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La Riviera di Gaza, utopia genocida
di Chris Hedges e Eunice Wong,  Chris Hedges Substack, 2 agosto 2025.   La società israeliana applaude il massacro di Gaza e vede nel genocidio non un crimine, ma una fantasia utopica. La Rivera di Gaza nel video di Gila Gamliel Gli israeliani non vedono come una maledizione le immagini dei cadaveri scheletrici dei bambini palestinesi che hanno affamato a morte. Non considerano un crimine di guerra le famiglie massacrate che hanno ucciso a colpi di arma da fuoco nei centri di distribuzione alimentare, progettati non per fornire aiuti ma per attirare i palestinesi affamati entro un enorme campo di concentramento nel sud di Gaza in preparazione alla deportazione. Gli israeliani non considerano nulla di straordinario i selvaggi bombardamenti e i cannoneggiamenti che uccidono o feriscono decine di civili palestinesi, e muoiono ogni giorno in media 28 bambini. Non vedono come barbarizzata la terra desolata di Gaza, fatta a pezzi dalle bombe e metodicamente demolita da bulldozer e escavatori, che lascia praticamente senza tetto l’intera popolazione di Gaza. Non vedono come selvaggia la distruzione degli impianti di depurazione dell’acqua, la decimazione degli ospedali e delle cliniche, dove i medici e il personale sanitario sono spesso impossibilitati a lavorare perché indeboliti dalla malnutrizione. Non battono ciglio davanti agli omicidi di medici e giornalisti, 232 dei quali sono stati assassinati per aver cercato di documentare l’orrore. Gli israeliani si sono accecati moralmente e intellettualmente. Guardano al genocidio attraverso le lenti di una classe politica e mediatica fallita che dice loro solo ciò che vogliono sentire e mostra loro solo ciò che vogliono vedere. Sono inebriati dal potere delle loro armi industriali e dalla licenza di uccidere impunemente. Sono ubriachi di autoadulazione e della fantasia di essere l’avanguardia della civiltà. Credono che lo sterminio di un popolo, compresi i bambini, condannati come potenziale contaminante umano, renda il mondo, e soprattutto il loro mondo, un posto più felice e sicuro. Sono gli eredi di Pol Pot, degli assassini che hanno compiuto i genocidi a Timor Est, in Ruanda e in Bosnia e, sì, dei nazisti. Israele, come tutti gli stati genocidi – nessuna popolazione dalla Seconda Guerra Mondiale è stata espropriata e affamata con tanta rapidità e spietatezza – ha una soluzione finale che avrebbe ottenuto l’approvazione di Adolf Eichmann. La fame è sempre stato il piano, il capitolo finale predeterminato del genocidio. Israele ha metodicamente pianificato fin dall’inizio del genocidio di distruggere le fonti di cibo, bombardando panifici e bloccando le spedizioni di cibo a Gaza, cosa che ha accelerato da marzo, quando ha interrotto quasi tutte le forniture alimentari. Ha preso di mira l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) – da cui dipendeva per il cibo la maggior parte dei palestinesi– accusando i suoi dipendenti, senza fornire prove, di essere coinvolti negli attacchi del 7 ottobre. Questa accusa è stata utilizzata per dare ai finanziatori come gli Stati Uniti, che nel 2023 hanno fornito 422 milioni di dollari all’Agenzia, la scusa per interrompere il sostegno finanziario. Israele ha quindi vietato l’attività dell’UNRWA. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, oltre 1.000 palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani e dai mercenari statunitensi nella caotica corsa per ottenere uno dei pochi pacchi alimentari distribuiti durante brevi intervalli di tempo, di solito un’ora, nei quattro siti di assistenza allestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta da Israele. Una volta che Gaza è stata trasformata in un paesaggio lunare dopo 21 mesi di bombardamenti a tappeto, una volta che i palestinesi sono stati costretti a vivere in tende, sotto teloni di fortuna o all’aperto, una volta che l’acqua potabile, il cibo e le cure mediche sono diventati quasi impossibili da trovare, una volta che la società civile è stata annientata, Israele ha iniziato la sua tetra campagna per affamare i palestinesi fuori da Gaza. Una persona su tre a Gaza passa diversi giorni senza mangiare, secondo le Nazioni Unite. La fame non è uno spettacolo piacevole. Ho seguito la carestia in Sudan nel 1988, che ha causato circa 250.000 vittime. Ho delle striature nei polmoni, cicatrici dovute al fatto di essere stato in mezzo a centinaia di sudanesi che stavano morendo di tubercolosi. Io ero forte e in buona salute e ho combattuto il contagio. Loro erano deboli e emaciati e non ce l’hanno fatta. Ho visto centinaia di figure scheletriche, fantasmi di esseri umani, avanzare a passo lento attraverso il paesaggio arido del Sudan. Le iene, abituate a nutrirsi di carne umana, catturavano regolarmente i bambini piccoli. Mi trovavo in mezzo a cumuli di ossa umane sbiancate alla periferia dei villaggi, dove decine di persone, troppo deboli per camminare, si erano sdraiate in gruppo e non si erano più rialzate. Molti erano i resti di intere famiglie. Gli affamati non hanno calorie sufficienti per sopravvivere. Mangiano qualsiasi cosa per sopravvivere: mangime per animali, erba, foglie, insetti, roditori, persino terra. Soffrono di diarrea costante. Hanno difficoltà a respirare a causa di infezioni respiratorie. Strappano piccoli pezzi di cibo, spesso avariato, e lo razionano nel vano tentativo di placare i morsi della fame. La fame riduce il ferro necessario per produrre l’emoglobina, una proteina dei globuli rossi che trasporta l’ossigeno dai polmoni al corpo, e la mioglobina, una proteina che fornisce ossigeno ai muscoli; c’è inoltre carenza di vitamina B1, che influisce sul funzionamento del cuore e del cervello. Si instaura l’anemia. Il corpo, in sostanza, si nutre di se stesso. I tessuti e i muscoli si consumano. È impossibile regolare la temperatura corporea. I reni smettono di funzionare. Il sistema immunitario collassa. Gli organi vitali si atrofizzano. La circolazione sanguigna rallenta. Il volume del sangue diminuisce. Malattie infettive come il tifo, la tubercolosi e il colera diventano epidemie, uccidendo migliaia di persone. È impossibile concentrarsi mentalmente. Le vittime emaciate soccombono al ritiro mentale ed emotivo e all’apatia. Non vogliono essere toccate o spostate. Il muscolo cardiaco è indebolito. Le vittime, anche a riposo, sono in uno stato di quasi arresto cardiaco. Le ferite non guariscono. La vista è compromessa da cataratte, anche tra i giovani. Infine, sotto il tormento di convulsioni e allucinazioni, il cuore smette di battere. Questo processo può durare fino a 40 giorni per un adulto. I bambini, gli anziani e i malati muoiono più rapidamente. Questo è il futuro che Israele ha predestinato ai due milioni di persone di Gaza. Ma non è questo il futuro che vedono gli israeliani. Loro vedono il paradiso. Vedono uno stato ebraico etnico-nazionalista dove i palestinesi, di cui hanno rubato e occupato la terra e il cui popolo hanno soggiogato e costretto a un’esistenza di apartheid, non esistono. Vedono caffè e alberghi sorgere dove migliaia, forse decine di migliaia, di corpi giacciono sepolti sotto le macerie. Vedono turisti che si divertono sul lungomare di Gaza, una visione esaltata da un video generato dall’intelligenza artificiale caricato sui social media dal ministro israeliano dell’Innovazione, della Scienza e della Tecnologia, Gila Gamliel. È così che sarebbe Gaza senza palestinesi, facendo eco al video assurdo generato dall’intelligenza artificiale pubblicato da Donald Trump. Nel nuovo video, israeliani spensierati mangiano nei ristoranti sul mare. Nel Mediterraneo scintillante sono ormeggiati yacht di lusso. Splendidi hotel e grattacieli, tra cui una Trump Tower, punteggiano il lungomare. Attraenti quartieri residenziali sorgono dove ora ci sono cumuli di cemento frantumato e frastagliato. Il video mostra Benjamin Netanyahu e sua moglie Sara, così come Trump e Melania, che passeggiano lungo la spiaggia. Gamliel, come altri leader israeliani e Trump, usa cinicamente il termine “emigrazione volontaria” per descrivere la pulizia etnica di Gaza. Questo omette la scelta netta che Israele offre effettivamente ai palestinesi: andarsene o morire. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha chiesto una “annessione di sicurezza” della Striscia di Gaza settentrionale e ha promesso che Gaza diventerà “parte inseparabile dello Stato di Israele”. Ha fatto queste dichiarazioni durante una conferenza alla Knesset intitolata “La Riviera di Gaza: dalla visione alla realtà”, e ha presentato proposte per la costruzione di colonie ebraiche a Gaza. Smotrich ha detto che Israele “trasferirà i gazawi in altri paesi” e che Trump ha approvato il piano. Il ministro israeliano del Patrimonio Amichai Eliyahu, che una volta ha proposto di sganciare una bomba nucleare su Gaza, ha dichiarato che “tutta Gaza sarà ebraica”. Il governo israeliano “sta accelerando il passo per spazzare via Gaza”, ha detto Eliyahu. Ha descritto i palestinesi come nazisti. “Grazie a Dio, stiamo spazzando via questo male. Stiamo spingendo questa popolazione che è stata educata sul ‘Mein Kampf’”. Gli assassini genocidi abbracciano fantasie di sterminio di una popolazione autoctona e di espansione del loro stato etnonazionalista. I nazisti hanno compiuto il loro genocidio, che includeva la fame di massa, contro gli slavi, gli ebrei dell’Europa orientale e altre popolazioni indigene, liquidati come Untermenschen, o subumani. Dei colonizzatori dovevano poi essere spediti nell’Europa centrale e orientale per germanizzare il territorio occupato. Questi assassini non tengono conto delle tenebre che scatenano. Le lussuose proprietà sul lungomare sognate da Israele non vedranno mai la luce, proprio come la moderna capitale esclusivamente serba, con la sua cattedrale dalla cupola dorata, l’imponente palazzo presidenziale, la torre dell’orologio di 15 piani, il centro medico all’avanguardia e il teatro nazionale con un palcoscenico girevole di 22 metri, non è mai stata costruita sulle rovine della Bosnia. Ci saranno invece brutti condomini, popolati dai soliti malfattori, proto-fascisti, razzisti e mediocri che vivono nelle colonie ebraiche in Cisgiordania. Questi ultranazionalisti, che hanno formato milizie ribelli per impadronirsi della terra palestinese e si sono uniti all’esercito israeliano nell’assassinio di oltre 1.000 palestinesi in Cisgiordania dal 7 ottobre, caratterizzeranno Israele. Sono la versione israeliana dei 3 milioni di membri della Pancasila Youth – l’equivalente indonesiano delle Camicie Brune o della Gioventù Hitleriana – che nel 1965 contribuì a compiere il genocidio che causò da mezzo milione a un milione di morti. Queste milizie ribelli, equipaggiate con armi automatiche fornite dal governo israeliano, hanno linciato Saifullah Musallet, un palestinese-americano di 20 anni che due settimane fa stava cercando di proteggere la terra della sua famiglia. È il quinto cittadino statunitense ucciso in Cisgiordania dal 7 ottobre. Una volta che questi teppisti e delinquenti israeliani hanno finito con i palestinesi, si rivoltano l’uno contro l’altro. Il genocidio a Gaza segna l’abolizione, sia per gli israeliani che per i palestinesi, dello stato di diritto. Segna la distruzione anche della parvenza di un codice etico. Gli israeliani stessi sono i barbari che loro condannano. Se c’è una giustizia perversa in questo genocidio, è che gli israeliani, una volta finito con i palestinesi, saranno costretti a vivere insieme in uno squallore morale. https://chrishedges.substack.com/p/the-gaza-riviera-read-by-eunice-wong?utm_campaign=post&utm_medium=web&triedRedirect=true Traduzione a cura di AssoPacePalestina Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
L’Europa sta spingendo per uno Stato palestinese, o per la resa palestinese?
30/07/2025 di G - Invicta Palestina Il tardivo riconoscimento dello Stato Palestinese da parte dell’Europa è una palese manovra geopolitica, parte di una più ampia spinta alla normalizzazione che mette da parte la liberazione palestinese, mentre confeziona la sconfitta come un progresso diplomatico. Stiamo assistendo alla nascita di uno Stato? O alla dichiarazione della sua sconfitta? Fonte: English version Di Malek al-Khoury – 28 luglio 2025 Fin dalla sua nascita nel 1948, Israele non ha mai operato entro confini fissi. L’espansione è sempre stata la sua dottrina, non vincolata dalla legge, ma spinta dalla forza e sostenuta da un incrollabile sostegno occidentale. Israele si è rifiutato di definire i propri confini per quasi ottant’anni perché la sua stessa identità è radicata in un’ambizione coloniale che non è mai veramente tramontata. Dalla Nakba (Catastrofe) alla Naksa (Retrocessione), dalle invasioni territoriali all’annessione di Gerusalemme, delle Alture del Golan e della Cisgiordania, lo Stato di Occupazione ha continuato a ridisegnare i propri confini in base al potere, non alla legittimità. Questo progetto espansionistico si è ulteriormente rafforzato con l’ascesa della corrente nazionalista messianica all’interno di Israele, che considera il pieno controllo del “Grande Israele” un diritto storico irrinunciabile. Oggi, a 77 anni dalla Nakba, Israele ha avviato una modalità di espansione a pieno regime, espropriando i palestinesi, distruggendo intere città e villaggi, consolidando insediamenti ebraici illegali e imponendo l’Apartheid. Eppure, paradossalmente, Stati europei come Francia e Regno Unito si stanno preparando a riconoscere uno “Stato Palestinese” proprio quando la geografia politica palestinese è al suo massimo di frammentazione e il Progetto Sionista è al suo massimo di aggressività. Cosa significa dunque questo riconoscimento? Si tratta di un risultato strategico per i palestinesi o di uno stratagemma diplomatico che scredita la resa come un successo? Uno Stato senza confini, un progetto senza freni La Dichiarazione Balfour del 1917 segnò l’avvio formale di un Progetto di Colonialismo di Insediamento in Palestina. Ciò che seguì non fu l’immigrazione, ma un’espropriazione calcolata: dalle confische di terre e dai Massacri agevolati dagli inglesi, alle espulsioni di massa della Nakba del 1948, che determinò una Pulizia Etnica di oltre 750.000 palestinesi. Non si trattò di mero Colonialismo. Fu una sostituzione etnica: terre confiscate sotto la protezione imperiale, poi conquistate militarmente. Questa Campagna non si concluse mai. Proseguì con l’Occupazione di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania, e si intensificò dopo il 1967. L’obiettivo di Israele non è mai stata la coesistenza. È sempre stata la Supremazia Ebraica. Il Piano di Partizione delle Nazioni Unite del 1947 (Risoluzione 181) concesse oltre il 55% della Palestina Storica al Movimento Sionista, nonostante gli ebrei ne possedessero solo il 6%. Il Movimento Sionista accettò questo sulla carta per ottenere legittimità internazionale, per poi violarne immediatamente i termini, occupando con la forza il 78% del territorio. Ad oggi, lo Stato di Occupazione non ha adottato una costituzione formale, e il motivo è che basarsi sul Piano di Partizione avrebbe limitato le sue ambizioni espansionistiche. La Dottrina Sionista non ha mai riconosciuto confini definitivi, istituendo invece uno Stato senza frontiere ufficiali, poiché le sue ambizioni si estendono oltre la geografia palestinese per includere parti di Giordania, Siria, Libano ed Egitto. Il dibattito interno in Israele sulla dichiarazione di uno “Stato Ebraico” non è semplicemente una questione legale, ma un tentativo di consolidare un’identità esclusiva e basata sulla sostituzione, che sancisce legalmente la Discriminazione Razziale e nega ai palestinesi il loro status di popolo nativo. Riallineamento della Resistenza: il 7 ottobre e la svolta a due Stati Il terremoto innescato dall’Operazione Onda di Al-Aqsa ha scosso non solo Israele, ma anche il contesto politico del Movimento Palestinese. Sorprendentemente, le fazioni palestinesi, tra cui Hamas, hanno iniziato a esprimere esplicitamente il loro sostegno alla “Soluzione a Due Stati”, dopo anni di insistenza sulla Liberazione completa della Palestina storica. In una dichiarazione senza precedenti, l’alto funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato nel maggio 2024: “Siamo pronti a impegnarci positivamente in qualsiasi seria iniziativa per una Soluzione a Due Stati, a condizione che comporti un vero Stato Palestinese sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale e senza insediamenti”. Questo adattamento tattico segnala un cambiamento significativo. Dopo decenni di insistenza sulla piena liberazione, attori palestinesi chiave stanno ora prendendo apertamente in considerazione uno Stato troncato. Si tratta di un riflesso di dinamiche di potere in evoluzione? O di un riallineamento imposto sotto pressione regionale e internazionale? Riconoscimento come leva: Francia, Arabia Saudita e normalizzazione La scorsa settimana, in un post su X, il Presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato: “In linea con il suo impegno storico per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, ho deciso che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina. Farò questo solenne annuncio davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il prossimo settembre. Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco immediato, del rilascio di tutti gli ostaggi e di massicci aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Dobbiamo anche garantire la smilitarizzazione di Hamas, proteggere e ricostruire Gaza. E infine, dobbiamo costruire lo Stato di Palestina, garantirne la vitalità e garantire che, accettandone la smilitarizzazione e riconoscendo pienamente Israele, contribuisca alla sicurezza di tutti nella Regione. Non c’è alternativa”. Il riconoscimento previsto dalla Francia di uno Stato Palestinese a settembre non è motivato da principi, ma da una dura e fredda manovra geopolitica. Sembrerebbe che Parigi stia cercando di stringere legami più stretti con Riad, che ha legato la normalizzazione con Tel Aviv ai progressi sulla questione palestinese. Il riconoscimento francese è quindi un segnale calcolato all’Arabia Saudita, non un gesto di solidarietà con i palestinesi. In questa equazione, la Palestina diventa moneta di scambio. La sua indipendenza non viene affermata come un diritto, ma sbandierata come precondizione negli accordi di normalizzazione tra le monarchie arabe e lo Stato Occupante. Allineamenti strategici: l’asse Ankara -Londra Con un terzo dei parlamentari che chiede al Primo Ministro britannico Keir Starmer di riconoscere la Palestina, la pressione si sta accumulando anche su Londra. In una dichiarazione, Starmer ha affermato: “Insieme ai nostri più stretti alleati, sto lavorando a un percorso verso la pace nella Regione, incentrato su soluzioni pratiche che faranno davvero la differenza nella vita di coloro che soffrono in questa guerra. Questo percorso definirà i passi concreti necessari per trasformare il cessate il fuoco, così disperatamente necessario, in una pace duratura. Il riconoscimento di uno Stato Palestinese deve essere uno di questi passi. Sono inequivocabile al riguardo”. Anche la Gran Bretagna non si sta muovendo verso il riconoscimento per chiarezza morale, ma per rafforzare il suo asse strategico post-Brexit con la Turchia. Ankara, alleato commerciale chiave di Israele e sostenitore politico di Hamas, considera il riconoscimento della Palestina uno strumento per elevare la sua statura regionale e la sua influenza energetica. Per Londra, approfondire i legami con la Turchia promette vantaggi economici e geopolitici. Il risultato è un percorso di riconoscimento convergente tra Parigi e Riad e tra Ankara e Londra. Si stanno formando così due assi informali: Parigi-Riyadh e Ankara-Londra, entrambi convergenti sul riconoscimento di uno Stato Palestinese. Eppure, nessuno dei due approccia la questione partendo da una convinzione di principio nei diritti dei palestinesi, ma piuttosto attraverso la lente del potere, dell’influenza e della realpolitik. Lo Stato palestinese: riconoscimento senza sovranità Anche se tutti i Paesi europei riconoscessero la Palestina, ciò non sarebbe altro che un simbolismo senza applicazione. Non ci sarebbero confini definiti per lo Stato, nessun controllo sul proprio territorio e nessuna interruzione delle politiche di espansione degli insediamenti o di annessione perseguite dallo Stato di Occupazione. Tel Aviv respinge completamente questa premessa. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha insistito sul fatto che qualsiasi futuro Stato Palestinese sarebbe “una piattaforma per distruggere Israele” e che il controllo sovrano della sicurezza deve rimanere a Israele. Ha ripetutamente escluso un ritorno alle condizioni precedenti al 7 Ottobre. La realtà è che il 68% della Cisgiordania, classificata come Area C, rimane sotto il pieno controllo israeliano. Oltre 750.000 coloni sono insediati in quel territorio, sotto la piena protezione dell’Esercito di Occupazione. Come può uno Stato esistere su un territorio Occupato e frammentato, sotto costante assedio e senza sovranità? “Sono appena tornato da un giro di conferenze in giro per il mondo e posso affermare con sicurezza che l’immagine e la posizione globale di Israele sono al punto più basso della storia”, scrive il giornalista israeliano Ben-Dror Yemini. Eppure, nonostante ciò, il governo di estrema destra di Netanyahu sta raddoppiando gli sforzi: spinge per la completa annessione della Cisgiordania Occupata, mira a nuovi punti d’appoggio territoriali nel Sinai, nella Siria meridionale e persino in Giordania, pur mantenendo posizioni militari nel Libano meridionale. L’immagine globale di Israele potrebbe erodersi, ma il suo Progetto strategico sta avanzando. Se Israele si sta espandendo e consolidando, mentre il Movimento Palestinese ridimensiona le richieste e gli Stati regionali normalizzano i rapporti, cosa è stato ottenuto esattamente? Le fazioni della Resistenza che un tempo rifiutavano l’esistenza di Tel Aviv ora propongono la creazione di uno Stato alle sue condizioni. Il riconoscimento europeo è privo di incisività. Gli insediamenti crescono. Gli sfollamenti continuano. Questa non è liberazione. È la sepoltura del sogno sotto le mentite spoglie della diplomazia. La soluzione provvisoria diventerà l’accordo definitivo. Lo “Stato” Palestinese diventa un eufemismo diplomatico: una struttura vuota elogiata nei discorsi, ma negata sul campo. Malek Al-Khoury è uno scrittore e giornalista geopolitico che in precedenza ha lavorato presso il principale quotidiano libanese As-Safir. Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto L'Europa sta spingendo per uno Stato palestinese, o per la resa palestinese? - Invictapalestina
Un trattore per At-Tuwani
di AssopacePalestina,  Progetti, giugno 2025.   Salviamo Masafer Yatta! L’altopiano di Masafer Yatta (Grande Yatta) si trova in Area C, è situato nella parte più meridionale della Cisgiordania: un gruppo di 15 villaggi tra la città di Yatta e la linea verde. Copre un’area semidesertica di circa 36 Km2, la casa di circa 4000 abitanti che vivono prevalentemente di pastorizia e agricoltura. Nei primi anni Ottanta, per volontà dell’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon, viene deciso che nell’area sorgerà una zona di esercitazione militare, la “firing zone 918”, estesa su una superficie di circa 30 Km2 che include 12 villaggi. I residenti continuano a vivere senza particolari interferenze fino all’ottobre del 1999, quando l’Amministrazione Civile emana ed esegue ordini di espulsione per 700 residenti, con la motivazione che stavano vivendo illegalmente in una zona di tiro. Alle famiglie di 12 villaggi vengono date 24 ore di tempo per lasciare case e terreni; il giorno dell’esecuzione, i soldati rimuovono forzatamente i residenti e sequestrano tutto ciò che è stato lasciato. Le immagini terrificanti di quella tragica vicenda fanno il giro del mondo e smuovono l’opinione pubblica. Col sostegno di associazioni legali israeliane, 200 famiglie avviano un ricorso presso l’Alta Corte di Giustizia israeliana. È il 2000 quando la Corte emette la prima ingiunzione: le famiglie possono fare ritorno alle loro case e coltivare la loro terra. Ma è una misura provvisoria che, peraltro, nega agli abitanti di costruire abitazioni e infrastrutture. Viene data la possibilità di tornare, ma non di crescere e sviluppare una vita sul territorio. Così, nel corso del processo arbitrale, durato 22 anni, i residenti dell’area vivono nella minaccia di demolizione, espulsione e spoliazione, senza poter costruire abitazioni o infrastrutture. L’Amministrazione Civile risponde con ordini di demolizione: tra il 2006 e il 2013 demolisce 66 abitazioni, lasciando 553 persone senza casa. Solo tra 2012 e il 201332 demolisce 32 strutture non residenziali. A marzo del 2022, la Corte respinge le petizioni delle famiglie ricorrenti, accettando tutte le argomentazioni dello Stato israeliano: permette l’espulsione dei residenti con la motivazione che non possono vivere in una zona di tiro. Segui la campagna Save Masafer Yatta: https://savemasaferyatta.com/en/ L’altra faccia della violenza di Stato: la violenza dei coloni. Accanto ai palestinesi per i quali è proibito costruire e prosperare, proliferano le colonie israeliane: sin dalla loro fondazione nell’area negli anni ’80, hanno continuato a espandersi e seminare terrore. Secondo i dati Bt’Selem, l’88% dei residenti palestinesi ha subìto o assistito a violenza da parte dei coloni; come, ad esempio, il blocco delle strade e l’impedimento dell’accesso ai campi, i danni alla proprietà (che aumentano nella semina e nel raccolto), tra cui la distruzione dei raccolti e il furto di pecore e capre in particolare, intimidazioni e violenza fisica. Mentre si demolivano anche solo le tende dei palestinesi, l’avamposto illegale della comunità israeliana ad Avigail si collegava all’acqua, all’elettricità, a una strada asfaltata, e prosperava sulla terra dei palestinesi. Youth of Sumud (Giovani della Resilienza) è stata fondata nel 2017 proprio in risposta alle aggressioni e violenze dei coloni e dei militari. L’associazione si è impegnata nella rinascita del villaggio di Sarura, abbandonato negli anni ’90, a causa dei crescenti attacchi dei coloni di Havat Ma’On; le antiche case rupestri sono state successivamente danneggiate o demolite. Dal 2017, Youth of Sumud ha ricostruito le grotte e, da allora, vi ha stabilito una presenza permanente: il Sumud Freedom Camp. L’associazione è anche responsabile della sicurezza dei bimbi del vicino villaggio di Tuba che frequentano la scuola di At-Tuwani: il percorso dei bambini viene interrotto e reso sempre più pericoloso dai coloni dell’avamposto israeliano Havat Ma’on. Inoltre, accompagna i pastori che pascolano le loro greggi e gli agricoltori mentre raccolgono nella raccolta delle olive anche nella valle del Giordano e in tutta la Cisgiordania. Youth of Sumud assieme a una rete di solidarietà internazionale, anche israeliana ed ebraica, è impegnata nella resistenza non violenta all’occupazione. https://youthofsumud.org
Oltre l’ombra di Gaza: la guerra invisibile per il futuro della Cisgiordania
di Ramzy Baroud,    Counterpunch, 29 luglio, 2025. Foto di Ahmed Israele sta seguendo meticolosamente un esempio da manuale per l’istigazione di disordini nella Cisgiordania occupata. Le ultime provocazioni di questo tipo sono consistite nel privare il comune palestinese di Hebron (Al-Khalil) dei suoi poteri amministrativi sulla venerabile Moschea di Ibrahimi. Peggio ancora, secondo Israel Hayom, ha concesso questi poteri al consiglio religioso dell’insediamento ebraico di Kiryat Arba, un gruppo di coloni estremisti. Sebbene tutti i coloni ebrei israeliani nella Palestina occupata possano essere considerati estremisti, i circa 7.500 abitanti di Kiryat Arba rappresentano una categoria più aggressiva. Questo insediamento, istituito nel 1972, funge da punto d’appoggio strategico per giustificare l’assoggettamento di Hebron a un controllo militare più rigoroso rispetto a qualsiasi altra parte della Cisgiordania. Kiryat Arba è tristemente legata a Baruch Goldstein, il colono israelo-americano che, nel febbraio 1994, scatenò un orribile attacco, in cui aprì il fuoco contro i fedeli musulmani inginocchiati per la preghiera dell’alba nella moschea di Ibrahimi, uccidendo senza pietà 29 persone. Questo bagno di sangue è stato rapidamente seguito da un altro ancora, in cui l’esercito israeliano ha brutalmente represso i manifestanti palestinesi a Hebron e in tutta la Cisgiordania, uccidendo altri 25 palestinesi. Eppure, la Commissione israeliana Shamgar, incaricata di indagare sul massacro, decise nel 1994 che la moschea palestinese, un luogo di profondo significato religioso, doveva essere grottescamente divisa: il 63% assegnato ai fedeli ebrei e un mero 37% ai musulmani palestinesi. Da quella decisione disastrosa, sono state sistematicamente imposte restrizioni oppressive. Questi includono una sorveglianza pervasiva e, a volte, chiusure prolungate e ingiustificate del sito, esclusivamente per uso esclusivo dei coloni. L’ultima decisione, descritta da Israel Hayom come “storica e senza precedenti”, è profondamente pericolosa. Pone il destino di questa storica moschea palestinese direttamente nelle mani di coloro che sono fanaticamente desiderosi di acquisire il luogo sacro nella sua interezza. Ma la Moschea di Ibrahimi è solo un microcosmo di qualcosa di molto più sinistro in corso in tutta la Cisgiordania. Israele ha sfruttato la sua guerra a Gaza per intensificare drammaticamente la sua violenza, effettuare arresti di massa, confiscare vasti tratti di terra, distruggere metodicamente fattorie e frutteti palestinesi ed espandere aggressivamente gli insediamenti illegali. Sebbene la Cisgiordania, in precedenza in gran parte sottomessa dalle pressioni militari israeliane congiunte e dalla repressione dell’Autorità Palestinese, non sia stata una parte diretta dell’assalto del 7 ottobre 2023 né del genocidio israeliano in corso a Gaza, è diventata inspiegabilmente un obiettivo importante per le misure militari israeliane. Nel primo anno di guerra, oltre 10.400 palestinesi sono stati arrestati durante la repressione dell’esercito israeliano, con migliaia di detenuti senza accusa. Inoltre, centinaia di palestinesi sono stati sottoposti a pulizia etnica forzata , in gran parte dal nord della Cisgiordania, dove interi campi profughi e città sono stati sistematicamente distrutti in prolungate campagne militari israeliane. L’obiettivo generale di Israele rimane lo strangolamento della Cisgiordania. Ciò si ottiene dividendo le comunità locali, utilizzando onnipresenti posti di blocco militari, imponendo la chiusura totale di vaste regioni e la crudele sospensione dei permessi di lavoro per i lavoratori palestinesi, che dipendono quasi interamente dal mercato del lavoro israeliano per la sopravvivenza. Questo piano subdolo ha anche preso di mira esplicitamente tutti i luoghi santi palestinesi, tra cui il venerato complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata e la moschea di Ibrahimi. Anche quando questi santuari erano nominalmente accessibili, i limiti di età e i soffocanti posti di blocco militari rendono difficile, a volte del tutto impossibile, per i palestinesi praticare il loro culto. Nell’agosto 2024, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato che la sua implacabile campagna violenta contro la Cisgiordania faceva parte del confronto contro “l’asse più ampio del terrorismo iraniano”. In pratica, questa dichiarazione è servita come via libera all’esercito israeliano per trattare la Cisgiordania come un’estensione del genocidio israeliano in corso su Gaza. A metà luglio 2025, oltre 900 palestinesi erano stati uccisi dall’esercito israeliano in Cisgiordania, mentre almeno 15 erano stati uccisi dai coloni. Mentre i palestinesi venivano messi sempre di più con le spalle al muro, senza una strategia centralizzata da parte della loro leadership per resistere in modo significativo, Israele ha aumentato esponenzialmente le sue costruzioni illegali di insediamenti e la sfacciata legalizzazione di numerosi avamposti, molti costruiti illegalmente anche per gli standard del governo israeliano. Le azioni di Israele in Cisgiordania non sono state una deviazione improvvisa, ma coerenti con un’orchestrazione di lunga data. Ciò include un piano consolidato dalla Knesset israeliana nel 2020 che ha permesso a Israele di annettere ufficialmente la Cisgiordania. L’obiettivo finale di Israele è sempre stato quello di confinare la maggioranza dei palestinesi in enclavi simili al Bantustan sudafricano, affermando al contempo il pieno controllo sulla stragrande maggioranza della regione. Nell’agosto 2023, l’estremista Ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha articolato questa visione inquietante: “Il mio diritto, il diritto di mia moglie e dei miei figli di muoversi in Giudea e Samaria (la Cisgiordania occupata) è più importante della libertà di movimento per gli arabi”. In seguito sono state istituite altre misure coercitive, tra cui le leggi della Knesset per limitare significativamente  le operazioni dell’UNRWA e ulteriori leggi per consolidare l’annessione de facto. Lo scorso maggio, Smotrich ha audacemente annunciato altri 22 insediamenti. Il 2 luglio, 14 ministri israeliani hanno fatto un appello pubblico a Netanyahu per annettere immediatamente  la Cisgiordania. In realtà, ogni azione intrapresa da Israele, specialmente dall’inizio del suo devastante genocidio a Gaza, è stata attentamente calcolata per culminare nell’annessione irreversibile della Cisgiordania – un processo che sarebbe inevitabilmente seguito dalla dichiarazione degli abitanti nativi persona non grata nella loro stessa patria. Questo livello di pressione e oppressione sistemica alla fine porterà a un’esplosione popolare. Anche se soppressa dalla brutalità dell’esercito israeliano, dal terrore dei coloni armati e dalle azioni repressive dell’Autorità Palestinese, il punto di rottura si sta avvicinando rapidamente. Coloro che in Occidente predicano vuoti appelli alla calma e alla de-escalation devono capire che la regione sta precipitando verso l’orlo del baratro. Né i luoghi comuni diplomatici né gli sterili comunicati stampa saranno sufficienti a scongiurare la catastrofe. Si consiglia loro di agire con decisione contro le politiche distruttive di Israele, e di farlo immediatamente. Ramzy Baroud è un giornalista e direttore del The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” (Clarity Press, Atlanta). Il Dr. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net https://www.counterpunch.org/2025/07/29/beyond-gazas-shadow-the-unseen-war-for-the-west-banks-future/ Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
L’inarrestabile marea della solidarietà palestinese
del Dr. Ramzy Baroud,  Arab News, 28 luglio 2025.   Manifestazione per la Palestina al Colosseo, Roma. 15 maggio 2021 Raramente succede che io visiti Roma senza fermarmi a Campo de’ Fiori per rendere omaggio a Giordano Bruno, filosofo italiano che nel 1600 fu brutalmente bruciato sul rogo durante l’Inquisizione romana. Il suo crimine era stato quello di aver osato sfidare dogmi radicati e di aver pensato liberamente alla natura infinita dell’universo. Mentre mi trovavo sotto la sua imponente statua durante il fine settimana, improvvisamente è scoppiato uno strano trambusto, che è diventato sempre più forte man mano che un nutrito gruppo di manifestanti si avvicinava. Decine di persone di tutte le età battevano con fervore su pentole e padelle. Dopo lo shock iniziale e la confusione che ne è seguita, si è capito che la protesta era un tentativo urgente di sensibilizzare la gente sulla terribile carestia che sta colpendo Gaza. In poco tempo, altre persone si sono unite spontaneamente, alcune applaudendo in assenza di altri strumenti per farsi sentire. I camerieri delle osterie della piazza hanno cominciato istintivamente a battere le mani su qualsiasi cosa potesse produrre rumore, aumentando il clamore. La piazza è rimasta immobile per un attimo, vibrando del rumore collettivo, prima che i manifestanti marciassero verso un’altra piazza, il loro numero visibilmente crescente ad ogni passo. Nelle vivaci strade di Roma, le bandiere palestinesi sono le uniche bandiere non italiane ad occupare gli spazi pubblici. Sono appese ai lampioni, incollate ai cartelli stradali o sventolano orgogliosamente dai balconi. Nessun altro paese, nessun altro conflitto, nessun’altra causa ha permeato gli spazi pubblici in modo così profondo come la causa palestinese. Sebbene questo fenomeno non sia del tutto nuovo, la guerra e il genocidio in corso a Gaza hanno indubbiamente amplificato questa solidarietà, spingendola oltre i confini tradizionali di classe, ideologia e linee politiche. Eppure, nessun altro luogo in Italia può essere veramente paragonato a Napoli. I simboli palestinesi sono ovunque, permeano il tessuto della città come se la Palestina fosse la principale preoccupazione politica dell’intera popolazione della regione. Ciò che affascina particolarmente della solidarietà con i palestinesi in questa vivace città non è solo l’enorme quantità di graffiti, manifesti e bandiere, ma i riferimenti molto specifici ai martiri, ai prigionieri e ai movimenti palestinesi. Le immagini di Walid Daqqa, Shireen Abu Akleh e Khader Adnan sono esposte in modo prominente accanto a richieste precise e mirate che, al di fuori della Palestina, sarebbero considerate dettagli sconosciuti al grande pubblico. Come ha fatto Napoli a entrare così profondamente in sintonia con il discorso palestinese? Questa domanda fondamentale risuona ben oltre i confini italiani e riguarda numerose città in tutto il mondo. È degno di nota il fatto che questo importante cambiamento nella comprensione profonda della lotta palestinese e l’ampio sostegno al popolo palestinese si stiano verificando nonostante il pregiudizio diffuso e incessante dei media a favore di Israele e le continue intimidazioni dei governi occidentali nei confronti degli attivisti filopalestinesi. In politica, la massa critica si raggiunge quando un’idea, inizialmente sostenuta da un gruppo minoritario, si trasforma in modo decisivo in una questione mainstream. Questo cambiamento cruciale le permette di superare il simbolismo e di iniziare a esercitare un’influenza reale e tangibile nella sfera pubblica. In molte società in tutto il mondo, la causa palestinese ha già raggiunto quella massa critica. In altre, dove la repressione governativa soffoca ancora il dibattito alla radice, la crescita organica continua comunque, promettendo così un cambiamento inevitabile e fondamentale. E questo è proprio il timore ossessivo di numerosi israeliani, soprattutto all’interno delle classi politiche e intellettuali. Scrivendo venerdì sul quotidiano israeliano Haaretz, l’ex primo ministro Ehud Barak ha lanciato ancora una volta l’allarme. “La visione sionista sta crollando”, ha scritto, aggiungendo che Israele è “bloccato in una ‘guerra dell’inganno’ a Gaza”. Sebbene la pervasiva macchina propagandistica israeliana si stia impegnando senza sosta per arginare il crescente flusso di simpatia verso la Palestina e l’ondata di rabbia contro i presunti crimini di guerra israeliani, per ora il suo obiettivo rimane fermamente fissato sulla giustificazione dello sterminio di Gaza, anche a costo di una condanna e di un’indignazione globali. Quando la guerra sarà finalmente finita, tuttavia, Israele farà senza dubbio tutto il possibile, ricorrendo a numerosi nuovi modi creativi per demonizzare ancora una volta i palestinesi ed esaltare se stesso, la sua cosiddetta democrazia e il suo “diritto all’autodifesa”. A causa della crescente credibilità internazionale della voce palestinese, Israele sta già ricorrendo all’uso di palestinesi che difendono indirettamente Israele incolpando Gaza e cercando di interpretare il ruolo della vittima per “entrambe le parti”. L’uso di questa tattica insidiosa è destinato a crescere in modo esponenziale, poiché mira a creare confusione e a mettere i palestinesi gli uni contro gli altri. I palestinesi, gli arabi e tutti i sostenitori della giustizia in tutto il mondo devono cogliere con urgenza questa opportunità cruciale per sconfiggere definitivamente la hasbara israeliana. Non dobbiamo permettere che le menzogne e gli inganni di Israele definiscano ancora una volta il discorso sulla Palestina sulla scena mondiale. Questa battaglia deve essere combattuta con ferocia ovunque e non deve essere concesso a Israele nemmeno uno spazio: né un parlamento, né un’università, né un evento sportivo, né un angolo di strada. Bruno ha subito una morte orribile e dolorosa, ma non ha mai abbandonato le sue convinzioni. Nel movimento di solidarietà con la Palestina, nemmeno noi possiamo vacillare nella lotta per la libertà dei palestinesi e per la condanna dei criminali di guerra, indipendentemente dal tempo, dall’energia o dalle risorse necessarie. Ora che la Palestina è finalmente diventata una causa globale indiscussa, l’unità di tutti è fondamentale per garantire che la marcia verso la libertà continui, affinché il genocidio di Gaza diventi l’ultimo straziante capitolo della tragedia palestinese. Dr. Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappe, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak Out” (La nostra visione per la liberazione: leader e intellettuali palestinesi impegnati prendono la parola). https://www.arabnews.com/node/2609778 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
La fame a Gaza è una vergogna. Sono necessarie sanzioni paralizzanti contro Israele
The Guardian, 29 luglio 2025. Trentuno firmatari israeliani esprimono vergogna, rabbia e angoscia per la situazione dei palestinesi e chiedono un intervento della comunità internazionale. “Il nostro paese sta facendo morire di fame la popolazione di Gaza”. APA Images/Shutterstock Noi, israeliani impegnati per un futuro di pace per il nostro paese e per i nostri vicini palestinesi, scriviamo queste righe con grande vergogna, rabbia e angoscia. Il nostro paese sta affamando a morte la popolazione di Gaza e sta valutando la possibilità di espellere con la forza milioni di palestinesi dalla Striscia. La comunità internazionale deve imporre sanzioni paralizzanti a Israele fino a quando non porrà fine a questa brutale campagna e non attuerà un cessate il fuoco permanente. Yuval Abraham, Giornalista; vincitore dell’Academy Award (2025) Ra’anan Alexandrowicz, Documentarista; vincitore del Sundance World Cinema Jury Prize (2012) Udi Aloni, Regista; vincitore del Tribeca Film Festival per il miglior lungometraggio internazionale (2016) Liran Atzmor, Documentarista; vincitore del Peabody Award (2014) Prof. Tali Bitan, Università di Haifa Michael Ben-Yair, Ex Procuratore Generale di Israele; ex giudice della Corte Suprema Nir Bergman, Sceneggiatore e regista; vincitore del premio Ophir (2020). Avraham Burg, Ex presidente della Knesset; ex capo dell’Agenzia Ebraica. Peter Cole, Poeta e traduttore; borsista MacArthur Guy Davidi, Documentarista; vincitore dell’International Emmy Award (2013) Ari Folman, Sceneggiatore e regista; vincitore del Golden Globe (2009) Shira Geffen, Attrice e sceneggiatrice; vincitrice della Camera d’Or (2007) Prof. Emerito Amiram Goldblum, Università Ebraica di Gerusalemme Prof. Oded Goldreich, Istituto Weizmann per la Scienza; vincitore del Premio Israele (2021) Tamar Gozansky, Ex membro della Knesset Prof. Uri Hadar, Università di Tel Aviv Prof. Moty Heiblum, Vincitore del Premio Wolf per la fisica (2025) Adina Hoffman, Scrittrice; vincitrice del Premio Windham Campbell (2013) Eran Kolirin, Sceneggiatore e regista; vincitore del Premio Ophir (2021). Nadav Lapid, Sceneggiatore e regista; vincitore dell’Orso d’Oro (2019). Alex Levac, Vincitore del Premio Israele (2005) Hagai Levi, Sceneggiatore e regista televisivo; vincitore del Golden Globe (2015) Samuel Maoz, Regista; vincitore del Leone d’Oro (2009) Dr Adi Moreno, Tel Aviv-Yafo Academic College Prof. Michal Na’aman, Pittrice; vincitrice del Premio Israele (2014) Daniella Nowitz, Direttrice della fotografia; vincitrice dell’Academy Award (2023) Prof Adi Ophir. Tel Aviv University Inbal Pinto. Coreografa e ballerina; vincitrice del premio del Ministero della Cultura israeliano (2011) Aharon Shabtai, Poeta e traduttore; vincitore del premio del Primo Ministro israeliano (1993) Eyal Weizman, Architetto; direttore di Forensic Architecture https://www.theguardian.com/world/2025/jul/29/the-starvation-of-gaza-is-shameful-crippling-sanctions-on-israel-are-needed Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Parliamo di trasferimento silenzioso
di Tess Miller,  Ir Amim, 30 luglio 2025.   Villaggio di Nu’man Contesto storico di Nu’man Nel 1967 Israele annesse Gerusalemme Est e ridisegnò i confini municipali per includere i territori delle città palestinesi vicine, tra cui Nu’man. Tuttavia, mentre il territorio veniva annesso, i suoi abitanti non lo erano: venivano loro rilasciati documenti d’identità della Cisgiordania che impedivano loro di risiedere legalmente nelle proprie case (ora considerate territorio di Gerusalemme). Quando gli abitanti di Nu’man si resero conto della situazione in cui si trovavano, aprirono una causa legale per ottenere lo status di residenti permanenti, una correzione amministrativa che avrebbe permesso agli abitanti di vivere legalmente sulla propria terra e di accedere ai servizi di base. Negli ultimi 30 anni, le loro richieste sono state ripetutamente respinte. Inoltre, la città ha rifiutato di approvare qualsiasi forma di piano urbanistico per il villaggio, rendendo illegale qualsiasi costruzione. La vita dietro il muro All’inizio degli anni 2000, sulla scia della Seconda Intifada, Israele ha iniziato a costruire la barriera di separazione tra la Cisgiordania e Gerusalemme. Il muro ha di fatto isolato Nu’man sia dalla Cisgiordania che dal resto di Gerusalemme. Di conseguenza, l’unico punto di accesso al villaggio è diventato un checkpoint. Poiché Nu’man era considerato parte di Gerusalemme, i suoi abitanti, classificati come palestinesi della Cisgiordania, hanno improvvisamente avuto bisogno di un permesso per entrare nel proprio villaggio. Il posto di blocco ha portato restrizioni che hanno gravemente ostacolato la vita quotidiana e la routine di tutti. Un abitante, la cui famiglia allevava capre da generazioni, ha ricordato la difficoltà di portare il mangime per gli animali. I soldati strappavano regolarmente i sacchi al posto di blocco, costringendolo a raccogliere il contenuto a mano. Le cure veterinarie erano diventate quasi impossibili, poiché i veterinari di Gerusalemme non erano disposti a passare il posto di blocco e quelli della Cisgiordania erano vietati nel villaggio. Alla fine, il pastore ha rinunciato e ha venduto le capre, ponendo fine a una tradizione di famiglia. I trasporti erano un altro ostacolo. La maggior parte dei residenti, con documenti d’identità della Cisgiordania, non aveva diritto alle auto con targa israeliana, mentre i veicoli con targa palestinese erano vietati. È emersa una fragile soluzione: a pochi veicoli selezionati è stato concesso un permesso speciale per entrare a Nu’man. Il comportamento dell’esercito e la minaccia di violenze intorno ai posti di blocco facevano sì che gli abitanti del villaggio avessero paura ad uscire a piedi. Chiunque volesse uscire, compresi i bambini che andavano a scuola, doveva essere accompagnato con una delle poche auto autorizzate. Ibrahim, nato a Nu’man, guida Ir Amim in un tour attraverso il villaggio. Quella che nel 1967 era iniziata come una semplice questione burocratica relativa alla registrazione dei documenti d’identità è diventata uno strumento di sfollamento de facto. Crescere una famiglia a Nu’man è diventato sempre più difficile. Oltre alle bizzarre e diffuse difficoltà logistiche, il rifiuto del comune di Gerusalemme di riconoscere Nu’man ha comportato il diniego di un piano urbanistico e di qualsiasi possibilità di ottenere permessi di costruzione. I residenti più giovani che desiderano mettere su famiglia devono trasferirsi altrove o costruire una casa senza il permesso necessario (ma impossibile da ottenere). Invece di correggere il proprio errore e garantire ai residenti di Nu’man i diritti legali sulle loro case, le autorità israeliane hanno scelto di mantenere il controllo sul territorio, lasciando i residenti di Nu’man in una situazione di incertezza artificiale e di costante insicurezza abitativa. Ciò riflette una politica israeliana di lunga data volta a controllare più territorio con meno palestinesi. Minacce di demolizione Quest’estate, il 10 giugno, è arrivato il momento temuto: sugli ingressi di tutte le case di Nu’man sono stati affissi avvisi che dichiaravano illegali le abitazioni. Questi avvisi aprono la strada a ordini di demolizione di massa, un risultato che temiamo probabile. Dal punto di vista legale, i residenti hanno poche possibilità di ricorso. Le autorità israeliane si rifiutano di elaborare un piano urbanistico per il villaggio, costringendo le case a rimanere illegali secondo lo status che Israele ha imposto loro, in violazione del diritto internazionale. Nella realtà creata da Israele, la legge è stata contro Nu’man fin dal giorno della sua annessione. Avviso affisso questa mattina su una casa di Nu’man Rifiuto della cancellazione Durante la mia ultima visita a Nu’man, un membro della comunità ha descritto gli ultimi decenni come un processo di “trasferimento silenzioso”. È una descrizione azzeccata. Vivere a Nu’man significa affrontare una forma lenta e silenziosa di cancellazione, mascherata dalla legge, dalla burocrazia e dall’abbandono strategico. La lotta dei residenti per rimanere fa parte di una lotta più ampia, a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza, contro un sistema progettato per rendere impossibile la vita dei palestinesi nella loro terra. Per rimanere aggiornati su Nu’man, seguiteci sui social media. https://mailchi.mp/ir-amim/speaking-out-about-silent-transfer?e=77dc5be23f Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
I rifugiati di Agadez lanciano una petizione urgente dopo oltre 300 giorni di protesta
Mentre il governo del Niger intensifica la repressione e viola i diritti dei rifugiati, stare al loro fianco è più importante che mai. Firma e condividi ora 1. Da oltre 300 giorni, i rifugiati del Centro “Umanitario” di Agadez, in Niger, continuano la loro protesta pacifica, denunciando condizioni sempre più dure, negligenza amministrativa e intimidazioni da parte delle autorità nazionali. Dall’inizio di luglio, la maggior parte delle persone ospitate nel centro ha smesso di ricevere l’assistenza alimentare. Secondo l’UNHCR, l’aiuto continuerebbe a essere garantito alle cosiddette “categorie vulnerabili”, come vedove, minori non accompagnati e persone con disabilità o patologie croniche. Ma in pratica, le liste degli aventi diritto, emesse dall’UNHCR, hanno escluso numerose persone che rientrano chiaramente nei criteri dichiarati. Inoltre, chi aveva ricevuto aiuti da ONG partner nel 2023 è stato retroattivamente escluso dai nuovi elenchi. A queste persone, al momento della distribuzione, non era stato comunicato che si trattava di un progetto legato all’integrazione economica, né che quel sostegno avrebbe compromesso la possibilità di ricevere aiuti in futuro. In un comunicato diffuso lo scorso maggio, l’UNHCR ha giustificato i tagli come un’opportunità per “favorire l’autosufficienza” attraverso corsi di formazione professionale. Ma la realtà sul campo è che la maggior parte dei rifugiati oggi fatica a soddisfare i propri bisogni fondamentali.  Interviste/Confini e frontiere MENO CIBO, PIÙ AUTONOMIA? IL PARADOSSO DELL’ASSISTENZA DI UNHCR AL CAMPO DI AGADEZ, NIGER I rifugiati: «Non vogliamo restare qui, nel deserto» Laura Morreale 20 Giugno 2025 L’agenzia ONU attribuisce le difficoltà operative ai tagli dei finanziamenti internazionali e alle restrizioni imposte dal governo del Niger. Tuttavia, alcuni operatori umanitari presenti sul territorio segnalano un contesto sempre più repressivo, che rende difficile persino il dialogo diretto con la popolazione rifugiata. In particolare, lo staff UNHCR ha dovuto affrontare ostacoli e intimidazioni quando ha cercato di dialogare con i rifugiati coinvolti nella protesta. I rifugiati riportano che funzionari dell’Ufficio CNE – l’organismo nazionale incaricato di valutare le richieste d’asilo – hanno impedito o interrotto incontri tra il personale UNHCR e i rappresentanti dei rifugiati. Secondo diverse testimonianze, un funzionario del CNE avrebbe affrontato in modo aggressivo e minaccioso un rappresentante dell’UNHCR responsabile delle politiche nutrizionali nel campo, durante un incontro di routine. Episodi simili fanno pensare che le autorità locali stiano volutamente limitando la capacità dell’UNHCR di comunicare e difendere i diritti dei rifugiati. Notizie/Confini e frontiere GESTIRE IL DISSENSO AD AGADEZ Le autorità nigerine dichiarano sciolti i comitati dei rifugiati Laura Morreale 22 Aprile 2025 Nei giorni scorsi, ad alcuni rifugiati è stato detto di “parlare solo per sé stessi”, perché gli organismi di rappresentanza collettiva sono osteggiati dalle autorità nazionali. A partire da maggio, il CNE ha infatti dichiarato illegittimo il comitato dei rifugiati che guida la protesta. All’epoca, otto attivisti erano stati arrestati senza accuse formali e poi rilasciati. Sei di loro – tre donne e tre uomini – si sono visti sospendere la procedura d’asilo tramite un decreto ministeriale datato 3 luglio, con la motivazione di “disturbo dell’ordine pubblico e rifiuto di rispettare le leggi e i regolamenti in vigore nel paese ospitante”. I tentativi di contestare la decisione sono stati respinti dai giudici, che hanno rinviato i casi all’ufficio del governatore. I rifugiati che hanno cercato di presentare denunce formali sono stati ignorati o dirottati altrove. PH: Refugees in Niger Secondo le persone del centro con cui sono in contatto, altri due rifugiati sarebbero stati deportati verso il loro paese d’origine perché “si erano rivolte al tribunale e avevano parlato con i giudici delle condizioni del centro, del trattamento riservato ai rifugiati da parte del personale e degli incidenti verificatisi nel centro, in particolare l’omicidio di un rifugiato nel 2022”. In un contesto di tagli all’assistenza alimentare, restrizioni alla libertà d’espressione e mancanza di accesso alla giustizia, le condizioni psicologiche dei residenti del centro sono peggiorate. Una rifugiata, Nawal Daoud Mohamed, è stata rilasciata dal centro nonostante fosse noto che soffrisse di disturbi psicologici e ora risulta scomparsa. Il CNE ha riferito che sarebbe apparsa in un villaggio a ottanta chilometri dalla città di Agadez, ma i rifugiati non sanno se l’informazione sia accurata o se si tratti di una strategia per evitare disordini nel campo. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Di seguito, condividiamo il messaggio e la petizione inviataci dai rifugiati di Agadez con cui siamo in contatto da diversi mesi: -------------------------------------------------------------------------------- Grazie a Melting Pot Europa per il sostegno costante e per aver dato visibilità agli abusi in corso ad Agadez. Nonostante la nostra resistenza, e una protesta pacifica e legale che dura da oltre 309 giorni, la situazione è purtroppo peggiorata. Abbiamo bisogno della vostra voce. Vi chiediamo di firmare, condividere e amplificare queste storie, petizioni e testimonianze da Agadez. Enough is enough: when peaceful protest is met with collective punishment Dal 15 luglio 2025, i rifugiati del Centro Umanitario di Agadez hanno vissuto quanto segue: * Nawal Daoud Mohamed, una donna di 27 anni, è scomparsa dopo essere uscita dal campo. Era in stato di grave sofferenza psicologica a causa delle condizioni di vita estreme e disumane del Centro Umanitario di Agadez. * Pompe dell’acqua disattivate nel mese più caldo dell’anno, lasciando 2.000 persone – tra cui 800 bambini – senza acqua adeguata, con temperature nel deserto che superano i 50°C. * Assistenza alimentare eliminata per 1.730 persone come punizione per l’espressione pacifica del dissenso. L’UNHCR lo chiama “promozione dell’autosufficienza”. Il diritto internazionale lo chiama punizione collettiva. Su oltre 2.000 residenti, solo 270 persone classificate come “più vulnerabili” hanno ancora accesso alla nutrizione di base. * Otto leader comunitari, sopravvissuti a una detenzione arbitraria a marzo, oggi affrontano nuove minacce semplicemente perché si rifiutano di restare in silenzio. Il CNE ha intensificato le intimidazioni, avvertendo che lo status di rifugiato potrebbe essere revocato a chiunque continui a documentare le condizioni del centro con la campagna #KeepEyesOnAgadez. * Le cure mediche sono state ridotte al minimo, con farmaci limitati a semplici antidolorifici, mentre donne incinte muoiono durante il parto e i bambini vengono respinti da cliniche chiuse. -------------------------------------------------------------------------------- Non possiamo lasciare che tutto questo continui. Firma ora le petizioni per chiedere il ripristino immediato di cibo, acqua, cure mediche e la fine delle intimidazioni. Ogni firma aumenta la pressione sul governo del Niger e sull’UNHCR. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR Bastano 5 minuti, ma possono salvare delle vite. Condividi questo appello e tagga 3 persone che hanno a cuore i diritti umani. Quando firmiamo insieme, i funzionari devono ascoltare. 1. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR ↩︎
Due gruppi israeliani per i diritti umani accusano Israele di genocidio a Gaza
di Emir Nader,  BBC News, 28 luglio 2025 B’Tselem e Physicians for Human Rights-Israel hanno presentato i risultati in una conferenza stampa a Gerusalemme, Reuters Due importanti organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno affermato che il comportamento di Israele nella guerra a Gaza costituisce un genocidio contro la popolazione palestinese. B’Tselem e Physicians for Human Rights-Israel hanno pubblicato lunedì due rapporti separati basati su studi condotti negli ultimi 21 mesi di conflitto. Le organizzazioni, attive in Israele da decenni, hanno affermato in una dichiarazione congiunta che “in questi tempi bui è particolarmente importante chiamare le cose con il loro nome” e “chiedere che questo crimine cessi immediatamente”. Un portavoce del governo israeliano ha respinto con forza le accuse di genocidio, le prime formulate da gruppi per i diritti umani con sede in Israele. “Le nostre forze di difesa prendono di mira i terroristi e mai i civili. Hamas è responsabile delle sofferenze a Gaza”, ha affermato David Mencer. Durante una conferenza stampa tenutasi lunedì a Gerusalemme, la direttrice esecutiva di B’Tselem, Yuli Novak, ha affermato che il rapporto della sua organizzazione è “uno di quelli che non avremmo mai immaginato di dover scrivere”. Il documento di 88 pagine afferma: “Un esame della politica di Israele nella Striscia di Gaza e dei suoi terribili risultati, insieme alle dichiarazioni di alti politici e comandanti militari israeliani sugli obiettivi dell’attacco, ci porta alla conclusione inequivocabile che Israele sta intraprendendo un’azione coordinata per distruggere intenzionalmente la società palestinese nella Striscia di Gaza”. Nel suo rapporto di 65 pagine, Physicians for Human Rights Israel (PHRI) ha affermato che la sua analisi giuridica incentrata sulla salute ha rilevato che Israele ha preso di mira le infrastrutture sanitarie di Gaza “in modo calcolato e sistematico”. “Le prove dimostrano uno smantellamento deliberato e sistematico dei sistemi sanitari e di supporto vitale di Gaza, attraverso attacchi mirati agli ospedali, l’ostruzione dei soccorsi medici e delle evacuazioni, l’uccisione e la detenzione del personale sanitario”, si legge nel rapporto. Il dottor Guy Shalev, direttore esecutivo di PHRI, ha dichiarato: “Il silenzio di fronte al genocidio non è un’opzione. Vogliamo sottolineare che affrontare il genocidio non è solo responsabilità delle istituzioni giuridiche e politiche. Affrontarlo richiede un’azione urgente da parte della comunità sanitaria globale”. Le organizzazioni hanno ritenuto che il “terribile e criminale attacco di Hamas” contro Israele del 7 ottobre 2023 sia stato un evento scatenante che ha causato paura e trauma collettivo tra gli israeliani. Tuttavia, nella sua risposta all’attacco, secondo loro, il governo israeliano ha condotto una campagna basata sulla “promozione di ideologie estremiste e sulla disumanizzazione dei palestinesi a Gaza”. Hanno affermato che questo giudizio si riferiva al linguaggio utilizzato dai leader politici e militari nei confronti dei soldati che combattevano sul campo, che etichettavano tutti i palestinesi di Gaza come responsabili. Il PHRI ha concluso che gli atti da esso identificati “non erano incidentali alla guerra, ma parte di una politica deliberata che prendeva di mira i palestinesi come gruppo”, in un modo che soddisfaceva almeno tre atti definiti nell’articolo II della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, di cui Israele è firmatario. Secondo l’ONU, solo 18 dei 36 ospedali di Gaza sono ancora parzialmente funzionanti (foto d’archivio). Reuters Numerose organizzazioni internazionali per i diritti umani, esperti delle Nazioni Unite in materia di diritti umani e studiosi hanno accusato Israele di aver commesso un genocidio a Gaza. Anche la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sta esaminando un caso presentato dal Sudafrica in cui si sostiene che le forze israeliane stanno commettendo un genocidio contro i palestinesi a Gaza. Israele ha negato con veemenza l’accusa e ha definito il caso “del tutto infondato” e basato su “affermazioni false e tendenziose”. Il dottor Shalev ha dichiarato alla BBC che il PHRI e B’Tselem temono che le organizzazioni e il loro personale possano essere oggetto di violenze verbali o fisiche in Israele in risposta alle loro relazioni. “Ma speriamo che la gente ascolti ciò che abbiamo da dire”, ha aggiunto. Yuli Novak di B’Tselem ha affermato che il processo che ha portato alla conclusione che Israele sta commettendo un genocidio è stato difficile. “Capire davvero che il proprio paese, la propria collettività, sta effettivamente commettendo un genocidio è un processo mentale e personale molto difficile”, ha affermato. “Sconvolge qualcosa di molto fondamentale nella comprensione di chi siamo”. Israele ha lanciato la sua guerra a Gaza in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha causato la morte di circa 1.200 persone e il sequestro di altre 251. Da allora, secondo il ministero della Salute gestito da Hamas, gli attacchi israeliani hanno ucciso più di 59.900 persone a Gaza. Le cifre del ministero sono citate dall’ONU e da altri come la fonte più affidabile di statistiche disponibili sulle vittime. https://www.bbc.com/news/articles/c776xkvz6vno Di seguito i sommari esecutivi dei due documenti. Il nostro genocidio di B’Tselem,  Documento di sintesi, luglio 2025.   Dall’ottobre 2023, Israele ha cambiato radicalmente la sua politica nei confronti dei palestinesi. A seguito dell’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre 2023, Israele ha lanciato nella Striscia di Gaza un’intensa campagna militare, che è ancora in corso dopo oltre 21 mesi. L’assalto di Israele a Gaza comprende uccisioni di massa, sia con attacchi diretti, sia creando condizioni catastrofiche che aumentano il numero delle vittime: gravi lesioni fisiche o mentali all’intera popolazione della Striscia; distruzione su larga scala delle infrastrutture e delle condizioni di vita; distruzione del tessuto sociale, comprese le istituzioni educative e i siti culturali palestinesi; arresti di massa e abusi sui detenuti nelle prigioni israeliane, che sono diventate di fatto campi di tortura per migliaia di palestinesi detenuti senza processo; sfollamenti forzati di massa, compresi i tentativi di pulizia etnica dei palestinesi a Gaza e la trasformazione di quest’ultima in un obiettivo ufficiale di guerra; un attacco all’identità palestinese attraverso la distruzione deliberata dei campi profughi e i tentativi di minare l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA). Il risultato di questo attacco globale alla Striscia di Gaza è grave e, almeno in parte, irreparabile per più di 2 milioni di persone che vivono nella Striscia e fanno parte del popolo palestinese. Un esame della politica di Israele nella Striscia di Gaza e dei suoi terribili risultati, insieme alle dichiarazioni di alti politici e comandanti militari israeliani sugli obiettivi dell’attacco, porta alla conclusione inequivocabile che Israele sta intraprendendo un’azione coordinata e deliberata per distruggere la società palestinese nella Striscia di Gaza. In altre parole: Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza. Il termine genocidio si riferisce a un fenomeno socio-storico e politico che si è verificato nel corso della storia umana. Da quando è stata firmata la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio nel 1948 (entrata in vigore nel 1951), il genocidio è stato riconosciuto come uno dei crimini più gravi del diritto internazionale, e comprende atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Il genocidio viene perpetrato attraverso pratiche multiple e parallele nel tempo, di cui l’uccisione fisica di massa è solo una. La distruzione delle condizioni di vita, talvolta in zone di concentramento o campi, il tentativo sistematico di impedire le nascite, la violenza sessuale diffusa contro i membri del gruppo o la loro espulsione di massa possono essere, e sono stati nel corso della storia, alcuni dei mezzi utilizzati dagli stati o dalle autorità al potere per distruggere gruppi etnici, nazionali, razziali, religiosi e di altro tipo. Di conseguenza, gli atti genocidi sono varie azioni intese a provocare la distruzione di un gruppo distinto, nell’ambito di uno sforzo deliberato e coordinato da parte di un’autorità al potere. Sia dal punto di vista morale che giuridico, il genocidio non può essere giustificato in nessuna circostanza, nemmeno come atto di autodifesa. Il genocidio si verifica sempre in un certo contesto: ci sono condizioni che lo rendono possibile, eventi scatenanti e un’ideologia guida. L’attuale offensiva contro il popolo palestinese, anche nella Striscia di Gaza, deve essere compresa nel contesto di oltre settant’anni in cui Israele ha imposto un regime violento e discriminatorio ai palestinesi, che ha assunto la sua forma più estrema contro coloro che vivono nella Striscia di Gaza. Sin dalla sua fondazione, lo Stato di Israele ha istituzionalizzato e sistematicamente impiegato meccanismi di controllo violento, ingegneria demografica, discriminazione e frammentazione della collettività palestinese. Sono queste fondamenta poste dal regime che hanno reso possibile il lancio di un attacco genocida contro i palestinesi subito dopo l’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre 2023. Il presente rapporto sottolinea in particolare tre di queste fondamenta: la vita sotto un regime di apartheid che impone la separazione, l’ingegneria demografica e la pulizia etnica; l’uso sistematico e istituzionalizzato della violenza contro i palestinesi, mentre i responsabili godono dell’impunità; i meccanismi istituzionalizzati di disumanizzazione e di rappresentazione dei palestinesi come una minaccia esistenziale. Tali condizioni possono esistere nel tempo senza sfociare in un attacco genocida. Spesso, un evento violento che crea un senso di minaccia esistenziale nel gruppo perpetratore è il fattore scatenante che spinge il sistema al potere a compiere un genocidio. L’attacco di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi del 7 ottobre 2023 è stato un catalizzatore di questo tipo. L’atroce attacco, rivolto principalmente contro civili, ha comportato numerosi crimini di guerra e probabilmente anche crimini contro l’umanità. Ha causato la morte di 1.218 israeliani e cittadini stranieri, 882 dei quali civili, ha comportato atti di violenza estesi e gravi, compresa la violenza sessuale, e ha provocato decine di migliaia di feriti e il rapimento di 252 persone nella Striscia di Gaza, per lo più civili, tra cui donne, anziani e bambini. Il bambino più piccolo rapito era un neonato di nove mesi che è stato ucciso insieme al fratello di tre anni e alla madre durante la detenzione a Gaza. Per gli israeliani, il fatto stesso dell’attacco, la sua portata e le sue conseguenze hanno generato ansia e un senso di minaccia esistenziale tali da provocare profondi cambiamenti sociali e politici nella società israeliana. Ciò ha provocato un cambiamento nella politica israeliana nei confronti dei palestinesi nella Striscia di Gaza: dalla repressione e dal controllo alla distruzione e all’annientamento. L’assalto a Gaza non può essere separato dall’escalation di violenza inflitta, a vari livelli e in diverse forme, ai palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e all’interno di Israele. In queste zone, come a Gaza, vengono commessi crimini letali contro i palestinesi senza che i responsabili siano chiamati a rispondere delle loro azioni. La violenza e la distruzione in queste zone si stanno intensificando nel tempo, senza che alcun meccanismo efficace, nazionale o internazionale, intervenga per fermarle. Di conseguenza, questi crimini stanno diventando normali agli occhi dei soldati, dei comandanti, dei politici, dei media e degli israeliani in generale. Mettiamo in guardia dal pericolo evidente e imminente che il genocidio non rimanga confinato alla Striscia di Gaza e che le azioni e la mentalità che lo alimentano possano estendersi anche ad altre zone. B’Tselem è un’organizzazione israeliana per i diritti umani che documenta e ricerca i danni causati ai palestinesi sotto il regime di apartheid e occupazione israeliano. In nome del dovere di proteggere gli esseri umani, la loro vita, la loro dignità e i loro diritti individuali e collettivi, B’Tselem lavora da oltre 35 anni per denunciare le violazioni sistematiche dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele. In qualità di organizzazione per i diritti umani che lavora per fermare e prevenire la violenza sistematica e diffusa dello stato contro i palestinesi, è nostro dovere analizzare le violazioni dei diritti umani sul campo nel contesto del regime che le perpetra e della logica politica ad esse sottesa. Da ottobre 2023 abbiamo raccolto testimonianze oculari e documentato centinaia di episodi di violenza estrema e senza precedenti contro civili palestinesi in tutto il territorio controllato da Israele, mentre politici e comandanti militari di spicco hanno dichiarato apertamente le politiche attuate sul campo. Le innumerevoli prove delle conseguenze di queste politiche riflettono la terribile trasformazione dell’intero sistema israeliano nel suo trattamento dei palestinesi. A B’Tselem, ebrei israeliani e palestinesi della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Israele lavorano fianco a fianco, guidati dalla visione condivisa che la difesa dei diritti umani è un obbligo umano e morale fondamentale. Viviamo tutti sotto un regime di apartheid discriminatorio che classifica alcuni di noi come soggetti privilegiati semplicemente perché sono ebrei, e altri come indegni di qualsiasi protezione semplicemente perché sono palestinesi. Insieme, lottiamo per il diritto che tutti abbiamo di vivere tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano senza discriminazioni, oppressione violenta e annientamento. Mentre scriviamo, Israele sta intensificando il suo brutale e spietato assalto contro i palestinesi. Le uccisioni e le distruzioni sistematiche nella Striscia di Gaza, così come la crescente violenza e lo sfollamento forzato di decine di migliaia di persone in Cisgiordania, non sarebbero state possibili senza l’inerzia internazionale di fronte alla portata e alla gravità incomprensibili di questi crimini. Molti leader statali, in particolare in Europa e negli Stati Uniti, non solo si sono astenuti dall’adottare misure efficaci per fermare lo sterminio e la violenza, ma hanno permesso che continuassero, sia attraverso dichiarazioni che affermano il “diritto all’autodifesa” di Israele, sia attraverso un sostegno attivo, compreso l’invio di armi e munizioni. Come abitanti di questa terra e come attivisti per i diritti umani, è nostro dovere testimoniare la situazione che noi e molti altri abbiamo documentato e indagato. È nostro dovere dare un nome alla realtà che stiamo vivendo e di cui siamo testimoni, raccontarla e stare dalla parte delle vittime. Il riconoscimento che il regime israeliano sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza e la profonda preoccupazione che esso possa estendersi ad altre zone in cui i palestinesi vivono sotto il dominio israeliano richiedono un’azione urgente e inequivocabile da parte della società israeliana e della comunità internazionale, nonché l’uso di tutti i mezzi disponibili nel quadro del diritto internazionale per fermare il genocidio di Israele contro il popolo palestinese. Lavoro sostenuto principalmente da finanziamenti di stati stranieri. I nomi degli stati stranieri da cui sono state ricevute le donazioni sono riportati sul sito web del Registro. https://www.btselem.org/publications/202507_our_genocide Un’analisi del genocidio di Gaza incentrata sulla salute di Physicians for Human Rights Israel,  Documento di sintesi, luglio 2025.   Physicians for Human Rights Israel (PHRI) presenta questa analisi giuridica incentrata sulla salute della campagna militare israeliana a Gaza dall’ottobre 2023, concludendo che essa costituisce un genocidio ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948. Le prove dimostrano uno smantellamento deliberato e sistematico dei sistemi sanitari e di sopravvivenza di Gaza, attraverso attacchi mirati agli ospedali, l’ostruzione dei soccorsi medici e delle evacuazioni, l’uccisione e la detenzione del personale sanitario. In un periodo di 22 mesi, le azioni di Israele hanno distrutto le infrastrutture sanitarie di Gaza in modo calcolato e sistematico. La cronologia degli attacchi rivela una progressione deliberata: a partire dai bombardamenti e dall’evacuazione forzata degli ospedali nel nord di Gaza, il collasso del sistema sanitario si è esteso verso sud, dove le popolazioni sfollate hanno sopraffatto le strutture rimaste, che sono state poi sottoposte a ulteriori bombardamenti, assedi e privazione di risorse. Il sistema sanitario di Gaza è stato sistematicamente smantellato: gli ospedali sono stati resi inutilizzabili, le evacuazioni mediche sono state bloccate e servizi essenziali come la cura dei traumi, la chirurgia, la dialisi e la salute materna sono stati eliminati. L’uccisione e la detenzione di oltre 1.800 operatori sanitari, tra cui molti specialisti di alto livello, ha decimato la capacità medica di Gaza e reso quasi impossibile la ripresa. Gli aiuti umanitari sono stati deliberatamente limitati, costringendo i civili a recarsi presso punti di distribuzione militarizzati che sono spesso diventati luoghi di uccisioni di massa. Questo attacco coordinato ha provocato un collasso a cascata delle infrastrutture sanitarie e umanitarie, aggravato da politiche che hanno portato alla fame, alle malattie e al crollo dei sistemi igienico-sanitari, abitativi e scolastici. Il presente documento esamina anche le prove di uccisioni di massa e danni diffusi. A metà del 2025, sono stati confermati oltre 57.000 palestinesi uccisi, principalmente donne e bambini, con stime che si avvicinano a 100.000 se si includono le morti indirette. Decine di migliaia di persone sono rimaste ferite, tra cui migliaia di amputati e individui che necessitano di cure a lungo termine non disponibili a causa del collasso del sistema sanitario. I residenti di Gaza che sono stati arrestati e detenuti in strutture israeliane denunciano torture sistematiche, negligenza medica e trattamenti degradanti, che contribuiscono a causare danni sia fisici che psichici. I bambini subiscono traumi psicologici, mentre le donne subiscono un forte aumento degli aborti spontanei, delle nascite premature e della mortalità materna a causa della carestia e della mancanza di servizi sanitari riproduttivi. PHRI conclude che questi atti non sono una caratteristica della guerra, ma fanno piuttosto parte di una politica deliberata che prende di mira i palestinesi come gruppo. Essi rappresentano almeno tre degli atti fondamentali definiti nell’Articolo II della Convenzione sul Genocidio: (a) uccidere membri del gruppo; (b) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; e (c) sottoporre il gruppo a condizioni di vita calcolate per provocarne la distruzione totale o parziale. Nonostante le sentenze della giustizia internazionale, Israele non ha rispettato i propri obblighi e l’applicazione delle norme a livello globale rimane debole. PHRI esorta gli organismi internazionali e gli stati ad adempiere al proprio dovere ai sensi dell’Articolo I della Convenzione sul Genocidio per fermare il genocidio a Gaza. L’organizzazione invita inoltre la comunità sanitaria e umanitaria mondiale ad agire, poiché la distruzione del sistema sanitario di Gaza non è solo una violazione del diritto, ma una catastrofe umanitaria che richiede una solidarietà e una risposta globale urgente. https://www.phr.org.il/en/genocide-in-gaza-eng/ Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Video. In Israele c’è chi fa scherzi disgustosi sulla fame a Gaza, mentre altri cecano di negarla come una bufala
29 luglio 2025.     Un personaggio della TV israeliana scherza dicendo che una madre israeliana “obesa” si è mangiata la sua bambina a Gaza. Mentre i media israeliani di destra cercano di dire che la fame a Gaza è una bufala, alcuni commentatori dicono che è una punizione meritata per i Palestinesi. Dal vivo in questo video di 2min 30”: