Source - Assopace Palestina

Lo sfollamento forzato degli abitanti di Gaza, in immagini, mappe e video
di Cate Brown, Amaya Verde e Júlia Ledur ,  The Washington Post, 19 settembre 2025.    I palestinesi sfollati si spostano con i loro averi verso sud su una strada nella zona del campo profughi di Nuseirat, in seguito ai nuovi ordini di evacuazione di Gaza City da parte di Israele. Eyad Baba/AFP/Getty Images Tre giorni dopo che Israele ha lanciato la sua offensiva terrestre per conquistare la città di Gaza, decine di migliaia di palestinesi si stanno spostando verso sud in cerca di una relativa sicurezza. All’inizio dell’operazione, gli aerei militari israeliani hanno lanciato volantini invitando quasi un milione di residenti della città a evacuare lungo la strada al-Rashid, una stretta autostrada a due corsie che costeggia l’enclave. Migliaia di volantini di carta cadono su Gaza City il 17 settembre, intimando a quasi un milione di persone di andarsene. Reuters Un uomo legge uno dei volantini lanciati dall’esercito israeliano, che esorta la popolazione a evacuare verso sud. Omar Al-Qattaa/AFP/Getty Images Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, da metà marzo più di un milione di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case, dopo che Israele ha rotto la fragile tregua con Hamas riprendendo gli attacchi su Gaza. Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), quasi un quarto di queste persone si è spostato dal nord al sud di Gaza nell’ultimo mese. Il fumo sale da un bombardamento dell’esercito israeliano nella città di Gaza, visto dalla Striscia di Gaza centrale. Jehad Alshrafi/AP I palestinesi ispezionano il luogo di un attacco israeliano notturno contro un’abitazione nella città di Gaza. Ebrahim Hajjaj/Reuters Le famiglie raccontano di aver trascorso ore nel traffico per raggiungere al-Mawasi. Abdel Kareem Hana/AP Una donna trasporta un fagotto di coperte mentre cammina verso sud. Le partenze di massa dalla città di Gaza hanno causato ingorghi lungo il percorso. Mahmoud Issa/Reuters Un gruppo di abitanti di Gaza seduti su un carro improvvisato, con un sacco di farina bianca e oggetti domestici legati per il viaggio. Eyad Baba/AFP/Getty Images Il 17 settembre si sono alzate nuvole di fumo mentre Israele continuava l’assalto via terra alla città di Gaza in quello che i palestinesi hanno descritto come il bombardamento più intenso degli ultimi due anni. Reuters Detriti di cemento costellano la strada dell’evacuazione. L’ONU stima che oltre il 90% degli edifici residenziali di Gaza siano stati danneggiati o distrutti dai bombardamenti israeliani. Abdel Kareem Hana/AP Un bambino trasporta i suoi averi lungo la strada che attraversa il centro di Gaza. I bambini rappresentano la metà degli sfollati a Gaza. Eyad Baba/AFP/Getty Images La strada costiera per al-Mawasi presenta dei rischi. L’accesso all’acqua e al cibo è limitato. La gente ha dovuto scegliere quali scorte portare con sé verso sud, dove la competizione per le risorse dopo mesi di blocco potrebbe diventare una questione di vita o di morte. Secondo le Nazioni Unite, da domenica più di 56.000 persone hanno lasciato la città di Gaza. Mahmoud Issa/Reuters La gente cammina trasportando fagotti di cibo e vestiti. Eyad Baba/AFP/Getty Images Le partenze sono continuate anche dopo il calar della notte, sotto i bombardamenti israeliani. Più di 20 agenzie umanitarie hanno chiesto ai leader mondiali di intervenire e fermare l’assalto di Israele. Centinaia di migliaia di palestinesi hanno camminato o guidato verso sud per sfuggire all’offensiva israeliana sulla città di Gaza. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che era necessario prendere il controllo della città per sconfiggere Hamas. Jehad Alshrafi/AP Una famiglia palestinese si ammassa su un camion in fuga dalla città di Gaza. Dawoud Abu Alkas/Reuters Le famiglie che arrivano ad al-Mawasi scoprono che lo spazio è limitato e le malattie dilagano. Gli operatori umanitari riferiscono che le persone pagano 80 dollari solo per un posto dove piantare una tenda. La gente cerca uno spazio dove scaricare i propri averi ad al-Mawasi. Jehad Alshrafi/AP Teloni improvvisati e tende fornite dall’ONU ricoprono l’area. Israele ha bloccato un recente carico di tende in entrata a Gaza perché i pali di metallo erano considerati articoli “a doppio uso”. Jehad Alshrafi/AP Cate Brown è giornalista e ricercatrice investigativa per la redazione internazionale del Post.  Amaya Verde è una giornalista grafica del Washington Post, con sede a Madrid. Júlia Ledur è una giornalista grafica che si occupa di notizie estere per il Washington Post. Prima di entrare a far parte del Post nel 2021, ha lavorato come editor grafico presso il COVID Tracking Project dell’Atlantic. In precedenza, ha fatto parte del team grafico di Reuters, occupandosi di politica latinoamericana, ambiente e questioni sociali con dati e immagini.  https://www.washingtonpost.com/world/interactive/2025/gaza-city-evacuation-photos-maps/?utm_campaign=wp_the7&utm_medium=email&utm_source=newsletter&carta-url=https%3A%2F%2Fs2.washingtonpost.com%2Fcar-ln-tr%2F44de55e%2F68cd3570ade2b538187cf313%2F60c8843bae7e8a415def588a%2F51%2F108%2F68cd3570ade2b538187cf313 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il veto degli Stati Uniti blocca per la sesta volta una risoluzione dell’ONU sul cessate il fuoco a Gaza
del Palestine Cronicle Staff, The Palestine Chronicle, 19 settembre 2025.   La Russia e diversi altri stati hanno condannato il veto degli Stati Uniti, sottolineando che la risoluzione avrebbe potuto porre fine allo spargimento di sangue in corso. Gli Stati Uniti pongono il veto su una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un cessate il fuoco a Gaza. (Fotogramma tratto da un video, via UN News) Giovedì sera gli Stati Uniti hanno posto il veto su una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza. La risoluzione, sostenuta da 14 dei 15 membri del Consiglio, compresi tutti e dieci i membri eletti, è stata bloccata dopo che Washington ha posto il veto. Il testo, presentato dai membri non permanenti, chiedeva un cessate il fuoco incondizionato a Gaza, il rilascio dei prigionieri e la revoca di tutte le restrizioni israeliane alla consegna degli aiuti umanitari. Esprimeva inoltre allarme per l’aggravarsi delle sofferenze dei civili, la carestia e l’intensificarsi dell’offensiva israeliana su Gaza City. L’ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Morgan Artagus, ha difeso il veto, sostenendo che la risoluzione poneva Israele e Hamas sullo stesso piano e “ignorava la realtà sul campo”. Ha affermato che Israele aveva accettato di porre fine alla guerra a determinate condizioni, mentre Hamas le aveva respinte, insistendo sul fatto che Hamas doveva rilasciare i detenuti e “arrendersi immediatamente”. Ha anche accusato Hamas di ostacolare la consegna degli aiuti e di usare i civili come “strumenti” per raggiungere i propri obiettivi. La Russia e diversi altri stati hanno condannato il veto degli Stati Uniti, sottolineando che la risoluzione avrebbe potuto porre fine allo spargimento di sangue in corso. La rappresentante della Danimarca, Christina Markus Lassen, parlando a nome di un gruppo di paesi, ha sottolineato che la carestia a Gaza è una realtà cruda e ha chiesto un accesso immediato agli aiuti umanitari. La presidenza palestinese ha espresso “rammarico e stupore” per l’ostruzionismo di Washington, affermando che il veto non fa altro che incoraggiare Israele a continuare i suoi crimini. Hamas ha denunciato la mossa degli Stati Uniti come “palese complicità nel crimine di genocidio”, elogiando la posizione dei dieci paesi che hanno presentato la bozza. Ha inoltre esortato a esercitare pressioni sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che deve rispondere davanti alla Corte Penale Internazionale di accuse che includono crimini di guerra e genocidio, affinché ponga fine all’aggressione. Anche il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ha condannato il veto, descrivendolo come un “via libera” al proseguimento dei massacri e della distruzione. Questa è la sesta volta, dall’inizio della guerra di Gaza quasi due anni fa, che gli Stati Uniti hanno usato il loro potere di veto per bloccare le risoluzioni relative al cessate il fuoco. https://www.palestinechronicle.com/us-veto-blocks-un-ceasefire-resolution-on-gaza-for-sixth-time Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Nessuna privacy, igiene o sicurezza: le donne palestinesi a Gaza devono sfollare ancora una volta
di Rawan Suleiman,  Haaretz, 18 settembre 2025.   Mentre tutti i palestinesi di Gaza City affrontano gravi difficoltà, le donne portano un peso aggiuntivo, che si intensifica con il diffondersi della distruzione e l’avanzata dell’IDF. “La parola ‘sfollati’ non descrive ciò che stiamo vivendo”, dice una residente. “Non augurerei questo agli ebrei”. Una famiglia palestinese in fuga da Gaza City, mercoledì. Crediti: Hani Alshaer/Anadolu via Reuters “La parola sfollamento non descrive ciò che stiamo vivendo”, ha detto Maisa Odeh, una residente di Gaza sulla cinquantina, al canale televisivo saudita Asharq TV. “Non augurerei questo agli ebrei che ci uccidono”, ha detto. “In nome di Dio, non augurerei loro una cosa del genere, anche se sono nostri nemici. Lo sfollamento è una cosa molto difficile, difficile e amara”. Da quando, all’inizio di questo mese, è cominciata l’operazione di Gaza City centinaia di migliaia di abitanti di Gaza sono stati ripresi fotograficamente nel loro viaggio di sopravvivenza verso sud, sia verso il centro della Striscia che verso l’area designata come zona umanitaria a Muwasi. Molte delle persone sfollate che si vedono in queste foto sono donne. Le foto dalla Striscia di Gaza documentano il viaggio a piedi delle donne palestinesi verso sud. Sono costrette a camminare per almeno 13 km fino alla prima area di sosta vicino a Nuseirat, e poi per altri 20 km per raggiungere Muwasi, un’area di 35 km quadrati, pari al 13% dell’intera Striscia, in cui Israele vuole stipare circa due milioni di uomini, donne e bambini. Una donna osserva le persone in fuga da Gaza City, mercoledì. Crediti: Mahmoud Issa/Reuters In molte foto si vedono donne che trasportano tutto il contenuto dei loro armadi, taniche d’acqua vuote e zaini, sia sulle spalle che, a volte, sulla testa. Si vedono donne aggrappate per ore alle strutture dei mezzi che trasportano i loro familiari e il contenuto delle loro case, perché non hanno più un posto dove sedersi. Una donna di 80 anni costretta a compiere il viaggio a piedi, donne che baciano le porte delle case in cui hanno vissuto per molti anni, donne che dormono con i loro familiari sui marciapiedi delle strade perché non riescono a trovare un riparo, senza accesso a servizi igienici, acqua o un luogo sicuro. Attualmente nella Striscia di Gaza ci sono 1,06 milioni di donne, 14.000 delle quali sono diventate le uniche fonti di reddito delle loro famiglie a causa della guerra. Il Ministero della Salute di Gaza ha riferito che il 19% degli oltre 60.000 morti sono donne. Il luogo dell’impatto di un attacco aereo israeliano nella città di Gaza, questa settimana. Crediti: Ebrahim Hajjaj/Reuters Mentre tutti i palestinesi di Gaza City affrontano difficoltà, le donne portano un peso aggiuntivo: difficoltà con l’igiene e la gestione del ciclo mestruale, mancanza di nutrimento durante la gravidanza e l’allattamento, mancanza di privacy ed esposizione a violenze fisiche. Le donne devono affrontare queste sfide ogni volta che vengono sfollate. Una vedova, madre di cinque figli, la cui famiglia è stata sfollata dalla propria casa, ora vive in una tenda a Gaza City. Ha raccontato ad Al Jazeera che sono fuggiti a piedi dal quartiere di Tel al-Hawa dopo 30 giorni di bombardamenti sempre più intensi nella zona. “Non siamo riusciti a trovare un’auto o un carro e non avevamo nemmeno i soldi per pagare il trasporto”, racconta. Ha intrapreso il viaggio con sua cugina, una vedova con sette figli, e altre due donne malate. “Non abbiamo nemmeno una tenda. Solo i vestiti che indossiamo”. Racconta che sono fuggite mentre i droni dell’IDF sparavano nella loro zona e i bambini non smettevano di piangere per la paura. Hanno lasciato la zona alle 6 del mattino, arrivando a Nuseirat quando era notte. Residenti che fuggono da Gaza City verso sud, martedì. Crediti: Abdel Kareem Hana/AP Nel tentativo di contenere la violenza contro le donne, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, noto anche come OCHA, ha annunciato domenica che fornirà dieci tende alle donne e ai bambini sfollati ad alto rischio. Ha anche annunciato che sono stati distribuiti 921 kit igienici in collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione. Tuttavia, le organizzazioni hanno aggiunto che c’era una grave carenza di kit igienici per le donne e che avrebbero istituito un help desk su al-Rashid Road. Mentre le donne sfollate si dirigono verso sud da Gaza City, il punto di accoglienza fornisce sostegno psicologico e identifica e cura i feriti. Nel suo personale viaggio di sfollamento da Gaza City verso il centro della Striscia, Wissam Yassin, una corrispondente della rete televisiva qatariota Al Araby, ha raccontato di aver trovato rifugio presso la sua famiglia e di non avere altro posto dove andare. Ha cercato un alloggio disponibile, ma l’affitto è molto alto, così come i costi di trasporto. Shuruq al-Bahri, sfollata a Gaza City dalla sua casa a Beit Lahia, ha detto ad Asharq Al-Awsat di essere fuggita, anche se era particolarmente difficile per una persona con sei figli. Bambini sul luogo del crollo della Torre Sussi di Gaza City, all’inizio di questo mese. Crediti: AFP/OMAR AL-QATTAA “Devi prenderti cura di te stessa, ma anche delle esigenze dei bambini”, dice. “Stiamo abbandonando tutto per i bambini”. Ora devono fuggire di nuovo verso sud, ma non hanno soldi per pagare il trasferimento. Ahmed Abu Amsha, un musicista che è fuggito da Gaza City con la sua famiglia alcuni giorni fa, ha pubblicato su Instagram che i bambini si stanno perdendo nel caos dello sfollamento. “Le madri cercano istericamente i loro figli smarriti, e i bambini piangono e chiedono l’abbraccio della loro famiglia. Mi si spezza il cuore”, dice. “Ho trascorso la giornata con un bambino che si era perso. Ora sta dormendo accanto a me. Posso solo immaginare il dolore e la stanchezza dei suoi genitori, che lo hanno cercato a lungo”. Amsha ha pubblicato i dettagli del ragazzo in diversi gruppi WhatsApp e 14 ore dopo ha annunciato con gioia di averlo ricongiunto alla sua famiglia. Dice che la famiglia si trovava a 5 chilometri dal campo dove era sfollato e che avevano cercato il ragazzo per tutta la notte. L’OCHA ha annunciato domenica che, a seguito dello sfollamento, sono stati istituiti dei punti di assistenza per “fornire sostegno immediato ai bambini più vulnerabili” nella Striscia di Gaza meridionale. Ha riferito che 15 bambini con “urgenti necessità di protezione” – ovvero feriti, orfani o separati dalle loro famiglie – sono stati assistiti dai centri di assistenza. https://www.haaretz.com/israel-news/ 2025-09-18/ty-article/.premium/no-privacy-hygiene-or-security-palestinian-women-in-gaza-are-displaced-once-again/00000199-5bfe-de72-a7fd-7bfffcb10000? utm_source=mailchimp&utm_medium=Content&utm_campaign=israel-at-war&utm_content=261e9b6dd2 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il piano “Gaza Riviera”: gentrificare il genocidio israeliano
di Muhammad Shehada,  The New Arab, 16 settembre 2025.   Il piano “Gaza Riviera” usa il linguaggio degli investimenti e della riqualificazione per far passare come innovazione il genocidio dei palestinesi da parte di Israele. Il cosiddetto piano “Gaza Riviera” non è tanto una visione del futuro quanto un necrologio scritto nel linguaggio del lusso. Avvolto in presentazioni patinate e commercializzato come un balzo in avanti verso il progresso, è in realtà il culmine di anni di deliberata devastazione: un piano per cancellare i palestinesi da Gaza e rinominare la loro assenza come innovazione. Ciò che viene presentato come investimento e rigenerazione è, in realtà, il riciclaggio del genocidio in uno spettacolo, una copertura estetica per un progetto politico le cui fondamenta sono le macerie di Gaza e il silenzio dei suoi abitanti espulsi. Perché Israele non ha mai sviluppato un piano postbellico a Gaza Il piano “Gaza Riviera”, pur ampiamente condannato, viene presentato come la trasformazione di un’enclave completamente distrutta in una serie di megalopoli balneari futuristiche e high-tech, ed arriva vestito con il linguaggio degli investimenti e della modernità. Ma guardando oltre i rendering e le presentazioni per gli investitori, emerge una verità più cruda: non si tratta di una strategia diplomatica, ma di un’estetica della scomparsa. Questo spiega perché, per due anni, non ci sia stato alcun piano politico israeliano coerente per Gaza al di là della distruzione di massa, dello sterminio di massa e della fame di massa; la cancellazione di Gaza è stata fin dall’inizio il vero piano. La coreografia politica delle ultime settimane tradisce le priorità di questo piano. Mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, suo genero Jared Kushner, Tony Blair e gli inviati israeliani si riunivano per immaginare il futuro di Gaza senza un solo palestinese nella stanza, il genocidio continuava, spogliando la Striscia di ciò che resta della sua densità urbana e del suo tessuto sociale. La conclusione è che la cancellazione di Gaza non è un ostacolo al piano, ma la sua condizione preliminare. Il piano di Netanyahu fin dall’inizio I contorni fondamentali del piano Riviera sono venuti alla luce in documenti trapelati di recente che descrivono le proposte di porre Gaza sotto l’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti per circa un decennio, spopolare completamente l’enclave dei suoi abitanti palestinesi e commercializzare la costa come un futuristico polo turistico-tecnologico: “la Riviera del Medio Oriente”. Nulla di tutto questo, tuttavia, è nuovo. Il progetto originale di questo promesso centro fantascientifico, costruito su fosse comuni e città rase al suolo, è stato creato dallo stesso Benjamin Netanyahu diversi mesi prima che Trump fosse eletto. La “Visione Gaza 2035” del primo ministro israeliano, rivelata nel maggio 2024, immaginava l’enclave, da tempo sotto assedio, come una zona industriale e di libero scambio simile a Dubai e utilizzava le stesse immagini generate dall’intelligenza artificiale che vengono ora utilizzate nel piano Riviera. Non è una coincidenza che entrambi i piani abbiano un’introduzione quasi identica. “Da una [Gaza] distrutta a un prospero alleato di Abramo”, recita il piano Riviera, mentre Netanyahu ha sottolineato la “ricostruzione dal nulla”. Sono implicite le stesse due condizioni preliminari: Gaza deve essere completamente rasa al suolo senza lasciare nulla e deve essere svuotata della sua popolazione per trasformarla in una tela bianca da sviluppare partendo da zero. Il piano “Gaza Riviera”, ampiamente condannato, reinterpreta il genocidio come rigenerazione. [Getty] Questo era il piano di Netanyahu fin dall’inizio, quando il primo giorno di guerra ha ordinato alla popolazione civile di Gaza di “andarsene subito” prima che una distruzione senza precedenti colpisse “ogni luogo”. Netanyahu ha poi raddoppiato la posta in gioco quando il suo ministero dell’intelligence ha prodotto un piano dettagliato per l’espulsione di massa e il trasferimento forzato della popolazione di Gaza. Gli israeliani hanno persino convinto l’allora Segretario di Stato americano Anthony Blinken a visitare paesi arabi come l’Egitto e l’Arabia Saudita per promuovere l’idea del “trasferimento temporaneo” della popolazione di Gaza nel Sinai. All’epoca questa impresa fallì e Israele non riuscì a trovare un pubblico disposto ad accettare il futuristico complotto su Gaza. Netanyahu ha continuato ad aspettare il momento opportuno fino all’insediamento di Trump, quando si è precipitato a Washington per convincere il presidente americano a presentare l’idea della pulizia etnica e della conquista di Gaza come se fosse una sua idea. Da allora, Netanyahu ha continuato a riferirsi alla sistematica espulsione di massa da Gaza da parte di Israele come “attuazione del piano Trump” per scaricare sull’alleato la colpa di questa politica genocida. La copertura di Netanyahu – e il pubblico a cui è destinata Gli esperti hanno ripetutamente criticato il Piano Riviera di Gaza definendolo “folle”, irrealistico, impraticabile e pieno di ostacoli legali e morali che renderebbero chiunque lo promuovesse complice di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ecco perché il Boston Consulting Group si è affrettato a sconfessare i propri consulenti senior quando questi hanno elaborato un piano dettagliato per rendere operativo il trasferimento di massa della popolazione di Gaza, includendo scenari modellizzati e fogli di calcolo che quantificavano il costo della pulizia etnica. Chiunque voglia contribuire a questo abominio sarà esposto a cause legali e procedimenti penali per decenni a venire. Ma la fantasia futuristica di Trump sul Mediterraneo potrebbe non essere intesa come un piano serio fin dall’inizio. È semplicemente una storia con un “lieto fine” artificiale al genocidio e alla pulizia etnica che Israele racconta ai suoi complici. La vera utilità per Netanyahu di questa idea stravagante è la gestione della narrativa. Mentre il governo israeliano porta avanti una campagna che riorganizza la geografia e la topografia di Gaza e la rende inabitabile – radendo al suolo quartieri, espellendo in massa centinaia di migliaia di persone nei campi di concentramento, bruciando case e facendo morire di fame i bambini – le diapositive della Riviera forniscono un alibi al futuro. Alla destra di Netanyahu, sussurrano il vecchio sogno di insediamenti esclusivamente ebraici che tornano a Gaza; ai suoi alleati all’estero, offrono un ottimismo su cui si può investire. Alla base di Trump, vendono la favola definitiva del MAGA: “Faremo fiorire il deserto e lo renderemo nostro”. Lo sfarzo è il punto; il piano che circola alla Casa Bianca è persino chiamato formalmente GREAT (abbreviazione di Gaza Reconstitution, Economic Acceleration, and Transformation, ovvero Ricostruzione, Accelerazione Economica e Trasformazione di Gaza). Per il marchio politico di Trump, la promessa di trasformare le rovine in resort è un classico espediente teatrale. La “Riviera di Gaza” non è una deviazione dalle politiche di assedio e massacri degli ultimi due decenni di Israele a Gaza, ma piuttosto il loro culmine. [Getty] I paesaggi urbani patinati aiutano a vendere al mondo MAGA e ai venture capitalist l’immagine di Gaza come una tela bianca in attesa di geni esterni che la dipingano, mentre, sul campo, il genocidio procede ininterrottamente e senza restrizioni verso la sua fase finale. In questo senso, la fantasia della Riviera non è una deviazione dagli ultimi due decenni di politiche draconiane di assedio e massacri a Gaza da parte di Israele, ma piuttosto il loro culmine. È un gioco di parole per camuffare l’indifendibile; la distruzione diventa “preparazione del sito”, lo sfollamento diventa “pianificazione urbana”, lo sterminio diventa un trampolino di lancio verso profitti e opportunità commerciali inesplorate. Questo è ciò che rende le rappresentazioni della Riviera di Gaza un potente strumento di propaganda, perché invertono la realtà. Propongono spiagge senza persone, torri senza inquilini, porti senza politica. Fanno sembrare l’assenza dei palestinesi un progresso. Israele sta promettendo Gaza ai coloni, non a futuristici investitori È illogico che Israele faccia di tutto per compiere un genocidio a Gaza, spenda quasi 90 miliardi di dollari in questa guerra, perda oltre 900 soldati, diventi uno stato paria, solo per poi consegnare Gaza su un piatto d’argento al governo statunitense e ai magnati americani della tecnologia e del settore immobiliare. Yehuda Shaul, cofondatore di Breaking the Silence, ha dichiarato a The New Arab che secondo lui il piano della Riviera di Gaza “non è collegato allo sforzo principale del movimento dei coloni [israeliani]”, che sta spingendo per un ritorno a Gaza. “Il piano originale delle organizzazioni dei coloni, che si adatta anche alla geografia di base di Gaza, è quello di tornare a quello che un tempo era chiamato ‘il recinto settentrionale’, ovvero i tre insediamenti nel nord di Gaza: Elei Sinai, Nisanit e Dugit”, ha aggiunto Yehuda. “Questi sono gli insediamenti che un tempo si trovavano a nord di Beit Lahia. Questo è ciò a cui mirano i coloni”. Shaul ha spiegato che i commentatori israeliani della destra come Amit Segal hanno spinto questa idea sui media mainstream. “Viene venduta come una ‘semplice’ espansione dei confini [di Israele] invece che come un’annessione di parti significative della Striscia di Gaza”. La promessa di grattacieli e porti turistici su una costa spopolata non è un piano di pace, ma un teatro di espropriazione, una storia scritta per gli investitori stranieri, i comizi di MAGA e le fantasie dei coloni. La “Riviera di Gaza” non indica un domani di convivenza o prosperità; rimanda alla più antica logica coloniale di trasformare le vite altrui in ostacoli e la loro cancellazione in opportunità. Muhammad Shehada è uno scrittore e analista palestinese di Gaza e responsabile degli affari europei presso Euro-Med Human Rights Monitor https://www.newarab.com/analysis/gaza-riviera-plan-gentrifying-israels-genocide Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
“Il cielo è il nostro tetto”: decine di migliaia di palestinesi fuggono dalle loro case di Gaza City durante l’offensiva terrestre dell’IDF
di Jack Khoury,  Haaretz, 16 settembre 2025.   “Non c’è nessun posto sicuro a Gaza”, ha detto un residente palestinese, aggiungendo: “Non c’è più via di fuga”. Un altro residente ha detto di essere abituato al fatto che i palestinesi siano abbandonati: “Gaza sta cadendo e, al di là delle parole di solidarietà, non riceviamo nulla”. I palestinesi sfollati, in fuga dal nord di Gaza a causa dell’operazione militare israeliana, si spostano verso sud dopo che le forze israeliane hanno ordinato ai residenti di Gaza City di evacuare verso il sud, nella Striscia di Gaza centrale, martedì 16 settembre. Crediti: Mahmoud Issa/Reuters Gaza City oggi non è più una città, ma un teatro di uccisioni di massa e di sopravvivenza quotidiana. I residenti rimasti testimoniano che gli intensi attacchi israeliani e l’invasione terrestre non hanno fatto altro che aggravare il disastro. “Non c’è nessun posto sicuro a Gaza”, dice il portavoce della città Hosni Mahna a Radio Ashams. “Ogni quartiere è un bersaglio. Ogni edificio residenziale, anche quello in cui vivo io. Non c’è più via di fuga. La situazione è catastrofica in tutti i sensi. La gente scende in strada senza niente… Abbiamo perso tutto”. Da quando l’IDF ha intensificato i suoi attacchi sulla città di Gaza nella notte di martedì 16, decine di migliaia di persone hanno cercato di fuggire dalle loro case e trovare riparo. Tuttavia, intere famiglie, che non avevano un posto dove evacuare, sono semplicemente uscite dalle loro case e hanno iniziato a camminare, senza sapere dove fossero dirette. Alcuni hanno trovato un muro dietro cui nascondersi, vicino all’ospedale Shifa, altri si sono semplicemente sdraiati sulla sabbia fredda sotto il cielo aperto. “Siamo partiti senza nulla, se non i vestiti che indossavamo. Non abbiamo avuto il tempo di prendere nulla”, ha raccontato ad Haaretz Umm Muhannad, madre di cinque figli fuggita dal campo profughi di Shati, nella parte occidentale di Gaza City. “I bambini piangono per la fame e la paura e dormono all’aperto. Il cielo è il nostro unico tetto”. Palestinesi che camminano tra le macerie di una casa bombardata dall’IDF a Gaza City martedì 16. Crediti: Ebrahim Hajjaj/Reuters Alcune famiglie sono fuggite dalle loro case senza nulla, mentre altre hanno gettato vestiti e coperte dalle finestre prima che le loro case fossero bombardate. “In pochi minuti, la nostra casa è stata ridotta in polvere”, ha detto Abu Ahmed del quartiere di Tuffah. “Non è rimasto nemmeno un ricordo, né un muro né una stanza. Ora siamo 20 persone in una tenda lacerata, non c’è acqua da bere né elettricità per illuminare le notti”. Umm Yusuf, del quartiere di Zeitoun, ha detto di essere sotto shock. “Ci è stato ordinato di evacuare immediatamente la casa. Siamo scappati senza portare nulla con noi. Ci siamo ritrovati in una scuola piena zeppa di gente. Non c’è nessun posto sicuro, né a Gaza né fuori”. Martedì l’IDF ha confermato che il 60% dei residenti di Gaza City, circa 600.000 persone, è rimasto in città. Sebbene l’esercito continui a esortarli ad andarsene, molti non hanno un posto dove andare a causa dei costi elevati che ciò comporterebbe. Palestinesi in partenza da Gaza City, martedì 16. Crediti: Abdel Kareem Hana/AP “Il costo per percorrere sei chilometri [3,7 miglia] è di 1.500 dollari per chiunque voglia portare con sé qualche oggetto”, dice Samah Hasounah, un noto commerciante che vive nel quartiere di Tel al-Hawah. “La gente non ha alternative. È così, il dado è tratto. Gaza sta cadendo e non c’è più nulla da discutere”. A Gaza City, alcuni avevano sperato che, all’ultimo momento, l’operazione di occupazione della città potesse essere evitata, non per clemenza da parte del governo israeliano, ma nella speranza che il mondo reagisse con qualcosa di più dei soliti slogan. Palestinese che trasporta i suoi ultimi averi dopo che martedì l’IDF ha colpito la sua casa a Gaza City. Crediti: Ebrahim Hajjaj/Reuters “Come palestinesi, siamo abituati ad essere abbandonati”, ha detto Abu Walid, un residente di Gaza City, al quotidiano Haaretz dopo che il vertice dei leader arabi a Doha non è riuscito a produrre una risposta forte contro l’offensiva israeliana. “È già successo in passato, ma non ci aspettavamo che nessuno intervenisse per fermare questa distruzione quotidiana, nemmeno una sola nazione araba o musulmana. Gaza sta cadendo e, al di là della solidarietà, non stiamo ricevendo nulla”. https://www.haaretz.com/israel-news/ 2025-09-16/ty-article/.premium/tens-of-thousands-of-palestinians-flee-their-gaza-city-homes-amid-idf-ground-offensive/00000199-527d-d3d1-a19d-fbfd79a60000? utm_source=mailchimp&utm_medium=Content&utm_campaign=israel-at-war&utm_content=985adfe6d2 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il martirio di Charlie Kirk
di Chris Hedges,  The Chris Hedges Report, 12 settembre 2025.   I martiri vengono utilizzati dai movimenti messianici per santificare la violenza. Mostrare pietà o comprensione nei confronti del nemico significa tradire il martire e la causa per cui è morto. Uno sparo sentito in tutto il mondo – di Mr. Fish (clowncrack.com) L’assassinio di Charlie Kirk preannuncia una nuova fase mortale nella disintegrazione di un’America frammentata e altamente polarizzata. Mentre retorica tossica e minacce vengono lanciate come bombe a mano tra le fazioni culturali, a volte sfociando in violenza reale – tra cui l’omicidio della presidente emerita della Camera dei Rappresentanti del Minnesota Melissa Hortman e di suo marito e i due tentativi di assassinio contro Donald Trump – l’uccisione di Kirk è un presagio di disintegrazione sociale su vasta scala. Il suo omicidio ha dato al movimento che rappresentava, fondato sul nazionalismo cristiano, un martire. I martiri sono la linfa vitale dei movimenti violenti. Qualsiasi esitazione nell’uso della violenza, qualsiasi discorso di compassione o comprensione, qualsiasi tentativo di mediazione o discussione è un tradimento del martire e della causa difendendo la quale il martire è morto. I martiri sacralizzano la violenza. Sono usati per capovolgere l’ordine morale. La depravazione diventa moralità. Le atrocità diventano eroismo. Il crimine diventa giustizia. L’odio diventa virtù. L’avidità e il nepotismo diventano virtù civiche. L’omicidio diventa un bene. La guerra è l’estetica finale. Questo è ciò che sta per arrivare. OREM, UTAH – 10 SETTEMBRE: La gente corre dopo che sono stati sparati dei colpi durante un’apparizione di Charlie Kirk alla Utah Valley University il 10 settembre 2025 a Orem, Utah. (Foto di Trent Nelson/The Salt Lake Tribune/Getty Images) “Dobbiamo avere una determinazione ferrea”, ha detto lo stratega politico conservatore Steve Bannon nel suo programma “War Room”, aggiungendo: “Charlie Kirk è una vittima di guerra. In questo paese siamo in guerra. Lo siamo davvero”. “Se non ci lasciano in pace, allora la nostra scelta è combattere o morire”, ha scritto Elon Musk su X. “Tutta la destra deve unirsi. Basta con queste stronzate di lotte intestine. Abbiamo a che fare con forze demoniache provenienti dalle profondità dell’inferno”, ha scritto il commentatore e autore Matt Walsh su X. “Mettete da parte i litigi personali. Non è il momento. È una questione esistenziale. Una lotta per la nostra stessa esistenza e per l’esistenza del nostro paese”. Il deputato repubblicano Clay Higgins ha scritto che userà “l’autorità del Congresso e ogni influenza sulle grandi piattaforme tecnologiche per imporre il bando immediato a vita di ogni post o commentatore che abbia sminuito l’assassinio di Charlie Kirk…”. Egli afferma inoltre: “Mi occuperò anche delle loro licenze commerciali e dei loro permessi, le loro attività saranno inserite in una lista nera, dovrebbero essere espulsi da ogni scuola e le loro patenti di guida dovrebbero essere revocate. In sostanza, cancellerò con estremo pregiudizio questi animali malvagi e malati che hanno celebrato l’assassinio di Charlie Kirk”. Il cofondatore dell’azienda di software Palantir, Joe Lonsdale, ha approfittato della morte di Kirk per sostenere lo smantellamento dell’“alleanza rosso-verde” tra “comunisti e islamisti” che, secondo lui, si sono uniti per distruggere la civiltà occidentale. Propone un’app in cui i cittadini possono caricare foto di crimini e di senzatetto in cambio di “riduzioni dell’imposta sulla proprietà”. Il comico di estrema destra Sam Hyde, che ha quasi mezzo milione di follower su X, ha scritto in risposta all’annuncio di Trump della morte di Kirk che è “ora di fare il vostro fottuto lavoro e prendere il potere… se volete essere più di una nota a piè di pagina nella sezione ‘Il crollo americano’ dei futuri libri di storia, è ora o mai più”. Nel suo tweet, “tagga” membri dell’amministrazione e appaltatori militari privati. L’attore conservatore James Woods ha avvertito: “Cari progressisti: possiamo avere una conversazione oppure una guerra civile. Un altro colpo dalla vostra parte e non avrete più questa scelta”. Il suo tweet è stato ripubblicato da quasi 20.000 persone, ha ricevuto 4,9 milioni di visualizzazioni e oltre 96.000 like. Questi sono solo alcuni esempi della marea di sentimenti al vetriolo condivisi e applauditi da decine di milioni di americani. L’espropriazione della classe operaia, 30 milioni di persone licenziate a causa della deindustrializzazione, ha generato rabbia, disperazione, dislocazione, alienazione e favorito il pensiero magico. Ha alimentato teorie cospirative, desiderio di vendetta e celebrazione della violenza come purificatore del decadimento sociale e culturale. I fascisti cristiani – come Kirk e Trump – hanno abilmente approfittato di questa disperazione. Hanno alimentato le braci. L’uccisione di Kirk le accenderà. I dissidenti, gli artisti, i gay, gli intellettuali, i poveri, i vulnerabili, le persone di colore, coloro che sono privi di documenti o che non ripetono ciecamente il gergo di un nazionalismo cristiano perverso, saranno condannati come contaminanti umani da eliminare dal corpo politico. Diventeranno, come in tutte le società malate, vittime sacrificali nel vano tentativo di raggiungere il rinnovamento morale e riconquistare la gloria e la prosperità perdute. La cannibalizzazione della società, un futile tentativo di ricreare un’America mitica, accelererà la disintegrazione. L’ebbrezza della violenza – molti di coloro che hanno reagito all’uccisione di Kirk sembravano euforici per l’imminente bagno di sangue – si alimenterà su se stessa come una tempesta di fuoco. Il martire è fondamentale per la crociata, in questo caso liberare l’America da quella che Trump chiama la “sinistra radicale”. I martiri vengono commemorati con cerimonie e atti di ricordo per ricordare ai seguaci la giustezza della causa e la perfidia di coloro che sono accusati della morte del martire. Questo è ciò che ha fatto Trump quando ha definito Kirk “un martire della verità e della libertà” in un videomessaggio del 10 settembre, gli ha conferito la Medaglia Presidenziale della Libertà e ha ordinato che le bandiere fossero esposte a mezz’asta fino a domenica. È per questo che la bara di Kirk sarà riportata a Phoenix, in Arizona, con l’Air Force Two. Kirk era il simbolo del nostro emergente fascismo cristiano. Ha diffuso la teoria della Grande Sostituzione, secondo cui i liberali o i “globalisti” consentono l’ingresso nel paese agli immigrati di colore per sostituire i bianchi, distorcendo le tendenze dell’immigrazione in una cospirazione. Era islamofobo, tweetando che “l’Islam è la spada che la sinistra sta usando per tagliare la gola all’America” e che “non è compatibile con la civiltà occidentale”. Quando la YouTuber per bambini Rachel ha detto “Gesù dice di amare Dio e di amare il prossimo come te stesso”, Kirk ha ribattuto che “Satana ha citato molte volte le Scritture” e ha aggiunto “a proposito, Rachel, forse dovresti aprire la tua Bibbia, perché in una parte meno citata dello stesso libro, Levitico 18, c’è scritto che chi giace con un altro uomo deve essere lapidato a morte”. Ha chiesto di abrogare il Civil Rights Act del 1964 e ha denigrato leader dei diritti civili come Martin Luther King. Si è mostrato sprezzante nei confronti dei neri: “Se ho a che fare con una stupida donna nera al servizio clienti… lo devo alle quote rosa?”. Ha detto che i “neri vagabondi” prendono di mira i bianchi “per divertimento”. Ha accusato Black Lives Matter di «distruggere il tessuto della nostra società». Kirk ha insistito sul fatto che le elezioni del 2020 sono state rubate a Trump. Ha fondato Professor Watchlist e School Board Watchlist per epurare professori e insegnanti che avevano quelle che lui definiva «agende radicali di sinistra». Ha sostenuto le esecuzioni pubbliche televisive, che secondo lui dovrebbero essere obbligatorie per i bambini. L’idea che fosse un paladino della libertà di parola e della libertà è assurda. Era nemico di entrambe. Kirk, che era un sostenitore del culto di Trump, incarnava l’ipermascolinità che è al centro dei movimenti fascisti. Questa era forse la sua principale attrazione per i giovani, in particolare per gli uomini bianchi. Ha affermato che c’è “una guerra contro gli uomini”, ha feticizzato le armi e ha venduto Trump come un vero uomo ai suoi seguaci. “Ci sono molti modi per definire Donald Trump”, scriveva. “Nessuno lo ha mai definito femminile. Trump è un gigantesco dito medio rivolto a tutti quei monitor urlanti che attaccano i giovani uomini solo per il fatto di esistere. È un gigantesco VAFFANCULO all’establishment femminista che non è mai stato sfidato prima che lui scendesse dalla scala mobile dorata. La maggior parte dei media non se n’è accorta. I giovani uomini sì”. La storia ha dimostrato cosa succederà dopo. Non sarà piacevole. Kirk, elevato al martirio, dà a coloro che cercano di estinguere la nostra democrazia la licenza di uccidere, proprio come Kirk è stato ucciso. Questo elimina i pochi vincoli che ancora esistono per proteggerci dagli abusi dello stato e dalla violenza dei vigilanti. Il nome e il volto di Kirk saranno utilizzati per accelerare la strada verso la tirannia, proprio come lui avrebbe voluto. https://chrishedges.substack.com/p/the-martyrdom-of-charlie-kirk-read Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
La scomparsa del dottor Hussam Abu Safiya
di Amel Guettatfi,  Drop Site News, 12 settembre 2025.   Ha cercato di mantenere aperto l’ospedale Kamal Adwan durante l’invasione israeliana. Da allora è in carcere. Il dottor Hussam Abu Safiya. Immagine per gentile concessione di Al Jazeera Fault Lines. Nelle prime ore del 27 dicembre 2024, le mura dell’ospedale Kamal Adwan, nel nord di Gaza, hanno tremato quando le forze israeliane hanno sganciato bombe nelle vicinanze. All’alba, i bulldozer avevano spianato il terreno che conduceva all’ingresso e i carri armati israeliani si stavano avvicinando. I cecchini circondavano il complesso. All’interno, 350 pazienti, medici, infermieri e le loro famiglie erano rannicchiati nei corridoi. “Ho pensato che fosse l’ultimo giorno della mia vita”, ha raccontato Abdel Moneim Al-Shrafi, un infermiere ventenne, al programma documentario di Al Jazeera Fault Lines. Verso le 6 del mattino, una voce proveniente da un quadricottero che sorvolava l’ospedale ha chiamato il dottor Hussam Abu Safiya, direttore facente funzione del Complesso Medico Kamal Adwan. Sua moglie Albina, con cui era sposato da oltre 30 anni, lo ha visto arrampicarsi tra le macerie per raggiungere un carro armato israeliano a un isolato di distanza. “È andato da loro con il suo camice bianco”, ha detto. “Si è avvicinato con la certezza di non aver fatto nulla di male”. Una foto del dottor Abu Safiya che si avvicina al carro armato è diventata un simbolo iconico dell’assalto spietato di Israele a Gaza e della resilienza palestinese. Poco dopo è tornato in ospedale. Al calar della notte, il Kamal Adwan era stato svuotato e chiuso dall’esercito israeliano. Il dottor Abu Safiya e tutti gli uomini all’interno erano stati arrestati. Da allora il dottor Abu Safiya è detenuto dalle autorità israeliane senza alcuna accusa formale né processo, in condizioni disumane. Quel raid ha segnato l’atto finale di un assedio durato 80 giorni all’ospedale Kamal Adwan, l’ultimo ospedale rimasto in piedi nel nord di Gaza. Il dottor Abu Safiya ne era diventato il direttore ad interim all’inizio del 2024, dopo che il precedente direttore era stato arrestato in un altro raid e l’ospedale era stato temporaneamente chiuso. “Il dottor Hussam riteneva impossibile non avere un ospedale nel nord”, ha detto Rawiya Tanboura, 32 anni, un’infermiera che lavorava con lui dal 2019. “Penso che temesse che ogni persona che sarebbe morta nel nord sarebbe morta perché lui se n’era andato”. Gran parte dell’ospedale era stato distrutto, ma il dottor Abu Safiya ha riunito ciò che restava del personale e lo ha riaperto. Dal 7 ottobre 2023, inizio dell’attuale guerra di Israele contro Gaza, il dottor Abu Safiya ha rifiutato di lasciare il nord, nonostante abbia avuto più di un’occasione per evacuare. Con la moglie originaria del Kazakistan, la famiglia avrebbe potuto andarsene, ma lui si sentiva in dovere di continuare ad aiutare i suoi pazienti e prevedeva che il piano di Israele fosse quello di sgomberare completamente l’area dai civili. Il figlio maggiore, Elias, 27 anni, ha ricordato di aver cercato di convincerlo ad evacuare: “Mi ha detto: ‘Il piano è molto più grande di questo. Il piano è lo sfollamento e se lasciamo l’ospedale Kamal Adwan, il nord si svuoterà’”. Così gli Abu Safiya, come molti membri del personale, si sono trasferiti nell’ospedale e hanno vissuto tra i pazienti e le famiglie sfollate. “Per lui Gaza è casa sua. E non c’è modo di cambiare questa cosa”, ha detto Albina. “L’ospedale era la sua prima casa e la sua abitazione era la sua seconda casa”. Molti membri dello staff del dottor Abu Safiya si sono sentiti chiamati alla stessa missione. “Ci ha detto: ‘Continuiamo a servire fino all’ultimo respiro’”, ha riferito Elias, suo figlio. “La gente diceva che finché il Kamal Adwan fosse rimasto in piedi, noi saremmo rimasti”, ha aggiunto Al-Shrafi, che ha iniziato a lavorare come infermiere al Kamal Adwan dopo il 7 ottobre. Un ospedale sotto assedio All’inizio di ottobre 2024, i servizi segreti israeliani hanno contattato direttamente il dottor Abu Safiya. Albina ricorda di aver sentito queste telefonate fatte da un ufficiale dello Shin Bet che si è identificato come “Capitano Wael”. Il messaggio era chiaro: lasciare l’ospedale. Il medico rifiutò. Invece, iniziò a girare dei video-diari quasi ogni giorno, con la sua voce che spesso sovrastava il bip delle macchine dell’unità di terapia intensiva. In un video, è in piedi accanto a un bambino con il corpo ustionato. “Ci appelliamo al mondo e a tutte le istituzioni internazionali”, dice parlando in camice alla telecamera, “affinché adempiano al loro ruolo umanitario, vista la situazione nel nord di Gaza”. Prima della guerra, l’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia era noto soprattutto per il suo reparto di pediatria e terapia intensiva neonatale. Quando gli altri ospedali della zona sono stati bombardati, è stato sommerso da pazienti feriti a causa dei raid aerei o degli attacchi di artiglieria o affetti da malnutrizione a causa del brutale assedio israeliano. La sua posizione urbana, tra edifici residenziali, lo ha reso un rifugio naturale per centinaia di famiglie in fuga dai bombardamenti nelle vicinanze. Allo stesso tempo, il nord era stato completamente isolato. L’ingresso di rifornimenti essenziali era stato bloccato, interi quartieri erano stati rasi al suolo e la carestia incombeva mentre alle famiglie veniva detto di evacuare. Dei tre principali ospedali del nord, Kamal Adwan, Awda e Indonesian, solo Kamal Adwan era abbastanza funzionante da accogliere le centinaia di feriti che affluivano ogni settimana. Gli attacchi e i raid israeliani avevano reso gli altri quasi inutilizzabili. “Avevano dichiarato unilateralmente l’intera provincia settentrionale zona di combattimento. Questo ha reso di fatto un bersaglio chiunque si trovasse nella zona. Ciò era evidente dalle vittime causate dai bombardamenti indiscriminati e dagli attacchi dei quadricotteri”, ha affermato la dottoressa Azra Zyada, un medico con sede a Londra che aiutava i sanitari nel nord di Gaza, tra cui il dottor Abu Safiya, sostenitore della protezione dei civili. “La presenza di ospedali in quella zona implica automaticamente la presenza di civili e la necessità di rispettare il diritto internazionale umanitario per garantirne la protezione”. Il primo interrogatorio Vivere e lavorare giorno e notte in ospedale era un inferno. Le schegge volavano nelle stanze dei pazienti. Le bombe nelle vicinanze interrompevano gli interventi chirurgici. “Non c’era modo di dormire la notte. Eravamo stressati 24 ore su 24, 7 giorni su 7“, ha ricordato Al-Shrafi. I pazienti arrivavano a fiumi, ma non c’era mai abbastanza personale o forniture mediche. ”Alcuni pazienti sono morti davanti ai nostri occhi“, ha detto l’infermiera Tanboura, ”sarebbero sopravvissuti se fossero stati operati”. Il 25 ottobre 2024, dopo una campagna di bombardamenti incessanti, le forze israeliane hanno fatto nuovamente irruzione nell’ospedale. Il personale femminile e i familiari sono stati fatti uscire e sono stati perquisiti. Il dottor Abu Safiya, insieme ad altri 44 membri del personale, è stato portato in un ambulatorio, picchiato e interrogato. Hanno anche avvertito il medico. “Gli hanno detto: ‘Dottor Hussam, non contattare i giornalisti’”, ha ricordato Albina. “Non volevano che il mondo intero sapesse cosa stava per succedere a Gaza”. Il giorno seguente, quando il dottor Abu Safiya è tornato dall’interrogatorio, ha scoperto che il suo figlio minore era stato ucciso. Ibrahim Abu Safiya, 20 anni, era morto in un attacco aereo mentre si rifugiava nella casa di un amico nelle vicinanze. “[Il dottor Abu Safiya] è crollato. Ha pianto per sei o sette ore. Non smetteva. Perché era molto, molto, molto legato a suo figlio Ibrahim”, ha detto l’infermiere Al-Shrafi. Ibrahim aveva intenzione di seguire le orme del padre e studiare medicina dopo la guerra. La famiglia lo ha seppellito nel terreno appena fuori dall’ospedale. “La guerra è una cosa, ma il giorno in cui è stato ucciso…”, ha detto Albina, “è stato il giorno più difficile della mia vita”. Ma, secondo la sua famiglia, la perdita ha solo rafforzato la determinazione del dottor Abu Safiya. È stato chiamato in sala operatoria durante il funerale di suo figlio. “Non ha nemmeno avuto il tempo di piangere mio fratello. Ha portato le sue lacrime con sé in sala operatoria”, ha detto Elias. Più tardi quel mese, mentre il dottor Abu Safiya si preparava per un intervento chirurgico, un drone israeliano noto come quadricottero lo ha attaccato in ospedale. Sei frammenti di schegge gli hanno lacerato la gamba. In un video girato proprio quel giorno, con gocce di sudore sul viso, ha detto: “Giuro che questo non ci impedirà di portare a termine la nostra missione umanitaria e continueremo a fornire questo servizio, a qualsiasi costo”. L’ultimo raid Nel dicembre 2024, l’ospedale era ormai allo stremo. Il personale era esausto, le scorte mediche esaurite e il carburante quasi inesistente. Il 27 dicembre, l’assedio giunse a una conclusione brutale. Poco prima dell’alba, carri armati e bulldozer israeliani circondarono l’ospedale. I cecchini presero posizione. I quadricotteri sorvolavano la zona. “Un grosso carro armato entrò e si fermò vicino alla reception. E iniziò a sparare. Sparava in avanti, sparava e girava. Poi puntarono la canna attraverso la porta della reception e [puntarono] i pazienti”, ha ricordato Tanboura. Gli ufficiali israeliani ordinarono al dottor Abu Safiya di iniziare l’evacuazione dei pazienti in condizioni critiche. “Se vedo qualcuno che non è un paziente muoversi, potrai prendertela solo con te stesso”, lo avvertì un soldato, secondo Al-Shrafi. Alle donne fu poi ordinato di salire sugli autobus e furono portate all’ospedale indonesiano. Il video dell’esercito israeliano sul raid mostra il dottor Abu Safiya che risponde alle domande di un soldato che chiedeva se ci fosse ancora qualcuno all’interno dell’ospedale. Sarebbe stata l’ultima immagine conosciuta di lui come uomo libero. Quella notte, gli uomini rimasti, tra cui Al-Shrafi e il dottor Abu Safiya, furono spogliati fino a rimanere in mutande, ammanettati, bendati e fatti marciare nel freddo pungente. “Ci hanno umiliato, ci hanno picchiato… Ci trattavano come se fossimo terroristi”, ha ricordato Al-Shrafi. “Camminavamo in fila indiana, uno dietro l’altro. Il dottor Hussam davanti, il personale medico dietro di lui”. Il dottor Abu Safiya alla porta di un carro armato israeliano. Immagine per gentile concessione di Al Jazeera Fault Lines. Detenzione senza fine Solo il giorno dopo, quando alcuni membri del personale e i loro parenti che erano stati arrestati furono rilasciati e raggiunsero l’ospedale indonesiano, Albina si rese conto che suo marito era stato arrestato e si trovava ancora in custodia israeliana. “Cosa ha fatto per finire in prigione?”, disse Albina. “Sono molto sorpresa e ancora sotto shock”. Al dottor Abu Safiya non è stato concesso un avvocato per 47 giorni. Quando uno dei suoi avvocati, Gheed Kassem, un avvocato palestinese specializzato in diritti umani, è finalmente riuscito a vederlo, era ammanettato, costretto a inginocchiarsi e affiancato da guardie carcerarie. Tutte le loro visite, che si svolgono dietro un vetro, sono registrate su video. Kassem ci ha detto che il dottor Abu Safiya ha diverse costole rotte, il che indica che ha subito ripetute percosse. Il dottor Abu Safiya è detenuto in base alla legge israeliana Incarceration of Unlawful Combatants Law, che consente a Israele di detenere i palestinesi di Gaza a tempo indeterminato senza accuse formali o un regolare processo. La legge è stata approvata nel 2002 durante il conflitto di Israele in Libano per dare allo stato uno strumento per detenere i combattenti delle “organizzazioni ostili” senza doverli accusare formalmente in tribunale o riconoscerli come prigionieri di guerra, che è uno status protetto dalle Convenzioni di Ginevra. Da quando è iniziata la guerra, la Knesset ha introdotto diversi emendamenti alla legge, tra cui l’estensione del periodo durante il quale a un detenuto può essere negato l’accesso a un avvocato, che recentemente è stato portato a 75 giorni. La legge è stata applicata in modo molto ampio dall’ottobre 2023, essenzialmente a tutti i palestinesi di Gaza. Secondo Hamoked, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, almeno 2.600 palestinesi di Gaza sono attualmente detenuti in base a questa legge. Un’indagine congiunta di +972 e del Guardian ha rivelato che lo stato stesso considera militanti solo circa un quarto dei detenuti di Gaza. Secondo Healthcare Workers Watch, un’organizzazione che monitora gli attacchi al sistema sanitario palestinese, oltre al dottor Abu Safiya, almeno 150 operatori sanitari di Gaza sono ancora in detenzione. Secondo Healthcare Workers Watch, quattro operatori sanitari sono morti mentre erano in custodia israeliana, tra cui il dottor Iyad al-Rantisi, ex capo del reparto di ostetricia e ginecologia del Kamal Adwan. Secondo suo figlio Elias, il dottor Abu Safiya ha trascorso 25 giorni consecutivi in isolamento mentre era detenuto nella struttura di Sde Teiman. I detenuti rilasciati da Sde Teiman, un grande campo di detenzione militare nel deserto del Negev, descrivono condizioni difficili, tra cui l’essere ammanettati e bendati per la maggior parte della giornata. “Vedo i prigionieri che vengono rilasciati da lì”, ha detto Albina, “lo vedo sui loro corpi e sui loro volti, si capisce dai loro volti e dai loro corpi come li hanno torturati”. Nella prigione di Ofer, dove ora è detenuto il dottor Abu Safiya, gli ex detenuti riferiscono di essere stati privati di cure mediche e di cibo a sufficienza. Le udienze per decidere la proroga della detenzione dei detenuti sono puramente formali. Si svolgono al telefono e durano circa un minuto; un giudice annuncia semplicemente che la detenzione di un detenuto è stata prorogata. “Il processo è una farsa”, ha detto Gheed. Nonostante la sua detenzione, il dottor Abu Safiya continua a chiedere al suo avvocato informazioni sul sistema sanitario nel nord di Gaza. L’attacco all’ospedale Kamal Adwan fa parte di un più ampio schema di chiusura degli ospedali, spesso l’ultima ancora di salvezza per i civili che vivono ancora nella zona. Solo circa la metà dei 36 ospedali di Gaza rimane parzialmente funzionante, tutti con carenza di personale e gravi carenze di forniture mediche. “Stiamo dicendo [all’avvocato] di dirgli che stiamo bene”, ha detto Albina, “Vogliamo solo che sia rassicurato e vogliamo solo che sappia che stiamo bene, ma in realtà non stiamo bene e nemmeno lui sta bene”. Amel Guettatfi è una giornalista e regista algerino-americana che si occupa di Africa e Medio Oriente. Il suo lavoro le è valso dieci Emmy Awards, un OPC Award, un Writers Guild Award e il George Polk Award per l’eccezionale lavoro di cronaca televisiva. https://www.dropsitenews.com/p/the-disappearance-of-dr-hussam-abu-safiya-hospital-gaza?utm_source=post-email-title&publication_id=2510348&post_id=173447399&utm_campaign=email-post-title&isFreemail=false&r=2xiwfl&triedRedirect=true&utm_medium=email Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
“Ci siamo tolti i guanti”: l’ex capo dell’IDF conferma che le vittime a Gaza sono oltre 200.000
di Julian Borger,  The Guardian, 12 settembre 2025.   Il generale in pensione Herzi Halevi afferma che “nemmeno una volta” la consulenza legale ha limitato le decisioni militari di Israele nella Striscia. L’ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito Herzi Halevi (a destra) a Gaza nel 2023. Il suo conteggio dei palestinesi uccisi e feriti è vicino a quello del ministero della sanità di Gaza. Foto: Forze di Difesa Israeliane/Reuters L’ex comandante dell’esercito israeliano Herzi Halevi ha confermato che oltre 200.000 palestinesi sono stati uccisi o feriti nella guerra a Gaza e che “nemmeno una volta” nel corso del conflitto le operazioni militari sono state ostacolate da consulenze legali. Halevi si è dimesso dalla carica di capo di Stato Maggiore a marzo, dopo aver guidato le Forze di Difesa Israeliane (IDF) per i primi 17 mesi della guerra, che ora si avvicina al suo secondo anniversario. Il generale in pensione ha dichiarato durante una riunione di comunità nel sud di Israele all’inizio di questa settimana che più del 10% dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza è stato ucciso o ferito, “più di 200.000 persone”. Questa stima è degna di nota in quanto è vicina alle cifre attuali fornite dal ministero della salute di Gaza, che i funzionari israeliani hanno spesso liquidato come propaganda di Hamas, sebbene le cifre del ministero siano state ritenute affidabili dalle agenzie umanitarie internazionali. Il bilancio ufficiale attuale è di 64.718 palestinesi uccisi a Gaza e 163.859 feriti dall’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023. Si teme che molte altre migliaia di persone siano morte, i cui corpi sono sepolti sotto le macerie. Questo venerdì 12 settembre, almeno 40 persone sono state uccise in attacchi israeliani, per lo più nella zona di Gaza City. Le statistiche del ministero di Gaza non distinguono tra civili e combattenti, ma i dati trapelati dall’intelligence militare israeliana sulle vittime fino a maggio di quest’anno suggeriscono che oltre l’80% dei morti erano civili. Circa 1.200 persone sono state uccise nell’attacco originale di Hamas del 7 ottobre, che ha scatenato la guerra, di cui 815 erano civili israeliani e stranieri. “Questa non è una guerra gentile. Ci siamo tolti i guanti fin dal primo minuto. Purtroppo non prima”, ha detto Halevi, suggerendo che Israele avrebbe dovuto adottare una linea più dura a Gaza prima dell’attacco del 7 ottobre. L’ex comandante ha parlato martedì sera ai residenti del moshav (cooperativa agricola) di Ein HaBesor, che due anni fa sono riusciti a respingere gli aggressori di Hamas. Una registrazione delle sue dichiarazioni è stata pubblicata dal sito web di notizie Ynet. “Nessuno sta agendo con delicatezza”, ha detto Halevi, ma ha insistito sul fatto che l’IDF opera nel rispetto dei vincoli del diritto internazionale umanitario. Questa affermazione è stata ripetuta durante tutta la guerra dai funzionari israeliani, i quali hanno affermato che i legali militari sono coinvolti nelle decisioni operative. Tuttavia, Halevi ha negato che la consulenza legale abbia mai influenzato le sue decisioni militari o quelle dei suoi diretti subordinati a Gaza o in tutto il Medio Oriente. “Nemmeno una volta qualcuno mi ha limitato. Mai. Nemmeno il procuratore generale militare [Yifat Tomer-Yerushalmi], che, tra l’altro, non ha l’autorità per limitarmi“, ha affermato. In una citazione che non era presente nella registrazione ma è stata riportata da Ynet, Halevi sembrava suggerire che l’importanza principale dei legali militari israeliani fosse quella di convincere il mondo esterno della legalità delle azioni dell’IDF. ”Ci sono consulenti legali che affermano: sappiamo come difendere legalmente Israele nel mondo, e questo è molto importante per il nostro stato “, avrebbe detto. L’IDF è stata contattata per un commento sulle osservazioni di Halevi riguardo al bilancio delle vittime e al ruolo degli avvocati militari, ma venerdì sera non aveva ancora risposto. Michael Sfard, avvocato israeliano per i diritti umani, ha affermato che le osservazioni di Halevi ”confermano che i consulenti legali servono solo per mettere un timbro sulle decisioni”. “I generali li considerano consulenti ‘normali’ i cui consigli possono essere adottati o respinti, non avvocati professionisti le cui posizioni legali definiscono i confini di ciò che è lecito e ciò che è proibito”, ha affermato Sfard. Mercoledì 10, il quotidiano Haaretz ha riportato che il successore di Halevi come Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Eyal Zamir, aveva ignorato il parere legale di Tomer-Yerushalmi. Secondo quanto riferito, l’Avvocato Generale avrebbe affermato che gli ordini di sfollamento impartiti a circa un milione di residenti di Gaza City, imponendo di lasciare la città prima dell’offensiva dell’IDF, avrebbero dovuto essere rinviati fino a quando non fossero state predisposte strutture per accoglierli nel sud di Gaza. Molte delle 40 vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani di venerdì sembrano essere persone che non erano in grado di spostarsi verso sud o che non erano disposte ad abbandonare le loro case o i loro rifugi per rischiare di andare in qualche luogo di Gaza dove non c’erano rifugi o protezione contro i bombardamenti israeliani. https://www.theguardian.com/world/2025/sep/12/israeli-ex-commander-confirms-palestinian-casualties-are-more-than-200000 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
I leader occidentali continuano a sostenere Israele non perché sono codardi: sono ideologi imperialisti convinti
di Layth Hanbali e James Smith,  Mondoweiss, 11 settembre 2025.   Nessuna prova convincente e inconfutabile del genocidio convincerà i leader occidentali a interrompere il sostegno a Israele, perché non è nel loro interesse. L’unica cosa che fermerà il genocidio è renderlo più costoso che redditizio. Il presidente Donald Trump incontra il primo ministro britannico Keir Starmer, il primo ministro italiano Giorgia Meloni, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il presidente francese Emmanuel Macron, il presidente finlandese Alexander Stubb, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy e il Segretario Generale della NATO Mark Rutte, dopo la sua telefonata con il presidente russo Vladimir Putin, lunedì 18 agosto 2025, nello Studio Ovale. (Foto: Ufficio stampa della Casa Bianca/Daniel Torok) Ci viene ripetutamente detto che l’élite politica occidentale, insieme alle sue appendici istituzionali, è codarda, che ha semplicemente troppa paura di dire e fare di più di fronte al genocidio del regime sionista a Gaza, o che è troppo facilmente influenzabile dalla propaganda sionista e troppo legata alla lobby filo-regime. Ma tali accuse non reggono a un esame approfondito. Biden, Harris e quasi tutto il Partito Democratico, compresa la sua cosiddetta “ala progressista”, erano così impegnati a sostenere la colonia sionista che hanno preferito rinunciare a vincere le elezioni del 2024 piuttosto che opporsi seriamente ai suoi crimini atroci e alle altre violazioni dei diritti umani. Allo stesso modo, una pletora di funzionari governativi europei – Keir Starmer, David Lammy, Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Friedrich Merz e molti altri – sono così impegnati a sostenere la colonia sionista che sono disposti a rischiare l’incriminazione per favoreggiamento di crimini di guerra piuttosto che sospendere gli accordi commerciali o la vendita di armi a Israele. L’intera classe dirigente occidentale ha volontariamente e completamente smascherato la fallacia dei valori liberali, dello stato di diritto e della libertà di espressione, al fine di preservare il sostegno incondizionato al regime sionista. Non si tratta di codardia politica. Rappresenta piuttosto un impegno ideologico incrollabile nei confronti dei propri interessi economici e politici, come dimostra la colonia sionista. Non dovrebbe sorprendere che le elezioni continuino nei paesi occidentali senza l’emergere di una sola alternativa antisionista coerente: l’élite politica, economica e culturale è quasi interamente unita nel suo sostegno al regime sionista e alla sua campagna secolare di espansione coloniale. In effetti, questa illusione di scelta si è già verificata molte volte dall’inizio del genocidio, durante le elezioni negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Germania, Francia e altrove. In molti paesi, la maggioranza dell’opinione pubblica era già contraria alla colonia sionista e favorevole alla lotta palestinese, mentre il genocidio era in cima alle loro preoccupazioni, eppure non sono stati in grado di votare per una rappresentanza politica antisionista e filopalestinese. In breve, l’opinione pubblica non può eliminare con il voto la violenza coloniale. Né si tratta di una questione di mancanza di comprensione o di deficit di simpatia: più testimonianze, più conferenze e più rapporti cambieranno ben poco. La codardia non può spiegare questo sostegno ostinato. Una spiegazione alternativa riconosce la colonia sionista come un’estensione dell’espansione e dello sfruttamento occidentale. La colonia sionista sostiene il complesso militare-industriale acquistando armi dall’Occidente e utilizzandole sui palestinesi come cavie, mentre la sua repressione di vasta portata delle aspirazioni politiche in tutta la regione permette all’Occidente di rafforzare la sua presa sulle economie regionali e, per estensione, sul loro gas, petrolio, acqua e manodopera. Gli interessi economici hanno motivato il sostegno dell’Occidente al progetto sionista sin dai suoi primi giorni. Uno dei motivi principali per cui i colonizzatori britannici vennero meno alla loro promessa di indipendenza per gli arabi della regione e rilasciarono invece la Dichiarazione Balfour – che aprì la strada alla colonizzazione sionista della Palestina – fu quello di evitare il rischio di perdere il controllo del Canale di Suez. Allo stesso modo, il sostegno incondizionato degli Stati Uniti alla colonia sionista è stato consolidato negli anni ’60 al fine di promuovere le ambizioni economiche e politiche americane nella regione durante la Guerra Fredda. Il presidente John F. Kennedy pose fine all’embargo americano sulle armi con il regime sionista nel 1961, legò gli interessi di sicurezza delle due colonie e stabilì la loro “relazione speciale”. Sebbene il sostegno americano al regime sionista sia stato oggetto di una breve incertezza (ad esempio, nel 1975, il rifiuto del regime sionista di accettare i termini di un’iniziativa americana per la distensione con l’Egitto portò gli Stati Uniti ad annunciare la sospensione delle spedizioni militari fino alla capitolazione di Israele), la promozione da parte di Israele degli interessi americani nella regione divenne una pietra miliare della sua identità nazionale. Nel 1986, il senatore americano Joe Biden dichiarò apertamente: “Se non ci fosse Israele, dovremmo inventarlo”. Quarantasette anni dopo, come presidente degli Stati Uniti, ha ripetuto le stesse identiche parole al presidente del regime sionista, Isaac Herzog, che ha risposto: “È fantastico”. È chiaro che non esistono atrocità, prove inconfutabili o designazioni legali o morali in grado di convincere i leader occidentali a cambiare rotta. Altre immagini e filmati di bambini assassinati (come se 20.000 non fossero sufficienti), altre dichiarazioni pubbliche dei politici sionisti che intendono sterminare i palestinesi (come se le loro dichiarazioni dell’8 ottobre 2023 e le azioni corrispondenti non fossero sufficienti), prove più chiare che il sostegno militare, economico e diplomatico occidentale alimenta il genocidio (come se i politici occidentali non ne fossero già ben consapevoli), non provocheranno alcun cambiamento. Né il genocidio, né la fame, né la pulizia etnica, né l’occupazione, né la sottomissione con apartheid del popolo palestinese sono un prezzo troppo alto da pagare per l’élite occidentale; i benefici politici ed economici che traggono dalla colonia sionista superano di gran lunga il valore che attribuiscono alla vita dei palestinesi. Aumentare il costo del sostegno al genocidio Coloro che lottano per la giustizia e la liberazione dei palestinesi devono tenere conto di questa realtà, poiché non sarà mai sufficiente concentrarsi semplicemente sul convincere l’opinione pubblica che i palestinesi meritano giustizia e liberazione. Una campagna molto più efficace a favore dei palestinesi deve rendere più costoso che redditizio sostenere il regime sionista. Questo è il motivo per cui la repressione più dura del movimento di solidarietà con la Palestina in Occidente è stata diretta contro Palestine Action – ora proscritta come organizzazione terroristica con una mossa senza precedenti da parte del governo britannico, per cui i sostenitori rischiano pene detentive estreme – poiché sono stati in grado di mobilitare un numero consistente di persone per distruggere equipaggiamenti militari e minacciare i margini di profitto che sostengono l’appoggio occidentale alla colonia sionista. Altrove, anche coloro che hanno fatto tremare le gabbie delle istituzioni d’élite – università, ospedali, agenzie di comunicazione e aziende tecnologiche – sono stati repressi. Microsoft ha recentemente licenziato quattro dipendenti per aver protestato contro l’uso diretto della sua tecnologia contro i palestinesi – aggiungendosi ad altri dipendenti licenziati all’inizio dell’anno – e secondo quanto riferito sta collaborando con l’FBI per rintracciare altri manifestanti. Le università, in particolare negli Stati Uniti, negano i diplomi ai manifestanti e chiamano la polizia per picchiare e arrestare i propri studenti. Gli operatori sanitari sono stati licenziati, sospesi e indagati per aver espresso solidarietà ai palestinesi e per aver denunciato la complicità istituzionale nei crimini del regime sionista. Le istituzioni mediatiche hanno preso di mira coloro che hanno denunciato il loro modo di operare come estensione della lobby sionista e hanno soppresso le notizie che smascherano la misura in cui gli interessi politici ed economici occidentali sostengono direttamente il sionismo. Una repressione di così ampia portata è direttamente correlata all’impatto dirompente di questi sforzi sulle strutture di produzione economica e culturale che sostengono l‘appoggio incondizionato dell’Occidente alla colonia sionista. All’interno dei sistemi di potere globali valgono le stesse regole: la critica al regime sionista è consentita fintanto che non rappresenta una minaccia tangibile alle strutture di produzione economica e culturale che lo preservano. A titolo illustrativo, la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese ha condannato apertamente i crimini del regime sionista sin dalla sua nomina nel maggio 2022, eppure l’amministrazione statunitense ha deciso di imporle sanzioni solo dopo che ha pubblicato un rapporto che nominava alcune delle più grandi aziende che sostengono la colonia sionista e amplificava le richieste di un boicottaggio globale. Coloro che cercano giustizia e liberazione in Palestina devono guardare oltre le testimonianze, le conferenze e i rapporti che percepiscono l’inazione come una questione di mancanza di consapevolezza o comprensione. Dobbiamo invece puntare a un’interruzione tangibile delle strutture della produzione economica e culturale sionista. Il minimo indispensabile per farlo è il boicottaggio individuale e collettivo delle aziende, delle agenzie di comunicazione e delle altre istituzioni che traggono profitto dalla colonia sionista e dalla sua logica genocida di eliminazione del popolo palestinese, e che quindi la sostengono. Oltre al boicottaggio, esistono una moltitudine di strategie di escalation e varie forme di azione diretta, e a tal fine deve esserci un numero sufficiente di noi disposti a pagare un prezzo nella lotta per la nostra liberazione collettiva. Layth Hanbali è ricercatore presso l’Istituto di Studi sulla Palestina e dottorando presso la Libera Università di Bruxelles. James Smith è docente di studi umanitari presso l’University College di Londra e medico d’urgenza. Ha lavorato a Gaza come medico durante il genocidio in corso di Israele. https://mondoweiss.net/2025/09/western-leaders-arent-cowards-for-continuing-to-support-israel-theyre-committed-imperialist-ideologues/? ml_recipient=165345438776427873&ml_link=165345378633254652&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=2025-09-12&utm_campaign=Catch-up Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
I palestinesi di Gaza City affrontano la brutale campagna di sfollamento israeliana senza avere un posto sicuro dove rifugiarsi
di Abdel Qader Sabbah,  Drop Site News, 11 settembre 2025.   “Questa dovrebbe essere la nostra destinazione finale, vicino al mare. Dovrebbero lasciarci stare qui”. Una famiglia palestinese sfollata sulla costa di Gaza City. 8 settembre 2025. (Fotogramma dal video di Abdel Qader Sabah.) I palestinesi di Gaza City stanno affrontando il pieno impatto della campagna militare israeliana volta alla pulizia etnica dell’intera città, un tempo la più grande della Palestina storica, senza avere un posto dove andare. Mercoledì 10 settembre, l’esercito israeliano ha esaltato il suo crescente assalto a Gaza City, con un portavoce che ha affermato che decine di aerei da guerra israeliani hanno colpito oltre 360 obiettivi nella città, compresi grattacieli e infrastrutture. “La prima ondata si è concentrata sui quartieri di Daraj e Tuffah… la seconda e la terza ondata hanno incluso un attacco su larga scala alle zone di Daraj, Tuffah e Furqan”, ha scritto il portavoce su X. “Nei prossimi giorni, l’esercito intensificherà il ritmo degli attacchi… in preparazione delle prossime fasi dell’operazione”. Oltre agli edifici residenziali e alle infrastrutture, sono stati distrutti anche affollati accampamenti di tende. Da quando l’esercito israeliano ha lanciato la sua offensiva per conquistare e prendere il controllo di Gaza City il mese scorso, ha emesso diversi ordini di sfollamento per diversi quartieri della zona, culminati lunedì con un ordine di espulsione di massa per l’intera città di quasi 1 milione di palestinesi. Molti semplicemente non sono in grado di andarsene. Diversi palestinesi sfollati a Gaza City hanno detto a Drop Site News che non possono fuggire verso sud a causa dei costi di viaggio esorbitanti, che possono arrivare fino a 4.000 shekel (circa 1.200 dollari); a causa della mancanza di spazio o di riparo nelle zone gravemente sovraffollate del sud; e a causa della mancanza di sicurezza dagli attacchi israeliani in qualsiasi parte di Gaza, comprese le cosiddette “zone umanitarie”. “Gli israeliani hanno distrutto la nostra casa e non sapevamo dove andare o cosa fare. Siamo partiti, poi siamo tornati, e siamo ripartiti e tornati di nuovo qui. Ci siamo trasferiti circa 20 volte e ancora non sappiamo dove andare”, ha detto Issa, sfollato sulla costa dalla sua casa ad Al-Zarqa, un quartiere nel nord-est di Gaza City. Dietro di lui, sulla spiaggia sabbiosa, era parcheggiato un carro trainato da un asino carico di materassi, pentole e altri effetti personali. “Questa dovrebbe essere la nostra destinazione finale, vicino al mare. Dovrebbero lasciarci stare qui. Dove dovremmo andare?”, ha detto a Drop Site, aggiungendo: “Per andare a sud servono 3.000 shekel. E dove si trova una tenda? Non ci sono tende… Non c’è sicurezza, né qui né altrove… In questo momento siamo sfollati nel nord. Non c’è sicurezza né qui né nel sud”. La vita dei Palestinesi sfollati nella parte occidentale di Gaza City. 8 settembre 2025. (Video di Abdel Qader Sabah). Il Team Umanitario delle Nazioni Unite nei territori palestinesi occupati ha affermato che quasi un milione di persone a Gaza sono ora prive di “opzioni sicure o praticabili”. “Stiamo assistendo a una pericolosa escalation a Gaza City, dove le forze israeliane hanno intensificato le loro operazioni e ordinato a tutti di spostarsi verso sud. Questo avviene due settimane dopo che è stata confermata la carestia nella città e nelle zone circostanti”, hanno affermato in una dichiarazione mercoledì 10 settembre. “Sebbene le autorità israeliane abbiano dichiarato unilateralmente ‘umanitaria’ un’area nel sud, non hanno adottato misure efficaci per garantire la sicurezza di coloro che sono costretti a trasferirsi lì. D’altra parte, né le dimensioni né la portata dei servizi forniti sono adeguate a sostenere coloro che già vi si trovano, figuriamoci i nuovi arrivati. Quasi un milione di persone non hanno più alcuna opzione sicura o praticabile: né il nord né il sud offrono sicurezza. Lasciare il nord di Gaza significa sostenere costi proibitivi per il trasporto e il passaggio sicuro, somme che la maggior parte delle famiglie semplicemente non può permettersi. Significa percorrere strade difficilmente transitabili. Significa trovare un posto dove dormire all’aperto o in campi profughi sovraffollati. E significa continuare a lottare per procurarsi cibo, acqua, cure mediche e riparo, e vivere senza servizi igienici dignitosi e sicuri. I sopravvissuti di Gaza sono esausti”. L’ordine di sfollamento di lunedì era accompagnato da una mappa di tutta la parte settentrionale di Gaza che raffigurava tre frecce rivolte verso ovest e una grande freccia rivolta verso sud: una rappresentazione grafica della campagna di pulizia etnica condotta da Israele. Tuttavia, con la costa e le strade adiacenti trasformate in un ammasso di tende e rifugi di fortuna, le famiglie non riescono a trovare spazio per sfollare verso sud, anche se lo volessero. Ordine di sfollamento militare israeliano per tutta Gaza City e le zone circostanti. 10 settembre 2025. Fonte: X. Secondo il Site Management Cluster, una coalizione di gruppi umanitari che monitorano i movimenti a Gaza, circa 50.000 palestinesi sono stati sfollati all’interno di Gaza City e un numero simile è fuggito verso sud. L’esercito israeliano ha fornito una stima molto più alta, stimando in 200.000 il numero di persone fuggite dalla città di Gaza, secondo il Times of Israel. Numerose famiglie sfollate a Gaza City hanno raccontato a Drop Site di essere riuscite a fuggire verso sud, ma di essere poi tornate al nord dopo che non avevano trovato alcun rifugio o erano state costrette a pagare l’affitto per un piccolo appezzamento di terra su cui piantare una tenda. “Siamo andati al sud e non abbiamo trovato alcun posto. Continuavano a dirci che servivano molti soldi, ma noi non ne avevamo. Solo per arrivare lì servono dai 3.000 ai 4.000 shekel. E non c’è terra senza un canone di affitto – dieci shekel al metro – e noi non li abbiamo“, ha detto Feryal Al-Dada a Drop Site. ”Ci hanno cacciato da Khan Younis. Hanno detto che non c’era spazio, nessun posto per noi“, ha detto, aggiungendo: ”Siamo rimasti cinque giorni sotto il sole, senza cibo né acqua. Non riuscivo a respirare a causa della polvere e del caldo”. Al-Dada era in piedi davanti a un rifugio di fortuna fatto di teloni e pali di legno vicino alla strada costiera. “Sto cercando di ripararmi vicino alla strada. Solo per avere un po’ di privacy. Mia figlia è ferita, e ci siamo io, mio figlio e mio marito. Abbiamo allestito un piccolo spazio in cui vivere. Ho raccolto tutto dalla strada”. Feryal Al-Dada (a sinistra) e Mazen Al-Damma (a destra) sono stati entrambi sfollati sulla costa di Gaza City. 8 settembre 2025. (Fotogrammi dal video di Abdel Qader Sabah.) Feryal Al-Dada (a sinistra) e Mazen Al-Damma (a destra) sono stati entrambi sfollati sulla costa di Gaza City. 8 settembre 2025. (Fotogrammi dal video di Abdel Qader Sabah.) Nelle vicinanze, Mazen Al-Damma inchiodava un pezzo di stoffa su una sottile struttura di legno per creare un riparo. “Siamo partiti per il sud. Siamo andati ad Al-Qarara [una città appena a nord di Khan Younis]. Ci hanno cacciato perché non c’era spazio e ci hanno reindirizzato a Deir Al-Balah. Tuttavia, lì c’erano sparatorie e bombardamenti, quindi non potevamo restare”, ha detto Al-Damma a Drop Site. È tornato a nord nella sua casa nel quartiere di Al-Tuffah, ma è stato costretto a fuggire di nuovo la settimana scorsa dopo che Israele ha emesso ordini di sfollamento. “Abbiamo dovuto andarcene senza sapere dove stavamo andando”, ha detto. “Onestamente, è meglio per chiunque non andare a sud. È uno spreco di denaro. Meglio restare sulla propria terra”. Ha aggiunto: “Ovunque ti trovi, tutta Gaza è pericolosa. Anche la zona che ti dicono essere ‘sicura’ è pericolosa. Deir Al-Balah è pericolosa. Tutta Gaza è pericolosa. Non ci sono zone sicure. Tre o quattro giorni fa ci hanno lanciato dei volantini. È questo che ci ha spinto a dirigerci verso sud, ma non abbiamo trovato terra e siamo venuti qui”. In una dichiarazione video rilasciata lunedì 8, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha lanciato una minaccia aperta a tutti i palestinesi di Gaza City: “Mi rivolgo ai residenti di Gaza, approfitto di questa opportunità e vi ascolto attentamente: siete stati avvertiti, andatevene subito”. La sua dichiarazione ha fatto eco ai commenti seguiti all’ordine di sfollamento di massa di Israele per tutta la parte settentrionale di Gaza nell’ottobre 2023, a meno di una settimana dall’inizio della guerra, quando Netanyahu aveva anche proclamato: “Andatevene subito”. “ ”L’ordine emesso [lunedì 8] mattina dall’esercito israeliano per lo sfollamento di massa dei residenti di Gaza Cit è crudele, illegale e aggrava ulteriormente le condizioni di vita genocidarie che Israele sta infliggendo ai palestinesi”, ha dichiarato in un commento Heba Morayef, direttrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International. “Per le centinaia di migliaia di palestinesi di Gaza City che, da quasi due anni, subiscono bombardamenti incessanti mentre sono affamati e ammassati in campi improvvisati o si sono rifugiati in edifici estremamente sovraffollati, si tratta di una ripetizione devastante e disumana dell’ordine di sfollamento di massa emesso per tutta la zona nord di Gaza il 13 ottobre 2023”. Un palestinese sfollato con la sua famiglia sulla costa di Gaza City. 8 settembre 2025. (Fotogramma dal video di Abdel Qader Sabah.) Mentre l’assalto israeliano continua, i palestinesi di Gaza City sono costretti a vivere in uno spazio sempre più ristretto. “Abbiamo caricato l’auto e ci siamo diretti a sud, verso Khan Younis. Il solo trasporto ci è costato tra i 2.800 e i 3.000 shekel. Siamo arrivati a Mawasi, Khan Younis, e siamo rimasti lì, ma c’erano pesanti bombardamenti. Hanno bombardato persino le tende. Siamo fuggiti da Khan Younis e siamo andati a Deir al-Balah. Una volta arrivati, abbiamo scoperto che anche quella era una zona rossa, un posto ancora terrificante“, ha raccontato a Drop Site un palestinese che ha preferito rimanere anonimo. ”Anche se trovi un terreno dove vivere [nel sud], che sia pubblico o privato, qualcuno verrà a dirti: ‘Voglio essere pagato un tanto al metro’. La tariffa è di 10 shekel al metro quadrato. Se vuoi montare una tenda di 4 metri per 4, ovvero 16 metri quadrati, ti ritrovi a pagare 200 o 300 shekel al mese“, ha detto. ”Non abbiamo avuto altra scelta che lasciare il sud e tornare a Gaza City“. ”Come potete vedere, stiamo montando teloni, raccogliendo coperte, strappandole e riusandole. Prendiamo tende e legna dalle strade per sostenerci“, ha detto, mentre i suoi figli stavano lì vicino coperti di polvere. ”Viviamo sulla spiaggia. Sanno che siamo qui, sulla spiaggia. Che colpa ha questa bambina? Siamo privati di cose che lei non ha mai nemmeno visto”. Sharif Abdel Kouddous e Jawa Ahmad hanno contribuito a questo articolo. Abdel Qader Sabbah è un giornalista e videografo nel nord di Gaza. https://www.dropsitenews.com/p/gaza-city-israeli-displacement-south-palestinians-nowhere-to-go-cost?utm_source=post-email-title&publication_id=2510348&post_id=173369485& utm_campaign=email-post-title&isFreemail=false&r=2xiwfl&triedRedirect=true&utm_medium=email Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.