armate israeliane, per quanto “collaterale” rispetto all’immane perdita di vite umane, costituisca un’ennesima forma di cancellazione dell’identità culturale palestinese e di attacco al radicamento della popolazione al proprio territorio.