Crisi della città e crisi dell’arte
L’OMNIMERCIFICAZIONE DEL MONDO, COMPLEMENTO LOGICO DELLA SOCIETÀ DI CRESCITA, HA
CONSEGUENZE DISTRUTTIVE SULLA QUALITÀ DELLA VITA IN TUTTE LE CITTÀ. MA AL
FALLIMENTO DELLA «POLITICA URBANA» HA CONTRIBUITO ANCHE QUELLA CHE È STATA
CHIAMATA LA «CRISI DELLA CULTURA», UNA DISTRUZIONE DEL GUSTO, DELLA SENSIBILITÀ,
DELLO STILE DI VITA. L’INTRODUZIONE DEL LIBRO IL DISASTRO URBANO E LA CRISI
DELL’ARTE CONTEMPORANEA (ELÈUTHERA) DI SERGE LATOUCHE: UNA RIFLESSIONE
SULL’ESTETICA ACCOMPAGNATI DA BAUDRILLARD E CASTORIADIS
Milano. Foto unsplash.com
--------------------------------------------------------------------------------
All’origine di questo libro c’è anzitutto la pubblicazione, in Italia, di un
saggio scritto su impulso e in collaborazione con Marcello Faletra, docente di
Estetica all’Accademia di Belle Arti di Palermo, intitolato Hyperpolis.
Architettura e capitale[1]. Il termine «Hyperpolis» che ho suggerito per il
titolo allude all’opera Les Géants del grande romanziere francese J.M.G. Le
Clézio, che rappresenta una delle critiche più feroci alla società dei consumi.
Hyperpolis designa una sorta di città-supermercato gigante, simbolo del mondo
della merce nel villaggio globale. «Quando si è dentro Hyperpolis è come se si
fosse dentro l’universo. Tutt’a un tratto le mura sono così lontane che non si
riesce a vederle, sono sparite ai confini dello spazio. Il soffitto è tanto
alto, il pavimento tanto basso, che è come se non ci fossero limiti. Lo spazio
si è espanso molto velocemente, ha respinto le superfici dure e piatte, largo,
tanto largo, ha spostato i suoi muri e le sue finestre, e ora non se ne vedono
più le frontiere. Si è in lui, si fluttua». Questo luogo inumano invoca la sua
distruzione. Si presenta allora come un ritornello ossessivo il mantra «Bisogna
bruciare Hyperpolis», cosa che il protagonista, Machines, compirà alla fine del
romanzo[2]. L’omnimercificazione del mondo, complemento logico della società di
crescita, ha conseguenze talmente distruttive sulla qualità della vita che in
effetti si può perfino arrivare ad augurarsi la scomparsa di questo mondo. La
deterritorializzazione, ovvero la dinamica extra suolo dell’attività umana,
devasta sia la campagna sia la città e saccheggia il paesaggio, a dispetto della
buona volontà e del talento di architetti, urbanisti e paesaggisti che, spesso
consapevoli del disastro, tentano invano di porvi rimedio. Se la megapolis nella
quale viviamo non è altrettanto inumana di Hyperpolis è perché eredita una
storia e una cultura che hanno preceduto il regno della merce e perché la
colonizzazione del nostro immaginario da parte dell’economia fatica a
distruggere fino in fondo la nostra capacità di resistenza.
L’analisi del disastro urbano non pertiene solo alla dimensione territoriale
della logica di distruzione materiale compiuta dall’economia di crescita.
Questa costituisce di certo un elemento importante nei disordini che hanno avuto
luogo di recente nelle banlieues francesi e che hanno portato il presidente
Macron a parlare di «decivilizzazione». Ma al fallimento della «politica urbana»
ha contribuito anche quella che è stata chiamata la «crisi della cultura»,
ovvero una radicale perdita di valori, un’altrettanto radicale distruzione del
gusto, della sensibilità, dello stile di vita. Tale distruzione, che si può
qualificare come di natura estetica, deriva in ultima istanza dallo stesso
processo di colonizzazione dell’immaginario da parte del fattore economico
presente anche nella deterritorializzazione. La capacità di resistenza mentale
al processo distruttivo si nutre e si rinforza grazie alle distruzioni
materiali. Siamo coinvolti in una lotta titanica – dove è in gioco nientemeno
che la sopravvivenza della specie – che a vari livelli e con modalità diverse
investe tutti.
Il caso ha voluto che questa riflessione sul disastro urbano sia avvenuta in
concomitanza con una riflessione più generale sull’estetica, nata da un invito a
partecipare al festival di Trani (cittadina pugliese, non lontana da Bari, ricca
di storia), il cui tema era «la Bellezza». Dal momento che l’estetica non sfugge
al collasso dei valori generato dal trionfo del valore economico, gli
organizzatori del festival hanno pensato, non senza ragione, che la decrescita
avesse qualcosa da dire al riguardo. Tanto la crisi dell’arte contemporanea,
spesso denunciata, quanto il disastro urbano, risultano incontestabilmente da
quel collasso. E il grande caos estetico tocca tutte le belle arti:
l’architettura (e il suo prolungamento, l’urbanistica) così come la pittura o la
musica, anche se la prima è toccata sia dall’impatto materiale della
mercificazione sia dalle sue ricadute sull’estetica. Ecco verosimilmente la
ragione per cui, nel progetto della decrescita, architetti e urbanisti sono
stati interpellati molto più di pittori, musicisti o danzatori, anche se, in fin
dei conti, tutti ne sono stati colpiti. L’ambizione di architetti e urbanisti è
di risolvere la crisi sociale con l’utopia delle cités radieuses, mentre quella
dei poeti, dei pittori, dei musicisti e degli altri artisti è di farci sognare,
dimenticare la miseria del presente e reincantare il mondo.
L’estetica si trova pertanto al crocevia delle riflessioni sulla decrescita. La
si incontra sia quando ci si interroga sul ruolo del sacro o sull’arte di
vivere, sia quando ci si preoccupa di pedagogia o di colonizzazione
dell’immaginario3.
Nonostante ciò, è ancora possibile ritrovare il senso e il gusto del bello? Ci
si può inventare un’estetica adatta al progetto di costruire società di
abbondanza frugale? Ne esistono già segni premonitori e anticipazioni? La
decrescita non sfugge al malinteso dei progetti utopici, incastrati fra la
pregnanza del presente e il futuro sognato: città di decrescita, abitazioni di
decrescita ecc. Ci sono state anche rivendicazioni di decrescita nella pittura,
nella musica, e perfino nella pedagogia. Si tratta di pretese largamente, se non
totalmente, ingiustificate.
Si può essere urbanisti, architetti, pittori o musicisti e aderire al movimento
della decrescita, e certamente questa adesione può e deve avere un impatto sul
modo di praticare la propria arte. Tuttavia, non bisogna mettere il carro
davanti ai buoi. L’arte non può essere arruolata per un progetto sociale e
politico, proprio come non può essere sottomessa agli imperativi del mercato.
«Il tentativo di strumentalizzare l’arte» scrive Castoriadis «porta alla sua
pura e semplice distruzione»[4]. Anche se è possibile tratteggiare quelle che
potrebbero essere città sostenibili e conviviali alternative alla società di
crescita, è un azzardo troppo grande pretendere di anticipare un’estetica del
futuro, nonostante essa costituisca una dimensione centrale del progetto della
decrescita.
Questa riflessione sull’estetica nei suoi intrecci con il progetto della
decrescita non ha la presunzione di presentare un’analisi esaustiva della crisi
dell’arte contemporanea, tema che ha suscitato contributi molto approfonditi da
parte degli specialisti, del cui novero non pretendiamo di fare parte[5].
Motivata dalla connessione con la decrescita, essa sfrutta largamente la critica
poderosa di Jean Baudrillard enucleata nel suo pamphlet sul «complotto
dell’arte», ma poggia al contempo sulle analisi della distruzione della cultura
nella società capitalista condotte da Cornelius Castoriadis, disseminate nella
sua opera e poi raccolte nel libro postumo Fenêtre sur le chaos[6]. Ovviamente
l’analisi di Castoriadis, a differenza di quella di Baudrillard, non porta
direttamente alla «nullità dell’arte contemporanea»: i giudizi che esprime
sull’argomento, molto cauti[7], derivano dalla sua diagnosi della crisi della
cultura occidentale, ovvero sostanzialmente dei suoi «valori». Tali valori –
«consumo, potere, status, prestigio, espansione illimitata del governo della
‘razionalità’» – hanno esaurito il loro potere creativo e stanno ormai portando
la civiltà occidentale al collasso. Seppur in forma diversa, la sua analisi si
collega alla nostra sull’autodistruzione della società di crescita e sulla
necessità di una «rivalorizzazione», ovvero di un’autentica rivoluzione
culturale. Solo che la dialettica della cultura e della base materiale, che
alcuni tentano perfino di negare, è tutto fuorché semplice. Nel momento in cui
si tocca l’estetica, i giudizi inevitabilmente coinvolgono la soggettività del
loro autore. E, per ben argomentati che siano, resteranno pur sempre molto
discutibili. Al termine di un’analisi magistrale, in alcune pagine magnifiche
nelle quali il suo acuto sguardo filosofico si combina con la finezza di chi ha
a lungo frequentato la psicoanalisi, Castoriadis ammette la propria impotenza a
penetrare tutti i misteri che l’estetica pone[8]. Noi non pretendiamo di fare di
meglio… La rilettura di Castoriadis in occasione della pubblicazione francese
dei suoi saggi mi ha portato tuttavia a prendere coscienza delle significative
differenze tra le nostre analisi, cosa che mi ha spinto ad aggiungere in
conclusione un breve «post scriptum». La decrescita, abbiamo scritto per parte
nostra, è un’arte di vivere. L’arte di vivere bene, in sintonia con il mondo.
L’arte di vivere con arte. L’obiettore di crescita è al contempo un artista.
Qualcuno per il quale il godimento estetico è una parte importante della gioia
di vivere. L’etica della decrescita implica dunque necessariamente un’estetica
della decrescita, anche se l’etica della decrescita non si riduce a un’estetica.
Fare della propria vita un’opera d’arte non è di per sé l’obiettivo primario
della decrescita, ma piuttosto una delle sue conseguenze.
È quindi naturale che, avendo presentato Castoriadis e Baudrillard come
precursori della decrescita, questi saggi si iscrivano nel loro solco, come, in
misura minore, in quello di altri precursori quali William Morris, Jacques Ellul
o Pier Paolo Pasolini, nel tentativo di portare un po’ di luce «decrescente» sui
misteri dell’estetica[9].
--------------------------------------------------------------------------------
Note all’Introduzione
1. Serge Latouche e Marcello Faletra, Hyperpolis. Architettura e capitale,
Meltemi, Milano, 2019.
2. Ivi, p. 116. «All’ingresso di Hyperpolis non c’è nessuno. L’uomo che si
chiama Machines avanza verso il centro e rovescia il primo bidone al suolo,
vicino a una colonna. Accende un fiammifero e la fiamma gialla divampa alta.
Un po’ più in là l’uomo Machines rovescia il secondo bidone. Già risuonano
le sirene. L’uomo accende un secondo fiammifero e la fiamma divampa alta
verso il soffitto. Poi l’uomo chiamato Machines arretra un po’, si siede, la
schiena contro un pilastro. Guarda le fiamme che formano grandi onde
verticali verso il soffitto, sente le sirene e i fischietti. Ma per lui fa
lo stesso, attende» (Les Géants, Gallimard, Paris, 1973, p. 333).
3. Si vedano i nostri saggi: Penser un nouveau monde. Pédagogie et
décroissance. Entretiens avec Simone Lanza, Payot & Rivages, Paris, 2023
[trad. it. Il tao della decrescita. Educare a equilibrio e libertà per
riprenderci il futuro, Il margine, Trento, 2021]; L’Abondance frugale comme
art de vivre. Bonheur, gastronomie et décroissance, Payot & Rivages, Paris,
2020 [trad. it. L’abbondanza frugale come arte di vivere. Felicità,
gastronomia e decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2022]; Comment
réenchanter le monde. La décroissance et le sacré, Payot & Rivages, Paris,
2019 [trad. it. Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, Bollati
Boringhieri, Torino, 2020].
4. Cornelius Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, Seuil, Paris,15 2007, p. 45
[trad. it. Finestra sul caos, scritti su arte e società, elèuthera, Milano,
2007].
5. I curatori dei testi di Castoriadis [Fenêtre sur le chaos, cit.] includono
una bibliografia sulla questione, di cui si segnala in particolare l’opera
di Yves Michaud La Crise de l’art contemporain, puf, Paris, 1997. Bisogna
inoltre menzionare il libro
più recente di Marc Jimenez, La Querelle de l’art contemporain, Gallimard,
Paris, 2005.
6. Castoriadis, Fenêtre sur le chaos, cit.
7. «La riflessione è dunque piena di trappole e di rischi»; ivi, p. 12.
8. «Sono quarant’anni che questo interrogativo mi assilla: perché lo stesso
pezzo, diciamo la Sonata n. 33 di Beethoven, composta da qualcuno oggi
sarebbe considerata una sorta di scherzo, ma scoperta per caso in un solaio
di Vienna sarebbe considerata un capolavoro immortale? […] Non ho visto
nessuno riflettere seriamente sulla questione»; ivi, p. 33.
9. Si vedano questi autori nella collana Les précurseurs de la décroissance da
me curata per le Éditions Le Passager clandestin.
--------------------------------------------------------------------------------
L'articolo Crisi della città e crisi dell’arte proviene da Comune-info.