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Le “lettere dalla prigione” di Boris Kagarlitsky
IL PRIGIONIERO PIÙ CELEBRE DELLA SINISTRA RUSSA, HA RILASCIATO UN’INTERVISTA CHE GLI È COSTATA ALCUNI GIORNI DI ISOLAMENTO Boris Kagarlítsky e Antonio Airapetov da El Salto Boris Kagarlitski è il prigioniero politico più famoso della sinistra russa. Sociologo, teorico marxista e professore alla Scuola Superiore di Economia, non ha mai lasciato scampo a nessuno. Oggetto delle sue critiche sono stati il Cremlino, Kiev e i governi occidentali, l’opposizione liberale russa, quella nazionalista e il Partito Comunista. E nonostante ciò, lo stile argomentato e rispettoso del professore gli ha fatto guadagnare un sostegno eterogeneo quando nel 2023 è stato incarcerato e condannato a cinque anni di prigione per la sua ferma opposizione all’invasione dell’Ucraina. Grazie alla Campagna Internazionale di Solidarietà sono state raccolte centinaia di firme a favore della sua liberazione tra personalità di spicco della sinistra internazionale, come Naomi Klein, Jean-Luc Mélenchon, Slavoj Žižek, Jeremy Corbyn, Ken Loach o Tariq Ali, tra gli altri. Nel mese di novembre, appena compiuti i 67 anni, Kagarlitski ha trascorso tre giorni in una cella di isolamento della colonia penitenziaria IK-4, in condizioni che minacciano il suo fragile stato di salute, secondo quanto denunciato dal suo avvocato. Si trattava di una punizione per l’estesa intervista rilasciata a Véstnik Buri, uno dei media più rilevanti nella sinistra russa. Le sue risposte sono state trascrutte e montate in video grazie a un’app di AI che successivamente ha avuto un’ampia diffusione dentro e fuori la Federazione Russa. Ne citiamo di seguito alcuni frammenti: A PROPOSITO DEL CARCERE Non è la prima volta che finisce dietro le sbarre: ha già scontato una pena nel 1982, quando era ancora nell’Unione Sovietica, nell’ambito del processo contro il gruppo dissidente dei Giovani Socialisti; è stato nuovamente arrestato nel 1993 dalla polizia di Boris Eltsin durante il colpo di Stato da lui orchestrato, e per la terza volta dalla polizia di Vladimir Putin nel 2020 durante le proteste contro l’abolizione del limite dei mandati presidenziali. Nel 2023, prima di entrare definitivamente in prigione, il regime gli ha dato la possibilità di andare all’estero, come hanno fatto tanti altri oppositori. Sempre nel rispetto di coloro che hanno scelto l’esilio, Kagarlitsky difende la strada scelta: «Non ho rimpianti. Ho preso una decisione e la considero non solo giusta, ma estremamente importante. […] Alcuni dall’esilio, altri dall’interno del Paese, altri ancora dalla prigione: l’importante è che tutti manteniamo la solidarietà e la fede nella nostra causa». Kagarlitsky è il più famoso, ma non è affatto l’unico prigioniero della sinistra russa. Solo per citare alcuni casi: in Russia sono ben noti i processi contro gli antifascisti di Tyumen, il Circolo Marxista di Ufa, il matematico e professore dell’Università di Mosca Azat Miftáhov, o i tre adolescenti di Kansk che sono stati arrestati all’età di soli 14 anni e sono in carcere da tre anni per aver attaccato degli adesivi di solidarietà con Azat. “Nell’IK-4”, spiega Kagarlítsky, “si è formata una comunità di prigionieri politici il cui nucleo è composto da persone di sinistra”. In questo caso si riferisce al militante antifascista libertario Denís Ushakov e al socialdemocratico di sinistra Gáguik Grigorián. Tuttavia il veterano marxista va sempre oltre: “Per quanto possa sembrare paradossale, la maggior parte dei detenuti per reati politici non sono molto politicizzati. Sono semplicemente persone indignate dagli eventi degli ultimi anni che hanno espresso la loro indignazione sui social network e sono finite così nell’IK-4. È stato una volta qui, incontrando altri prigionieri politici, che hanno iniziato a pensare in termini politici […] e hanno scoperto di essere, in modo istintivo, di sinistra. Non perché abbiano letto la teoria, ma per la loro esperienza di vita». A PROPOSITO DELLA GUERRA La guerra è molto presente nella vita della colonia. I detenuti ricevono visite dai reclutatori e le autorità li informano puntualmente su cosa devono fare per arruolarsi nelle forze armate: “I dati sul reclutamento vengono pubblicati mensilmente. […] Nel 2023 ci sono stati mesi in cui centinaia di persone hanno firmato il contratto. Nella primavera del 2024 le cifre oscillavano intorno alle 35-45 persone e poi, dalla fine dell’estate, hanno iniziato a diminuire rapidamente, fino a dicembre, quando si è arruolata una sola persona. Poi c’è stato un certo aumento, ma nulla di spettacolare, tra le 8 e le 11 persone al mese. E anche questa piccola ripresa è legata alle aspettative di pace. Parlo con molti reclute e mi assicurano che non arriveranno al fronte perché il cessate il fuoco è imminente. Inoltre, gli stessi reclutatori insistono su questo punto. Purtroppo, per il momento, ciò non si è verificato. […] Non solo non ho trovato nessuno ideologicamente motivato, anzi, al contrario, ho incontrato più di un convinto oppositore della guerra che si è arruolato. Perché? Per uscire di prigione e guadagnare soldi per le rispettive famiglie. […] Abbiamo anche un certo numero di fanatici che ripetono gli slogan della propaganda, ma nessuno di loro si è arruolato per combattere. Nessuno!” Alla domanda sulle possibilità di un accordo tra Putin e Trump, Kagarlitsky si mostra scettico: «Trump pensava che, offrendo a Mosca condizioni vantaggiose, avrebbe ottenuto rapidamente il risultato desiderato. Ma non capiva affatto le cause e le dinamiche di questo conflitto, che non risiedono nella disputa territoriale o ideologica […], ma nei problemi interni della politica russa e, in parte, anche di quella ucraina. Se non sono in grado di raggiungere un accordo geopolitico, è semplicemente perché la geopolitica, e persino il controllo delle terre rare, sono questioni del tutto secondarie. La questione principale è il cambio al Cremlino. E suppongo che anche in Ucraina sia sul tavolo il problema della ripartizione del potere, anche se in altra forma”. “Il ritardo gioca chiaramente a sfavore della Russia: […] Trump ha già fatto fin dall’inizio il massimo delle concessioni possibili e la logica degli eventi lo costringe a irrigidire la sua posizione”. Ma le dinamiche interne impediscono al regime russo di porre fine al conflitto: «La propaganda del Cremlino e quella liberale coincidono nella stessa visione di élite coese con un leader unico che aspira a un obiettivo globale di cui solo lui ne è a conoscenza. Nulla di più lontano dalla realtà. E’ parecchio tempo che non esiste una leadership unica; le élites sono profondamente divise al loro interno e perseguono obiettivi molto diversi, spesso incompatibili. Ma temono anche una rottura pubblica […]. Di conseguenza, le decisioni […] vengono rinviate. È come una nave che continua ad andare alla deriva mentre sul ponte di comando si discute all’infinito su dove andare. Quanto tempo si può andare avanti così? […] Finché non compare un iceberg. […] Se ci sarà un cambio al potere, ci saranno anche un accordo di pace e un’amnistia. Ma devo ricordare ancora una volta che non si tratta solo dei prigionieri politici. Nelle carceri ci sono migliaia di persone condannate per assenteismo militare. […] E anche per i reati penali comuni […] i tribunali stanno infliggendo pene chiaramente gonfiate per stimolare le persone a firmare contratti con l’esercito. L’amnistia deve essere ampia e non riguardare solo i prigionieri politici”. SULLA SINISTRA “Con la crisi economica mondiale del 2008-2010 è iniziata un’epoca che non è ancora finita. […] In Russia, a livello locale, il modello di ”democrazia guidata” è entrato in crisi. […] Il bivio politico era abbastanza evidente per tutti: una vera democratizzazione o, al contrario, un autoritarismo più esplicito. Le élite russe temevano una democratizzazione perché avrebbe potuto portare alla perdita di controllo. Non solo le élite al potere: anche i leader dell’opposizione liberale, così come i rappresentanti dell’imprenditoria che li sostenevano, temevano un processo incontrollabile. Di conseguenza, invece di cambiamenti radicali, abbiamo assistito all’inutile “protesta di Bolotnaya” [2011-2012]. Il nome stesso è simbolico [Bolotnaya plóschad significa la piazza del pantano]: tutta l’energia della protesta si ritrovò impantanata nell’opportunismo liberale. […] Quegli eventi rafforzarono e, in un certo senso, crearono una nuova sinistra”. Una nuova generazione, che non si era più formata nell’URSS, ha alimentato progetti mediatici solidi nella sinistra durante il decennio 2010. Tuttavia, questi non sono mai riusciti a concretizzarsi in un proprio progetto politico: “Abbiamo raggiunto un pubblico stabile che ha resistito alla prova di questi tre anni di guerra; abbiamo un ambiente, una struttura, una cultura e una tradizione propri. […] Sullo sfondo del crollo morale e politico della vecchia opposizione sistemica, siamo più visibili e meglio preparati a sviluppare iniziative politiche indipendenti. Ma, allo stesso tempo, la società è schiacciata, non solo dalla repressione ma anche dalla depressione. I problemi della sinistra sono, in ultima analisi, i problemi della società russa in generale”. Kagarlítsky considera il periodo bellico come un’impasse: “Siamo in un periodo di transizione. Si è protratto in modo esasperante, ma continua a mancare di contenuti propri. […] A livello globale sta già maturando un nuovo processo di formazione della sinistra. Si pensi al nuovo partito dei sostenitori di Jeremy Corbyn nel Regno Unito o ai nuovi leader della sinistra negli Stati Uniti. […] [In Russia] la coalizione non si costruirà attorno ai diversi atteggiamenti nei confronti di Stalin, ma attorno alle questioni della democratizzazione, della nazionalizzazione dei monopoli naturali e della socializzazione delle piattaforme, delle questioni di guerra e pace, educazione e diritti sociali. […] Bisogna formare una coalizione ampia sulla base di un programma di riforme democratiche e sociali”. A PROPOSITO DI MEMORIA STORICA «Cosa rivendicano le persone [quando difendono la memoria sovietica]? Quale Unione Sovietica? […] Posso rispondere per me stesso. Senza dubbio, considero un risultato della rivoluzione lo Stato sociale […]. L’istruzione delle masse, non solo attraverso la scuola e l’università, ma anche attraverso la diffusione dell’alta cultura. E, naturalmente, l’enorme lavoro di trasformazione di un paese agricolo in uno industriale, lo sviluppo della scienza, ecc. Ma la società sovietica era estremamente contraddittoria. Questi aspetti non solo coesistevano con la repressione, l’annullamento dell’individuo, le campagne denigratorie contro la genetica o il “cosmopolitismo”, un burocratismo esacerbato, ecc., ma erano anche strettamente correlati. […] Per noi, come sinistra, è fondamentale trarre conclusioni critiche da questa esperienza per non ripeterla e non ripetere così la sconfitta”. Lo stalinismo si è trovato inaspettatamente al centro dell’attenzione dei media della sinistra russa negli ultimi mesi. Le diverse fazioni staliniste sono fortemente polarizzate sulla questione della guerra: «C’è un aspetto curioso riguardo agli stalinisti post-sovietici. L’ideologia stalinista storica ha attraversato diverse fasi e ha subito mutamenti sostanziali. Una cosa era l’ideologia degli anni ‘30, in cui c’era ancora molta retorica rivoluzionaria, riferimenti all’interesse di classe, ecc. E un’altra era l’ideologia del periodo 1948-1953, che in sostanza ha preparato l’attuale ‘imperialismo rosso’. […] Nel 2022 è diventato evidente su quale periodo della storia sovietica ciascuno si concentrasse. Tra coloro che si orientavano verso le idee degli anni ’30, molti hanno adottato una posizione critica nei confronti dell’invasione dell’Ucraina, mentre gli “imperialisti rossi” hanno naturalmente sostenuto il regime. Tutto molto logico. D’altra parte, il Partito Comunista della Federazione Russa ha dato una svolta rinnegando ufficialmente la condanna dello stalinismo adottata dal Partito Comunista Sovietico nel XX Congresso del 1956: “Le rappresaglie contro i comunisti nell’URSS sono un fatto noto da tempo. […] Sono stati condotti molti studi. Alcuni di essi [che stimano in circa 700.000 le persone giustiziate dalle troike di Stalin] sono spesso citati dagli stessi stalinisti quando vogliono dimostrare che il numero delle vittime è stato inferiore a quello sostenuto dai liberali. […] Allora perché proprio ora la dirigenza del Partito Comunista rinnega ufficialmente le risoluzioni del XX Congresso, senza alcun nesso diretto con il momento attuale? Mi sembrano esserci due ragioni. La prima è che la storia sta sostituendo la politica. Non si tratta nemmeno di depoliticizzazione, è peggio: la difesa dei miti diventa la sua attività principale. […] Miti, per giunta, reazionari. Il mito del grande leader è di per sé reazionario perché mira a sopprimere l’attività autonoma e democratica delle masse. […] E la seconda ragione è che, forse in modo inconscio, vogliono compiacere l’attuale leadership del Paese. Non è un segreto che l’eredità autoritaria dell’URSS sia accettata e approvata dal regime attuale, a differenza dell’eredità progressista sovietica (l’emancipazione delle donne, la separazione della scuola e della cultura dalla Chiesa, ecc. […] Proprio ora che la lotta per le libertà democratiche diventa un aspetto chiave della lotta per la trasformazione sociale, ci viene offerto il culto dell’autoritarismo e del conservatorismo. […] Da ciò deriva una conclusione. Anche se alcuni non lo vogliono, sarà necessario affrontare la questione della democrazia, perché, in ultima analisi, è anche una questione sociale, una questione di classe”. SULLA DEMOCRAZIA Ponendo la lotta per la democratizzazione del Paese in una posizione così privilegiata, Kagarlitsky entra nel vivo di un’altra questione molto controversa per la sinistra russa: il rapporto con l’opposizione democratico-liberale: «La maggior parte degli oppositori liberali si rifiutava categoricamente di vedere le radici sistemiche ed economiche di ciò che stava accadendo. Non chiedevano di cambiare il sistema, ma di sostituire alcune persone, molto cattive e corrotte, provenienti dai servizi segreti, con altre persone, molto buone e oneste, provenienti dal mondo degli affari”. “La situazione ha iniziato a cambiare verso la fine del decennio 2010 con l’arrivo di una nuova generazione di giornalisti professionisti che non provavano odio verso le idee di sinistra e, in alcuni casi, addirittura simpatizzavano con esse”. Gli attivisti liberali stanno attraversando un processo molto importante di revisione dei propri valori. Ciò non significa che da un giorno all’altro diventeranno tutti di sinistra (anche se alcuni lo hanno già fatto). Ma, almeno, saranno più disposti a dialogare con noi, e in questa situazione il nostro dovere è quello di esporre in modo chiaro e convincente questioni concrete, rispettare gli avversari ed esigere lo stesso rispetto nei nostri confronti. […]. Qualcuno mi mostri, per favore, una citazione di Marx, Lenin o anche Stalin, che affermi esplicitamente che la dittatura borghese è migliore della democrazia borghese. Nessun “classico” ha mai detto una simile assurdità. Ai più ostinati consiglio di leggere il discorso di Stalin al XIX Congresso del PCUS. Il tema chiave è che i comunisti dei paesi capitalisti devono mettersi alla testa della lotta per la democrazia. Perché dico che la questione della democrazia è una questione di classe? Perché l’auto-organizzazione di massa dei lavoratori sarà possibile solo in condizioni di libertà e apertura, quando molti membri della classe operaia, non solo leader e attivisti isolati, potranno affiliarsi a organizzazioni di sinistra, esprimere le loro opinioni senza timore di ritorsioni e, in ultima analisi, influenzare la politica. A SPASSO CON IL LEVIATANO Il ricongiungimento con la famiglia e il suo programma di azione politica non sono le uniche cose che occupano la mente del detenuto. Kagarlitsky ha anche altri progetti letterari: “Sto prendendo appunti sulle storie più curiose e sui personaggi più interessanti. Spero di pubblicare un libro, se mai riuscirò a uscire di qui un giorno, con tutte le storie divertenti, comiche, grottesche e, a volte, ovviamente, un po’ inquietanti che ho osservato durante le mie peregrinazioni nelle carceri. […] Ho già anche il titolo: “Passeggiate con Leviatano”. […] I miei compagni e persino alcuni funzionari sono già a conoscenza di questo libro. Ricordo che a Rzhev il capo della sezione operativa mi chiamò nel suo ufficio e mi chiese: “È vero che sta scrivendo un libro sulla prigione?”. Gli risposi di sì. “Beh, per favore, scriva dei nostri problemi. Abbiamo pochi fondi e non possiamo fare una riforma come si deve”. Gli promisi che l’avrei fatto e lo farò!”. The post Le “lettere dalla prigione” di Boris Kagarlitsky first appeared on Popoff Quotidiano. 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UK, Your Party si chiamerà così ma ancora non sa chi è
LA CONFERENZA DI LIVERPOOL APPROVA IL NOME DEL NUOVO PARTITO DELLA SINISTRA BRITANNICA MA SI SCOPRE CAOTICA E LITIGIOSA Doveva essere il lancio ufficiale di Your Party – il progetto lanciato da Jeremy Corbyn insieme alla deputata Zarah Sultana – del nuovo partito socialista di massa, quello di “tutti i socialisti” (appellativo che in UK ha un’accezione molto più nobile e radicale di quanto ne abbia in Italia dopo l’era Craxi) ma la due giorni di Liverpool è stata caotica e la leadership di Corbyn non ha offerto lo spettacolo edificante come era parso – a vederlo dall’Italia – al tempo della sua ascesa nel Labour. Sabato, infatti, quella che è stata definita la sua “cricca” è stata accusata di aver dato vita a una sorta di “caccia alle streghe” per fare fuori sul nascere l’adesione di settori critici della sinistra. Una lotta per l’egemonia che si incrocia con la competizione a sinistra con un Green Party molto più vivace e radicale di un tempo sotto la guida del nuovo leader Zack Polanski. Il dilemma, almeno uno dei dilemmi, è se YP sarà un partito dei socialisti oppure un Labour 2.0, molto meno radicale e  dove i militanti sono soldatini dei parlamentari. Your Party vuole incarnare la promessa di un nuovo socialismo di massa capace di riorganizzare la sinistra dopo la normalizzazione starmeriana. Corbyn ha parlato di un’“opportunità unica” per costruire un soggetto capace di contrastare “il triopolio del pensiero politico in parlamento”, ma la conferenza di Liverpool ha mostrato fin da subito le linee di frattura. Secondo il Guardian, il debutto del partito è stato oscurato da conflitti interni, un lancio fallimentare dell’adesione e persino minacce di azioni legali. Due parlamentari indipendenti coinvolti nel processo fondativo, Adnan Hussain e Iqbal Mohamed, hanno abbandonato la partita. E come loro, molti degli 800 mila che avevano pre-aderito alla piattaforma hanno scelto di stare alla larga da un processo costituente già percepito come contraddittorio. Anticapitalist Resistance, un gruppo ecosocialista della Quarta Internazionale impegnato nella costruzione di YP, ha sintetizzato così il malessere: “migliaia di persone si aspettano che il partito si dia una regolata, diventi una forza democratica e cominci a radicarsi nelle comunità della classe operaia. La domanda è se YP voglia davvero essere un partito di sinistra aperto oppure una struttura rigida che esclude i socialisti in quanto membri di altre organizzazioni”. Una domanda che diventa centrale quando emerge che le decisioni più importanti sulla doppia appartenenza sono state prese prima che la conferenza potesse esprimersi, e che le espulsioni sono iniziate prima ancora che la regola fosse discussa. A Liverpool hanno votato in 9 mila, in presenza o online, e solo il 37 per cento ha confermato il nome Your Party, scelto in via provvisoria mesi fa. Il resto dei voti si è diviso fra For The Many, Popular Alliance e Our Party. Ma è stata Sultana a riaccendere il dibattito. Ha boicottato la prima giornata in solidarietà con diversi membri del Socialist Workers Party espulsi all’ultimo minuto ed è tornata domenica sul palco con un discorso durissimo contro le decisioni prese “al vertice”, accusando la dirigenza di pratiche antidemocratiche. Novara Media, che ha sostenuto il progetto fin dalle prime fasi, ha confermato che una delle controversie maggiori riguarda proprio le orchestrazioni attribuite al cerchio ristretto attorno a Corbyn, percepite come un tentativo di blindare l’impianto del partito impedendo modifiche da parte dei membri. La regola sulla doppia appartenenza, che vieterebbe agli iscritti di militare in altri partiti, è diventata il punto di rottura. Per gruppi della sinistra radicale come SWP, ACR, Socialist Party o il PCR (erede del Militant di Ted Grant) significherebbe la richiesta implicita di sciogliersi per confluire in un progetto che non ha ancora un manifesto politico. ACR lo ha definito irrealistico: perché organizzazioni con decenni di storia dovrebbero sciogliersi in un soggetto non ancora definito? La conferenza ha finito per ribaltare questo orientamento. Il voto sulla doppia appartenenza ha segnato una vittoria netta per le posizioni di Sultana, con il 69,2 per cento favorevole e il 30,8 contrario, ma le espulsioni erano già avvenute, rendendo evidente la frattura tra democrazia formale e prassi del gruppo dirigente. Il conflitto ha attraversato anche il tema della leadership. I delegati hanno scelto di affidare il partito a un esecutivo collegiale con il 51,6 per cento dei voti, respingendo l’idea del leader unico che Corbyn auspicava per ragioni di chiarezza mediatica. È un voto che congela, per ora, un possibile scontro diretto tra Corbyn e Sultana, ma apre comunque a una revisione futura che potrebbe riportare in auge un modello più tradizionale, forse prima delle elezioni generali. Sultana, dal palco, ha ammesso che la formazione del partito è stata segnata da “intoppi”, ma ha insistito sull’esigenza di far luce sulle decisioni prese ai vertici. Ha chiesto una linea esplicitamente antisionista e la rottura di ogni legame con “lo Stato genocida e apartheid di Israele”, mentre i sostenitori di Corbyn la accusano in privato di avere una visione purista del socialismo e di voler marginalizzare la componente musulmana “socialmente conservatrice” che ha sostenuto il progetto di rinascita corbynista. Sullo sfondo, resta la questione della stampa: il Socialist Worker, organo dello SWP, non ha ottenuto l’accredito per la conferenza mentre lo hanno avuto testate di destra, un dettaglio che ha contribuito a far crescere la percezione di una gestione opaca. L’atmosfera al congresso è stata spesso caotica. Delegati costretti ad agitare le braccia o illuminare il palco con i telefoni per chiedere la parola, espulsioni comunicate la sera prima della conferenza, e persino interventi di Karie Murphy, storica collaboratrice di Corbyn, che durante un comizio pre-congresso indicava alle guardie chi allontanare dalla sala. Un portavoce di Your Party ha giustificato l’esclusione di membri del Revolutionary Communist Group accusandoli di aggressioni politiche a Corbyn, mentre il caso dello SWP si è ulteriormente complicato quando Corbyn ha dichiarato alla stampa che il partito sarebbe registrato presso la Commissione elettorale. Non lo è, e non si opporrebbe ai candidati di YP. Il punto resta quindi politico, non legale. Prima che la conferenza si chiudesse con i delegati che cantavano Bella ciao, Corbyn ha lanciato un appello all’unità dicendo di comprendere tutte le frustrazioni che circondano il processo costituente. Ma la sintesi arriva ancora una volta dalla stampa militante: “La leadership di Your Party perde i voti chiave alla conferenza”, ha titolato il Socialist Worker, ricordando che la base non ha convalidato la centralizzazione che il cerchio magico del vecchio leader sperava di ottenere. Il progetto che doveva unire “tutti i socialisti” parte così in un campo minato, diviso fra eredità corbynista, nuove ambizioni movimentiste e una competizione crescente con un Green Party che intercetta energie giovanili e radicali. La domanda su cosa sarà davvero Your Party rimane aperta. E il dilemma iniziale, se essere un partito socialista di massa o un Labour 2.0, rischia di diventare la frattura fondativa del nuovo soggetto. L’editoriale del Guardian titola: “La prima conferenza del vostro partito non sembra promettere un nuovo inizio”. The post UK, Your Party si chiamerà così ma ancora non sa chi è first appeared on Popoff Quotidiano. 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La lunga fine dell’estate della sinistra greca
DIECI ANNI DOPO LA CAPITOLAZIONE DAVANTI ALLA TROIKA, LA SINISTRA CERCA DI RISORGERE MA NON HA UN PROGETTO CHIAVE NÉ UNA LEADERSHIP Queralt Castillo Cerezuela da El Salto Quest’estate ricorre il decimo anniversario di quel fatidico 5 luglio 2015, quando i cittadini greci si opposero alla troika e si rifiutarono di firmare un terzo memorandum di misure di austerità impossibili da attuare. Ignorando ciò che dicevano i greci, Alexis Tsipras, all’epoca primo ministro del Paese e primo esponente di sinistra a ricoprire tale carica in Europa, obbedì agli ordini di Bruxelles. Questo ha segnato una svolta non solo per Syriza, il partito al governo, ma anche per il resto della sinistra europea. “L’ondata di speranza generata da Syriza era stata accolta con entusiasmo da Podemos e da altre forze emergenti dell’Europa meridionale. L’Oxi greco è diventato, per alcuni giorni, lo slogan internazionale della resistenza all’austerità. Tuttavia, la svolta di 180 gradi dopo il referendum ha agito come un segnale di avvertimento. Ha servito a mostrare i limiti del populismo di sinistra quando raggiunge il potere: senza un sostegno istituzionale o economico sufficiente, i gesti simbolici possono ritorcersi contro chi li promuove”, spiegava alcune settimane fa a El Salto Kostis Kornetis, professore di Storia contemporanea all’Università Autonoma di Madrid e membro consultivo del Commissariato spagnolo e membro consultivo del Commissario España in Libertad 50 años. Tsipras, che aveva vinto le elezioni generali nel gennaio dello stesso anno, non ha avuto vita facile durante il suo mandato (2015-2019): alla grande delusione da parte dei cittadini greci si sono aggiunti gli attacchi della destra e dell’estrema destra, oltre a una povertà strutturale e sistemica le cui conseguenze sono ancora visibili nel Paese ellenico. A poco a poco, la formazione della “sinistra radicale” si è spostata verso il centro, ha adottato una narrativa meno progressista e si è cominciato a parlare della pasokizzazione di Syriza, una deriva verso una posizione ideologica molto più moderata e vicina ai socialdemocratici del PASOK. La Grecia di oggi è molto diversa da quella del 2015, ma nel Paese permangono alcune dinamiche che sono il risultato di tutto ciò. “Ci sono indicatori macroeconomici che fanno pensare che stiamo meglio rispetto al 2015, e questo è vero, ma ciò nasconde anche gravi problemi di disuguaglianza e povertà, molto più visibili allora. Nonostante ciò, il governo presenta la situazione attuale come una storia di successo ed è questa la versione che trasmette alle istituzioni europee, quando chiaramente non è così”, spiega a El Salto Ioannis Katsaroumpas, professore di diritto del lavoro alla Facoltà di Giurisprudenza del Sussex (Regno Unito). Le politiche neoliberiste e anti-immigrazione di Nuova Democrazia, il partito al governo, i problemi strutturali dell’economia o la privatizzazione delle infrastrutture e dei servizi fondamentali per il paese, oltre ai vari casi di corruzione e scandali, hanno indebolito il governo dell’attuale primo ministro Kyriakos Mitsotakis, ma non abbastanza da metterlo in pericolo rispetto a nessun rivale di peso. Dopo l’abbandono della scena politica greca da parte di Tsipras in seguito alla sconfitta elettorale del 2023, in Grecia si ha la sensazione che la sinistra sia alla deriva. Le numerose scissioni e la mancanza di un progetto politico solido da parte dei partiti che sono nati rendono il panorama, al momento, desolante. “Abbiamo diversi partiti di sinistra, ma stanno faticando a trovare una narrativa e un’ideologia che abbiano senso”, afferma Katsaroumpas, che ritiene che “ci sia un fallimento in termini di ideologia e narrativa coerente. E questo è proprio uno dei problemi della sinistra greca: l’assenza di una visione, di un orientamento, di obiettivi. Si tratta di uno spettro politico che continua a fare i conti con l’eredità dell’austerità a tutti i livelli”. Ed è proprio così: la sinistra greca deve affrontare un’eredità complessa e controversa, a cui si aggiungono una frammentazione e una mancanza di leadership evidenti. “Non c’è nessuna figura pubblica che ispiri, come ha fatto Alexis Tsipras alcuni anni fa”, afferma. Attualmente non esiste nemmeno un partito politico forte in grado di guidare questo spettro politico. Alcuni ci provano da tempo, ma non riescono a raggiungere l’obiettivo. Ora, però, potrebbe succedere qualcosa che qualcosa che sconvolga tutto; una svolta di cui si parla da settimane in Grecia: il possibile ritorno di Alexis Tsipras. TORNERÀ? Sebbene le voci sul possibile ritorno di Tsipras abbiano iniziato a circolare all’inizio dell’estate, è stato lo scorso 5 settembre, in occasione del V Vertice Metropolitano di Salonicco, organizzato da The Economist, che le voci hanno preso corpo. L’ex primo ministro ha presentato un Piano Nazionale di Ripresa nell’ambito di una proposta che mira a cambiare il modello produttivo e a migliorare la situazione economica del Paese. In Grecia ci sono opinioni di ogni tipo: chi pensa che si tratti di speculazioni infondate e chi ritiene che l’ex primo ministro abbia dato segnali sufficienti per considerare il suo ritorno come qualcosa di reale e possibile. “Tsipras sta compiendo alcune mosse politiche e, se tornerà, molto probabilmente formerà un nuovo partito, diverso da Syriza. Non sarà un partito di sinistra, ma piuttosto di centro-sinistra, socialdemocratico, progressista, o come si voglia chiamarlo. Quindi non stiamo parlando di una rinascita di Syriza o qualcosa di simile”. Chi parla è Yorgos Siakas, professore associato del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Democrito di Tracia. Secondo l’analista, un possibile ritorno dell’ex leader riconfigurerebbe il panorama politico greco, o almeno quello di una sinistra in crisi. “Tutta l’opposizione di centro-sinistra sarebbe influenzata dal ritorno di Tsipras”, prevede. “L’unica cosa che sappiamo fino ad oggi sono due cose. In primo luogo, che la sua ipotetica formazione si collocherebbe nello spettro della politica progressista. E in secondo luogo: che al momento non esiste alcun partito né alcuna figura di spicco in grado di fare ombra a Mitsotakis e di assumere la guida della Grecia”. Per l’analista greca Anastasia Veneti, professore associato alla Facoltà di Comunicazione dell’Università di Bournemouth, parlare di un ipotetico ritorno di Tsipras è fantascienza: “Dare per scontato il suo ritorno è piuttosto rischioso. Se partiamo dal presupposto che tornerà in politica con un ruolo più attivo, non sappiamo se creerà un proprio partito o se tornerà a Syriza per ricoprire qualche incarico, il che richiederebbe l’avvio di una serie di procedure all’interno del partito. Dato che non sappiamo cosa significhi questo ipotetico ritorno, non possiamo fare supposizioni in questo momento”, sostiene. C’è, tuttavia, qualcosa che giocherebbe a sfavore di Tsipras nel suo ritorno come “grande salvatore” della Grecia, se questa fosse la sua intenzione. “Nonostante siamo al secondo posto peggiore di tutta l’UE in termini di potere d’acquisto, nonostante l’esistenza di cartelli e oligopoli nell’economia greca e nonostante l’alto costo della vita nel Paese, non siamo di fronte a nessuna crisi importante che possa sostenere questa rinascita”, precisa Siakas. LUGLIO 2023, IL CROLLO DI SYRIZA La ricomparsa dell’ex primo ministro greco e il suo possibile ritorno sulla scena politica avviene due anni dopo il crollo elettorale di Syriza, in quelle elezioni che hanno dato il colpo di grazia al partito. Nelle elezioni generali del 21 maggio 2023, Syriza, nonostante fosse dato da molti come secondo favorito dietro a Nuova Democrazia, non è riuscito a convincere la popolazione. Tsipras aveva assicurato che, se avesse vinto, avrebbe  contenuto i prezzi dei generi alimentari attraverso una riduzione dell’IVA, avrebbe aumentato i salari, protetto gli alloggi e controllato il mercato. Niente di tutto ciò ha conquistato il cuore degli elettori. Né la rivelazione delle intercettazioni illegali di giornalisti e politici (anche del suo stesso partito) con il software Predator, né la tragedia dei treni di Tempi del 28 febbraio dello stesso anno, che è costata la vita a 57 persone, hanno avuto ripercussioni negative su Mitsotakis, così come la cattiva gestione degli incendi boschivi che si verificano ogni estate. I risultati hanno anticipato ciò che sarebbe successo in seguito. Poiché Mitsotakis voleva governare con la maggioranza assoluta, ha indetto nuove elezioni per il 25 giugno dello stesso anno. Nuova Democrazia ha vinto con il 40,56% dei voti. Syriza ha ottenuto il 17,83%; il PASOK e il KKE (Partito Comunista Greco) hanno ottenuto rispettivamente l’11,84% e il 7,69% dei voti. Le posizioni successive furono occupate dai gruppi di estrema destra: Spartiates (Spartani), Niki (Vittoria) ed Ellinikí Lisi (Soluzione greca). Dopo la sconfitta, Tsipras, che era stato il primo ministro di estrema sinistra in Europa, lasciò un partito in rovina. Dopo la debacle e l’umiliazione subita dall’onnipotente Mitsotakis, la formazione politica che un tempo era stata il faro della sinistra europea ha iniziato a sgretolarsi. Tsipras ha puntato il dito: «Le forze progressiste a cui abbiamo chiesto collaborazione durante il periodo pre-elettorale erano schierate quasi esclusivamente contro Syriza. E ieri, al momento della storica vittoria elettorale della destra, hanno festeggiato più della ND il calo dei consensi del nostro partito”, ha detto dopo la conoscenza dei risultati. L’ex primo ministro ha lasciato tutte le sue cariche e ha lasciato la formazione, che è entrata in una spirale di lotte per la leadership che ha quasi causato la decomposizione del gruppo. Per cercare di ricomporsi e iniziare una nuova fase, Syriza ha indetto le primarie. Dopo il primo turno è arrivata la sorpresa: l’ex analista di Goldman Sachs Stefanos Kasselakis, un esterno, un intruso – dall’età di 14 anni e fino a quel momento aveva vissuto negli Stati Uniti – ha vinto, contro ogni pronostico, le elezioni interne. Ha confermato la sua vittoria al secondo turno e ha conquistato il potere nel partito. Questa vittoria ha portato gioia e diffidenza in egual misura: era un volto nuovo ed era “arrivato” per riformulare il partito, lontano dalle dinamiche viziate del passato. D’altra parte, è stato visto da una parte importante della formazione come un opportunista estraneo. Le dimissioni non si fecero attendere e alcuni membri storici, come Efi Achtsioglou, ex ministra del Lavoro tra il 2016 e il 2019 nell’esecutivo di Tsipras e uno dei volti più riconoscibili della formazione, abbandonò il gruppo. Altri furono costretti a farlo. Il regno del “Golden Boy”, tuttavia, fu breve: nel settembre 2024 subì una mozione di censura promossa da un gruppo del Comitato Centrale scontento della direzione personalistica che stava prendendo il partito e dovette andarsene. Quello che è successo negli ultimi anni fa sì che, per molte persone, Syriza sia diventato un partito praticamente irrilevante nel panorama politico greco. “La reazione del partito alla leadership di Kasselakis e il modo in cui lo ha trattato lo hanno danneggiato. Syriza è diventato un prodotto politico poco elegante“, ritiene Siakas. Anastasia Veneti, che non entra nel merito della validità politica di Kasselakis, ne sottolinea il carisma e il fatto che in poco tempo sia diventato un volto riconoscibile, un’entità a sé stante, soprattutto in un momento in cui la gente ”presta più attenzione all’immagine che alla sostanza”. Dopo l’uscita di Kasselakis e un altro turno di primarie, ora la leadership del partito è nelle mani di Socratis Famellos, deputato di Syriza dal 2015 e viceministro dell’Ambiente e dell’Energia tra il 2016 e il 2019. L’attuale leader del partito ha basato la sua campagna sull’idea di “una nuova fase”, ma la verità è che da quando è stato eletto, alla fine di novembre 2024, poco è cambiato nel partito. Il punto debole di Famellos è la sua mancanza di carisma politico. “Si sta impegnando molto, ma non sta ottenendo risultati. Purtroppo, non gode di questo tipo di riconoscimento tra l’elettorato, e lo vediamo nei sondaggi“, diagnostica Veneti, che riassume il tutto in una frase: ”Famellos non è Tsipras. Se vuole competere non solo con Mitsotakis, ma anche con Konstantopoulou (Verso la Libertà[1]) o Androulakis (PASOK) dovrà rafforzare la sua immagine e rendersi più riconoscibile, oltre a continuare a lavorare sui punti deboli del partito, indebolito dal fallimento del 2023 e da tutto ciò che ne è seguito. LE ALTRE SINISTRE (CHE NON SONO SYRIZA) Nel paniere della “sinistra greca” si trovano oggi diversi partiti, alcuni dei quali nati come scissioni di Syriza, come nel caso di MEra 25, guidato dall’ex ministro delle Finanze Yannis Varoufakis, Néa Aristerá (Nuova Sinistra) o il già citato Plefsi Eleftherias (Verso la Libertà). Nello spettro progressista si trovano anche gli anarchici di Antarsya – che non si presentano alle elezioni –, lo storico KKE (Partito Comunista Greco) o il partito di recente creazione di Stefanos Kasselakis Kínima Dimokratías (Movimento per la Democrazia). Tra le scissioni di Syriza spicca Verso la libertà, guidato da Zoi Konstantopolou, che negli ultimi anni è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel panorama politico greco. Figlia di personaggi di spicco nella lotta contro la dittatura dei colonnelli in Grecia (1967-1974), Konstantopolou è stata presidente del Parlamento greco dal febbraio 2015 fino all’estate dello stesso anno. Dopo che Alexis Tsipras ha ignorato il 61,3% della popolazione greca che ha votato contro la firma di un terzo memorandum, Konstantopoulou ha lasciato Syriza. Da allora, quando ha fondato il proprio partito, ha acquisito sempre più peso sulla scena politica greca. Non abbastanza, tuttavia, per poter affrontare Mitsotakis. La popolarità di Konstantopolou oscilla dal 3% al 10% in alcuni momenti. «Il problema di Konstantopolou è che guida un partito unipersonale, non possiamo parlare di una formazione politica con una struttura e una base stabile. Per questo motivo è considerato un partito di tendenza», spiega Yorgos Siakas. Una visione condivisa da Anastasia Veneti, che ritiene che il partito di Konstantopolou sia iperpersonalizzato. “Il partito è lei”. La diagnosi condivisa dagli analisti è che la popolazione greca si avvicina o meno al partito a seconda di ciò che fanno le altre formazioni, il che impedisce di parlare di un modello di intenzione di voto stabile. “C’è un modello di popolarità in ascesa, ma non raggiunge il 12% o il 13%. Questa è chiaramente una buona opportunità per il ritorno di Tsipras”, sostiene Siakas, che ritiene che in Grecia il clima sia favorevole alla nascita di nuove formazioni di sinistra. Un’altra formazione inizialmente interessante, nata da una scissione di Syriza e che ha perso slancio negli ultimi anni, è MeRA25. Questo progetto, nato tra il 2017 e il 2018 e guidato in origine dall’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, attualmente non ha alcun deputato o deputata in Parlamento. Nelle ultime elezioni generali ha ottenuto il 2,63% dei voti e non ha raggiunto la soglia del 3% necessaria per entrare in Parlamento. Infine, anche se non può essere considerata una formazione di sinistra, non si può non vedere l’ascesa del  PASOK, che nelle ultime europee ha sottratto a Syriza il secondo posto in Grecia. La figura del suo leader, Nikos Androulakis, è in ascesa ed è un fattore da tenere in considerazione. «Il discorso tenuto da Androulakis a Salonicco, in occasione del già citato V Vertice Metropolitano, è stato uno dei migliori che abbia mai pronunciato. La sua leadership era solitamente molto debole, ma le cose stanno cambiando», spiega Veneti, che rileva anche lo sviluppo di un programma elettorale molto più solido e definito. “Credo che Androulakis potrebbe essere un rivale competitivo per Mitsotakis, ha acquisito fiducia e appare più forte”. Una domanda che si pongono gli elettori di sinistra nel Paese è se, in vista delle prossime elezioni generali – previste per luglio 2027 – ci sia la possibilità che tutti questi gruppi formino un fronte comune, cosa che al momento sarebbe da escludere. Se si mantenessero le percentuali di voto del 2023, una coalizione formata da Syriza, PASOK, KKE, Plefsi Eleftherias e MeRA25 potrebbe raggiungere circa il 40%. “Si dovrebbe fare. Tutti questi leader politici dovrebbero sedersi a un tavolo e riflettere su come rafforzare la sinistra nel suo complesso e cercare di trovare il modo di entrare in contatto con la gente, perché credo che questo sia il problema principale dei partiti di sinistra in generale. Hanno perso la capacità di rispondere alle esigenze della popolazione“, rileva l’analista. Sebbene ci siano più punti di unione che di divisione in tutti questi gruppi, in politica, e questa sembra una premessa universale, ”gli interessi personali e/o gli ego tendono a prevalere sulle questioni politiche”, sostiene. In ogni caso, e in questo concordano tanto Siakas como Veneti, se c’è qualcuno in grado di unire tutte queste fazioni di sinistra, quello è Alexis Tsipras, «perché è una figura molto potente», sottolinea Veneti. LA FORZA DI NUOVA DEMOCRAZIA A prescindere dall’ipotetico ritorno di Tsipras, dalle fluttuazioni di popolarità di Zoi Konstantopoulou o dalla possibilità effimera di creare un fronte di sinistra, ciò che sembra evidente è che, al momento, non esiste un rivale in grado di mettere in ombra Mitsotakis. Nessuno dei recenti scandali ha provocato un crollo nella percezione da parte dei cittadini greci, anche se la manifestazione che si è tenuta nel febbraio 2025 per chiedere giustizia per le vittime dell’incidente di Tempi è stata una delle più massicce degli ultimi decenni. Dalla scomparsa, il 7 ottobre 2020, del gruppo neonazista Alba Dorata, Nuova Democrazia ha saputo approfittare del vuoto lasciato e raccogliere alcuni dei voti di coloro che un tempo votavano per la formazione ultra. Nel cuore del partito al governo convivono ora diverse fazioni di centro-destra e di estrema destra, ed è proprio qui che risiede il nocciolo della questione: l’ampiezza di ciò che questo partito abbraccia. Tuttavia, l’offerta dell’estrema destra è ampia: nelle ultime elezioni generali, quelle in cui Syriza ha subito una pesante sconfitta, il partito di ideologia neonazista Spartiátes (Spartani), sotto l’egida di Ilias Kasidiaris (ex leader di Alba Dorata e attualmente in carcere), ha ottenuto il 4,68% dei voti. Questo non è l’unico partito di ustradestra in parlamento dove coabita con Nike [Victoria], legato alla chiesa ortodossa, fondato da Dimitris Natsios, e con un’ideologia nel fondamentalismo religioso, e Ellinikí Lisi (Soluzione greca) che promuove i valori tradizionali religiosi e l’ultranazionalismo ed è capitanato da Kyriakos Velopoulos. Ioannis Katsaroumpas prevede che, se da qui alle elezioni l’estrema destra trovasse una figura di consenso, ci sarebbero possibilità di un fronte comune per le elezioni generali del 2027. «Data l’importanza della questione migratoria in Grecia, credo che l’estrema destra crescerà nel Paese», spiega. Se ciò accadesse, forse la sinistra dovrebbe ripensare alla possibilità di unirsi, come è avvenuto in altri paesi, come la Francia o la Spagna, in una sorta di coalizione comune. Per il momento, tuttavia, questa opzione non sembra essere sul tavolo. Veneti, Katasaroumpas e Siakas hanno previsioni diverse su quale direzione possa prendere la sinistra greca. Katsaroumpas, ad esempio, ritiene che al momento non ci sia nessuno in quello spettro politico in grado di contrastare Mitsotakis e lo dice chiaramente: “La principale opposizione a Nuova Democrazia verrà dalla destra o dall’estrema destra”, prevede. Più ottimista è Siakas, convinto che, in caso di ritorno di Tsipras, questi potrebbe diventare un forte rivale. Veneti è prudente. “In uno scenario come quello attuale, tutto può succedere”, conclude. DIECI ANNI DI DISASTRO L’estate del 2015, precisamente il 5 luglio, non solo ha segnato una svolta per la sinistra greca, ma anche per il resto della sinistra europea. Il 5 luglio, alla domanda se volessero che il loro governo firmasse un terzo memorandum, il 61,3% della popolazione che si è recata alle urne ha votato no: “oxi”, in greco. Stufi di un’austerità imposta da una troika che s’era dimostrata implacabile, i greci lo avevano espresso con chiarezza. Il “sí” ottenne un 38,69% dei voti. Tra le due opzioni più di venti punti percentuali di differenza. Il 62,5% della popolazione si recò alle urne. Nei mesi precedenti, i creditori avevano respinto in maniera sistematica qualsiasi proposta negoziale col governo di Atene. In Grecia, la popolazione si era sentita umiliata da Bruxelles e da una UE che la guardava dall’alto in basso e la minacciava di espulsione dall’eurozona. Sebbene Tsipras avesse promesso in tutti i modi che avrebbe ascoltato il mandato dei greci, quando è arrivato il momento ha fatto esattamente il contrario: ha capitolato davanti alla Troika. Messo alle strette dai creditori e con poche opzioni a disposizione, l’ex leader di sinistra ha firmato il terzo memorandum e ha accettato le condizioni imposte dai leader europei e dal FMI. In Grecia, gli elettori di sinistra considerarono la capitolazione come un tradimento; e il trauma è ancora vivo adesso. C’è chi continua a riferirsi a Tsipras come “prodotis”, traditore, in greco. La delusione, inoltre, non è rimasta confinata entro i confini ellenici, ma ha colpito duramente il cuore della sinistra europea. Syriza rappresentava un simbolo, e da un giorno all’altro tutto è crollato. “La capitolazione di Tsipras ha provocato un trauma alla sinistra europea, un trauma dal quale non si è ancora ripresa”, sostiene Ioannis Katsaroumpas. Nel 2015 tutti gli occhi erano puntati su Tsipras, che si era presentato all’Europa come un’alternativa al sistema. Il suo inaspettato cambiamento di posizione ha fatto capire che se Syriza non ce l’aveva fatta, nessuno avrebbe potuto farcela. Gli anni successivi e il futuro delle diverse sinistre greche sono stati profondamente segnati da quella decisione. [1] un partito di ispirazione antisistema fondato nel 2016 dall’ex-vicepresidente del Parlamento ellenico Zōī Kōnstantopoulou. I suoi membri derivano da “Unità Popolare”, scissione a sinistra di Syriza del 2015. The post La lunga fine dell’estate della sinistra greca first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo La lunga fine dell’estate della sinistra greca sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Elezioni in Cile: una comunista contro le tre destre
JEANNETTE JARA, SOSTENUTA DA TUTTA LA SINISTRA E DAL PRESIDENTE BORIC, PERDEREBBE IN QUASI TUTTI GLI SCENARI AL SECONDO TURNO (JAIME BORDEL GIL) Questo articolo è tradotto da El Salto, media indipendente dello Stato spagnolo Il 16 novembre il Cile tornerà alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali che decideranno chi succederà a Gabriel Boric al Palacio de La Moneda. Il Cile che domenica andrà a votare è molto diverso da quello che quattro anni fa ha dato la vittoria a un giovane deputato proveniente dal movimento studentesco. Sarà un Cile molto più numeroso: l’introduzione del voto obbligatorio dopo il primo plebiscito costituzionale del settembre 2022 ha raddoppiato il numero di elettori. Mentre nelle precedenti elezioni presidenziali era normale che partecipassero circa sette milioni di persone, nelle quattro elezioni tenutesi dall’introduzione del voto obbligatorio il numero ha superato i 13 milioni. Tre di queste elezioni erano legate ai diversi plebisciti costituzionali (2022 e 2023), mentre la quarta era quella municipale e regionale del 2024. Pertanto, nulla sembra indicare che l’affluenza sarà inferiore in un’elezione presidenziale in cui l’esperienza ci dice che le persone tendono a partecipare di più. Il Cile che voterà domenica è anche un Paese più incline alla destra, dove la candidate del partito al governo, Jeannette Jara, sostenuta da tutta la sinistra e dallo stesso presidente, parte favorita al primo turno, ma perderebbe in quasi tutti gli scenari del secondo turno. Se i sondaggi non sbagliano, sembra che il grande dubbio delle elezioni sia vedere chi affronterà Jara al ballottaggio del prossimo 14 dicembre. E il paradosso è che chi lo farà avrà molte possibilità di diventare il prossimo presidente del Cile, nonostante non raggiunga nemmeno il 30% delle preferenze al primo turno. A questo aspirano diversi candidati di destra e di estrema destra. Quello che ha più possibilità è José Antonio Kast, che ha già affrontato Boric nel 2021 e che in questa campagna ha cercato di assumere un atteggiamento più moderato e presidenziale che gli consenta di superare la campagna della paura che gli ha fatto perdere le precedenti elezioni. A tal fine, Kast ha deciso di concentrarsi sui temi più trasversali nell’odierno Cile: la sicurezza, la criminalità o l’immigrazione irregolare, lasciando in secondo piano le questioni più controverse come i diritti civili e tutto ciò che riguarda la cosiddetta “battaglia culturale”. Non si è trattato tanto di una moderazione programmatica, quanto di una selezione pragmatica dell’agenda. La strategia non è costata nulla al candidato del Partito Repubblicano. Ancora più a destra è emerso un concorrente che lo rimprovera di essersi moderato e che gli sta alle calcagna nei sondaggi: Johannes Kaiser. Kaiser, che guida una scissione del partito di Kast, rappresenta un’estrema destra di stampo libertario, molto neoliberista in campo economico e conservatrice in campo sociale, con posizioni ancora più dure di quelle di José Antonio Kast, che accusa di aver dimenticato la battaglia culturale. Lontana da questa lotta c’è Evelyn Matthei, la candidata della coalizione della destra classica cilena che ha portato due volte alla presidenza Sebastián Piñera e che oggi potrebbe rimanere fuori dal ballottaggio per la seconda elezione consecutiva. Matthei, che all’inizio era la favorita, si è indebolita con il passare delle settimane e potrebbe addirittura scendere al quinto posto. La sua campagna, incentrata sul valorizzare il suo profilo di amministratrice esperta come sindaco ed ex ministro del Lavoro, non è riuscita a sedurre i cileni, nonostante il sostegno di gran parte dell’élite politica ed economica del Paese. Non sono tempi facili per profili come quello di Matthei, troppo identificata con le élite cilene e priva del pedigree anti-establishment di cui godono altri candidati. Accanto a lei, nei sondaggi compare un altro candidato, Franco Parisi, con un discorso fortemente antielitario che rinuncia a collocarsi a destra, ma le cui proposte si inclinano chiaramente verso questo lato dello spettro politico. Parisi sembra convincere nei sondaggi circa il 10% dei cileni, e la grande incognita è se una candidatura come la sua, fortemente populista e antipolitica, possa sorprendere grazie al suo successo tra i nuovi elettori “obligados”. Domenica sera avremo la risposta. UN CONTESTO FAVOREVOLE ALL’ESTREMA DESTRA Come possiamo vedere, lo scenario politico cileno è chiaramente scoraggiante per la sinistra, che nonostante abbia molte possibilità di imporsi al primo turno, avrà grandi difficoltà al secondo. Negli ultimi quattro anni, infatti, il panorama politico è cambiato radicalmente, spostando l’asse politico verso destra. La prima cosa da sottolineare è il profondo cambiamento nelle priorità dei cileni. Fin dall’inizio, il mandato di Boric è stato segnato dalla crisi migratoria e dalla sicurezza, che sono rapidamente diventate le principali preoccupazioni dei cittadini. Un contesto che ha permesso alle diverse opzioni di destra di monopolizzare il dibattito con i propri temi e ha costretto il governo a muoversi su un terreno in cui continua a non trovarsi a proprio agio. Sebbene molte delle cose che si propongono siano irrealizzabili, la destra ha un programma e ricette chiare in materia di sicurezza: il pugno di ferro. Nel frattempo, la sinistra continua a non trovare il suo spazio, intrappolata tra l’apparire troppo morbida e buonista o l’avvicinarsi troppo a ciò che propone la destra. In questo scenario, chi sta riuscendo a convincere i cileni di poter risolvere i loro problemi sono la destra e l’estrema destra. A questa agenda dominata da temi cari all’estrema destra si aggiunge l’usura del governo di Gabriel Boric. Sebbene la sua popolarità non sia crollata come è successo ad altri presidenti, non è riuscito a superare il terzo della popolazione che lo ha sostenuto durante tutta la legislatura. In altre parole, oltre il 60% della popolazione non approva l’operato dell’attuale governo, il che lascia ampio margine di crescita a qualsiasi candidato dell’opposizione. Tutto questo grava su Jeannette Jara che, nonostante sia stata una delle figure di spicco del governo Boric nel suo ruolo di ministra del Lavoro, ha ricevuto un fardello troppo pesante. Ecco il paradosso della candidata comunista in queste elezioni: la sua principale risorsa in termini di gestione la lega inevitabilmente al governo, il che oggi è un peso troppo pesante da sopportare. IL MISTERO DEL VOTO OBBLIGATORIO Come se la situazione non fosse già abbastanza complicata, a queste elezioni si aggiunge un elemento che aumenta l’incertezza e che, salvo sorprese, non sembra favorire la sinistra: il voto obbligatorio. Circa cinque milioni di cileni che non erano soliti votare parteciperanno a queste elezioni, rischiando di essere sanzionati economicamente se non si recheranno alle urne. Si sa ancora poco di questi elettori obbligati, difficili da catturare nei sondaggi, ma i pochi indizi che abbiamo non sembrano particolarmente incoraggianti per la sinistra. Si dice che questi nuovi elettori siano più di destra, poiché sono stati determinanti nel rifiuto della proposta costituzionale del 2022 e nella vittoria del partito di Kast nel secondo consiglio costituzionale eletto nel maggio 2023 dopo il fallimento del primo processo, ma le cose non sono così semplici. Ciò che ci dicono i pochi sondaggi che hanno messo l’accento sui cosiddetti “obbligati” è che si tratta di elettori poco informati politicamente, senza una chiara appartenenza partitica e fortemente antipolitici. Si preoccupa delle stesse questioni che preoccupano la maggior parte dei cileni, come la sicurezza e la criminalità, ma ha un maggiore rifiuto nei confronti dei partiti e della classe politica. Da qui il fatto che nelle tre elezioni sul processo costituente in cui ha votato, lo ha fatto controcorrente. Prima respingendo la proposta costituzionale sostenuta dal governo. Poi dando la maggioranza nel secondo consiglio costituzionale al Partito Repubblicano di Kast, il principale oppositore. Infine, respingendo nuovamente la proposta costituzionale uscita dall’organo costituente con maggioranza repubblicana. Se fosse un elettore di destra, avrebbe approvato questa proposta, che aveva un taglio chiaramente conservatore. Ma il suo rifiuto ci porta a pensare che ciò che motiva il suo voto sia un sentimento più antipolitico che ideologico. Per quanto riguarda i candidati presidenziali, le sue preferenze sembrano orientarsi verso José Antonio Kast. Tra gli altri candidati, Parisi e Kaiser sembrano funzionare meglio tra gli elettori “obbligati” che tra quelli abituali, proprio al contrario di Jara e Matthei che, secondo i sondaggi, hanno più sostegno tra coloro che già votavano da prima dell’obbligatorietà. Questi dati sembrano essere coerenti con il suo profilo: i candidati più identificati con i partiti tradizionali si nutrono fondamentalmente dei votanti abituali, mentre gli outsider ottengono più sostegno da coloro che finora non si sono recati alle urne. Ci sono ancora molte cose da sapere su questo nuovo tipo di elettore che sarà fondamentale nelle elezioni, ma da quel poco che sappiamo finora, non sembra che la sua presenza favorirà particolarmente la sinistra. JEANNETTE JARA HA DELLE POSSIBILITÀ? Nonostante lo scenario poco incoraggiante per Jeannette Jara, la candidata del Partito Comunista non ha ancora perso tutto al secondo turno. Come ci ha insegnato l’elezione del 2021, le elezioni presidenziali a doppio turno prevedono due campagne completamente diverse, quindi bisognerà aspettare di vedere come si svolgerà la seconda. Se Jara vuole vincere, dovrebbe innanzitutto ottenere un buon risultato alle urne domenica. Se la candidata del partito di governo riuscisse a superare il 30% e a ottenere un margine di oltre cinque punti sul suo avversario, sarebbe un primo segnale forte che le consentirebbe di entrare con forza nella corsa presidenziale definitiva. Probabilmente non sarà sufficiente se dovrà affrontare Kast, che sarà sostenuto quasi all’unanimità dagli elettori di Kaiser e Matthei. Ma cosa succederebbe se fosse un’altra persona a qualificarsi per il secondo turno? Ecco la grande possibilità per Jara: se fosse Kaiser e non Kast a competere contro di lei al ballottaggio. A differenza di Kast, che dopo la sua esperienza nel 2021 ha evitato di parlare di certi argomenti, Kaiser non ha avuto remore nel difendere il colpo di Stato del 1973 o la liberazione dei militari della dittatura condannati per tortura e violazioni dei diritti umani. Il suo ruolo in queste elezioni è stato quello di un’estrema destra senza complessi, profondamente ideologica e che “osa difendere ciò che Kast non difende più”. Questo può essere utile per il primo turno, ma lascia dei debiti difficili da pagare nel secondo. Se il candidato libertario dovesse sorprendere tutti e riuscire a passare al secondo turno, dovrebbe confrontarsi con il proprio passato e lascerebbe un’occasione d’oro a Jara: quella di spostare il quadro della campagna elettorale dal settembre 2022 all’ottobre 1988. Nel settembre 2022, il Cile ha respinto con forza la proposta costituzionale promossa dal governo Boric. I cileni non solo hanno respinto il testo, ma anche la scarsa performance del governo di Gabriel Boric nei primi mesi del suo mandato. Se l’elezione si svolge in termini di rifiuto o approvazione del governo, Jara è perduta. Ma se riuscirà a cambiare il quadro della campagna come è successo nel 2021, e la disputa si svolgerà tra una candidatura che difende la democrazia e un’altra che la minaccia, il risultato potrebbe essere diverso. Jara è interessato a tornare all’ottobre 1988, quando il 55% dei cileni ha respinto il pinochetismo e ha abbracciato la democrazia nell’iconico referendum del “No”. Non sarà facile se la candidata del partito di governo dovrà affrontare Kast, che si è eretto a principale oppositore del governo e che da tempo non incute più timore ai cileni. Ma se fosse Kaiser ad arrivare secondo, la situazione potrebbe forse essere più favorevole per Jara. Non sarà facile in nessun caso, e vedremo se nelle prossime settimane la candidata del Partito Comunista Cileno riuscirà a imporsi sulle diverse versioni della destra pinochetista che le si opporranno. The post Elezioni in Cile: una comunista contro le tre destre first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Elezioni in Cile: una comunista contro le tre destre sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Regno Unito, come i verdi sono diventati rossi
BASTA BRAVI RAGAZZI: STORIA DEL GREEN PARTY, DALLE ORIGINI NEGLI ANNI ’70 FINO ALLA LEADERSHIP DI ZACK POLANSKI (ADAM RAMSAY) questo articolo è tratto dal media indipendente britannico Novara Media Quando entrai nel Partito Verde scozzese nel 2001, i Verdi contavano circa 6.000 iscritti nelle tre formazioni del Regno Unito (in Scozia, in Inghilterra e Galles, e nell’Irlanda del Nord). Di recente, più o meno lo stesso numero si è iscritto in un solo giorno. Solo in Inghilterra e Galles, il Partito dei Verdi ha superato i Conservatori, raggiungendo il record di 150.000 membri – due volte e mezzo quelli che aveva quando Zack Polanski (il nuovo leader del partito, classe 1982, si definisce come “eco-populista”: un approccio che combina ambientalismo con politica economica di sinistra e attenzione alle disuguaglianze annunciò la sua candidatura alla leadership, lo scorso maggio, ndr). Gran parte del merito di questa esplosione di iscrizioni va proprio a Polanski, con il suo carisma naturale, la disponibilità ad affrontare controversie e un messaggio chiaramente di sinistra. Ma questo “eco-populismo”, per quanto incarnato da Polanski, non è iniziato con lui. Polanski è la conclusione di una storia molto più lunga: la storia di come i Verdi sono diventati un partito esplicitamente di sinistra. Da People a Ecology a Green “Molte delle nostre idee sono l’opposto della visione della vita basata sulla competizione sfrenata”, dichiarava il Manifesto for Survival del 1974 del People Party, il predecessore del Partito dei Verdi. “Punteremo a una società in cui i bisogni di base siano soddisfatti, ma in cui i lussi siano difficili da ottenere.” Fondato due anni prima da un gruppo di quattro amici a Coventry, People proponeva una tassa del 100% sui redditi o profitti oltre certe soglie, una riforma radicale della proprietà terriera, un reddito di base universale e il disarmo nucleare. Ma, poiché riteneva che la “sovrappopolazione” fosse in parte responsabile della crisi climatica, il partito proponeva anche rigidi controlli sull’immigrazione. Nel 1974 ottenne circa 4.500 voti in sette collegi – un risultato tutto sommato significativo. People era di sinistra, nel senso che si opponeva al capitalismo e sosteneva il controllo democratico dell’economia. Ma non apparteneva alla sinistra. I fondatori provenivano da un ambiente borghese, con tratti vagamente conservatori (uno era un ex consigliere Tory), e le loro pulsioni malthusiane avevano un’impronta decisamente conservatrice. Il loro obiettivo non era rovesciare il capitalismo nell’interesse della classe lavoratrice, ma adattarlo per garantire la sopravvivenza umana di fronte al collasso climatico e all’annientamento nucleare. Negli anni ’70, partecipanti al movimento di protesta del 1968 che aveva attraversato il mondo iniziarono a fondare partiti verdi, soprattutto in Europa. People presto accolse molti di questi “sessantottini”, spostandosi così più a sinistra. Nel 1975 cambiò nome in “Ecology Party”. In parte per sottolineare il suo ambientalismo; in parte come metafora dell’interconnessione fra i problemi. “L’ecologia è la scienza delle relazioni”, mi ha spiegato Derek Wall, storico del partito ed ex portavoce principale. La prima “ondata verde” arrivò qualche anno dopo, alle elezioni del 1979, quando Ecology riuscì a presentare abbastanza candidati da ottenere uno spazio di propaganda elettorale: la sua base iscritti si gonfiò brevemente da circa 500 a 5.000 (anche se poi calò). Per molti sessantottini, il problema della sinistra tradizionale – partiti comunisti e socialisti, sindacati – non era la critica al capitalismo, ma il suo essere troppo maschile, statalista e poco attenta all’ambiente. Negli anni ’80 e ’90, l’Ecology Party sostenne lo sciopero dei minatori e chiese il disarmo nucleare unilaterale. Nel 1981, ricorda Wall, lo storico marxista e leader della campagna antinucleare EP Thompson intervenne alla conferenza del partito. Nel 1985, Ecology cambiò nome in Green Party, riflettendo il successo dei Verdi tedeschi che, pur più giovani, erano riusciti a sfondare grazie al sistema proporzionale e al vasto movimento antinucleare. Il partito britannico ereditò anche i nomi delle sue due principali fazioni dai tedeschi: i “realos” (realisti), favorevoli a professionalizzazione, struttura, modernizzazione ed elettoralismo; e i “fundis” (fondamentalisti), più anarchici e generalmente contrari all’idea di un leader. Wall era un fundi di primo piano, Caroline Lucas una realo. Alla fine degli anni ’80, con la crescente preoccupazione per questioni ambientali come il buco nell’ozono e con tutti e tre i principali partiti in crisi, molti si avvicinarono ai Verdi. Il partito ottenne il 15% alle europee del 1989, attirando una nuova ondata di iscrizioni – la seconda ondata verde. Ma il partito non aveva la capacità di gestire quell’energia: la leggenda narra che mancasse persino il personale per aprire le buste e versare gli assegni. Inoltre, la credibilità conquistata nel 1989 fu compromessa dall’ingresso del celebre commentatore calcistico David Icke, che divenne rapidamente il volto più noto del partito e poi cominciò a esprimere pubblicamente teorie cospirazioniste bizzarre. Negli anni ’90, molti attivisti si spostarono verso movimenti anarchici o affini: squat, rave, campagne contro le strade e contro la poll tax. Altri preferirono la via elettorale, pur senza ottenere risultati significativi. La divisione tra realos e fundis si approfondì, generando amarezza e autoreferenzialità, e il partito finì per arrancare. Nel contesto del dopoguerra fredda, molti membri dei Verdi rifiutavano l’etichetta di socialisti. Quando mi iscrissi nel 2001, l’idea dominante era che il partito dovesse considerare assi diversi dalla classe – genere, razza, sessualità, geografia – ma spesso ciò degenerava in una sorta di allergia a parlare di classe. Era in parte il sintomo della tecnocrazia anti-ideologica diffusa nella politica progressista degli anni ’90 e 2000: si arrivava a conclusioni di sinistra su singole questioni senza inserirle in un quadro coerentemente di sinistra. Ma tutto stava per cambiare di nuovo. Un po’ meno conversazione (sul clima). Facevo parte di una generazione relativamente piccola di Verdi millennial entrati nel partito durante gli anni Duemila – nel mio caso, spinto dal movimento anti-globalizzazione, dalle preoccupazioni per il cambiamento climatico e dall’elezione di un deputato verde nel primo parlamento scozzese nel 1999 (nel 2003 i Verdi ottennero 7 seggi, alimentando una mini-ondata di iscrizioni). La nostra generazione si trovò presto e capì che non rientrava perfettamente in nessuna delle fazioni esistenti. Eravamo realos – andavamo in giacca alle conferenze e votammo per introdurre un leader invece dei due “portavoce principali” in un aspro referendum del 2007 – ma, come molti fundis, eravamo socialisti. Insieme, noi nuovi Young Greens sviluppammo un’analisi condivisa dei problemi del partito e ci mettemmo a risolverli attraverso le sue strutture democratiche interne; trovando lavoro nel partito o presso il numero crescente dei suoi rappresentanti eletti; candidandoci come consiglieri comunali; e attraverso il dibattito online (un gruppo di noi fondò il sito Bright Green proprio con questo scopo). Le nostre prescrizioni per il partito erano le seguenti. Primo, dovevamo parlare meno del collasso climatico. Anche se la maggior parte di noi era attivista climatica, l’ambientalismo era l’unica cosa che tutti già sapevano dei Verdi. Inoltre, non si poteva risolvere la crisi climatica senza cambiare il sistema economico, che stava rovinando la vita agli elettori tanto quanto il pianeta. Questo significava costruire messaggi radicati nelle preoccupazioni materiali delle persone. Dicevo spesso ai membri: “Crediamo che le nostre politiche migliorerebbero la vita della maggior parte delle persone, ma quasi mai glielo diciamo.” La campagna per il sindaco di Londra del 2008 di Siân Berry, con lo slogan “Una Londra verde è una Londra più accessibile”, fu un chiaro passo avanti. A Oxford, dove vivevo allora, conducemmo campagne comunali nel 2012, 2013 e 2014 incentrate sull’opposizione ai tagli all’assistenza sociale e sulla difesa dei diritti dei migranti dall’ondata di Faragismo già allora crescente, e conquistammo seggi ai danni dei laburisti, percepiti come troppo timidi. A livello nazionale, il partito iniziò a formare i candidati locali affinché sondassero le preoccupazioni degli elettori e poi scrivessero i loro volantini proponendo soluzioni verdi: non nascondere politiche radicali, ma parlarne in modo rilevante per le preoccupazioni quotidiane delle persone. Secondo, ritenevamo necessario essere più chiari nel definirci di sinistra. Fino al 2010 circa, alcuni Verdi sostenevano che il partito non fosse né di sinistra né di destra, ma “in avanti”. Di solito queste persone avevano una politica istintivamente progressista, ma priva di un’analisi del potere. La nostra generazione era esplicitamente di sinistra, e pensava che dirlo fosse importante per vincere le elezioni: la gente non ti vota se non sa cosa rappresenti. Molti Verdi più anziani non erano d’accordo. Avevano interiorizzato quel senso comune blairiano post-guerra fredda secondo cui era impossibile vincere le elezioni ammettendo di voler nazionalizzare o tassare i ricchi. Bisognava dare ai principi socialisti una patina di accettabilità verde. Come mi disse Berry: “Molti Verdi – non io, però, e neanche [l’ex leader] Caroline Lucas – erano decisamente nervosi all’idea di dichiararsi socialisti prima della leadership di Natalie [Bennett].” Indicavamo sondaggi che mostravano come le idee socialiste fossero, in realtà, ampiamente popolari. I centristi avevano già molti altri partiti; e comunque, la stampa di destra smascherava facilmente il tentativo di nascondere principi di sinistra dietro politiche ambientaliste, bollando chi ci provava come “cocomeri”: verdi fuori, rossi dentro. Con Natalie Bennett, questa timidezza ideologica iniziò a svanire. Alla conferenza del 2012 – la prima di Bennett come leader – il partito fu schierato chiaramente a sinistra della posizione timida e ambigua del Labour sull’austerità. Nel suo discorso, Bennett invitò i membri a “non chiedersi cosa i sindacati possano fare per noi. Chiedetevi cosa possiamo fare noi per i sindacati.” Durante il suo mandato, Bennett definì un’agenda economica radicale, anti-neoliberista e anti-austerità che rispondeva allo spirito del post-2008. Alla stessa conferenza, proposi una politica, scritta originariamente da Peter Tatchell, che sosteneva il diritto dei lavoratori a rilevare la propria azienda e trasformarla in una cooperativa. Fu approvata a larga maggioranza. Cose ancora più radicali erano in corso all’Università di York, dove la società verde, guidata dall’oggi giornalista Josiah Mortimer, propose di ridefinire costituzionalmente il Partito dei Verdi come “un partito di giustizia sociale e ambientale, che sostiene una trasformazione radicale della società a beneficio di tutti e dell’intero pianeta”. La proposta passò con il 70% dei voti. Per me rappresentava una generazione ancora più giovane di Verdi, coinvolta nelle proteste studentesche del 2010 e iscrittasi in gran parte grazie alla forte opposizione della neo-eletta deputata verde Caroline Lucas all’aumento delle tasse universitarie e all’austerità. Clive Lord, uno dei membri originari di People e tra i principali oppositori dei cambiamenti che stavamo introducendo, era furioso: definì me e altri promotori delle riforme “pirati” che “hanno abbordato la nave e stanno combattendo per prenderne il controllo.” Se noi venivamo spesso attaccati come cocomeri, l’altra fazione pubblicò un bollettino chiamato “il kiwi e il lime” – verdi fino al midollo, non solo fuori (c’era persino chi indicava un terzo gruppo, i “mango”: verdi fuori, gialli/liberali dentro). Addio guru e tecnocrati. Un’altra grande vittoria era arrivata qualche anno prima: nelle politiche del partito sopravvivevano ancora scorie di misticismo hippy anti-scientifico – sostegno all’omeopatia, opposizione alla ricerca sulle staminali e così via – che i media (comprensibilmente) amavano mettere in luce. Gran parte di tutto ciò fu eliminato in un dibattito epico alla conferenza di primavera 2010 del Green Party of England and Wales, giusto in tempo per le elezioni generali. Il passaggio culturale dallo scetticismo verso la tecnologia e i “camici bianchi” della generazione antinucleare al razionalismo pro-scienza della generazione climatica era completato. Per noi, però, essere orgogliosamente di sinistra non significava solo abbandonare le eccentricità. Significava anche abbracciare l’intersezionalità: i diritti delle persone migranti, LGBTQ+ e disabili. Pur essendo già forte in questi ambiti, il partito conservava un residuo malthusiano. L’organizzazione Population Matters, che aveva fatto campagna contro l’ingresso dei rifugiati siriani nel paese (posizione poi ammorbidita), organizzava regolarmente eventi alle conferenze dei Verdi, per esempio. Alla conferenza del 2013, uno dei nostri Young Greens, Sebastian Power, affrontò apertamente l’organizzazione in un dibattito molto seguito, spiegando chiaramente come il neo-malthusianesimo serva a spostare la colpa dai ricchi ai poveri, dai bianchi ai neri, dagli uomini alle donne. L’organizzazione tenta ancora oggi di dialogare con il partito, ma le sue idee sono molto più marginali e difficilmente restano incontestate. Ecco la traduzione in italiano, con lo stesso registro delle parti precedenti: chiara, scorrevole, rigorosa. E significava anche costruire una migliore analisi del potere. Peter McColl, figura di spicco dei Verdi scozzesi della nostra generazione, ricorda che tra il 2005 e il 2015 il partito era pieno di persone ossessionate da una singola “politica pallottola magica”. Alcune erano buone – il reddito di base, la rappresentanza proporzionale, “contrazione e convergenza” – altre meno – come i crediti di carbonio negoziabili. Questa ossessione tecnocratica per le politiche senza un’analisi del potere era un retaggio di quel periodo anti-ideologico tra il crollo del Muro e quello delle banche, quando la storia era presumibilmente finita. (È rivelatore che gli interventi più efficaci di Polanski non riguardino quasi mai politiche specifiche, benché la sua proposta di tassa sulla ricchezza sia molto popolare; arrivano invece quando mette in luce le dinamiche di potere, come i miliardari che tentano di incolpare i migranti per i problemi del paese, o i media di destra che lo attaccano.) La maggior parte di noi riteneva che il partito dovesse essere più audace. Molti addetti stampa e funzionari Verdi sembravano temere le politiche più radicali. Tra molti c’era l’assunto che essere attaccati dai tabloid fosse negativo. Noi invece sentivamo – come Polanski ha dimostrato – che far arrabbiare il Daily Mail fosse un ottimo modo per mobilitare il sostegno progressista. Ripetevo spesso il mantra secondo cui i Verdi avevano una scelta: essere controversi o essere ignorati. Il partito tendeva a preferire la seconda. Questa prudenza, unita ai suoi legami con il movimento pacifista e con il quaccherismo basato sul consenso, e a una generale gentilezza borghese, produceva un tono utile sui pianerottoli, ma destinato ad affogare nelle risse mediatiche. I cambiamenti che hanno portato il partito dov’è oggi furono in parte guidati dalla nostra generazione di Young Greens. In parte, furono guidati da tre donne – Berry, Bennett e Lucas – che, tra loro, portarono il partito in un viaggio verso sinistra lungo tutto il decennio 2010. Sia lode a Lucas. Lucas fu eurodeputata dal 1999 (quando il Labour introdusse la proporzionale alle europee), poi la prima deputata Verde dal 2010 al 2024, e fino a poco tempo fa la figura più nota del partito. Nel 2008, co-scrisse il rapporto originale sul Green New Deal, che impedì agli ambientalisti di accogliere la crisi finanziaria sostenendo l’austerità come misura di decrescita (come alcuni sussurravano all’epoca), e chiese invece gli enormi investimenti necessari per una transizione a zero emissioni. Una volta in parlamento, Lucas divenne una critica centrale dell’austerità e guidò l’opposizione alla privatizzazione del NHS di Cameron. Intorno al 2015, ricordo un’intervista in cui a Lucas venne detto che le sue idee suonavano sospettosamente come socialismo. Lei rispose che i Verdi erano “orgogliosi dei nostri principi socialisti”. Feci un gesto di esultanza. Nello stesso periodo, Green Left mi chiese di tenere un workshop sull’“eco-socialismo”, a cui Lucas partecipò. Alla fine disse qualcosa del tipo: “Ma non è semplicemente questo ciò che è la politica Verde?” Come Polanski, non vedeva alcun bisogno di mettere la parola socialismo al centro, ma non lo avrebbe negato se qualcuno chiedeva. “Abbiamo sempre considerato Caroline Lucas un’alleata”, mi ha detto Mortimer. La maggior parte dei membri entrati prima della recente ondata pro-Polanski si era iscritta per Lucas e per la politica di sinistra e femminista che incarnava. I pochi che sostenevano che la sua non fosse “vera politica Verde”, che secondo loro doveva concentrarsi sul controllo demografico e sulla decrescita, venivano guardati storto. Lucas, insieme a Bennett e Berry, ha posto le fondamenta dell’attuale ascesa. Tra il 2014 e il 2015, tutti e tre i partiti Verdi del Regno Unito erano chiaramente e orgogliosamente di sinistra. In Scozia, il referendum sull’indipendenza diede ai Verdi scozzesi l’occasione di presentare una visione per il paese, generando una crescita di iscritti pari a otto volte. In Inghilterra e Galles, la leader Natalie Bennett girò il paese organizzando assemblee cittadine, delineando una visione altrettanto ampia e trovando una diffusa voglia di radicalismo di sinistra oltre il soffocante bipartitismo e ben più a sinistra del Labour di Ed Miliband. L’iscrizione ai Verdi nel Regno Unito esplose da circa 15.000 a inizio 2014 a oltre 70.000 nell’estate 2015. Molti di questi nuovi membri passarono presto al Labour per sostenere il progetto Corbyn, avviato quello stesso anno; altri, come me, rimasero iscritti ma si allontanarono un po’. Ma molti rimasero attivi. Come Naranee Ruthra-Rajan, iscrittasi nel 2009 “per il sostegno ai servizi pubblici”, poi co-presidente del suo partito locale insieme a Polanski nel 2019 e successivamente parte della sua campagna per la leadership, mi disse: “Avevo già trovato il mio partito.” Corbyn le piaceva, aggiunse, ma “avendo visto da vicino come operava il Labour, non mi attirava”. Navigare il corbynismo. Il periodo 2015-2020 fu difficile per il partito, in parte per la sua strana relazione con il corbynismo. La maggioranza dei Verdi era più in sintonia con il leader del Labour che molti stessi deputati laburisti, e propose ripetutamente patti elettorali a Corbyn, venendo però respinta. In parte fu difficile anche perché molti membri se ne andarono per unirsi al Labour, causando una crisi finanziaria nel partito. In parte, fu un periodo duro perché la Brexit costrinse il partito in scomodi semi-allineamenti con la metà europeista dell’establishment. Come ricordò Berry: “Avevamo alleati davvero strani in quel periodo – centristi e centro-destra pro-UE – e ciò creò un’intera diversa configurazione. Non smettemmo di protestare furiosamente contro l’austerità, ma non era quello su cui i media si concentravano.” Una nicchia che i Verdi individuarono fu che il Labour di Corbyn non aveva colto una crescente radicalizzazione dell’Inghilterra rurale, alimentata in gran parte da uno sviluppo edilizio fuori controllo. L’esplosione dell’attivismo ambientale in Europa nel 2019 – incarnata dall’ascesa di Greta Thunberg e dalla nascita di Extinction Rebellion – fece crescere di nuovo il sostegno ai Verdi, con risultati sorprendenti alle elezioni locali ed europee. Se negli ultimi cinque anni ci sono state difficoltà per il partito, sono state meno sulla politica e più sul tono. Una questione particolarmente spinosa è stata come affrontare i transfobici. Un piccolo gruppo di ossessivi “gender-critical” è stato tollerato troppo a lungo, e il legame culturale con il movimento pacifista basato sul consenso rese il partito troppo lento nell’espellere chi aveva comportamento ostile. Alla fine, membri più giovani vennero eletti nei comitati giusti e tracciarono linee chiare: le convinzioni gender-critical sono permesse, il comportamento transfobico no. Nel 2024, un’ex Verde gender-critical si candidò come indipendente, e molti dei suoi sostenitori fecero campagna per lei contro il candidato Verde, venendo quindi espulsi – liberando il partito, con sollievo di molti, da alcuni dei suoi elementi più dichiaratamente ostili alle persone trans. Molti commentatori non notarono l’incredibile crescita che il partito attraversò in quel periodo. Nel 2018, c’erano circa 200 consiglieri Verdi nel Regno Unito. Ora sono quasi 900. Non è solo per la virata a destra del Labour sotto Starmer, sebbene ciò sia stato cruciale. È anche il prodotto dell’ondata Verde del 2015, che Berry descrisse come “l’eredità di Natalie”. Certo, ci fu una perdita di circa 25.000 membri dopo la fase Corbyn, ma il livello di stabilizzazione – circa 42.000 iscritti – era molto più alto dei circa 14.000 del 2014. Il guru elettorale Verde Chris Williams poté così mettersi al lavoro e, una volta che Starmer sostituì Corbyn, l’iscrizione tornò a crescere, arrivando a 58.000 alla fine del 2024. In parte, questa crescita rifletteva la nostra generazione che diventava adulta: incontrai Williams nel 2005 a un evento degli European Young Greens a Barcellona. Fa parte di un gruppo di millennial Verdi che hanno passato i vent’anni a perfezionare l’arte della campagna sul territorio. A trent’anni, l’avevano padroneggiata. Parte di quel successo arrivò alle elezioni dell’Assemblea di Londra del 2021, quando il partito conquistò tre seggi (era rimasto fermo a due per anni). Il terzo eletto era un membro relativamente nuovo, rapidamente diventato un organizzatore di rilievo in città e un abile comunicatore: Zack Polanski. Quell’estate, i co-leader del partito, Berry e Jonathan Bartley, si dimisero; Berry mi disse che non poteva accettare l’incapacità del partito di fermare la transfobia nelle sue fila. Nel successivo voto, l’allora vice-leader Amelia Womack – figura chiave della nostra generazione di Verdi (ormai non più giovani) – e l’attivista climatica Tam Omond si candidarono per sostituirli, proponendo uno stile comunicativo più audace e un focus sulla crescita dell’iscrizione e quindi della capacità del partito. Furono sconfitti da Carla Denyer e Adrian Ramsay, che puntavano sul fatto di essere candidati nei due collegi chiave per le successive elezioni nazionali, e che la visibilità aggiuntiva li avrebbe aiutati a vincere. Per me, questa appariva come una strategia del tipo “tenere la testa bassa e organizzarsi attorno alle elezioni” contrapposta a una del tipo “entrare nella conversazione mediatica”. Pur preferendo la linea di Womack/Omond, quella di Ramsay/Denyer si rivelò chiaramente efficace. Quando Womack si dimise da vice-leader l’anno successivo, Polanski vinse l’elezione per sostituirla; Tyrone Scott – ora nello staff di War on Want, che aveva corso su un programma di “giustizia ambientale, sociale e razziale” con forte accento sull’organizzazione comunitaria – arrivò secondo, e l’ex vice-leader gender-critical Shahrar Ali terzo. Scott era il candidato più associato all’ala sinistra del partito, Polanski ne rappresentava grosso modo il mainstream. Lo rappresenta ancora oggi. Nel maggio 2024, Bennett mi invitò a pranzo alla Camera dei Lord. Le chiesi quanti dei quattro collegi chiave i Verdi avrebbero vinto. Era incredibilmente sicura che li avrebbero presi tutti e quattro. Uscii dal Parlamento sotto una pioggia battente. Davanti al numero 10 c’era una folla di giornalisti; dagli altoparlanti risuonava Things Can Only Get Better. Le elezioni generali erano state convocate, e Bennett ebbe presto ragione. Con quattro deputati, la crescita del partito continuò. Ma molti ritenevano che, con il crollo della popolarità del Labour, si stesse perdendo un’enorme opportunità. I leader erano occupati a imparare a fare i parlamentari proprio quando il partito aveva bisogno di qualcuno che mobilitasse sostegno fuori dalle mura soffocanti di Westminster. Denyer sembrò concordare e annunciò che si sarebbe dimessa da co-leader per concentrarsi sul suo ruolo di deputata. Ramsay dichiarò che si sarebbe ricandidato – ora insieme alla collega deputata rurale Ellie Chowns. E lo fece anche il vice-leader, Zack Polanski, come era ovvio per chiunque prestasse attenzione. Il dibattito tra Chowns, Ramsay e Polanski si concentrò non tanto sulle politiche – tutti sostengono un programma nettamente di sinistra – quanto sul tono. La strategia di Ramsay e Chowns era costruita sul metodo che aveva permesso loro di vincere i rispettivi seggi – due aree rurali dove i Verdi erano riusciti a radicarsi quando il Labour non aveva colto la crescente radicalizzazione (accelerata dalla “corsa allo spazio” durante la pandemia): un linguaggio e un tono consensuali, depolarizzanti, simili a quelli che useresti parlando con qualcuno davanti alla sua porta, e nei quali entrambi sono visibilmente abili. Al centro di questo approccio c’è un’analisi radicale dei media: la sinistra, per quanto forte urli, non vincerà mai un dibattito mediato dalla stampa di proprietà dei miliardari, e quindi deve suonare più come un vicino che ti parla con calma, convincendoti dolcemente davanti a tè e biscotti, senza sbatterti la politica in faccia. Uno dei loro sostenitori più noti, Rupert Read, sottolineava un altro aspetto: “La gente è stufa della polarizzazione”, mi disse poco prima della recente conferenza del partito. Era preoccupato per i danni democratici derivanti dallo stimolare la rabbia. L’eco-populismo di Polanski, d’altro canto, mi sembrava un’etichetta che sintetizzava gli argomenti che molti di noi sostenevano da anni: il partito doveva essere più disposto ad abbracciare il conflitto e l’attenzione che ne deriva, e più radicato nei bisogni materiali delle persone. I Verdi non dovevano temere di incanalare la rabbia per le disuguaglianze che lacerano la società, suggeriva Polanski. Il fatto che l’85% dei membri lo abbia sostenuto nelle elezioni interne dimostra che questa è ormai la posizione mainstream nel partito. Dal punto di vista di molti a sinistra, i Verdi sono diventati solo recentemente una forza chiaramente di sinistra. Ed è in parte vero, ma c’è un altro modo di raccontare la storia. I media di destra evitarono per lo più di attaccare Corbyn sul suo desiderio di tassare i ricchi o nazionalizzare, concentrandosi invece su presunti mancati inchini alla Regina, perché sapevano che l’economia di sinistra era – ed è – popolare. Gli stessi media hanno sempre cercato di rinchiudere i Verdi nel loro stanzino etichettato “eco”, perché non volevano discutere delle sue idee socialiste, per le stesse ragioni. Attraverso un’attenzione implacabile, l’abbraccio del conflitto e una generale carisma, Polanski ha fatto scattare nei tabloid un panico da “i rossi sotto i letti”, che ha finito per trasmettere il suo messaggio. E anche la sinistra è cambiata: le critiche che i Verdi muovevano negli anni ’80 alla mascolinità tossica, all’omofobia e alla mancanza di ambientalismo non valgono più in generale. C’è una piccola frangia che si può collocare insieme al Workers Party di George Galloway. Ma oltre a quella, l’ecologismo intersezionale dei primi Verdi e il socialismo dei movimenti della classe lavoratrice si sono ormai fusi in un senso comune eco-socialista condiviso da un’ampia parte della sinistra europea. Nel Regno Unito, ciò sta trovando espressione nei Verdi. Per molti membri storici, l’ultimo mese è stato profondamente emozionante. I 100.000 nuovi iscritti non sembrano intrusi. È più come se avessero affittato una sala enorme per la propria festa e invitato l’intera comunità. All’inizio si sono presentati solo alcuni amici stretti. Poi abbastanza persone da evitare l’imbarazzo. E ora, a un passo dalla mezzanotte, migliaia di persone stanno entrando, con musica, speranza ed entusiasmo. La festa è appena cominciata. Adam Ramsay è un giornalista scozzese. Sta lavorando al suo libro Abolish Westminster e ha una newsletter Substack con lo stesso nome.     The post Regno Unito, come i verdi sono diventati rossi first appeared on Popoff Quotidiano. 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NYC, per la sinistra la posta in gioco non potrebbe essere più alta
IL TRIONFO DI ZOHRAN MAMDANI HA DATO AI SOCIALISTI UN ENORME POTERE NELLA CITTÀ DI NEW YORK. ORA DEVONO USARLO BENE, O VEDRANNO LA CLASSE DIRIGENTE SCHIACCIARLI (ÁLVARO LÓPEZ) Álvaro López è uno scrittore e un militante socialista che vive a New York City. Ha scritto questo articolo per The Nation L’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York ha portato il movimento socialista democratico statunitense sotto i riflettori nazionali. Se la trionfante piattaforma di Mamdani sull’accessibilità economica, che include piani per fornire assistenza all’infanzia universale aumentando le tasse sui redditi alti, verrà implementata, potrebbe portare a un significativo trasferimento di ricchezza dall’élite benestante alla classe operaia e fornire un modello per i leader socialisti di tutto il Paese. Allo stesso modo, se la missione di Mamdani verrà ostacolata, le forze che scommettono sul suo fallimento lo useranno come arma per cercare di bandire la sinistra ovunque. In altre parole, la posta in gioco di una sindacatura Mamdani non potrebbe essere più alta. Ecco perché è così cruciale che la sinistra e i movimenti progressisti adottino un orientamento politico di massa durante il mandato di Mamdani, le elezioni di medio termine del 2026 e oltre. L’ascesa di Mamdani è in parte dovuta al fallimento dell’élite delle corporation nel difendere i newyorkesi della classe operaia dalla crisi del costo della vita nella città. È anche perché i democratici legati alle grandi aziende non avevano una strategia per contrastare il messaggio economico populista di sinistra di Mamdani, che ha trovato riscontro in molti newyorkesi che hanno finito per identificarsi con gli affittuari e i lavoratori che lottano per sopravvivere a causa della classe miliardaria. Ora, il movimento che ha sostenuto l’elezione di Mamdani è pronto a opporsi al caos alimentato dalle politiche di Donald Trump, in particolare quelle che hanno esacerbato la disuguaglianza economica. La stessa strategia e lo stesso messaggio che hanno funzionato così bene per Mamdani possono essere utilizzati per sfidare i corporate Democrats nelle elezioni di medio termine, ritenendoli responsabili della loro inazione sulla crisi del costo della vita e del loro fallimento nel costruire una coalizione diversificata contro l’autoritarismo. Ecco come. VINCERE L’AGENDA DELL’ACCESSIBILITÀ ECONOMICA La campagna di Mamdani ha trasformato l’elettorato di New York City, attingendo alle comunità musulmane e del Sud-Est asiatico a lungo ignorate e rafforzando il sostegno tra gli elettori della classe operaia nera e latina, molti dei quali erano stati attirati a destra da Trump. Se durerà oltre la vittoria di Mamdani, questo riallineamento rappresenta un’opportunità per le forze progressiste di radicarsi nella classe operaia multirazziale di New York City e costruire una base politica organizzata e combattiva. In questo modo, potranno sfruttare il potere dell’elettorato per attuare l’agenda dell’accessibilità economica di Mamdani. La nuova amministrazione Mamdani è in una posizione favorevole per costruire il potere istituzionale della classe operaia, rafforzando i sindacati con contratti più solidi, aumentando il salario minimo a 30 dollari l’ora, standardizzando e migliorando le condizioni di lavoro dei lavoratori informali, esplorando la legislazione sulla contrattazione settoriale, aumentando l’accesso ad alloggi a prezzi accessibili, promuovendo il potere pubblico nei servizi pubblici e incoraggiando la partecipazione della comunità e l’impegno civico tra i newyorkesi della classe operaia. Gli oltre 100.000 volontari che la campagna di Mamdani è riuscita a mobilitare possono ora concentrare la loro attenzione sul lavoro di sostegno al movimento che hanno contribuito a costruire, ad esempio formando volontari affinché diventino organizzatori di comunità a sostegno del programma politico di Mamdani. Un compito fondamentale sarà quello di smascherare i canali volutamente opachi e barocchi attraverso i quali il governatore e il legislatore statale di Albany (la capitale dello Stato di New York, ndt) potrebbero cercare di soffocare il programma di Mamdani. Sarà fondamentale avere organizzatori sul campo in grado di demistificare il processo di bilancio dello Stato e di coinvolgere i newyorkesi della classe operaia in campagne che facciano pressione sui loro rappresentanti statali, ad esempio per tassare i ricchi al fine di finanziare il piano di Mamdani per l’assistenza all’infanzia universale gratuita. Questa organizzazione può contribuire a creare il movimento di massa della classe operaia di cui questa città ha disperatamente bisogno e fungere da modello nazionale per altre campagne elettorali di base di successo. Istituzionalizzando la coalizione Mamdani, possiamo diffondere la visione che ha portato la sua campagna alla vittoria. Non c’è un secondo da perdere nella costruzione di questa infrastruttura. Questo perché la classe dirigente – il settore immobiliare, il settore finanziario, il settore delle scuole charter, le forze filo-israeliane, i corporate Democrats, l’ala destra del Consiglio comunale e del legislatore statale e, naturalmente, l’amministrazione fascista di Trump a Washington – si sta già preparando a cercare di far deragliare l’amministrazione di Mamdani, a rivoltargli contro l’opinione pubblica e a tentare di frammentare la sua base politica. Questa coalizione, che ha trascorso decenni a svuotare la capacità dello Stato attraverso una spietata austerità, cercherà di fare della New York City di Mamdani un esempio e utilizzerà la narrativa della “New York City in crisi” per i propri vantaggi elettorali nelle elezioni di medio termine. (I repubblicani non hanno perso tempo, definendo immediatamente l’ascesa di Mamdani come una “storia nazionale di un partito che si piega al socialismo e all’estrema sinistra”). Rimanendo concentrata sull’obiettivo di vincere la battaglia sull’accessibilità economica, orientando il proprio lavoro verso l’organizzazione dei non organizzati e continuando a mettere al centro delle proprie campagne la partecipazione attiva dei lavoratori newyorkesi, la sinistra può trarre vantaggio da questo momento populista e smorzare la narrativa dell’opposizione. Replicare la spietata disciplina del messaggio di Mamdani può anche aiutare a smorzare le guerre culturali bigotte che sia i repubblicani che molti democratici di destra sembrano così desiderosi di combattere. Una svolta fondamentale che la sinistra ha ottenuto attraverso la campagna di Mamdani è stata quella di difendere il populismo economico di sinistra, dimostrando al contempo solidarietà alle comunità oppresse. Diamo priorità a un programma universalista di accessibilità economica non perché pratichiamo un economicismo ristretto, ma perché sappiamo che la crisi del costo della vita colpisce più duramente le comunità di colore e altri gruppi oppressi, e aspiriamo a metterli al centro come pilastri fondamentali della nostra coalizione. Applicare questa strategia a livello nazionale può soffocare il falso populismo dell’estrema destra e aiutare la sinistra nelle elezioni di medio termine. UN MOVIMENTO AL POTERE La sinistra di New York City, in particolare i New York City Democratic Socialists of America (NYC-DSA), di cui sono membro, non è abituata a detenere il tipo di potere politico che Mamdani eserciterà. Adattarsi a quelle che Mamdani ha definito in un video pubblicato il giorno delle elezioni come le “contraddizioni” della carica richiederà tempo. Ma il percorso che la sinistra newyorkese ha intrapreso per arrivare al potere offre alcune lezioni importanti su come utilizzarlo. Come può il DSA ancorare il suo progetto a una base di massa della classe lavoratrice? Come può il DSA posizionarsi per organizzare una classe lavoratrice in grado di articolare le proprie richieste? E come può la sinistra rompere il ciclo di disillusione che deriva dalla creazione di leader popolari come Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e Jamaal Bowman, solo per poi affossarli dopo quelle che vengono percepite come capitolazioni? La risposta a queste domande strategiche dovrebbe scaturire dalla nostra teoria del cambiamento. Due approcci presentano dei limiti: il liberalismo, che si concentra sulla ricerca di politici reattivi e sulla costruzione di organizzazioni clientelari, e l’ultra-sinistra, che enfatizza l’organizzazione attorno a una linea politica specifica senza tener conto dell’espansione della coalizione o del rafforzamento della politicizzazione di massa. Entrambi gli approcci trascurano il ruolo cruciale delle forze di classe nel plasmare la società, in particolare il potere di una base operaia organizzata di massa. Un esempio dei limiti del liberalismo è stato evidente nelle elezioni del 2013 di Bill de Blasio, dove, senza un piano chiaro per il dopo elezione, la coalizione di de Blasio composta da elettori ebrei progressisti, millennial e newyorkesi neri e di colore della classe operaia non è stata sfruttata per creare slancio verso una maggioranza della classe operaia. Invece, due anni dopo, de Blasio è stato superato dalla politica basata sulla lotta di classe di Bernie Sanders. La strategia di governo della sua amministrazione si basava principalmente sulle competenze tecnocratiche piuttosto che sulla costruzione di una base sociale per le sue politiche. D’altra parte, i limiti di un approccio ultra-leftist sono stati evidenti durante la lotta per l’espulsione di Jamaal Bowman dal DSA nel 2021. L’episodio mostra il potenziale effetto disorganizzante delle tattiche di pressione nei confronti degli alleati che sono temporaneamente disallineati, piuttosto che permanentemente ostruzionisti. Invece di ampliare la base della classe operaia per la politica contro la guerra, può fornire una copertura funzionale ai nostri nemici per sfruttare la nostra divisione. La campagna di Mamdani dimostra che la sinistra deve essere autentica, comprensibile e attivamente impegnata nelle preoccupazioni e nelle lotte della popolazione in generale, piuttosto che essere solo una minoranza vociante e ideologica. I funzionari eletti commettono errori. A volte inevitabilmente deludono i loro elettori. Anche Mamdani lo farà. Quando ciò accade, sarà importante che la sinistra trovi un equilibrio tra la responsabilità e la comprensione di chi è il vero nemico. Più ci concentriamo sulla difesa degli alleati che aiutano a diffondere idee precedentemente marginali e incoraggiano la base della classe operaia a lottare per rivendicazioni più aggressive, piuttosto che dare priorità alle lotte settarie, più potremo costruire un potere a lungo termine ed espandere l’ampia coalizione per combattere l’estrema destra. Costruendo una solida base nella classe operaia multirazziale, mobilitando le persone all’azione, organizzando una nuova generazione di socialisti democratici e posizionando la sinistra come un faro per i newyorkesi della classe operaia, il movimento che ha contribuito all’elezione di Zohran Mamdani può guidare un cambiamento trasformativo e posizionare il movimento socialista democratico per un successo continuo nella sfida ai democratici corporativi nel 2026 e oltre. La vittoria di Mamdani sta avendo ripercussioni in tutto il Paese e nel mondo. Poiché New York City detta il tono del corso politico, culturale e finanziario del nostro Paese, il movimento socialista democratico dovrebbe essere pronto a sfruttare questa opportunità storica sostenendo il sindaco Mamdani, che ha già riorganizzato e ricostituito le strutture di potere di lunga data, con una base organizzata della classe operaia di massa. Questa vittoria dimostra che una piattaforma socialista democratica con una visione popolare può formare una coalizione vincente maggioritaria. Ora dobbiamo difendere, governare, realizzare ed espandere la coalizione per il programma di accessibilità economica. Il movimento socialista democratico di questo Paese si trova di fronte a un bivio: prendere il centro della scena e giocare d’attacco alle urne o ritirarsi in disparte di fronte alla pressione del governo e al crescente autoritarismo.   The post NYC, per la sinistra la posta in gioco non potrebbe essere più alta first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo NYC, per la sinistra la posta in gioco non potrebbe essere più alta sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Mélenchon a Mediapart: «Non siamo più sulla difensiva»
INTERVISTA A TUTTO CAMPO AL FONDATORE DI LA FRANCE INSOUMISE SULLA DECOMPOSIZIONE POLITICA DEL PAESE (SARAH BENHAÏDA, MATHIEU DEJEAN E ELLEN SALVI, DA MEDIAPART) Quando lo incontriamo giovedì 30 ottobre nella sede di La France insoumise (LFI), Jean-Luc Mélenchon accusa il colpo. Per la prima volta nella sua storia, il partito di Marine Le Pen ha fatto approvare, quella stessa mattina, uno dei suoi testi all’Assemblea nazionale, con i voti della destra tradizionale: una proposta di risoluzione per denunciare l’accordo del 1968 con l’Algeria. Malgrado la congiuntura, lo spostamento del dibattito pubblico verso l’estrema destra e la frattura della sinistra, il tre volte candidato alle presidenziali crede tuttavia nella possibilità di una rifondazione politica. Per porre fine al “caos Macron”, continua a chiedere elezioni presidenziali anticipate: «È una corsa contro il tempo per noi, di fronte al Rassemblement national. Ma sono ottimista». Di fronte a un momento che definisce “dégagiste” (dal verbo dégager “mandare via”, ndr), il leader di LFI ritiene che gli Insoumis abbiano «guadagnato la fiducia popolare» mantenendo la loro strategia, nonostante gli attacchi. Egli afferma di voler lasciare agli altri gli “intrighi politici” per sviluppare il suo concetto di “nuova Francia”: «Un modo per dire: non siamo più sulla difensiva, questo Paese appartiene a tutti noi», spiega. Mediapart: Quale interpretazione dà del voto della risoluzione del Rassemblement national (RN) che denuncia l’accordo Francia-Algeria del 1968, grazie ai suoi alleati attivi di destra e taciti del centro? Jean-Luc Mélenchon: I suoi autori mi ispirano un profondo disgusto. Per la Francia, il legame con il Maghreb è un legame familiare e culturale. La guerra senza fine con l’Algeria è anche una lacerazione del nostro popolo. Che tristezza! Il razzismo che tutto questo contiene è prima di tutto una strategia organizzata per dividere il nostro popolo. Si tratta di impedire a una maggioranza sociologica di diventare una maggioranza politica “schematizzando” la sua diversità. Il voto mostra quanto la destra tradizionale sia assoggettata al RN. È diventata un gruppuscolo, ideologicamente paralizzato, incapace di proporre al nostro Paese un nuovo progetto nato dal suo lavoro. Si è dunque votata a sposare i temi del RN, il cui racconto è ormai egemonico nel blocco borghese. La destra tradizionale spera così di salvare i resti dei propri apparati politici. Ma poiché il blocco liberale si sta sgretolando, il RN ha le mani libere. Il suo obiettivo non è unire le destre, ma assorbirle. Come combattere questo movimento? Essendo più forti di loro, quindi conducendo la battaglia, non arretrando mai, cercando costantemente di coinvolgere il maggior numero possibile di persone attraverso l’educazione popolare. Gli Insoumis non sono un’avanguardia rivoluzionaria, ma un movimento di educazione popolare politica. Bisogna educare costantemente, con l’esempio, con la parola, con la lotta. Essere inclusivi, insoumis, positivi. Giovedì, all’Assemblea, tutta la sinistra è stata definita “partito dello straniero”, “partito dell’Algeria”. Di solito è LFI a ricevere questo tipo di epiteti… Come reagisce? Faccio fatica a parlarne, perché non voglio dare spazio all’idea di regolare conti personali. Ma è odioso. Lo abbiamo già visto al momento delle rivolte urbane. Mi si è rimproverato a gran voce di non aver invocato la calma. Gli Insoumis invocavano la giustizia. Altrimenti? La calma nell’ingiustizia? Per molti, la parola degli Insoumis ha un’autorità morale. Dunque è attesa da migliaia di giovani menti. A loro e agli altri, LFI mostra la via d’uscita “dall’alto” dalla situazione di violenza: la giustizia e l’abrogazione della legge “Permis de tuer” (la Loi Cazeneuve o più genericamente “permis de tuer” è la legge del 28 febbraio 2017, che ha modificato le condizioni giuridiche per l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, ndr). Rifiutiamo il ruolo di cani da guardia della buona società che ha paura del popolo. La sinistra politicista (i socialisti che hanno votato la fiducia al governo in carica, ndr) non si rende nemmeno conto della responsabilità che si è assunta aiutando la destra e i suoi media a ostracizzarci. Destra ed estrema destra avevano interesse a spostare la linea di demarcazione repubblicana tra la sinistra tradizionale e noi, gli Insoumis, per poter poi saldarsi con il RN. Tutto è diventato più difficile. Non solo dobbiamo portare avanti il programma per convincere la gente, ma anche riparare la demoralizzazione dovuta alle tattiche vergognose dei nostri ex partner e alle loro denigrazioni. Per conquistare coloro che non votavano più, bisogna meritare la fiducia popolare a contatto con il territorio. Noi facciamo ampiamente la nostra parte. Gli altri passano il tempo in intrighi politichesi. Non rispettano né il programma firmato né gli accordi elettorali. Ed ecco Carole Delga [la presidente socialista del consiglio regionale dell’Occitania – ndr] in un’elezione suppletiva [una legislativa organizzata a settembre nella 5ª circoscrizione dei francesi all’estero – ndr] che rifiuta persino il voto al secondo turno a sinistra se si tratta di LFI! Che cosa bisogna fare per compiacerli? Strappare il programma? Dire che la polizia non uccide? Proporre tagli di bilancio come loro e combinazioni con Macron? Ma la sinistra può vincere alle prossime scadenze elettorali se rimane divisa? Sarà più difficile, senza dubbio. Ma solo l’unione su un programma di rottura ecologica e sociale può vincere! Lo prova il nostro risultato del 2022, la nostra vittoria del 2024 e tutti gli esempi all’estero. Abbiamo fatto una proposta di federazione. Siamo partner esigenti ma leali e costanti. Certo, la vecchia sinistra respinge il programma comune dopo aver ben approfittato delle candidature condivise. Ma andremo avanti con chi vuole mantenere la parola data. Questo vale per tutte le elezioni. Per la presidenziale, “la sinistra” è stata unita solo due volte: nel 1965 e nel 1974. Nel 2022 ci sono mancate 420.000 voci per arrivare al secondo turno. Dobbiamo dunque conquistarle. Ci stiamo lavorando. Il secondo turno successivo sarà allora un altro mondo politico. La realtà è la tripartizione del campo politico. Per vincere, abbiamo bisogno di più di un milione di voti supplementari tra i giovani e nei quartieri popolari astensionisti. Lì si trovano diversi milioni di disorientati e disgustati contro la casta politico-mediatica. Un dégagisme crescente li anima, e si tratta di farne una forza politica positiva, orientata verso un nuovo ideale ecologico e sociale: la Sesta Repubblica. Abbiamo guadagnato terreno. Siamo seri, coerenti, disciplinati, i nostri eletti lavorano sodo, non siamo divorati dalla lotta degli ego. Nei momenti difficili, sotto i colpi più duri, le minacce di morte, gli insulti, tutti i media contro di noi, con i nostri alleati che ci abbandonavano, abbiamo tenuto duro. Così gli Insoumis hanno guadagnato la fiducia popolare. Pensa che il precedente delle legislative suppletive divise, senza sostegno dei vostri alleati di sinistra, sia destinato a ripetersi? Vedremo. È possibile che i socialisti facciano questa scelta. A Parigi e in altre città, non vogliono Insoumis né al primo né al secondo turno. Eppure, nel 2022, su nostra iniziativa, è stata la prima volta nella storia della sinistra che ci sono state candidature uniche al primo turno delle legislative. Siamo andati a cercare il PS, che aveva raccolto l’1,75% dei voti alle presidenziali del 2022. Poiché avevano toccato il fondo sulla loro linea social-liberale, ci siamo detti: si sono allineati alla linea di rottura. Dunque è la fine dell’era della competizione, comincia l’era dell’emulazione. Ho persino proposto di formare un gruppo unico all’Assemblea. Per fortuna hanno detto di no! I quartieri popolari si sono mobilitati per voi nel 2022, poi a favore del Nuovo Fronte Popolare (NFP) nel 2024. Pensa che faranno di nuovo questo sforzo, anche se il risultato del voto del 2024 è stato disprezzato? Sì, lo penso. Ma cominciamo col dire che è nella nostra vocazione rappresentare gli ambienti popolari. Ci accusano di clientelismo, ma allora i movimenti socialista e comunista avrebbero fatto clientelismo per un secolo! Sì, vogliamo rappresentare i proletari, i lavoratori delle piattaforme, le ragazze che hanno studiato e sono disprezzate, i ragazzi che sono smarriti e vogliono cavarsela. Questo è il popolo francese. Ma non è soltanto quello del passato. La nuova Francia vi è presente in gran numero. Nelle famiglie provenienti dai paesi che furono colonizzati si è ormai alla seconda o terza generazione francese. E tutte queste persone hanno una cultura politica formata dalle lotte di liberazione e contro il colonialismo. Hanno coscienza politica. Ragionano, riflettono. La loro cultura familiare è politicamente orientata. Ecco perché torneranno. Perché capiscono tutto. E non si lasciano più strumentalizzare dalla vecchia sinistra che li ha manipolati. Hanno visto bene il pericolo nel 2024. In quel momento, molte persone mi hanno detto: «Ce ne andremo, perché è troppo pericoloso per i nostri figli». Per me è uno strazio terribile sentire questo. Chi sono i veri repubblicani francesi? Noi! Non i nostri avversari che li minacciano. È una battaglia. Non basterà dire: «Avete visto? La sinistra è unita». Le persone sono molto più esigenti di così! Dalle europee del 2024 avete concepito il concetto di “nuova Francia”. Pensate che questo contro-racconto sia più efficace nella lotta contro l’estrema destra rispetto alla logica della denuncia? Un contro-racconto? Perché no, siamo in fase di elaborazione. L’intuizione è nata nel 2024, quando un’idea era ormai matura. La prima volta è stato in un parcheggio dove si teneva un comizio, a Évry, nell’Essonne, dove mi trovavo con Antoine Léaument e Farida Amrani, deputati insoumis del dipartimento. Antoine ha detto: «Basta con i fascisti che dicono: “Siamo a casa nostra”, perché noi, qui, siamo a casa nostra». Grandi applausi. E Antoine ha continuato: «Perché noi siamo nati qui». Applausi. Poi ha cominciato a gridare: «Siamo a casa nostra!» E in quel momento tutti hanno cominciato a gridare: «Siamo a casa nostra!» Di solito è uno slogan fascista. Ma lì, all’improvviso, assumeva un senso repubblicano per un’assemblea variegata e razzializzata. Ecco il popolo francese, il popolo repubblicano. Ho poi condotto tutta la campagna del 2024 su questo tema, quello della “nuova Francia”, ovunque sia passato. «Quando sono nato, una persona su dieci aveva un nonno straniero. Oggi è una su tre», e ho cominciato a dire: «Noi siamo la nuova Francia.» La nuova Francia è la sua composizione sociale, il suo numero, il fatto che sia massicciamente istruita, connessa e urbanizzata, anche in ambiente rurale… Positiva, rivolta al futuro. Un altro racconto è possibile. Non chiediamo più il favore di essere accettati. Ci appropriamo dei nostri diritti. Qui entra anche la questione femminista. È, in un certo senso, una bomba dentro la bomba. Siamo alla prima o seconda generazione di donne che pensano al di fuori dei concetti che, prima, dominavano le libertà fondamentali come l’accesso alla contraccezione, all’aborto e tutte le questioni che facevano di una condizione biologica un destino sociale. In definitiva, non si tratta più soltanto di rifiutare le discriminazioni. È un’appropriazione del futuro. Il concetto di nuova Francia è un modo per dire: non siamo più sulla difensiva, questo paese appartiene a tutti noi. È quindi anche la battaglia contro il sessismo e il ritorno del virilismo. E contro il razzismo. È un cambiamento completo della matrice. La fase in cui eravamo in fondo alla trincea è finita: stavolta siamo noi all’offensiva. E questo comprende lo sviluppo della Francia delle nuove frontiere: il mare, lo spazio, il digitale e la cultura. Nelle ultime settimane, al momento della condanna e poi dell’incarcerazione di Nicolas Sarkozy, si è assistito a un capovolgimento del dibattito pubblico, con prese di posizione in ogni direzione, messe in discussione dello Stato di diritto, una sorta di trumpizzazione dei discorsi… Questo clima generale vi preoccupa? Che cosa riflette, secondo voi? Sì, mi preoccupa. Ma bisogna vedere cosa c’è sotto tutto ciò. È un’espressione del degagismo attuale. Tutto ciò che costituisce l’ordine costituito è messo in discussione. Tutto, e in ogni direzione. Da qui l’importanza di aprire uno sbocco politico globale e positivo. Un processo molto profondo lavora la società da anni, ovunque. La Francia è nella fase del degagismo aperto, inaugurata dai Gilet gialli. La risposta? Macron organizza un dibattito pubblico e poi archivia il rapporto! Nient’altro! Da allora, il Gilet giallo è un fantasma che ossessiona la società politica francese. Il degagismo senza risposta colpisce a sua volta Emmanuel Macron. Il nostro successo ne è un’altra espressione. La France insoumise, che lavora per far partire Macron, conta oggi più militanti che mai: ci sono oltre 110.000 iscritti a un gruppo d’azione e più di 450.000 nella lista dei sostenitori. È questa la vostra interpretazione dei discorsi ascoltati nelle ultime settimane? È stato un tale flusso contraddittorio! Ecco perché mi sono messo in disparte sul caso Sarkozy. Avevo spiegato, al momento della condanna di Marine Le Pen, che una giustizia senza appello non è più giustizia. Subito si è detto che ero d’accordo con lei! Ma in parte avevo torto. Perché ci sono casi in cui l’esecuzione provvisoria è una necessità assoluta, quando un imputato mette gli altri in pericolo. Ma non mi è piaciuta nemmeno l’atmosfera da caccia all’uomo delle ultime settimane. Per me, la giustizia non è vendetta. E, d’altro canto, non mi sono piaciuti nemmeno i discorsi degli altri in modalità: «Il carcere non è per noi.» Durante tutto questo periodo, nessuno si è interrogato sul ruolo del carcere. Ugo Bernalicis e Danièle Obono hanno deciso di recarsi alla prigione della Santé per parlare del tasso di affollamento al 190%. Questo regime è barbaro, non risolve nulla, per nessuno. Ma è stato loro rimproverato! Una tassa sulle multinazionali, un’altra sui “superdividendi”… Gli emendamenti proposti da LFI e adottati all’Assemblea negli ultimi giorni hanno creato un vento di panico nel campo presidenziale. Questa settimana ha segnato la fine del passo a due tra PS e macronisti? È la seconda volta che facciamo adottare elementi centrali del controbilancio insoumis all’Assemblea senza averne la maggioranza. Dimostriamo che la nostra visione del parlamentarismo ha una realtà costruttiva: l’anno scorso avevamo già recuperato 26 miliardi con l’imposta sulle multinazionali, come oggi. Ma anche 12 miliardi con quella sui superprofitti e 13 miliardi con la tassa Zucman integrale. È ancora una goccia d’acqua rispetto alle fortune accumulate. Oggi arriviamo alla caricatura della politica dell’offerta sostenuta da tutti i liberali, da Faure ad Attal. Si riduce a un esercizio contabile. Il centro vuole 40 miliardi di risparmi. Come? Con tagli di bilancio. Il Rassemblement national, 60 miliardi. E i socialdemocratici del PS, 20 miliardi. Tutti e tre sono su una linea contabile: i tagli come unico progetto. Il patto tra socialisti e macronisti è stato preparato contrapponendo il nostro slogan “tutto il programma, nient’altro che il programma” del 2024 al metodo cosiddetto del “compromesso”. Ma noi non siamo all’Assemblea per “andarci d’accordo”! Ci siamo per prendere decisioni, dopo essere stati eletti con un mandato basato su un programma chiaramente enunciato. Si propone, si vota e si applica la decisione presa. Ma Lecornu rispetterà davvero il voto ottenuto sulla tassa per le multinazionali? Lei parla di un bilancio ridotto a un “esercizio contabile”. I dibattiti si cristallizzano attorno alla questione del debito e alla necessità di avere un bilancio in equilibrio. Non bisognerebbe forse abbandonare questa visione contabile per proporre un altro modello economico? La Francia è vittima di un metodo assurdo: la finanziarizzazione del debito degli Stati e il potere attribuito alle agenzie di rating, trasformate in giudici delle nazioni. Da allora, la paura del debito è diventata un argomento di panico. Eppure, il debito è una catastrofe solo se si aggrava la situazione con tagli di bilancio. Perché così si uccide la crescita, e dunque le entrate fiscali per il bilancio successivo. E il deficit si aggrava automaticamente. Noi pensiamo che sia necessario aumentare le entrate, perché la priorità è che il Paese possa investire. Se spende, la macchina riparte. Con una maggiore produzione, ci saranno più entrate fiscali e quindi meno deficit. Con il nostro metodo, e con le nostre nuove entrate, guadagneremo due punti di PIL nel 2026, ridurremo il deficit di 27 miliardi e abbasseremo la disoccupazione di un punto. Certo, nessuno può rilanciare l’economia di un Paese nella direzione diametralmente opposta a quella del resto del mondo nel giro di un mandato presidenziale! Ma bisogna pianificare e agire in fretta. In un anno si possono rimettere in sesto i conti della Sicurezza sociale, che è il cuore del nostro contro-modello. E, per estensione, rivoluzionare molti altri ambiti. Attualmente, i risparmi previsti nel settore sanitario si limitano a tagli di bilancio. Nessuno annuncia una lotta per combattere l’epidemia di diabete, le malattie cardiovascolari, i due morti al giorno sul lavoro, l’aumento dei tumori, i nitriti nell’alimentazione… e, attraverso questa via, realizzare risparmi. Perché queste disgrazie evitabili costano miliardi. L’inizio del cambiamento di regime economico è la fine del sistema di maltrattamento ecologico e sociale delle popolazioni. Bisogna cambiare paradigma. La nostra linea d’azione è la ripresa ecologica e sociale, la politica del portafoglio ordini pieno e della visibilità economica pianificata. La tassa Zucman, su cui il PS aveva fatto un “casus belli”, è stata respinta venerdì dall’Assemblea… La proroga concessa dal PS a Sébastien Lecornu al prezzo della frattura della sinistra si è trasformata, ancora una volta, nella ridicolizzazione del PS, permettendo un nuovo salvataggio di Macron. Ha rivelato l’estremo dilettantismo del PS nella negoziazione sui temi tecnici più elementari. La tassa Zucman, la sospensione della riforma delle pensioni, la fantomatica imposta sulla fortuna: tutto è finito in farsa. Solo un’elezione presidenziale anticipata restituirebbe dignità al dibattito, serietà alle scelte e permetterebbe una rifondazione politica del Paese. Come si può immaginare di prolungare ancora per due anni questa agonia politica? Il gruppo parlamentare di La France Insoumise ha depositato questa settimana una proposta di legge per abrogare un progetto di legge del governo che, a partire da novembre 2026, limiterà gli scoperti bancari dei privati, in conformità a una direttiva europea. Perché, secondo lei, questo testo è inaccettabile? Macron ha distorto una direttiva europea per assimilare gli scoperti bancari ai crediti al consumo. Non c’entra nulla. Undici milioni di francesi saranno messi con le spalle al muro ogni mese. Clémence Guetté lancia una petizione ufficiale sul sito dell’Assemblea per ottenere l’abrogazione. Il sistema teme una nuova crisi dei subprime. Il debito privato è più importante e più pericoloso del debito pubblico. Il rischio di crollo ritorna, come nel 2008. Allora la crisi era partita dal divorzio di un americano che non poteva più pagare la rata della sua casa. Oggi, tra le criptovalute, la bolla finanziaria sull’intelligenza artificiale, l’esplosione delle quotazioni di Borsa senza alcun legame con l’attività reale, e la cartolarizzazione dei debiti delle imprese, ci stiamo dirigendo verso un’esplosione peggiore di quella del 2008. A 17.000 chilometri da Parigi, in Kanaky-Nuova Caledonia, un’altra mobilitazione si risveglia per contrastare i nuovi tentativi di forzatura su questo dossier. È possibile un nuovo sollevamento? È quasi una certezza. Le condizioni economiche, culturali e sociali sono peggiori rispetto al 2024. Di fronte a persone che non hanno più alcuna prospettiva, alcuna speranza, intorno alle quali tutto è distrutto, lo Stato francese risponde: “Non ricostruiremo finché non vi sarete calmati.” È la vecchia logica coloniale. La pace prima, e poi vedremo per i diritti. Non ha mai funzionato. Il popolo francese ha riconosciuto che in Nuova Caledonia un popolo ne colonizzava un altro. Dunque, nessuna soluzione è possibile senza l’accordo dei Kanak. Se il FLNKS (Fronte di Liberazione Nazionale Kanak e Socialista) dice no, allora è no. Non spetta ai Kanak giustificare perché non sono d’accordo. Bisogna trovare un’altra via. Ma non rinviare con la forza le elezioni. Concretamente, questo significa che bisogna discutere senza tregua né pausa, tutto il tempo. Manuel Valls ce n’est pas ma tasse de thé (non è la mia passione, ndr), ma conosce bene il dossier. È un rocardiano. È arrivato fin dove poteva e ha convinto gli indipendentisti con la formula dell’“indipendenza-associazione”. Dal punto di vista dei Kanak, è un segnale forte. L’estromissione di Valls dal governo significa che Macron tornerà a forzare la mano. È lui il grande colpevole di tutto questo disastro. E continua con lo stesso metodo, assistito da Sébastien Lecornu, che condivide la sua brutalità. Non è stato lui a inviare il RAID in Guadalupa durante le rivolte del 2021? I dirigenti macronisti sono violenti, sempre più isolati, e nelle situazioni difficili mostrano un senso di onnipotenza molto puerile. Il che riporta alla questione del regime della Quinta Repubblica… Certo. Questa crisi è inevitabile. Emmanuel Macron, con una disinvoltura attiva, mette fuoco a tutti i punti sensibili che la maggior parte degli statisti cerca di evitare che si incendino contemporaneamente. Avremo una crisi nazionale, a partire dalla Kanaky, dalla Corsica e dai Caraibi. A ciò si aggiungeranno una crisi sociale e sanitaria, con la devastazione della Sicurezza sociale, e una crisi economica, vista la situazione in cui Macron ha ridotto il Paese. Tutto questo si fonde in un processo unico, nel quale masse di persone diventano “dégagistes” per mancanza di fiducia in qualsiasi autorità. È una corsa contro il tempo per noi, di fronte al Rassemblement National. Ma io sono ottimista. Perché anche i gruppi di potere del Paese capiscono che tutto ciò sta andando troppo oltre, e che non è La France Insoumise la responsabile della “bordélisation”, al contrario. Si è detto che io fossi l’ingegnere del caos solo perché applichiamo una strategia che si traduce in vittorie elettorali e parlamentari. Il caos è Macron. Chi altro in Europa ha rifiutato di riconoscere il risultato delle elezioni legislative? Noi siamo la soluzione al caos chiedendo le sue dimissioni e proponendo la nostra offerta di una Sesta Repubblica. Anche a destra ci sono persone ragionevoli che ne parlano. Ci sono quelli che pensano che non si debba toccare il presidente della Repubblica e quindi le istituzioni… ma proprio per la stabilità della democrazia, bisogna mettere presto quest’uomo nell’impossibilità di nuocere, perché distruggerà tutto nel disordine. Tutti vedono che agisce in modo sconsiderato al servizio degli ultraricchi. Sarebbe meglio che il cambiamento di Repubblica avvenisse nella pace civile e attraverso un processo democratico.   The post Mélenchon a Mediapart: «Non siamo più sulla difensiva» first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Mélenchon a Mediapart: «Non siamo più sulla difensiva» sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Your Party, perché tutto questo dramma? È complicato
IL CONFLITTO TRA CORBYN E SULTANA DIETRO LE QUINTE DELLA FORMAZIONE DEL NUOVO PARTITO SOCIALISTA IN GRAN BRETAGNA [ASH SARKAR] Questa settimana, sul Guardian sono apparse alcune notizie secondo cui il partito Your Party stava per avviare un’azione legale contro MoU Operations Ltd con l’accusa di aver deliberatamente trattenuto 800.000 sterline che appartenevano di diritto al partito. MoU è stata fondata ad aprile dall’ex deputata laburista Beth Winter, dall’ex sindaco di Tyneside Jamie Driscoll e dall’ex politico sudafricano Andrew Feinstein, con l’obiettivo di sostenere una coalizione di deputati e consiglieri indipendenti. Giusto per la cronaca, questo porta a tre le minacce pubbliche di azioni legali tra le figure di spicco del tuo partito dalla metà di settembre. Giovedì, Winter, Driscoll e Feinstein hanno rassegnato le dimissioni dalla carica di amministratori della MoU Operations Ltd, pubblicando una lettera al vetriolo e annunciando che Zarah Sultana (deputata indipendente per Coventry South, un tempo co-leader di Your Party e ora, almeno formalmente, semplice membro del partito) avrebbe assunto la carica di unico membro e amministratore. Ciò significa che il partito Your Party si è ritrovato nella sgradevole posizione di avere uno dei suoi membri che controlla centinaia di migliaia di sterline del suo denaro. Fonti vicine a Sultana hanno affermato che questa situazione è temporanea e che i fondi saranno trasferiti al partito Your Party il prima possibile. Perché tutto questo dramma? È complicato, con molte sigle e comitati coinvolti, ma le basi sono queste: durante l’estate, con il processo di nascita del nuovo partito bloccato dalla paralisi delle fazioni e dall’indecisione, Sultana ha annunciato unilateralmente il lancio di Your Party, affermando che lei e Jeremy Corbyn ne sarebbero stati i co-leader. Sebbene i due co-leader abbiano finito per cantare dallo stesso spartito, le feroci manovre dietro le quinte (tra cui conferenze stampa ostili, recriminazioni private e vibrazioni negative nella chat di gruppo) hanno indicato una drammatica rottura della fiducia. Per un po’, almeno in pubblico, le cose sembravano andare bene. Your Party ha attirato centinaia di migliaia di iscrizioni alla sua mailing list, il partito laburista non riusciva a smettere di darsi la zappa sui piedi e l’assegnazione dei dati del partito da un lato (Corbyn/Peace and Justice Project) e delle donazioni del partito dall’altro (MoU, considerato più politicamente vicino a Sultana) sembrava creare un delicato equilibrio di potere. Ma stava emergendo una nuova frattura, questa volta tra Sultana e i quattro parlamentari indipendenti pro-Gaza. Sebbene l’avessero sostenuta come co-leader, secondo quanto riferito erano profondamente scontenti del fatto che lei avesse reso pubblico il lancio senza alcun preavviso. Il conflitto tra fazioni ha cominciato a manifestarsi in pubblico, sotto le spoglie di un dibattito politico. I proprietari terrieri e coloro che sembrano avere opinioni transfobiche dovrebbero essere i benvenuti nel Your Party? Jeremy Corbyn ha fatto abbastanza come leader laburista per difendere la sinistra dalle accuse di antisemitismo? Le linee rosse politiche di Sultana stavano allontanando gli elettori che il Your Party aveva bisogno di attirare? Sebbene si tratti di questioni importanti di principio e di strategia, è anche facile capire come fossero espressione di tensione dietro le quinte; Sultana ha iniziato a sentirsi isolata, e così è nata l’iniziativa di lanciare un’adesione non debitamente controllata. L’evento scatenante è stato il fatto che il team di Corbyn, senza l’approvazione di Sultana, ha formato un esecutivo provvisorio guidato dagli alleati di Karie Murphy, ex capo dello staff di Corbyn, e ha annunciato i piani per una conferenza di fondazione. Sultana ha sospettato che questa mossa fosse intesa a dare alla fazione di Murphy il controllo sulle finanze e sui dati relativi agli iscritti. In risposta, il suo team ha lanciato in modo indipendente un sistema di adesione separato gestito dai suoi alleati, spingendo Corbyn e altri parlamentari a denunciarlo come “unauthorised email” e a consigliare ai sostenitori di annullare qualsiasi pagamento. La controversia si è rapidamente intensificata: Sultana ha accusato i suoi colleghi di gestire un “club maschile sessista” e ha citato direttamente Murphy, incaricando in seguito avvocati specializzati in diffamazione. Nel frattempo, Your Party si è rivolto all’Information Commissioner’s Office. Alla fine della settimana, la piattaforma di iscrizione di Sultana è stata messa offline a seguito di denunce di possibili attività fraudolente. Da co-leader nominale, si è ritrovata retrocessa a semplice membro del partito. Ed è qui che entra in gioco l’attuale situazione difficile del MoU. Your Party, ora effettivamente controllato da Corbyn e dai suoi alleati, voleva i dati e il denaro controllati dal MoU, ma non voleva assumersi le potenziali responsabilità legali derivanti dal lancio non autorizzato. Non è proprio così che funziona: le organizzazioni non possono semplicemente trasferire dati personali o fondi a loro piacimento, e non si può assumere una responsabilità legale senza assumersi le relative responsabilità. Tuttavia, secondo The Canary, fonti interne al partito Your Party hanno riferito ai giornalisti che “il denaro viene trattenuto per ottenere un vantaggio politico”, cosa che Winter, Driscoll e Feinstein negano categoricamente. In che modo questo influisce sulla politica del partito Your Party? Sultana ha assistito a una drammatica inversione di tendenza. Il lancio non autorizzato dell’adesione le si è ritorto contro, ma l’attacco frontale di Your Party al protocollo d’intesa le ha restituito un certo potere concreto. Corbyn, nel frattempo, ha annunciato che reciterà in uno spettacolo teatrale natalizio. Sebbene Sultana non abbia alcun ruolo di leadership costituzionale in Your Party, è lei che si occupa dei media, definendo la posizione politica del partito (uscire dalla NATO, tagliare i legami diplomatici con Israele, ecc. ecc. È una cosa positiva? I membri del Your Party saranno sollevati di avere qualcosa di concreto su cui combattere. Ma non c’è stato alcun processo democratico per decidere quali siano effettivamente le linee del partito. Inoltre, alcuni dei suoi post sui suoi account personali hanno assunto toni di auto-esaltazione. Un post su Instagram di questa settimana affermava che incoraggiarla a unirsi ai Verdi era un “privilegio della classe media” e che, in quanto “donna musulmana di colore” che riceve minacce di morte, non aveva bisogno che nessuno le spiegasse la minaccia di Reform. C’è una linea di demarcazione tra attingere alle proprie esperienze per plasmare la propria analisi e strumentalizzare la propria identità per chiudere il dibattito sulla strategia politica. Litigioso, maligno, privo di strategia: finora, Your Party è riuscito a ricreare il partito laburista in tutto tranne che nelle dimensioni. Ma questo non significa che non ci siano segni di vita. La scorsa settimana, un gruppo di esponenti dei Verdi scozzesi, tra cui consiglieri comunali e attivisti di alto profilo, è passato a Your Party. Le assemblee regionali stanno per iniziare e saranno un banco di prova per verificare quanto siano realmente vivaci e impegnati i membri del partito. Zack Polanski ha trasformato i Verdi in un partito in grado di minacciare il Labour nei sondaggi, ma rimane il desiderio di un partito socialista, non solo di un partito amico dei socialisti. The post Your Party, perché tutto questo dramma? È complicato first appeared on Popoff Quotidiano. 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Sinistra, Pap lancia un patto di consultazione permanente
BREVE RESOCONTO DI CAMBIAMO TUTTO, L’ASSEMBLEA NAZIONALE CHIAMATA DA POTERE AL POPOLO PER LANCIARE IL CAMMINO VERSO LE POLITOCHE DEL 2027 Almeno 300 persone hanno preso parte all’assemblea nazionale “Cambiamo tutto” convocata da Potere al Popolo, sabato 24 ottobre al Nuovo Cinema Aquila. 160 posti in sala, 70 in galleria e capannelli costanti intorno alle porte del cinema. Nell’intervento introduttivo, la co-portavoce Marta Collot ha lanciato la proposta di un patto di consultazione permanente, aperto a singoli e soggetti organizzati, funzionale alla costruzione della rappresentanza di un blocco sociale, prima ancora che elettorale, caratterizzato da un programma che si articola su tutte le implicazioni che derivano dal no al riarmo e al genocidio e sull’«indipendenza» dal Pd e dai 5s (no alla Nato, no alla finanziaria di guerra, sostegno alla resistenza palestinese in tutte le sue forme, lotte per salario, casa, servizi, diritti). Il campo largo è «parte del problema». Anzi, come preciserà poco dopo Guido Lutrario, segretario generale Usb, anche la «zona intermedia» lo è perché svolge una «funzione deleteria», e si tratta di «aree politiche compromesse». Salvatore Prinzi, nelle conclusioni, ricorderà l’impulso del governo Conte al commercio di armi con Israele proprio mentre quello stesso governo faceva propria la definizione ufficiale di antisemitismo, quella dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA) che criminalizza ogni critica allo stato d’Israele e al sionismo. Riassunto delle puntate precedenti: due anni di mobilitazione sulla questione palestinese che hanno visto la galassia Usb-Pap in prima fila – mentre il campo largo balbettava e continuava a votare in Italia e in Europa per vendere e comprare armamenti – con un crescendo negli ultimi mesi quando il sindacato di base ha avuto «il coraggio» di indire due scioperi generali “politici” a pochi giorni uno dall’altro. E un altro ce ne sarà il 28 novembre. In queste «ondate di movimento», Pap e soggettività collegate (studenti di Osa e Cambiare rotta soprattutto) hanno iniziato a sedimentare attorno a sé una credibilità crescente con cui ora provano a intercettare quella che Prinzi chiama la «generazione Gaza», forti anche del successo, oltre che degli scioperi generali, dell’esperienza di Toscana Rossa alle recentissime regionali (raddoppio di percentuali e voti assoluti rispetto a cinque anni fa). L’altro portavoce, Giuliano Granato, dice che la bandiera palestinese, ormai onnipresente in ogni angolo d’Italia è «un fatto nuovo» che parla non solo della lotta contro il genocidio. Nei territori dove sono più attivi Pap e Usb sono anche riusciti a calamitare l’interesse di lotte e vertenze (a Roma è piuttosto visibile questa capacità di affiancare comitati e vertenze che provano a contrastare le grandi e scellerate opere del commissario Gualtieri: stadio, inceneritore, ecc… anche perché Roma di fatto è una città commissariata dall’asse Gualtieri-Rocca-Meloni). Un’alleanza certamente da allargare – lo riconoscono diversi interventi – ma sempre molto perimetrata non solo dai punti fondativi e dagli anatemi già richiamati ma anche dall’idea di un’alternativa complessiva di società e da una tensione internazionalista che però sembra ridursi al «sostegno alle esperienze in transizione verso il socialismo» (Collot) annoverando per prima quella guidata da Maduro in Venezuela. Tra gli interventi, con diverso livello di interlocuzione rispetto al progetto, quelli di Paolo Di Vetta dei Movimenti per il diritto all’abitare, del presidente di Arci Roma Vito Scalisi, di Maya Issa, presidente del Movimento degli studenti palestinesi in Italia e Mauro Alboresi, segretario del Pci, il portuale Jose Nivoi del Calp. La formula proposta, dunque, è quella del «patto di consultazione permanente», l’esito dovrebbe somigliare più a Toscana Rossa (oppure a Campania popolare – Pap, Prc, Pci – presente alle regionali del 23 novembre). «Non sarà una nuova Unione popolare, ma qualcosa di diverso, fuori dai vecchi schemi», ha detto Collot, «Siamo dentro un altro ciclo», ha insistito Prinzi e, prima di lui Lutrario: «Siamo il nuovo». Prossimi passaggi: l’assemblea di delegati/e Usb del 1° novembre che convocherà lo sciopero generale del 28, il 16 novembre l’assemblea nazionale di Blocchiamo tutto, ovvero delle anime pro-pal. Un’ altra manifestazione nazionale a Roma sfilerà all’indomani dello sciopero, il 29 novembre. E a metà dicembre il patto di consultazione permanente dovrebbe prendere forma dentro un’altra assemblea.   The post Sinistra, Pap lancia un patto di consultazione permanente first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sinistra, Pap lancia un patto di consultazione permanente sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Il mito del compromesso storico cancella gli anni ’70
IL FILM SU BERLINGUER RILANCIA IL MITO ATTORNO A QUESTO LEADER MA LA SUA «GRANDE AMBIZIONE» È STATA IN GRAN PARTE UN’ILLUSIONE (ROMARIC GODIN) Il film Berlinguer. La Grande Ambition di Andrea Segre (nelle sale dall’8 ottobre) mette in scena un racconto nostalgico su un’“occasione mancata”, quella di una trasformazione della società italiana grazie all’unità delle classi popolari, comuniste e cattoliche. Una storia che si scontra con l’attualità della politica italiana ed europea, con una vita politica dominata dall’estrema destra, ormai più o meno alleata con la destra. Nel sottotesto, questo film difende l’idea che la storia avrebbe potuto essere diversa se i comunisti guidati da Enrico Berlinguer fossero riusciti a entrare nel governo dopo la sua vittoria elettorale del 1976. Il leader comunista appare quindi come un salvatore che la follia della destra e dell’estrema sinistra terroristica ha impedito di realizzare la sua opera. Ma è una lettura che sembra quantomeno ingenua. Per capirlo, bisogna tenere conto di gran parte della storia di quel periodo, ampiamente oscurata da questa agiografia cinematografica. Il film parte dal 1973, ovvero dal doppio shock costituito dal colpo di Stato in Cile e dal tentativo di assassini, in Bulgaria, dello stesso Enrico Berlinguer. Quest’ultimo costruirà quindi la sua visione di un percorso democratico verso il socialismo basato sul «compromesso storico» tra il Partito Comunista Italiano (PCI) e gli elementi popolari della Democrazia Cristiana (DC). Il PCI rifiutava così il modello di Mosca, evitando però l’errore di Salvador Allende di una base sociale troppo ristretta. Per realizzare questa «grande ambizione», Enrico Berlinguer si oppone quindi ai comunisti sovietici, alla sua destra, e a un’opposizione di sinistra ridotta, nel film, all’agitazione «studentesca». Ma è qui che sta il problema. Perché questa storia inizia prima. Nel 1969, precisamente, quando la crisi del capitalismo italiano diventa tangibile e assume una forma originale in Occidente. Quell’anno il Paese è sconvolto da rivolte spontanee nelle fabbriche dei lavoratori che, partendo dalle rivendicazioni classiche, iniziano a contestare l’organizzazione sociale e il lavoro. LA RIVOLTA OPERAIA ITALIANA Nell’aprile 1969, a Battipaglia, in provincia di Salerno, nel sud del Paese, la popolazione si ribella dopo l’annuncio della chiusura di due fabbriche e caccia le forze dell’ordine dalla città per più di quarantotto ore. Gli scontri causano un morto e costringono il governo a salvare le due fabbriche. Questi eventi, chiamati pudicamente in italiano «fatti di Battipaglia», lasciano sbalorditi i politici: nessun leader guida il movimento e le rivendicazioni diventano rapidamente sistemiche. Progressivamente, questa rivolta si diffonde e raggiunge il Nord industriale. I «comitati unitari di base» (CUB) si sono già moltiplicati nelle fabbriche, in particolare in quella del produttore di pneumatici Pirelli, nel quartiere Bicocca di Milano, che si dimostra molto attivo. Il fuoco covava e scoppiò alcuni mesi dopo durante l’“autunno caldo” del 1969. La mobilitazione sindacale sui salari si infiammò e travolse le organizzazioni. Gli scioperi selvaggi si moltiplicarono. Il 19 novembre, lo sciopero generale sfociò in una situazione quasi insurrezionale a Milano, dove un poliziotto fu ucciso. La risposta del capitalismo italiano sarà quella che verrà definita «la strategia della tensione». Il 12 dicembre 1969, una bomba esplode in una banca in piazza Fontana, nel centro di Milano, causando 16 morti e 88 feriti. La sera stessa vengono arrestati numerosi anarchici. Tra loro c’è Giuseppe Pinelli, che poche ore dopo cade dalla finestra della stazione di polizia dove era stato interrogato. Negli anni ’80 si scoprirà che l’attentato è stato perpetrato dall’estrema destra neofascista per provocare la dichiarazione dello stato di emergenza e la repressione del movimento operaio. Gli anarchici non avevano nulla a che fare con questa vicenda. Questo attentato apre un periodo buio durante il quale si moltiplicano gli attentati di estrema destra, a cui risponde la violenza di estrema sinistra. Tuttavia, in questi “anni di piombo”, la rabbia dei lavoratori italiani e la loro contestazione del capitalismo non si placano. Peggio ancora, questa rabbia si radicalizza con il confermarsi della crisi mondiale. Nel 1973, una nuova ondata di scioperi selvaggi si abbatte sul Paese. Allo stabilimento Fiat di Mirafiori, il più grande d’Europa, uno striscione accoglie i visitatori: «Qui comandiamo noi». La contestazione è sempre meno rivendicativa. Ciò che viene contestato è proprio la gerarchia, il lavoro, la società. Questa contestazione è permanente. Ogni volta che si manifesta, viene contrastata con la violenza dell’estrema destra e tentativi di colpo di Stato. L’ultimo momento chiave di questo movimento “autonomo” italiano è il 1977, anno in cui il Paese è sconvolto da manifestazioni e scioperi. Questa è la particolarità dell’Italia degli anni ’70: il movimento di contestazione iniziato nel 1968 non si è placato in pochi anni e non si è limitato alle cerchie intellettuali. Si è diffuso nel mondo del lavoro. «In Italia, unico caso in Europa, il movimento si è affermato come forza sociale per lungo tempo, sviluppando un potenziale che ha scoperto il significato storico del 1968», sottolineano Nanni Balestrini e Primo Moroni in un’opera su questo periodo, L’Orda d’oro 1968-1977 (Feltrinelli, 1997, tradotto nel 2017 dalle edizioni L’éclat). IL PCI IN UNA MORSA Sarebbe quindi un errore limitare il movimento autonomo italiano alle sue derive terroristiche o a una gioventù studentesca sognatrice, come fa il film. Il movimento era profondo ed era una sfida diretta al Partito Comunista e ai sindacati. Tanto quanto i dirigenti aziendali, anche gli operai contestavano la tradizionale struttura del movimento sociale. È in questo contesto che agisce Enrico Berlinguer, nominato nel 1972 alla guida del PCI. Sebbene relegato all’opposizione dal 1947, il partito è un’istituzione della Prima Repubblica italiana. Ha contribuito alla fondazione della Repubblica e all’elaborazione della sua Costituzione. Fa parte del panorama politico del Paese. Il rigetto del sistema sovietico, confermato dopo la repressione della Primavera di Praga nel 1968, rafforzava ulteriormente questa realtà. Per il PCI era importante tradurre il malcontento operaio in termini elettorali per mantenere il controllo della classe operaia. Questa posizione costringe Berlinguer a respingere come «utopia» la contestazione del capitalismo presente tra i lavoratori italiani, per promettere miglioramenti concreti del tenore di vita. Da qui nasce l’idea del «compromesso storico» con la Democrazia Cristiana (DC), ovvero con il partito che gestisce il capitalismo italiano. Questo compromesso funziona su un mercato implicito: ottenere concessioni «sociali» in cambio di un ritorno all’ordine nelle fabbriche. E il cuore di questo compromesso è la salvaguardia della democrazia liberale, perché salvaguardando l’ordine capitalista, secondo il PCI, si disinnesca la violenza neofascista. È la lezione che trae dagli eventi di Santiago del Cile. IL FALLIMENTO DELL’ACCORDO CON LA DC La strategia inizialmente ebbe successo. L’abbandono dell’alleanza con Mosca, il discorso di Berlinguer sull’obiettivo del socialismo e la minaccia di un colpo di Stato fascista fecero del PCI, nel 1975, un baluardo per il mondo operaio. L’anno successivo, il partito ottenne il suo miglior risultato, con il 34% dei voti alle elezioni legislative. Ma questo successo era solo la punta dell’iceberg. La crisi economica che colpisce il mondo e l’Italia rende improbabili le concessioni del capitale. Allo stesso tempo, l’agitazione operaia rimane forte. La DC decide quindi di intrappolare il PCI chiedendogli garanzie per accettare il compromesso storico. Dopo le elezioni del 1976, il partito accetta di sostenere con la sua astensione i governi di Giulio Andreotti. Non dice nulla sulle politiche di austerità e sulla repressione del movimento autonomo nel 1977. Questa buona volontà dei comunisti permette di guadagnare tempo per disinnescare la rivolta dei lavoratori, screditando al contempo il partito tra gli operai. L’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel maggio 1978 non pone fine alla possibilità del «compromesso storico». In realtà, il PCI continua a sostenere Andreotti per un altro anno. E solo dopo il suo doppio fallimento alle elezioni legislative ed europee del 1979 la strategia della «grande intesa» viene finalmente abbandonata con rammarico. Nel frattempo, il PCI è diventato inutile per il padronato italiano, che riprende il controllo della situazione con l’appoggio dei socialisti di Bettino Craxi. La repressione del movimento autonomo, la sua riduzione a fenomeno terrorista e l’escalation della disoccupazione mettono fine all’eccezione italiana degli anni 70. Nell’autunno del 1980, la direzione della Fiat annuncia 30mila licenziamenti a Mirafiori, luogo simbolo delle lotte sociali del decennio precedente. Enrico Berlinguer è in prima linea nella lotta, cerca di ristabilire l’immagine del PCI. Ma è troppo tardi. La rivendicazione socialista dei lavoratori italiani è stata sepolta e le promesse di Berlinguer si sono rivelate illusorie. La strada è libera per l’attuazione della controrivoluzione neoliberista che nel 1990 travolgerà il PCI. La sinistra italiana sprofonda allora in una corsa alla moderazione che lascia spazio agli eredi dei neofascisti degli anni ’70 che, con Giorgia Meloni, sono ormai al potere. Il mito del «compromesso storico» deve quindi essere rivisto. Non come un’«occasione mancata», ma come un profondo errore di analisi. Enrico Berlinguer, tutto intento a distanziarsi sia dagli “autonomi” che dal blocco dell’Est, ha sopravvalutato la capacità di apertura della democrazia liberale in un periodo di crisi del capitalismo. Ha dimenticato che quest’ultima si inseriva in un quadro preciso: quello del rispetto dell’accumulazione del capitale. Ciò che è in discussione qui non è la buona volontà di Enrico Berlinguer, che era senza dubbio sincera. Ma mettendo in contrapposizione la realtà elettorale con quella della contestazione operaia, egli è diventato il sostegno dei capitalisti italiani. Infatti, se Aldo Moro fosse sopravvissuto e fosse riuscito a formare un governo di coalizione con il PCI, nulla garantisce che la speranza di Berlinguer di avviare una transizione verso il socialismo avrebbe trovato uno sbocco. Non è nemmeno certo che le misure di ridistribuzione sarebbero state possibili. L’Italia era in crisi e il capitale esigeva misure forti prima di qualsiasi riforma sociale. E poiché, parallelamente, la combattività operaia era stata indebolita, un governo del genere sarebbe esploso in volo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, avrebbe intrapreso, come in Francia cinque anni dopo, una «svolta di rigore». Il «compromesso storico» cercava una via elettorale per superare il capitalismo che non esisteva. Era, in gran parte, un’illusione. La sua trasformazione in mito mantiene, purtroppo, viva questa illusione. The post Il mito del compromesso storico cancella gli anni ’70 first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Il mito del compromesso storico cancella gli anni ’70 sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.