
Cultura per non colti
Comune-info - Wednesday, October 22, 2025Siamo in grado di trasformare biblioteche e teatri spesso semivuoti? Come rivitalizzare la vita scolastica? Possiamo partecipare in modo diverso a un convegno? Forse abbiamo bisogno di ascoltare gli outsider per capire come ragiona chi resta ai margini o non entra. “Come sarebbe una scuola fatta da chi l’ha sofferta o l’ha odiata, ovvero dove a insegnare fosse proprio chi pativa insuccessi scolastici, umiliazioni dai docenti o dai compagni, senso di inutilità di quel tempo seduto al banco – scrive Stefano Laffi – O come sarebbe un museo curato da non l’ha mai amato, si annoiava a morte da bambino nelle visite guidate e solo dopo ha imparato a dialogare con le opere, magari da solo nella sua stanza. Una selezione del personale per titoli alla rovescia: potrebbero essere loro i depositari delle alternative al presente…”. In questo testo, tratto dal libro Immagina (Feltrinelli), un magnifico quaderno di appunti, Laffi racconta cosa è accaduto quando ha provato a ripensare una biblioteca con un gruppo di adolescenti non frequentatori. Di certo, suggerisce quel libro, possiamo tutti re-imparare a immaginare per cambiare l’ordine delle cose, disegnare un presente diverso a cominciare dai dissensi, condividere nuove domande: possiamo imparare molto, in un mondo pieno di immagini ma privo di immaginazione, da chi pratica l’arte, da chi si ribella, da chi ripensa la vita di ogni giorno. Sicuramente dai bambini e dalla bambine
Uno dei frutti colorati del Laboratorio d’arte “L’ultimo fiore d’autunno”, promosso nei giorni scorsi alla Casa del bambino di Castel Volturno, meraviglioso centro educativo comunitario di un territorio difficile della provincia di Caserta
Partiamo da un dato preoccupante: il pubblico sembra sempre più distante dall’offerta culturale tradizionale. Si legge sempre meno, si frequenta sempre meno il cinema e il teatro, si investe sempre meno in cultura, aumenta l’abbandono scolastico. Certo, oggi molti consumi culturali avvengono online, ma questo non risolve il destino delle istituzioni culturali fisiche. Negli anni si è tentato di innovare: musei che escono dalle loro sedi, bibliobus, teatro a domicilio, cinema nei cortili. Eppure, il problema di base rimane: come rivitalizzare scuole, biblioteche e teatri spesso semivuoti? Se ragiono con l’emisfero sinistro, affino l’offerta, arricchisco il patrimonio, diversifico i prezzi, vario la programmazione… insomma valorizzo quello che faccio, cerco di far apprezzare e comunicare il valore della cultura, convinto della mia missione. È tuttavia improbabile che le soluzioni offerte dal pensiero analitico degli esperti aprano le porte a chi non pensa nemmeno di entrare.
Proviamo a ribaltare tutti gli elementi, a considerare gli altri personaggi della storia, a guardare dal di fuori: forse abbiamo bisogno di ascoltare gli outsider, di capire come ragiona chi non ci crede, chi non entra, chi non sa. È il contrario di quello che succede oggi, dove tutto è per addetti ai lavori, appassionati già convinti, e lo capisci dagli applausi ai convegni o agli spettacoli. A una mostra o a un’opera teatrale sul soccorso ai migranti verranno coloro che già ne riconoscono il valore, ma così non si allarga la consapevolezza, e la cultura rischia di trasformarsi in un’operazione consolatoria, per sentirsi “dalla parte giusta”. Peraltro, con una certa probabilità che alla mostra o allo spettacolo i migranti non vengano. Il confronto con gli outsider, invece, va fatto senza nessuna presunzione di superiorità, anzi, proprio a partire dalle buone ragioni che essi hanno per non avvicinarsi ai luoghi della cultura, per non partecipare, per non esserci. Questo per scoprire perché quei luoghi, visti da fuori, risultano supponenti, discriminanti, incomprensibili, inaccessibili, costosi, percepiti come poco utili da chi conduce una vita stretta da mille altre necessità. Diversi adolescenti che abbandonano la scuola si chiedono a che cosa serva, perché nel frattempo frequentano corsi sul Web e seguono tutorial per sperimentare altro; in altre parole, rifiutano la scuola, non lo studio.
E se cambiassimo radicalmente il modo di concepire queste istituzioni? Come sarebbe una scuola fatta da chi l’ha sofferta o l’ha odiata, ovvero dove a insegnare fosse proprio chi pativa insuccessi scolastici, umiliazioni dai docenti o dai compagni, senso di inutilità di quel tempo seduto al banco. O come sarebbe un museo curato da non l’ha mai amato, si annoiava a morte da bambino nelle visite guidate e solo dopo ha imparato a dialogare con le opere, magari da solo nella sua stanza. Una selezione del personale per titoli alla rovescia: potrebbero essere loro i depositari delle alternative al presente.
Ho provato a ripensare una biblioteca insieme a un gruppo di giovani non frequentatori. Ecco che cosa è emerso.
- Lo spazio esterno conta quanto quello interno: per loro, il “fuori” è fondamentale: è lì che ci si incontra, si chiacchiera, si sta insieme. La biblioteca deve essere prima di tutto un “medium di relazioni”, un luogo dove si va per gli amici, non solo per i libri. I volumi diventano quasi un pretesto, un alibi. Questa chiave obbligata, per dirla con Rodari, del “medium di relazioni” vale sempre con le fasce di età giovanili: qualsiasi proposta – scolastica o extrascolastica – avrà valore solo se consentirà di stare insieme. Ma, in fondo, la formula “medium di relazioni” non è un’ottima definizione di cultura? E allora, tanto per fare un esempio, perché imporre il silenzio in biblioteca e non creare piuttosto aree di parola, dove studiare insieme? Insomma, perché non fare della biblioteca, della scuola o del museo – quindi dei loro spazi, dei loro arredi, delle loro regole – dei luoghi di amicizia, che è certamente un valore più universale e più immediatamente accessibile rispetto alla lettura di libri?
- Superare la soglia invisibile: l’ingresso tradizionale, con il bibliotecario in attesa, crea ansia. Meglio iniziare con uno spazio neutro: un bar, un’area ristoro. Insomma, uno spazio neutro che non divida il mondo fra lettori e non-lettori, e sia quindi più accogliente, metta voglia di entrare o almeno tolga il disagio nel farlo. Attenzione: sono le aziende più innovative a dotarsi di aree ristoro, a considerarle decisive nella generazione di idee, e quel gruppo di progettazione di non-lettori sta sposando senza saperlo quella stessa soluzione. Di più, è il capitale relazionale quello che risulta oggi decisivo per le giovani generazioni nel procurarsi opportunità – lavoro, casa, viaggi …– quindi quello scambio di vedute al caffè diviene anche strategicamente prezioso.
- A ogni età il suo spazio e i suoi arredi: in una pianta dell’edificio che alla fine risulterà esagonale, a spicchi, la prima sala dopo l’ingresso informale è quella di lettura, a scaffale aperto, con divani e angoli morbidi, con arredi fatti da materiali di recupero. Insistono che non ci siano tavoli ma solo sedute comode, perché la vista dei tavoli evoca in loro studio e fatica, mentre la lettura avviene in un’altra posizione. Accettano di convivere in quella che sentono “la loro sala” anche con anziani dediti alla lettura di giornali e riviste, mentre preferiscono che le mamme con bambini stiano in un’altra sala: forse vogliono rimarcare la distanza da quella situazione, anagraficamente vicina ma assai lontana nel loro immaginario. Le due sale che seguono in questa forma esagonale sono la sala studio tradizionale – tavoli, prese, wi-fi – e quella della playstation, per la fascia dei preadolescenti, più eventuali giochi da tavolo: quest’ultima deve essere di uso esclusivo e insonorizzata, perché “accanto a chi gioca non si può fare altro”, spiegano loro.
- Uno spazio per produrre cultura, non solo consumarla: la sorpresa finale è uno spazio espositivo, per artisti emergenti del territorio, giovani produttori di cultura, non solo consumatori. Pensano di meritare uno spazio in biblioteca, in cui poter esporre quadri, testi musicali o altre opere di coetanei. Chiedono che questa sala sia a vetri, ben visibile da fuori, sostengono che quella sarà una buona leva per fare entrare giovani in biblioteca. Così ripenso al fatto che, in effetti, la cultura non li rispecchia mai: nei musei, a teatro, in biblioteca, al cinema non si trova mai qualcosa fatto da un coetaneo.
L’ultima sala sembra suggerirci una chiave. Forse la loro diserzione dipende dal loro esilio, dal non sentirsi parte di quella scena. Se l’adolescenza vedesse riconosciuto il suo potenziale, anche nella produzione culturale, si sentirebbe più a casa in tutti quei luoghi nei quali le si chiede sempre di tacere, ascoltare, guardare.
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