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Le forze di occupazione minacciano i cittadini nella Valle del Giordano
da Jordan Valley Solidarity,  Dicembre 2025.     A Tubas Il 1° dicembre le forze di occupazione hanno distribuito volantini agli abitanti di Tubas con il seguente testo, contenente una chiara minaccia ai danni alla popolazione locale. Il volantino recitava: «La vostra zona è diventata un rifugio per il terrorismo. Le forze di sicurezza israeliane non accetteranno in alcun modo questa situazione e agiranno con forza e determinazione contro il terrorismo. E se non prenderete l’iniziativa di cambiare questa realtà, allora agiremo con determinazione, come abbiamo fatto a Jenin e Tulkarem». Questa minaccia è stata ribadita dal capo di Stato Maggiore delle forze di occupazione, Eyal Zamir, in visita alle sue truppe che assediavano Tubas e Tammun il 1° dicembre 2025. Nell’area di A’tuf Il 4 dicembre le forze di occupazione hanno emesso nuovi ordini di demolizione nei confronti della Al-Furat Agricultural Company, di proprietà dei figli del defunto Hajj Fakhri Muhammad Ali nella pianura di Baqi’a. Gli ordini di demolizione riguardano un serbatoio idrico, che raccoglie l’acqua piovana per uso agricolo, e una conduttura idrica. Entrambi si trovano su un terreno tra Kirbet Yirza e A’tuf che le forze di occupazione stanno confiscando per costruire il loro nuovo muro lungo 22 km. Questo muro isolerà gli agricoltori palestinesi delle zone di Tammun e A’tuf dalla maggior parte dei loro terreni agricoli. Rashid Khurairi ha dichiarato: “L’occupazione continua la sua politica di restrizioni… confiscando terreni agricoli ed emettendo ordini di evacuazione di intere zone ai palestinesi. Neanche le condutture idriche sono state risparmiate dalla minaccia di confisca. Quello che sta accadendo è un attacco diretto alla presenza degli agricoltori palestinesi sulla loro terra”. I due ordini di demolizione riguardano un serbatoio idrico e una conduttura idrica. Essi stabiliscono che il terreno viene confiscato e che l’agricoltore deve rimuovere il serbatoio idrico e la conduttura idrica entro i prossimi 7 giorni. In caso contrario, il serbatoio e la conduttura idrica saranno rimossi con la forza dalle forze di occupazione e all’agricoltore saranno addebitati tutti i costi della rimozione. Questi costi sono sempre molto esorbitanti per aumentare la pressione sui palestinesi affinché demoliscano le proprie strutture e abbandonino la zona. Ordine di demolizione per il serbatoio idrico che gli agricoltori usano per raccogliere l’acqua. https://jordanvalleysolidarity.org/news/demolition-orders-for-water-infrastructure-in-atuf-area/
«Questo è illegale», ha detto allargando le braccia. «Questo è illegale»
di M. Gessen,  The New York Times, 4 dicembre 2025.   Samar Hazboun per il New York Times Viviamo in un mondo capovolto. Ecco un esempio. Quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il cosiddetto piano di pace del presidente Trump per Gaza, che prevede un controllo israeliano a tempo indeterminato sul territorio con il sostegno degli Stati Uniti, ha contraddetto decenni di risoluzioni delle Nazioni Unite e le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia. L’attivista palestinese per i diritti umani Shawan Jabarin ha scritto all’ONU, implorandolo di rispettare il diritto internazionale. “Cercare, come presunto compromesso politico, di mettere da parte il diritto internazionale significherebbe rendere l’ONU complice delle violazioni di Israele, infrangere in modo fondamentale la promessa della Carta delle Nazioni Unite e alimentare solo un massacro umano sempre più intenso”, ha scritto. Jabarin ha iniziato la sua attività di attivista 44 anni fa come membro di un gruppo studentesco affiliato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un gruppo militante marxista-leninista sostenuto dall’Unione Sovietica. Negli anni ’80 e ’90 ha trascorso circa otto anni nelle prigioni israeliane. Allo stesso tempo, ha compiuto la lunga transizione fino a diventare leader di Al-Haq, la più antica e probabilmente la più autorevole organizzazione per i diritti umani nei territori occupati e una delle più antiche nel mondo arabo. Shawan Jabarin ha trascorso otto anni nelle prigioni israeliane prima di lavorare con Al-Haq, uno dei più antichi gruppi per i diritti umani nel mondo arabo. Adrian Dennis/Agence France-Presse — Getty Images Ma nel 2021 Israele ha designato Al-Haq e altre cinque organizzazioni della società civile palestinese come gruppi terroristici. A settembre il Dipartimento di Stato americano ha imposto sanzioni ad Al-Haq e ad altri due gruppi palestinesi, esplicitamente per il loro lavoro con la Corte Penale Internazionale, che ha emesso mandati di arresto per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant in relazione alle accuse di crimini di guerra a Gaza. Il giorno in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il piano di Trump, Israele ha lanciato attacchi aerei su Gaza. Il giorno successivo, i funzionari sanitari di Gaza hanno dichiarato che 76 palestinesi erano stati uccisi. Complessivamente, da quando l’accordo mediato dagli Stati Uniti è entrato in vigore, secondo i funzionari sanitari di Gaza, più di 350 palestinesi sono morti, la maggior parte dei quali per mano delle forze israeliane. Le autorità israeliane continuano a limitare la circolazione degli aiuti umanitari, che solo in minima parte riescono ad arrivare a destinazione. Eppure i leader mondiali e i media occidentali definiscono ciò che sta accadendo a Gaza un cessate il fuoco, mentre gli attivisti che si oppongono pacificamente al massacro rischiano sanzioni. Questo è il mondo capovolto in cui viviamo. Per la seconda puntata della mia serie sullo stato della giustizia internazionale, mi sono recato in Israele e nella Cisgiordania occupata per parlare con gli attivisti che stanno documentando le violazioni dei diritti umani commesse a Gaza e in Cisgiordania. (Non ho potuto visitare i pochi ricercatori che continuano a lavorare a Gaza, che è stata effettivamente chiusa ai giornalisti internazionali per più di due anni). Volevo vedere come, dopo essere stati designati come terroristi, sottoposti a sanzioni, molestati e minacciati di persecuzione, continuano il loro lavoro. Quello che ho scoperto è che hanno ampliato la loro idea di cosa sia quel lavoro. La sede centrale di Al-Haq. A settembre il Dipartimento di Stato americano ha imposto sanzioni al gruppo per la sua collaborazione con la Corte Penale Internazionale. Samar Hazboun per il New York Times Ho fatto visita a Jabarin nel suo ufficio a Ramallah, in Cisgiordania. “Un’organizzazione americana è stata informata dal proprio avvocato che offrirci una tazza di tè equivale a offrirla a bin Laden”, mi ha detto Jabarin. Stavamo bevendo caffè e mangiando datteri. La sede centrale di Al-Haq, in un piccolo complesso per uffici situato in una trafficata strada commerciale, sembra ed ha i rumori di un ufficio di una ONG in qualsiasi parte del mondo: mobili generici, telefoni che squillano in modo dissonante, molta luce solare e aria non proprio sufficiente. Ma ciò che si trova all’esterno dell’edificio non è come qualsiasi altro posto in cui sono stato. Negli ultimi due anni, molte più persone sono venute a conoscenza delle pratiche violente dell’occupazione israeliana: il continuo sfollamento dei villaggi palestinesi, le percosse e le rapine commesse dai coloni, alcune delle quali sotto la protezione diretta dell’esercito, e le detenzioni, le torture e le uccisioni perpetrate dalle truppe israeliane. La violenza era frequente già prima del 7 ottobre 2023, ma da allora è diventata un evento quotidiano. Ma è l’applicazione amministrativa, quotidiana e solitamente non violenta dell’occupazione che mi colpisce ogni volta che visito Ramallah. Un giorno, mentre stavo lasciando il mio hotel per un’intervista, i soldati israeliani hanno bloccato la strada proprio davanti all’uscita. Questo non aveva nulla a che fare con me, ma quello che avrebbe dovuto essere un viaggio di 10 minuti mi ha richiesto due ore. “Ed è così”, ho pensato mentre tentavo manovre per lo più inutili nelle strade secondarie, “che funziona l’occupazione”. In base agli accordi di Oslo del 1995, Ramallah è designata come Area A, che è completamente governata dall’Autorità Palestinese. (L’Area B è, ipoteticamente, sotto il controllo civile palestinese ma sorvegliata congiuntamente con Israele, mentre l’Area C è governata interamente da Israele). Ciononostante, le truppe israeliane possono – e lo fanno – paralizzare la città ogni volta che vogliono. La valuta è quella israeliana. I residenti utilizzano numeri di telefono israeliani, per i quali pagano le compagnie israeliane, e consumano cibo e altri prodotti fabbricati in Israele. Il giorno in cui ho cercato di guidare nel traffico era proprio lo Yom Kippur, il giorno più sacro del calendario religioso ebraico, in cui la televisione e la radio in lingua ebraica in Israele non trasmettono. La radio della mia auto a noleggio non trasmetteva altro che interferenze, anche se in questa città a maggioranza musulmana e minoranza cristiana era, o avrebbe dovuto essere, un normale giovedì. La maggior parte dei residenti di Ramallah non può entrare in Israele; molti di loro non ci sono mai stati, eppure sono sempre consapevoli delle usanze della potenza occupante e dei capricci delle sue forze armate. Prima del 7 ottobre 2023, spostarsi in Cisgiordania era difficile e imprevedibile. Ora è piuttosto prevedibile: dalla maggior parte dei luoghi non è davvero possibile raggiungere la maggior parte degli altri luoghi. Samar Hazboun per il New York Times Nella Cisgiordania fuori Ramallah, Israele esercita da tempo un controllo quasi totale sulle due risorse più importanti: l’acqua e le strade. Il numero sempre più esiguo di agricoltori palestinesi che hanno ancora accesso alla loro terra spesso non riesce a ottenere acqua a sufficienza per coltivarla. Per quanto riguarda le strade, quelle nuove, costruite da Israele per la comodità dei coloni, sono quasi completamente off-limits per i palestinesi. Molte delle strade su cui un tempo i palestinesi potevano viaggiare sono state chiuse dalle autorità israeliane negli ultimi due anni. I villaggi palestinesi hanno cancelli metallici all’ingresso, eretti e gestiti dalle truppe israeliane, e molti di questi cancelli rimangono chiusi per giorni, settimane o mesi. Prima del 7 ottobre 2023, spostarsi in Cisgiordania era difficile e imprevedibile: non si sapeva mai dove potesse spuntare un posto di blocco o dove potesse essere chiuso un cancello. Ora è abbastanza prevedibile: non è davvero possibile spostarsi dalla maggior parte dei luoghi alla maggior parte degli altri luoghi. La madre di Jabarin vive in un villaggio fuori Hebron. Prima ci voleva un’ora e mezza per arrivarci. Ora ci possono volere otto ore. “Questo è illegale”, ha detto Jabarin, allargando le braccia come per abbracciare tutta la sua vita e quella del suo popolo. “Questo è illegale. L’occupazione è illegale”. La Corte Internazionale di Giustizia è d’accordo, così come le Nazioni Unite, secondo numerose risoluzioni approvate a partire dal 1967. Eppure ora il Consiglio di Sicurezza ha effettivamente dato all’occupazione israeliana di Gaza la forza del diritto internazionale. Le sanzioni statunitensi hanno causato ad Al-Haq la perdita dell’accesso ai propri conti bancari. Tutti i 45 dipendenti di Al-Haq ora lavorano senza retribuzione. “Si tratta di 45 famiglie”, ha detto Jabarin. Ciononostante, Al-Haq continua il suo lavoro: documentare il genocidio a Gaza e la violenza costante in Cisgiordania, collaborare con la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia e presentare denunce nei tribunali dei paesi i cui cittadini sono sospettati di aver commesso crimini di guerra mentre prestavano servizio nell’esercito israeliano. A questo punto Al-Haq ha poco da perdere. Alcune altre organizzazioni palestinesi, tuttavia, sono diventate più caute. Khaled Quzmar, direttore generale di Defense for Children International, che ha citato in giudizio l’amministrazione Biden per i suoi aiuti a Israele. Samar Hazboun per il New York Times Defense for Children International-Palestine è un altro importante gruppo per i diritti umani. Il suo direttore generale, Khaled Quzmar, è anche a capo di Defense for Children International, una coalizione con sede a Ginevra che riunisce decine di gruppi in tutto il mondo. Nel 2023 l’organizzazione palestinese ha citato in giudizio l’amministrazione Biden presso un tribunale federale, sostenendo che la Convenzione del 1948 sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio obbliga gli Stati Uniti a smettere di sostenere Israele. Il giudice incaricato del caso ha concluso di non avere l’autorità per pronunciarsi su questioni di politica estera. Quest’anno, mi ha detto Quzmar, ha deciso di non partecipare a un’altra causa, in parte perché non voleva incorrere nelle sanzioni degli Stati Uniti. Dopo essere stata designata come organizzazione terroristica da Israele nel 2021, Defense for Children International-Palestine ha perso gran parte dei suoi finanziamenti europei e americani, ma almeno ha ancora accesso ai suoi conti bancari e può continuare il suo lavoro principale: documentare gli effetti del genocidio e dell’occupazione sui bambini e fornire servizi ai bambini e alle famiglie. Secondo l’organizzazione, più di 350 bambini palestinesi sono detenuti da Israele; più di 50 sono stati uccisi in Cisgiordania quest’anno. Ma la minaccia di sanzioni da parte degli Stati Uniti, particolarmente forte negli ultimi mesi, ha costretto il gruppo ad allontanarsi da alcune delle attività che Israele meno desidera che svolga. In altre parole, gli Stati Uniti continuano a sostenere Israele non solo finanziariamente e militarmente, ma anche, di fatto, legalmente, contribuendo a garantirne la continua impunità. In Israele, un disegno di legge in discussione alla Knesset, il Parlamento, renderebbe punibile con fino a cinque anni di carcere la cooperazione con la Corte Penale Internazionale, compresa la fornitura alla Corte di informazioni su presunti crimini di guerra. Anche se questa legge non è ancora stata approvata, quasi tutti i difensori dei diritti umani che ho intervistato ne hanno parlato. Un attivista mi ha detto che stava limitando il suo lavoro a pubblicare online tutte le informazioni disponibili sul genocidio e sulle accuse di crimini di guerra. Se qualcuno poi volesse portare quelle informazioni all’Aia… Si è interrotto, lasciandomi riempire lo spazio vuoto. Un avvocato mi ha detto, con un simile ammiccamento figurato, che stava perseguendo casi solo nel sistema giudiziario nazionale. Se, arrivando fino alla corte suprema, avesse soddisfatto il requisito dei tribunali internazionali di esaurire prima tutti i rimedi interni, beh… Quzmar e i suoi colleghi lasciano l’ufficio di Defense for Children International durante un raid delle forze di difesa israeliane. Samar Hazboun per il New York Times Nella maggior parte dei luoghi da cui ho riferito, il lavoro che prepara il terreno per rivolgersi alla giustizia internazionale è quello di documentare: raccogliere testimonianze, organizzare dati, analizzare informazioni visive. I difensori dei diritti umani israeliani stanno certamente svolgendo questo tipo di lavoro, nonostante i tentativi del loro governo di intimidirli, ma il loro obiettivo principale è stato un altro: dare un nome al crimine. A luglio due importanti organizzazioni, B’Tselem e Physicians for Human Rights-Israel, hanno pubblicato dei rapporti che utilizzavano la parola “genocidio” nei loro titoli. Il rapporto di B’Tselem si intitolava “Il nostro genocidio”. “Il genocidio non è un crimine commesso da un piccolo gruppo”, mi ha detto Yuli Novak, direttore esecutivo di B’Tselem. “L’intera società è coinvolta. La nostra è una società genocida”. Ha raccontato della riunione dello staff in cui, durante un briefing dei ricercatori che lavorano sul campo a Gaza, la portata della catastrofe è diventata chiara a tutti i presenti. Era anche chiaro che le uccisioni di massa di civili non erano semplicemente collaterali e che la fame non era un effetto collaterale della guerra. Questi atti erano intenzionali. L’intento era genocida. Hanno deciso che la cosa più importante che potevano fare era raccontare la storia di quello che ora consideravano il loro genocidio. Il rapporto di 88 pagine contiene testimonianze e statistiche – più di 58.000 morti, quasi un terzo dei quali bambini – ma si concentra sulla narrazione. Il rapporto esamina l’ideologia e il linguaggio, nonché le strutture dell’occupazione, lo sfollamento, la violenza e la prigionia che hanno reso possibile il genocidio. Non sostiene che il genocidio fosse predeterminato, ma mira a dimostrare che il 7 ottobre 2023 erano presenti le condizioni che lo hanno reso possibile e che l’attacco di Hamas è diventato l'”evento scatenante”. Yuli Novak, leader di B’Tselem, ha trascorso due mesi in Ruanda, ha affermato, perché “voleva comprendere il momento precedente”. Ofir Berman per il New York Times Una tessera di B’Tselem. Ofir Berman per il New York Times Questa storia sul genocidio vuole anche essere un monito. Il rapporto di B’Tselem suggerisce che le pratiche documentate a Gaza potrebbero diffondersi nelle aree sotto il controllo diretto di Israele, non solo in Cisgiordania ma anche in Israele, dove circa un residente su cinque è palestinese. Anni prima di preparare il rapporto, Novak ha trascorso due mesi in Ruanda perché “voleva capire il momento precedente”, ha affermato. “È molto simile. Il fatto che ci siano armi per le strade e che siano nelle mani degli uomini e che tutto questo sia collegato a una sola persona”, in questo caso l’ex ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, che il rapporto identifica come una forza dietro la diffusione del discorso genocida. Dal 7 ottobre, il suo ufficio distribuisce armi ai coloni israeliani. Più recentemente, ha armato milizie autoproclamate che molestano i manifestanti antigovernativi a Tel Aviv. Stavamo parlando in una piccola casa eccentrica a Jaffa, che Novak condivide con la sua compagna, Yael Harari, e il loro figlio di 2 anni. Poche settimane dopo la pubblicazione del rapporto di B’Tselem, Harari si è laureata in medicina. Quello che avrebbe dovuto essere un momento di trionfo era diventato insopportabile. Harari non riusciva ad affrontare la cerimonia: le gigantesche bandiere israeliane, i discorsi autocelebrativi, mentre a Gaza la gente moriva di fame e veniva uccisa. Alla fine, anche lei ha deciso di agire denunciando il genocidio. Ha partecipato alla cerimonia. Quando è stato chiamato il suo nome, prima di salire sul palco, ha aperto la toga da laureata per mostrare una maglietta bianca con le parole del giuramento di Ippocrate modificato: “Prima di tutto non nuocere”, con “nuocere” cancellato e sostituito da “genocidio”. In un video della laurea, si sente la folla ammutolire mentre lei inizia a camminare. Qualcosa di simile è accaduto con il rapporto “Il nostro genocidio”. Quando B’Tselem lo ha pubblicato, Novak e il suo staff si sono preparati alla reazione. Erano già stati diffamati in passato. Novak era stata vittima di doxxing, minacciata e costretta almeno due volte a lasciare temporaneamente il paese. Ma questa volta non c’è stata alcuna reazione del genere. I principali organi di informazione israeliani hanno ampiamente ignorato il rapporto, proprio come hanno ignorato quasi tutto ciò che accade a Gaza. Da ottobre 2023, la loro copertura mediatica si è concentrata quasi esclusivamente sull’attacco di Hamas, sugli ostaggi israeliani, sui soldati israeliani morti in servizio e sul mondo esterno, che secondo loro ha criticato ingiustamente Israele. Yuli Novak, direttrice di B’Tselem, e la sua compagna, Yael Harari. Ofir Berman per il New York Times Haaretz, un quotidiano di sinistra con un pubblico ristretto, ha dato spazio al rapporto, ma “quando qualcosa accade solo su Haaretz, è come se non fosse mai accaduto”, ha affermato Novak. Il lavoro relativo alla giustizia internazionale, ai crimini di guerra e, naturalmente, al genocidio, fa riferimento ai processi di Norimberga, iniziati quasi esattamente 80 anni fa. Gli imputati in quei processi – generali tedeschi, giudici, industriali e altri – spesso sostenevano di non essere a conoscenza della natura dei crimini o della portata dei crimini commessi dai loro compatrioti. Il rapporto di B’Tselem mira esplicitamente a impedire questa giustificazione. Il titolo da solo è già sufficiente. Nel corso degli anni in cui ho intervistato dissidenti israeliani, ho notato che le origini del loro attivismo risalgono solitamente a una delle guerre o crisi di Israele. È come se queste esplosioni di violenza aprissero l’opportunità di vedere – o, per alcuni, precludessero l’opportunità di non vedere. Ruchama Marton, fondatrice di Physicians for Human Rights-Israel, mi ha raccontato la sua storia quando le ho fatto visita a Tel Aviv. Ha 88 anni, è alta un metro e mezzo e ha appena pubblicato un libro di memorie il cui titolo può essere tradotto come “Una donna forte” o “Una donna difficile”. Con il suo gatto sdraiato sul tavolo da pranzo in legno scuro tra noi, Marton mi ha raccontato che nel 1987, quando è iniziata la prima Intifada, sapeva che la televisione israeliana le stava mentendo. Non sapeva esattamente su cosa mentisse, ma mi ha detto di essere “molto sensibile alle bugie”. Ha riunito 11 colleghi, quanti ne potevano stare in un furgone, e sono partiti per una missione di accertamento dei fatti a Gaza. Ruchama Marton ha fondato Physicians for Human Rights dopo aver capito che le stavano mentendo. Ofir Berman per il New York Times Un cartello in arabo con la scritta “Associazione dei medici palestinesi e israeliani”, destinato all’auto di Marton durante i suoi viaggi nei territori occupati. Ofir Berman per il New York Times Il ministro della Difesa Yitzhak Rabin aveva ammesso che la strategia delle forze israeliane per reprimere la rivolta era quella di picchiare i manifestanti. Ciononostante, ciò che vide all’ospedale Al-Shifa la sconvolse. “Ogni letto era occupato da giovani con arti fratturati, molti dei quali privi di sensi perché colpiti con manganelli alla testa. Erano intubati”. Dopo aver lasciato Gaza, i medici si fermarono a una stazione di servizio, discussero di ciò che avevano visto e decisero di formare un’organizzazione. Physicians for Human Rights-Israel fornisce servizi medici nei territori occupati e in Israele ha pubblicato molti rapporti meticolosamente documentati su argomenti quali l’accesso all’assistenza sanitaria, la tortura nelle prigioni israeliane e, ora, il genocidio. A luglio il gruppo ha pubblicato un rapporto di 65 pagine in concomitanza con quello di B’Tselem. Si intitola “Distruzione delle condizioni di vita: un’analisi sanitaria del genocidio di Gaza”. Marton mi ha detto che ha iniziato a usare questo termine due anni fa. Avendo svolto questo lavoro per più di 35 anni, ha assistito alla lunga e sistematica creazione di “condizioni di vita calcolate per provocarne la distruzione fisica, totale o parziale”, come recita la Convenzione sul Genocidio. Tra i documenti di Ruchama Marton c’è una sua fotografia del 1990, scattata in un villaggio palestinese. Ofir Berman per il New York Times Il 7 ottobre 2023, lo storico dell’Università Ebraica Lee Mordechai si trovava negli Stati Uniti, al secondo mese di un anno accademico che stava trascorrendo a Princeton lavorando a un libro sull’anno 536. Come molti israeliani all’estero, faticava a individuare il suo ruolo e il suo rapporto con ciò che stava accadendo in Israele e a Gaza. Guardava e leggeva tutto ciò che poteva, in ebraico e in inglese. “Se questo viene fatto a mio nome, allora devo sapere di cosa si tratta”, ricorda di aver pensato. Più consumava media, più notava un divario tra le informazioni facilmente disponibili per gli israeliani e quelle disponibili per le persone al di fuori di Israele. Nel dicembre 2023, quando il Sudafrica ha presentato una causa per genocidio contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia, Mordechai ha letto i documenti. Si è reso conto che il caso era un tentativo di organizzare tutte le informazioni verificabili disponibili in una narrazione coerente. Anche lui poteva farlo, ha pensato. E poteva aggiungere informazioni più recenti. Mordechai iniziò a raccogliere in un rapporto i fatti di dominio pubblico su ciò che stava accadendo a Gaza, che salvò come file PDF e pubblicò su X e su Academia.edu. Continuò a pubblicare versioni riviste e aggiornate. Studiò la legislazione pertinente e classificò le azioni delle forze israeliane come crimini contro l’umanità. Dopo alcuni mesi, iniziò a usare il termine “genocidio”. “Ho letto la Convenzione sul Genocidio e ho visto che corrispondeva alla definizione”, mi disse. “Non sono un esperto legale, ma so leggere, ed è quello che faccio nel mio lavoro quotidiano”. Pochi sembravano aver notato il rapporto di Mordechai fino a quando, un giorno, nel marzo 2024, il suo thread di 28 post su X è diventato virale. Da un giorno all’altro, il pubblico di quella versione del rapporto è passato da un paio di centinaia a cinque milioni di persone. Da un giorno all’altro, i post sui social media di Lee Mordechai sulla guerra a Gaza hanno conquistato milioni di lettori. Ofir Berman per il New York Times Mordechai è tornato a Gerusalemme nell’agosto 2024. Il suo progetto coinvolge ora oltre 100 volontari, ebrei e palestinesi, molti dei quali accademici. Essi gestiscono un archivio online che include reportage dei media e relazioni di esperti, testimonianze pubblicate e resoconti di testimoni postati sui social media. Mordechai continua ad aggiornare il rapporto principale, che ora conta più di 200 pagine e cita circa 4.000 fonti. I piani includono un’enciclopedia, una raccolta di dichiarazioni rese da funzionari israeliani che sembrano mostrare l’intenzione di commettere crimini contro l’umanità o genocidio, e contenuti che “una persona interessata può portare alla propria famiglia sotto forma di PowerPoint“. Ciascuno di questi attivisti – Jabarin e Novak, che sono difensori dei diritti umani professionisti; Marton, il cui lavoro principale era in psichiatria ma che ha accumulato decenni di esperienza in materia di diritti umani; e Mordechai, con i suoi ricercatori volontari – sta lavorando per preservare la documentazione e denunciare il crimine che Israele sta commettendo. Un modo per considerare questo lavoro è che sia un minimo indispensabile. Gli attivisti israeliani sono riluttanti a parlare di giustizia internazionale non solo perché il loro governo potrebbe criminalizzare tali discorsi, ma anche perché la possibilità di una tale giustizia per Gaza sembra così remota. Un altro modo per considerarlo è come un lavoro per il futuro. La Corte Penale Internazionale potrebbe ancora riuscire a perseguire i casi relativi a Gaza. La Corte Internazionale di Giustizia, dove è pendente il caso del Sudafrica contro Israele, forse alla fine lo prenderà in considerazione. Novak, che ha trascorso anni imparando dagli attivisti sudafricani contro l’apartheid, mi ha detto che spera che la resa dei conti con il “nostro genocidio” diventi il fondamento di una società in cui palestinesi ed ebrei vivano insieme come pari. Anche Mordechai immagina commissioni per la verità e la riconciliazione e un museo del genocidio di Gaza, “come Yad Vashem“, il complesso di Gerusalemme dedicato alla storia dell’Olocausto. Un giorno, quando il mondo avrà la possibilità di tornare alla normalità. M. Gessen è editorialista per il Times. Ha vinto il George Polk Award per la scrittura di editoriali nel 2024. È autore di 11 libri, tra cui “The Future Is History: How Totalitarianism Reclaimed Russia” (Il futuro è storia: come il totalitarismo ha riconquistato la Russia), che ha vinto il National Book Award nel 2017. https://www.nytimes.com/2025/12/04/opinion/gaza-west-bank-human-rights-work.html Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Class action contro i ritardi delle Ambasciate italiane nel rilascio dei visti per motivi familiari
La class action è stata avviata attraverso una diffida collettiva sottoscritta da cittadine e cittadini con background migratorio o titolari di protezione internazionale e dalle associazioni ASGI, ARCI e Spazi Circolari. Con questo atto si è chiesto al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) di intervenire per ripristinare la regolarità delle procedure per il rilascio dei visti familiari, alla luce delle gravi criticità riscontrate: dalla difficoltà di prenotare un appuntamento fino al mancato rispetto del termine legale di 30 giorni per l’emissione del visto dopo il nullaosta al ricongiungimento familiare. Nonostante le reiterate richieste di incontro o di riscontro rivolte al MAECI, nessuna risposta è mai pervenuta. Persistendo dunque l’inerzia amministrativa già denunciata con la prima diffida del 4 ottobre 2024, è stato depositato al TAR Lazio il ricorso collettivo (n. r. g. 11893/2025), la cui prima udienza è fissata per il 27 gennaio 2026. Le cittadine e i cittadini con background migratorio – che hanno ottenuto il nullaosta al ricongiungimento familiare e sono ancora in attesa del visto – possono aderire alla class action tramite un legale di fiducia, entro il 5 gennaio 2026. Il progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare” – in collaborazione con l’APS Attiva Diritti di Roma – ha predisposto un modello di atto di intervento e offre consulenza ai legali che intendano assistere gratuitamente i propri assistiti nella partecipazione alla class action. Anche le associazioni che, per statuto e per attività, tutelano i diritti delle persone con background migratorio possono intervenire nel giudizio, sempre entro il 5 gennaio 2026. Scarica i modelli: 1) “MODELLO intervento class action ricongiungimenti mancata conclusione nei termini dopo aver formalizzato la richiesta di rilascio del visto” 2) “MODELLO intervento class action ricongiungimenti mancato accesso” * Per informazioni: annick@meltingpot.org (si prega di inserire nell’oggetto della email: “Adesione class action”) Notizie RIPARTE “ANNICK. PER IL DIRITTO ALL’UNITÀ FAMILIARE” Il progetto torna con nuove azioni di supporto, grazie al sostegno dell’Otto per Mille Valdese 2 Dicembre 2025
La lobby israeliana sta crollando sotto i nostri occhi
di Philip Weiss,  Mondoweiss, 2 dicembre 2025.   La comunità ebraica americana è in piena crisi per il suo sostegno a Israele dopo due anni di genocidio a Gaza. Una questione chiave in questa crisi è un argomento un tempo considerato troppo tabù per essere criticato: la lobby israeliana. Gli operai danno gli ultimi ritocchi al palco dell’annuale American Israel Public Affairs Conference (AIPAC) a Washington nel marzo 2015. (Foto: Pete Marovich/European Pressphoto Agency) Il mese scorso, un alto funzionario dell’organizzazione ebraica J Street che aveva lavorato per Obama e Harris ha spiegato che la tradizione del Congresso di sostenere Israele “a tutti i costi” era stata imposta da un “gruppo ben finanziato di… ebrei”. “Un piccolo gruppo organizzato e ben finanziato di ebrei americani ha trattato la questione come una questione fondamentale nelle elezioni, e la maggior parte dei candidati ha deciso che non valeva la pena inimicarseli”, ha scritto Ilan Goldenberg. Non molto tempo fa, tali attacchi alla lobby israeliana (compreso il mio) venivano liquidati come teorie cospirative antisemite. Ora, un’importante organizzazione ebraica li pubblica. Questo perché la comunità ebraica americana è oggi in aperta crisi per il suo storico sostegno a Israele. Ebrei di spicco stanno finalmente attaccando la lobby, una struttura politica creata 60 anni fa dai principali gruppi ebraici per assicurarsi che non ci fossero divergenze tra i governi israeliano e statunitense. La crisi è stata catalizzata dalla vittoria insurrezionale del sindaco eletto di New York Zohran Mamdani, che ha infranto una regola della politica americana secondo cui non si può essere antisionisti ed essere presi sul serio nella politica americana. La lobby israeliana ha speso decine di milioni per sconfiggere Mamdani, guidata da Bill Ackman e Mike Bloomberg, ma Mamdani ha comunque battuto Andrew Cuomo due volte. Dopo le elezioni generali del mese scorso, l’establishment ebraico ha parlato con forza e timore. L’elezione di Mamdani è “cupa” e “minacciosa”, ha detto la Conferenza dei Presidenti. “L’ascesa di Zohran Mamdani alla Gracie Mansion (la residenza del sindaco, NdT) ci ricorda che l’antisemitismo rimane un pericolo chiaro e presente”. L’ADL (Anti-Defamation League) ha annunciato un “Mamdani-tracker” (sorveglianza su Mamdani, NdT) basato sull’idea che Mamdani promuoverà la violenza antisemita, un’affermazione basata sulle critiche di Mamdani a Israele. ” Mamdani ha promosso narrazioni antisemite… e ha dimostrato un’intensa animosità verso lo stato ebraico che è contraria alle opinioni della stragrande maggioranza degli ebrei newyorkesi“. Se la lobby pensava di poter abbattere Mamdani, ha fallito. Due settimane dopo le elezioni, Mamdani è andato alla Casa Bianca e ha parlato del ”genocidio” israeliano, e Trump non ha fatto nulla per contraddirlo. Era ora che sentissimo quella parola alla Casa Bianca. Il coraggio di Mamdani ha dato il via a un nuovo discorso critico nei confronti di Israele, ma questo è stato reso possibile da un movimento sociale più ampio. I giovani americani si stanno rivoltando contro Israele per le sue politiche anti-palestinesi di genocidio e apartheid. Rahm Emanuel ha portato la triste notizia alla più grande organizzazione ebraica, le Jewish Federations, il mese scorso. Sottolineando che Obama ha visitato Israele prima di annunciare la sua campagna presidenziale nel 2007, Emanuel, che è candidato alla presidenza, ha detto che nel 2028 nessun candidato democratico oserà seguire il copione tradizionale. “Nessuno lascerà l’America per recarsi a Gerusalemme. Questa è la politica”. E non solo i democratici. Emanuel ha detto che tutti i giovani, di destra e di sinistra, si stanno rivoltando contro Israele. ” Guardate dove si trova Israele in America tra i giovani sotto i 30 anni“, ha detto. ”Dimenticate i partiti. Oggi è un rischio politico prendere una posizione [filoisraeliana]. Israele è estremamente impopolare – voglio ribadire questo punto a tutti noi che sosteniamo uno stato ebraico – oggi, Israele per una generazione sotto i 30 anni, gli ultimi due anni saranno una definizione fondamentale come lo è stata la Guerra dei Sei Giorni per la generazione [precedente]. Ma dobbiamo essere onesti riguardo al compito che abbiamo davanti”. La lobby israeliana si sta sgretolando davanti ai nostri occhi. Nella stessa conferenza, Eric Fingerhut, ex membro del Congresso che guida le Federations, ha affermato che la cattiva immagine di Israele è il risultato di una cospirazione internazionale: “Abbiamo assistito a un attacco pianificato e coordinato alla posizione di Israele in Nord America e alla comunità ebraica che sostiene Israele. Alimentato da miliardi di dollari di denaro oscuro… [proveniente] dall’Iran, dal Qatar, dalla Cina, dalla Russia e da altri paesi. Diffuso dagli strumenti di comunicazione più avanzati mai inventati…”. La conferenza era dedicata al ripristino della buona reputazione di Israele nel discorso americano: “un importante lavoro di riabilitazione a lungo termine della narrativa su ciò che Israele significa”. Ma ha fallito, in modo clamoroso. La copertura dell’evento si è concentrata su un altro crollo: l’autrice Sarah Hurwitz, ex autrice dei discorsi di Obama, ha lamentato che parlare ai giovani di Israele oggi significa cercare di superare un “muro di bambini morti”. I bambini morti stanno arrivando anche agli ebrei americani, ha detto Hurwitz: “TikTok sta martellando tutto il giorno il cervello dei nostri giovani con video della carneficina a Gaza. Questo è il motivo per cui molti di noi non riescono ad avere una conversazione sensata con gli ebrei più giovani, perché qualsiasi cosa cerchiamo di dire loro, la sentono attraverso questo muro di carneficina. Io vorrei fornire dati, informazioni, fatti. Ma loro li ascoltano attraverso questo muro di carneficina”. Hurwitz ha affermato che l’educazione sull’Olocausto ha fallito con i giovani ebrei. Li ha portati a vedere gli israeliani pesantemente armati come nazisti e i loro bersagli palestinesi emaciati come oggetti di compassione. Hurwitz è stata attaccata sui social media per questi commenti. Ma lei rimane un’eroina per la comunità ebraica ufficiale nella sua insistenza sul fatto che coloro che negano il diritto degli ebrei a uno stato ebraico sono antisemiti. La sovranità ebraica in Medio Oriente è inerente alla religione ebraica, afferma Hurwitz, e la forza militare di Israele è la risposta necessaria a una storia di odio verso gli ebrei che dura da 2000 anni. Negando queste verità, gli antisionisti dimostrano di odiare gli ebrei. Queste idee sono sbagliate e pericolose. Il motivo per cui i giovani americani odiano Israele è che esso ha ucciso indiscriminatamente civili palestinesi e distrutto i loro mezzi di sussistenza per due anni a Gaza, con il sostegno del governo americano e della lobby israeliana. La star dei media per ragazzi Rachel ha espresso la dimensione morale di Gaza a novembre, quando ha accolto a New York una ragazza traumatizzata di nome Qamar: “Mi dispiace tanto per Qamar che il mondo sia rimasto a guardare mentre il suo campo veniva bombardato, le venivano negate cure mediche per 20 giorni, le hanno dovuto amputare una gamba e ha vissuto in una tenda strappata, allagata e fredda”. Non c’è da stupirsi che Rachel sia emersa come leader nel discorso di solidarietà palestinese all’interno degli Stati Uniti, grazie alla sua chiarezza, semplicità e senso di responsabilità. I media mainstream stanno oggi facendo tutto il possibile per negare questo movimento. Negano che l’atteggiamento nei confronti della Palestina abbia avuto qualcosa a che fare con la sconfitta di Kamala Harris nel 2024. Negano che sia stato un fattore importante nella vittoria di Mamdani a New York. Anche se candidati ribelli che si oppongono a Israele stanno spuntando nelle primarie democratiche in tutto il paese. Questo sconvolgimento politico è ora una crisi ebraica, come dovrebbe essere. La comunità ebraica si sta frammentando a causa del suo sostegno ufficiale al genocidio. Gli ebrei che denunciano le azioni di Israele sono stati fondamentali per la coalizione di Mamdani. Alcuni erano sionisti liberali. Ma il sionismo liberale è esso stesso in disordine, abbandonando i vecchi dogmi – come quello secondo cui il BDS è antisemita – per allinearsi con i giovani ebrei. Mentre Sarah Hurwitz, Eric Fingerhut e Jonathan Greenblatt stanno portando l’establishment ebraico in una posizione marginale. L’argomento finale di Hurwitz è eccezionalista. Gli ebrei hanno un ruolo speciale da svolgere nel mondo, ed è per questo che la gente ci odia. Lei fa parte di una lunga tradizione: la lobby ha imposto una bugia dopo l’altra al nostro discorso politico. I rifugiati non hanno il diritto di tornare alle loro case. Trasferire 700.000 coloni nei territori occupati va bene. Non c’è apartheid. Non c’è genocidio. Le guerre di Israele contro i suoi vicini sono nell’interesse degli Stati Uniti. Queste menzogne stanno ora fallendo. Quali che fossero gli ideali abbracciati dal sionismo alle sue origini come movimento di liberazione europeo, esso si è cristallizzato in bigottismo di fronte alla resistenza palestinese. La comunità ebraica ufficiale ha promosso questo bigottismo. Le menzogne della lobby israeliana erano un tempo un argomento tabù in America. Oggi la sua crisi porta questa discussione sulla piazza pubblica. https://mondoweiss.net/2025/12/the-israel-lobby-is-melting-down-before-our-eyes/?ml_recipient=172770608705177473&ml_link=172770566603802394& utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=2025-12-04&utm_campaign=Daily+Headlines+RSS+Automation+-+8am Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Ennesima operazione di sgombero in alcuni magazzini del Porto Vecchio di Trieste
Nella prima mattinata del 3 dicembre a Trieste è stato eseguito un nuovo sgombero nei magazzini del Porto Vecchio. Circa 150 persone migranti e richiedenti asilo, che da settimane dormivano in ripari di fortuna dopo essere state abbandonate in strada, sono state messe in fila, identificate e trasferite. La nuova operazione di sgombero e chiusura dei magazzini 2 e 2A del Porto Vecchio è stata disposta dal Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico dopo gli incendi delle scorse settimane. Notizie INCENDI AL PORTO VECCHIO DI TRIESTE, SOSPETTI SU AZIONI DOLOSE Associazioni, volontarә e attivistә solidali chiedono indagini approfondite Redazione 18 Novembre 2025 La misura, denunciata da ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà, conferma l’assenza di una strategia seria e strutturale da parte delle istituzioni: «domani, le persone che arriveranno in città, si troveranno nella medesima condizione di chi è stato allontanato oggi. Semplicemente, il problema viene spostato, non affrontato». Lo sgombero è avvenuto senza alcun coinvolgimento delle organizzazioni che in città si occupano quotidianamente di accoglienza e supporto, né dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Per ICS questa esclusione rivela la cifra politica della gestione locale della mobilità migratoria: una gestione dettata da logiche securitarie ed emergenziali, spesso funzionali più a esigenze mediatiche che alla tutela dei diritti delle persone vulnerabili. Si produce così, ancora una volta, un’emergenza artificiale che si ripresenterà nei prossimi mesi, aggravando la responsabilità politica di chi governa. Ma ciò che l’organizzazione sottolinea come più grave è l’esclusione arbitraria di almeno quaranta persone che non si trovavano nei magazzini al momento dell’intervento e che non sono state trasferite né informate. Il fatto che nessuna istituzione abbia tentato di raggiungerle, proprio perché le realtà del territorio non sono state coinvolte, avrà conseguenze dirette e drammatiche sulla vita di persone già estremamente vulnerabili. Notizie TRIESTE, TRASFERITE LE PERSONE MIGRANTI DAL PORTO VECCHIO Critiche dalle associazioni: «Un’operazione tardiva e inefficace» Redazione 7 Ottobre 2025 A denunciare la situazione interviene anche Linea d’Ombra. “All’improvviso, come da copione, brusco trasferimento di migranti dagli unici ripari che hanno: i miserabili anfratti di Porto Vecchio, dove pur riescono a sopravvivere con la nostra solidarietà. Ma non solo trasferimenti – scrive l’associazione – a quanto pare anche espulsioni, talora con motivazioni grottesche. A molti altri è stato semplicemente intimato di andarsene dal Porto Vecchio”. Linea d’Ombra sottolinea come dopo mesi di accoglienza “scarsa e irregolare”, lo sgombero arrivi accompagnato dagli “echi soddisfatti dei politicanti che lucrano sulla paura e sulla sofferenza”. Nel pomeriggio nella stessa area interessata dal dispiegamento improvviso e massiccio degli apparati istituzionali è stato ritrovato il corpo senza vita di un uomo algerino di 32 anni 1. Un epilogo che mostra, una volta di più, l’assenza totale di cura e tutela per quelle vite che le istituzioni continuano a trattare come un problema da rimuovere agli occhi della città. Quello che accade a Porto Vecchio non è un evento straordinario: è il prodotto di una scelta politica. E come tale, può – e deve – essere cambiato. 1. Un migrante algerino trovato senza vita all’ex Locanda 116, RaiNews (3 dicembre 2025) ↩︎
La scelta di Iddo ed Ella, che si sono rifiutati di prestare servizio nell’esercito israeliano
di Anna Maria Selini,    Altreconomia, 4 dicembre 2025.   Incontro con Iddo Elam ed Ella Keidar Greenberg, due giovani refusenik israeliani di 19 e 18 anni, membri della rete Mesarvot che riunisce chi si è opposto alla leva obbligatoria, che dopo il 7 ottobre 2023 è stata prolungata a tre anni per i ragazzi e a due per le ragazze. Spiegano il valore e lo scopo della loro decisione, che cosa abbia implicato, il ruolo delle famiglie e degli amici. “Dobbiamo fermare gli ingranaggi” Iddo Elam ed Ella Keidar Greenberg © Anna Maria Selini Spezzare la catena del sistema dicendo “No”. È questo il senso del rifiutarsi di prestare servizio nell’esercito israeliano per Iddo Elam ed Ella Keidar Greenberg, due giovani refusenik israeliani di 19 e 18 anni. “È il sistema militare che crea l’opportunità dell’occupazione e dell’oppressione dei palestinesi, fino a permettere il genocidio a Gaza -spiegano- e se offri la tua manodopera a quel sistema, lo stai aiutando a funzionare. Se tutti i liberali smettessero di andare negli uffici e lavorare dietro le quinte, il sistema non funzionerebbe. Dobbiamo fermare gli ingranaggi”. Entrambi fanno parte di Mesarvot, una rete israeliana di refusenik. Li abbiamo incontrati al 4Passi Festival di Treviso, organizzato dalla cooperativa di commercio equo Pace e Sviluppo, dove sono arrivati da Tel Aviv, dove vivono, per raccontare la loro scelta e che cosa abbia implicato, specialmente in un momento storico come questo. La leva in Israele è obbligatoria ma dopo il 7 ottobre 2023 è stata prolungata a tre anni per i ragazzi e a due per le ragazze. Il servizio militare in Israele è un modo per entrare nella società e rifiutare di farlo è da sempre un tabù. “Dopo il 7 ottobre sono aumentati i giovani israeliani che non vogliono prestare servizio nell’esercito -dice Iddo- e proprio per questo è diventato più difficile essere esentati”. Il sistema ha bisogno di uomini, specie con un governo come quello Netanyahu che sembra più interessato ad aprire che a chiudere fronti di guerra. Ma come si diventa concretamente un refusenik? Il giorno previsto per l’arruolamento, contrariamente a quanto si potrebbe credere, ci si presenta in caserma. “Se non lo fai -spiegano i due ragazzi- la punizione è peggiore, specie se devono venire a prenderti a casa e perdere più tempo”. E così, sia Iddo sia Ella si sono presentati e in entrambi i casi hanno organizzato una protesta all’esterno della base. “C’erano alcune centinaia di persone -raccontano- ogni volta protestiamo contro il genocidio e l’occupazione e ci sosteniamo a vicenda, anche se non per tutti i refusenik si fa una protesta”. Dietro c’è la comunità di Mesarvot, che oltre a fornire supporto legale, prepara anche all’ingresso in caserma e in carcere. “Ognuno di noi è abbinato a un refusenik anziano, come una specie di tutor, che ci supporta lungo il percorso -precisa Ella-. Ci spiega che cosa si può fare o meno in carcere, fino a suggerirci una lista di cose da portare”. Dopo la protesta, con la famiglia, quando c’è, il refusenik sale su un autobus ed entra nella base, dove ci sono migliaia di persone venute per arruolarsi. A quel punto c’è il taglio dei capelli, la somministrazione dei vaccini, la consegna della piastrina e tutto il resto, “quella che noi chiamiamo la catena per diventare un soldato -spiega Iddo-. Ed è allora che rifiutiamo, dicendo che non vogliamo entrare nella catena. Nel mio caso l’ufficiale era molto confuso, gli erano passate davanti migliaia di persone che avevano sempre detto ‘Sì, signore’ e quindi hanno fatto venire un superiore, che invece sapeva che cosa significa rifiutare. Hanno cercato di convincermi a cambiare idea, poi mi hanno messo nella cella della base, non in una vera e propria prigione, in attesa del processo”. Entrambi raccontano che dopo ore è arrivato l’ufficiale di più alto rango responsabile degli arruolamenti. “Non è un tribunale militare ufficiale a giudicarti, sei in piedi di fronte ad alcuni ufficiali, senza un avvocato. Ci hanno chiesto perché ci rifiutassimo ed entrambi separatamente abbiamo detto di essere contrari al genocidio, così ci hanno dato 30 giorni di detenzione”. Una volta tornati liberi, i refusenik rifanno tutto il percorso: convocazione, rifiuto, giudizio e detenzione, finché non vengono del tutto esonerati. “Noi siamo stati fortunati, perché siamo stati in carcere solo un mese”, dicono entrambi, anche se non è stato semplice, soprattutto per Ella. “La seconda volta -racconta- l’alto ufficiale, che era una donna, mi ha detto di sederci per un attimo prima del processo e mi ha offerto una posizione nella sezione dell’esercito responsabile del coordinamento con l’Autorità Palestinese. ‘Visto che ti piacciono i palestinesi, perché non ci entri?’ mi ha detto, ma ho rifiutato e mi hanno messo in cella, da sola”. A differenza di Iddo, che stava con altri sei uomini. Ella Keidar Greenberg (abbiamo già raccontato la sua storia) è transgender e in questi casi l’esercito israeliano prevede una detenzione solitaria. “Stavo da sola per 20 ore al giorno, uscivo solo per i pasti e quindi non avevo amici in prigione. È stato molto pesante da un punto di vista psicologico, anche per questo al secondo tentativo mi hanno dato un’esenzione psichiatrica”. Entrambi hanno chiesto quel tipo di esenzione e all’inizio gli è stata rifiutata, per Iddo poi c’è voluto più tempo. “Non vieni esonerato in quanto refusenik o per motivi politici -spiega- ma solo per inabilità fisiche o mentali e il rilascio delle esenzioni psichiatriche dopo il 7 ottobre è diventato più difficile, anche perché non ci sono abbastanza psichiatri e si devono già occupare dei soldati in servizio. Stanno cercando di renderlo più difficile, in modo che le persone si scoraggino”. Ma quanti sono i refusenik? “Ogni anno l’avvocato di Mesarvot presenta un’istanza alle forze armate (IDF) per sapere quante persone non prestano servizio e quante ufficialmente, secondo l’esercito, rifiutano, ma non forniscono quei dati, solo l’IDF li conosce. Dal 7 ottobre i refusenik passati attraverso Mesarvot sono stati circa 20, ma questi sono solo quelli che l’hanno fatto pubblicamente”. Anche i dati sui soldati suicidi restano oscuri. Secondo il Times of Israel dal 7 ottobre 2023 all’inizio del 2025, sono stati 28 i soldati israeliani che si sono tolti la vita, il numero più alto di ogni operazione militare israeliana (ne abbiamo parlato nel podcast “Bambini senza pace”). “L’IDF non fornisce quei dati e i media ne parlano a seconda dell’orientamento politico: c’è un dibattito all’interno della società israeliana se dirlo, rischiando di far sembrare le IDF e Israele deboli, o se parlarne, perché stanno morendo. Ci sono molte campagne, ma il governo non aiuta davvero gli ex soldati con disturbo da stress post traumatico, né da un punto di vista psichiatrico né finanziario. Conosco molti di loro che sono andati alla Knesset (il Parlamento israeliano, ndr) per parlarne -dice Iddo- ma poi non sono stati aiutati e si sono uccisi. E questa è una depravazione dello stato e della società israeliana, perché diamo miliardi agli insediamenti, affinché terrorizzino i palestinesi, mentre le persone che mandiamo a combattere per il paese stanno soffrendo e si uccidono”. Ma anche dire “No” alla leva può essere estremamente difficile. Ella e Iddo provengono da due famiglie che li hanno supportati, ma non è stata comunque una scelta priva di conseguenze. “La mia famiglia è stata molto solidale -racconta Ella- mia madre mi appoggiava, ma non voleva che rifiutassi, perché era molto preoccupata. Mio padre non era d’accordo, ma non mi ha bandito. E i miei amici sono persone che ho incontrato attraverso l’attivismo, la maggior parte di loro sono refusenik”. Ella ha ricevuto minacce, soprattutto dopo che la sua storia è diventata pubblica e internazionale. “La mia famiglia è molto di sinistra e mi ha sempre sostenuto -aggiunge Iddo-. I miei amici sono da un lato attivisti e dall’altro compagni di scuola che, anche se non sono d’accordo, hanno accettato la mia scelta, ma c’è anche chi mi odia. Avere qualcuno da poter chiamare dalla prigione quando hai bisogno o che quando esci ti venga a prendere, aiuta tantissimo. Conosciamo persone che hanno interrotto i contatti con la famiglia o gli amici, perché la loro scelta era troppo radicale per la loro comunità. In questi casi facciamo del nostro meglio per fare rete e convincere i genitori, c’è un gruppo di genitori di refusenik, ma ovviamente se vieni da una famiglia di destra e decidi di rifiutare, quasi sempre non vieni accettato”. E, come molti refusenik, vieni considerato un traditore. https://altreconomia.it/la-scelta-di-iddo-ed-ella-che-si-sono-rifiutati-di-prestare-servizio-nellesercito-israeliano/
Palestina: Intervista a Roberto Giudici, del Comitato Nazionale Free Marwan Barghouti
di Radio Onda d’Urto,  Radio Onda d’Urto, 3 dicembre 2025.   Continua e si allarga la campagna internazionale “Free Marwan”, per la liberazione di tutti i prigionieri politici palestinesi e in particolare di Marwan Barghouti, popolarissimo leader palestinese, sepolto dal 2002 nelle galere israeliane. Un appello ad hoc è stato lanciato oggi a livello globale da oltre 200 tra intellettuali e personalità artistiche: tra loro attrici-tori Tilda Swinton, Josh O’Connor e Mark Ruffalo; scrittrici-tori Margaret Atwood, Zadie Smith e Annie Ernaux; i musicisti Brian Eno, Sting, Paul Simon, Michael Stipe. In Italia è attiva invece dal 29 novembre 2025 la Campagna nazionale Free Marwan. Riproduciamo qui l’intervista Su Radio Onda d’Urto a Roberto Giudici, esponente del Comitato Nazionale Italiano Free Marwan. Radio Onda d’Urto. Siamo in collegamento telefonico con Roberto Giudici del Comitato Nazionale per la Liberazione di Marwan Barghouti. Roberto Giudici, intanto grazie per la disponibilità e di essere qui con noi. Giudici. Figurati, grazie a voi. Radio Onda d’Urto. In particolare, in questa intervista con te vogliamo approfondire con ascoltatori e ascoltatrici la conoscenza della figura di Marwan Barghouti, leader di Fatah, della sinistra di Fatah, detenuto nelle carceri israeliane dall’aprile del 2002, quindi da 23 anni. Iniziamo, Roberto Giudici, dallo spiegare chi è Marwan Barghouti e qual è la sua storia politica all’interno del movimento di liberazione palestinese. Giudici: Marwan nasce il 6 giugno del 1959 in un villaggio vicino a Ramallah. La famiglia Barghouti è una famiglia molto conosciuta in quell’area perché comprende diversi personaggi. Uno dei Barghouti è tra i fondatori del Partito Comunista Palestinese, poi c’è un Hafez Barghouti giornalista molto affermato in Medio Oriente, c’è Mustafa Barghouti che conosciamo perché è presidente dell’associazione Medicar Relief e nelle elezioni di Abu Mazen è stato il secondo in termini di voti. Quindi è una famiglia molto conosciuta. Marwan, dall’età di 8 anni, dopo il ‘67, vive sotto l’occupazione israeliana della Cisgiordania e a 15 anni si iscrive ad Al Fatah, al partito che poi sarà per sempre il suo partito. Da subito diventa un animatore politico. In quegli anni viene arrestato per la prima volta a 16 anni e viene espulso dalle scuole secondarie. Il secondo arresto è nel 1978, a 19 anni, questa volta però rimane in prigione per 5 anni. In carcere si diploma, impara l’ebraico e il francese. Poi si iscrive all’università di Birzeit dove viene eletto leader degli studenti, ma viene ancora arrestato nel 1984 e poi di nuovo l’anno seguente nell’85. Comunque riesce a laurearsi all’università di Birzeit, l’università che c’è vicino a Ramallah, in scienze politiche e poi conseguirà un master in relazioni internazionali. Marwan è molto interessato all’Europa; infatti ha voluto imparare il francese perché ha sempre pensato che l’Europa potesse avere un ruolo indipendente dagli Stati Uniti nei confronti della questione israelo-palestinese. Purtroppo si è sbagliato in questa speranza che lui riponeva nell’Unione Europea. Comunque Marwan nel partito è da subito una figura importante perché riorganizza soprattutto i giovani, crea comitati popolari per il lavoro e per la vita sociale, aiuta a creare i Comitati Popolari per le donne. Diventa un leader e infatti nel 1978 viene espulso dalla Palestina dagli israeliani, in prima persona dall’allora ministro della difesa Rabin. Quindi lui dalla Palestina si trasferisce ad Amman. L’8 dicembre 1987 nasce la prima Intifada, ispirata da Tunisi, da un grande dirigente palestinese che si chiamava Abu Jihad, che poi viene assassinato dagli israeliani nei pressi di Tunisi. Marwan diventa uno stretto collaboratore di Abu Jihad perché durante la prima intifada Marwan fa da collegamento tra la centrale di Tunisi e i territori occupati, passando per Amman. Marwan è talmente importante nei territori occupati da diventare uno dei membri del comitato unitario per l’Intifada che comprendeva solo elementi palestinesi nei territori occupati. Marwan diventa membro di questo comitato unificato pur essendo fuori dai territori occupati, pur essendo ad Amman. Poi nell’89 viene eletto nel consiglio rivoluzionario di Al-Fatah come membro più giovane. Quindi già nella sua giovinezza è una figura molto importante. Marwan lavora intensamente per gli accordi di Oslo, lui ci crede, ci crede fermamente. Dopo la firma degli accordi riesce a rientrare in Palestina e si spende molto proprio per la realizzazione sul terreno degli accordi di Oslo. Viene nominato segretario di Fatah per la Cisgiordania e il suo impegno è soprattutto per la riorganizzazione del partito. Una riorganizzazione che comincia a porre delle critiche al partito stesso e all’Autorità Nazionale Palestinese che nel frattempo si era insediata. I due punti delle sue critiche erano per la democratizzazione sia del partito che dell’Autorità Nazionale Palestinese. E soprattutto era una critica contro la corruzione che stava diventando molto evidente tra i vertici dell’ANP. Comunque, nonostante queste critiche, lui rimane un sostenitore indefesso degli accordi di Oslo, nonostante le grandi difficoltà e le disillusioni che già si cominciavano ad incontrare verso la fine del 2000, perché le colonie israeliane continuavano ad aumentare. Il ritiro dell’esercito israeliano dalle aree palestinesi che era stato concordato non avviene, o avviene molto lentamente e in pochissimi casi e quindi la disillusione c’è. Però Marwan continua a credere in questa prospettiva. Alla fine degli anni 90, dopo l’assassinio di Rabin, però, anche in Marwan cresce la disillusione nel confronto degli accordi di Oslo e quindi comincia a capire che questi accordi non porteranno a nulla. Mentre fino a pochi mesi prima, fino agli anni precedenti, cercava in tutti i modi di tentare di realizzare quello che era scritto negli accordi, da un certo momento in poi capisce che questo non è possibile e si dedica alla resistenza. Lui descrive quel periodo con una frase molto significativa, diceva: abbiamo tentato la strada dell’Intifada per sette anni senza negoziare, poi abbiamo negoziato per sette anni senza Intifada, ora forse dobbiamo tentare entrambe le strade contemporaneamente. In pratica lui dice: continuiamo nella trattativa ma senza fermare l’Intifada. Anche questa posizione lo mette un po’ in conflitto con la parte conservatrice dell’ANP. Comunque Marwan alla fine degli anni 90 si mette alla testa della protesta popolare che cresce giorno dopo giorno a causa del fallimento degli accordi di Oslo. Marwan è un leader laico, non ha mai militato in movimenti religiosi e quindi ha una visione molto laica della situazione. Si mette a capo del volere popolare, dei sentimenti popolari di rivolta contro gli accordi di Oslo e questo sfocia poi alla fine nella seconda Intifada. La seconda Intifada è un momento cruciale ma anche difficile perché, a differenza della prima intifada che ha avuto un carattere popolare di massa molto allargato, la seconda Intifada a causa della repressione brutale dell’occupazione diventa spesso un’Intifada armata e Marwan ha una posizione molto precisa anche rispetto a questo. Se Marwan ha sempre naturalmente rivendicato il diritto alla resistenza anche armata nei confronti dei coloni e dei militari israeliani nel territorio occupato, non ha mai appoggiato gli attentati e le operazioni militari in territorio israeliano. Lui diceva, e questo l’ho sentito nei vari incontri che abbiamo fatto con lui, diceva dobbiamo mandare un segnale, un messaggio molto chiaro alla popolazione israeliana che il nostro obiettivo è quello di liberare i territori per costruire il nostro stato e quindi la lotta armata va bene ma va bene nei territori occupati. Nonostante questa posizione molto razionale, Barghouti diventa il bersaglio principale di Israele e viene sottoposto a diversi tentativi di assassinio, soprattutto a cavallo degli anni 2000-2001; due volte a Gaza usando missili e bombe nelle auto hanno tentato di uccidere Marwan. In questo contesto Marwan viene indicato da Israele come la mente degli attentati che avvenivano in quegli anni in Cisgiordania e anche in Israele, nonostante la sua posizione che, come dicevo prima, era molto chiara, molto cristallina. Marwan continua nell’organizzazione della resistenza, soprattutto è diventato il punto di riferimento fondamentale per i giovani di Al-Fatah e per i giovani in generale. E lui, nonostante questa situazione, non cessa di criticare le posizioni dell’ANP, la corruzione, la mancanza di democrazia e spera sempre in un congresso del partito di Al-Fatah sempre promesso e mai realizzato, nel quale poter cambiare la classe dirigente a favore dei molti giovani che lui aveva organizzato. Aveva iniziato nella lotta di resistenza e diventa sempre più leader dei giovani, principalmente, ma di tutta la popolazione, tant’è che con l’aggravarsi della malattia di Arafat il suo nome è quello sempre più indicato come successore. Quando muore Arafat, che è l’11 novembre del 2004, Marwan però è già in prigione perché viene arrestato nel 14 aprile del 2002 durante un’operazione israeliana di rioccupazione di tutte le grandi città palestinesi. In quell’occasione Marwan viene arrestato e viene messo in carcere e nonostante il fatto di essere in carcere il suo nome diventa il nome principale per la successione di Arafat. Marwan pensa addirittura in un primo momento di dare suo assenso alla candidatura, tant’è che alcuni pool degli istituti di ricerca palestinesi prima delle elezioni davano Marwan al 43-44% contro Abu Mazen che arrivava al 38-40%. Naturalmente grandi pressioni esterne e interne da moltissime parti fanno sì che Marwan si ritiri dalla candidatura. Questa scelta la motiva anche in un’intervista del 2005 a un settimanale italiano, Panorama, nel quale lui dice: mi sono ritirato perché non voglio neppure lasciare un alibi agli israeliani e agli americani per poter dire che gli accordi di pace sono falliti a causa della radicalità di Marwan Barghouti. Quindi lui si ritira dalle elezioni che finiscono con la vittoria di Abu Mazen. Da quel momento in poi Marwan è in prigione e continua la sua Intifada dalle prigioni israeliane. Diverse volte in occasione di scambi di prigionieri si fa il nome di Marwan per tentare la sua liberazione, ma questo non è mai avvenuto. Oggi riprendiamo questa parola d’ordine perché, in una situazione così tragica e così difficile per il popolo palestinese, ci pare che l’unica persona in grado di riuscire in una maniera lucida e razionale a ricostruire una prospettiva di liberazione per il popolo palestinese possa passare per la figura di Marwan Barghouti. Marwan Barghouti, dalle cose che ho detto, è sempre stato un uomo di partito, è sempre stato un uomo di Fatah ma in un modo molto autonomo, molto critico, sempre molto tendente all’innovazione. È sempre stato un uomo del popolo, ha sempre cercato di collegare la popolazione con le istituzioni palestinesi. Noi abbiamo fatto in quegli anni moltissimi incontri con Marwan, e facevamo riunioni nelle case, nelle sedi di Fatah, a Ramallah e così via, ma in sedi molto popolari, in quartieri popolari, e lui era sempre circondato da un mare di gente che vedeva in Marwan una possibilità. Purtroppo questo non è avvenuto, però la sua popolarità, il suo carisma, pensiamo che sia ancora importante in Palestina e per questo motivo la campagna per la sua liberazione diventa in questo momento una delle più importanti richieste politiche per tentare di dare uno sbocco a questa situazione così difficile. Radio Onda d’Urto. Roberto Giudici del Comitato Nazionale Italiano per la Liberazione di Marwan Barghouti, grazie di essere stato con noi qui su Radio Onda d’Urto. Giudici. Figurati, grazie a voi. Ciao. https://www.radiondadurto.org/2025/12/03/palestina-intervista-a-roberto-giudici-del-comitato-nazionale-free-marwan-barghouti/
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta una risoluzione sulla Palestina che chiede la fine dell’occupazione del 1967
di Diyar Güldoğan, Anadolu Agency, 3 dicembre 2025.   Il progetto di risoluzione è stato approvato con 151 voti a favore, 11 contrari e 11 astensioni L’80ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA 80) Martedì 2 dicembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione sulla “Risoluzione pacifica della questione palestinese”. Il progetto di risoluzione, redatto da Gibuti, Giordania, Mauritania, Qatar, Senegal e Palestina, è stato approvato con 151 voti a favore, 11 contrari (Fiji, Ungheria, Israele, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Tonga, Stati Uniti) e 11 astensioni. La risoluzione ribadisce la responsabilità delle Nazioni Unite nella questione palestinese, chiede la fine dell’occupazione del 1967 e il rispetto della soluzione dei due stati, ed esige che Israele interrompa le attività di insediamento e rispetti il diritto internazionale. Inoltre, sollecita la ripresa dei negoziati e invita gli stati a non riconoscere le modifiche dei confini, aumentando al contempo l’assistenza ai palestinesi in un contesto di grave crisi umanitaria. https://www.aa.com.tr/en/world/un-general-assembly-adopts-resolution-on-palestine-calling-for-ending-1967-occupation/3760407 Traduzione a cura di AssopacePalestina
AUTOGESTIONE PER LA CITTÀ PUBBLICA – 13 e 14 dicembre 2025
Sabato 13 e domenica 14 dicembre 2025 1988-2025 AUTOGESTIONE PER LA CITTÀ PUBBLICA Siamo arrivati a 37 anni: tanti ne sono passati da quel 28 dicembre 1988, giorno della “liberazione” di uno spazio abbandonato che ha preso forma e vita grazie alla lotta e all’attivazione diretta. Una lunga storia fatta di storie diverse, il pezzo di un puzzle più grande: quella città dal basso fatta di spazi sociali sottratti alla speculazione, nuove forme di welfare e sindacalismo sociale, produzione culturale indipendente, accoglienza e mutualismo. Quella città solidale che difende il territorio e i beni comuni dagli interessi economici che, in nome dei profitti, sacrificano la sicurezza, la salute e la tutela ambientale: come è accaduto purtroppo a via dei Gordiani il 4 luglio scorso, con la drammatica vicenda dell’esplosione dell’impianto Gpl. S̲a̲b̲a̲t̲o̲ ̲1̲3̲ ̲d̲i̲c̲e̲m̲b̲r̲e̲ // ore 16,30 spazio letture per bambine e bambini a cura del gruppo genitori “Avventure di carta” // ore 17,30 Pillola video estratta da “Cristiano Rea, l’intervista inedita” a seguire NOT FOR SALE! La città pubblica contro rendita e guerra Talk e presentazione combo di “Città in affitto. Un requiem per il diritto all’abitare” di Gessi White (Editori Laterza) e “Il cerchio e la saetta” di Fabrizio C. (Fandango libri). Oltre agli autori, ne discuteremo con: Rossella Marchini (DINAMOpress) Pietro Vicari (Quarticciolo Ribelle) Alessandro Torti (Esc Atelier Autogestito) Margherita Grazioli (Movimenti per il diritto all’abitare). Partecipano: Rete territoriale 4 luglio, Comitato Civico per la Tutela dell’Area degli Ex Mercati Generali, Rete territoriale degli spazi sociali e delle associazioni di San Lorenzo, Social Forum Abitare, Forum Parco delle Energie, Collettivo studentesco FDA, LSA 100celle. // ore 20 𝗖𝗲𝗻𝗮 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹𝗲 // ore 21 𝗟𝗮 𝗥𝗮𝘀𝘀𝗲𝗴𝗻𝗮 𝗦𝘁𝗮𝗺𝗽𝗮 𝗻𝗼𝗻 𝗥𝗶𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗟𝗶𝘃𝗲 La Rassegna stampa non Richiesta è il telegiornale di cui non sapevi di avere bisogno. Come tutti i telegiornali non è imparziale ma stavolta lo sai: le notizie sono lette dalla parte dell’antifascismo, dell’antirazzismo e del transfemminismo. E fa ridere, ma questo vale anche per il TG. D̲o̲m̲e̲n̲i̲c̲a̲ ̲1̲4̲ ̲d̲i̲c̲e̲m̲b̲r̲e̲ // dalle 16 alle 22 𝗘𝗟𝗘𝗖𝗧𝗥𝗢𝗗𝗢𝗠𝗘𝗦𝗧𝗜𝗖𝗔 Viaggi spaziali, paesaggi resistenti, suoni dal futuro anteriore. // In consolle // >> Mr.3p TruckStop76th – Techno djset >> Miss Loony – Techno djset >> Sonic Vision (KK) – Technobreak djset Visual by colletivo L4R Durante la due giorni sarà possibile visitare la mostra fotografica “DIALOGHI VISIVI – dittici fotografici”, a cura di Anima Urbis Roma Fotografia. L'articolo AUTOGESTIONE PER LA CITTÀ PUBBLICA – 13 e 14 dicembre 2025 proviene da Casale Garibaldi.
AssopacePalestina Bologna ringrazia Percorsi di Pace
Assopace Palestina Bologna Un grazie di cuore a Percorsi di Pace! Ringraziamo profondamente l’Associazione Pacifista Percorsi di Pace di Casalecchio di Reno (BO) per la raccolta fondi di 4.000 € a sostegno del nostro progetto “La resistenza dei giovani palestinesi di Masafer Yatta: studiare e lottare”. Percorsi di Pace, attiva dal 1995, gestisce dal 2006 la Casa per la Pace “La Filanda”, promuovendo cultura di pace, non violenza, diritti, intercultura e solidarietà sociale, insieme a un’economia etica e solidale. Il loro sostegno nasce dalla volontà di contribuire al percorso formativo di studentesse e studenti che, ogni giorno, difendono sé stessi, le proprie case e la propria terra dalla violenza dell’Esercito Israeliano e dagli estremisti delle colonie illegali nell’area a sud di Hebron. Giovani che hanno scelto la resistenza non violenta, che credono nel sapere e nella cultura come strumenti per costruire un futuro migliore per sé e per la propria comunità, ma che troppo spesso non hanno le risorse economiche per studiare. Un grazie speciale a chi ha contribuito alla raccolta: • Le socie e i soci di Percorsi di Pace • Il Gruppo interno di Acquisto Solidale • Il Gruppo Escursionismo e Cicloturismo della Polisportiva Masi e di Percorsi di Pace • L’Atelier Creativo, che ha donato parte del ricavato della lotteria della festa di San Martino Grazie di cuore a tutte e tutti! Siete parte di questo percorso di speranza e resistenza. Screenshot