Tag - in fondo a sinistra

UK, il nuovo partito di sinistra: un’opportunità storica?
DAVE KELLAWAY RAGIONA SULLE OPPORTUNITÀ OFFERTE DAL LANCIO DEL NUOVO PARTITO DI SINISTRA DA PARTE DI ZARAH SULTANA E JEREMY CORBYN Ogni volta che inizio questo articolo, devo aggiornare il numero di persone che si sono registrate sul sito web Your Party. Secondo il feed Twitter di Zarah Sultana, hanno già raggiunto le 500.000 adesioni in meno di una settimana e le persone continuano a iscriversi. Questo è l’argomento di cui tutti parlano durante le manifestazioni e i picchetti a favore della Palestina o in difesa dei migranti. Sì, il confronto con i membri registrati del Labour e del Reform non è corretto, poiché non si tratta ancora di un’iscrizione a pagamento, anche se sarebbe interessante vedere quanti hanno già donato. Ricordiamo anche i 300.000 che hanno aderito alla campagna Enough is Enough lanciata dai leader sindacali durante i grandi scioperi del settore pubblico di alcuni anni fa. Le persone dietro quella campagna non avevano un progetto, ci sono state alcune manifestazioni isolate con oratori sul palco e la cosa è rapidamente svanita. Questo è diverso. Le persone stanno aderendo a una dichiarazione che include una serie di posizioni politiche generali che riflettono il progetto di Corbyn e un impegno a sostegno della Palestina. La dichiarazione potrebbe essere molto migliore sul tema dell’ecologia, anche se include critiche alle aziende di combustibili fossili che stanno distruggendo il pianeta. Nella dichiarazione è anche chiaramente indicato che ci sarà una conferenza fondativa e che i membri decideranno le politiche e i leader. Qui le persone stanno aderendo a un processo completamente diverso dalla campagna Enough is Enough. Anche se solo la metà di loro decidesse di aderire, il risultato sarebbe comunque positivo rispetto al numero di iscritti al Labour Party. Starmer e il suo team sono stati reticenti nel rendere noti i dati relativi agli iscritti. I comitati esecutivi nazionali pubblicano abitualmente queste informazioni, ma hanno smesso di farlo nelle ultime riunioni. Chi è ancora nel Labour vi dirà che i membri attivi sono pochi e rari. Tra i membri ufficiali del Labour ci sono molti che pagano la quota ma non sono attivi. Il declino del Labour non sorprende, vista il continuo rifiuto di riconoscere il genocidio a Gaza, la sua politica anti-immigrati e i tagli al welfare. Le riunioni riducono deliberatamente al minimo la discussione politica. Hanno persino cambiato le regole in modo da ridurre la frequenza delle riunioni di circoscrizione. I consiglieri e i carrieristi politici mantengono in funzione le strutture di base. Già altri membri se ne andranno con l’avanzare del processo Corbyn/Sultana. Il gran numero di adesioni concentrerà l’attenzione della gente e coinvolgerà coloro che stanno aspettando di fare una scelta. COME HANNO REAGITO IL LABOUR E I MEDIA MAINSTREAM Rispetto alla copertura mediatica minuziosa del recente aumento del partito Reform di Farage, c’è stata molta meno copertura dell’esplosione delle iscrizioni al nuovo partito di sinistra. Tuttavia, è stato impossibile ignorare diversi sondaggi che hanno mostrato il nuovo partito tra il 10 e il 15%. Ciò sottrarrebbe voti al Labour, ai Verdi e agli astensionisti (circa un terzo ciascuno). I giornalisti favorevoli a Starmer stanno avanzando posizioni contraddittorie. Alcuni sottolineano le difficoltà interne ed esagerano le differenze tra il campo di Sultana e i fedelissimi di Corbyn. Prevedono che tutto finirà in lacrime e divisioni. Allo stesso tempo, altri sostengono che il nuovo partito stia irresponsabilmente dividendo i voti della sinistra, in altre parole che sarà efficace e otterrà un numero significativo di voti. Un giornalista, Sean O’Grady, che scrive sull’Independent, dà al partito sei mesi di tempo per dividersi in due fazioni, quella di Sultana e quella di Corbyn. Egli ritiene addirittura che ciò rafforzerà Starmer, chiarendo le questioni, e che egli riuscirà in qualche modo a riconquistare i voti progressisti attorno alla sua leadership per bloccare Farage. I consulenti stanno promuovendo questo scenario in stile Macron come futuro del Labour. Good luck! Ho sentito la discussione sulla scissione tra i membri locali del partito laburista quando si è parlato del nuovo partito. Sono le politiche di Starmer e i suoi cambiamenti radicali che hanno portato alla scissione dei voti laburisti a favore dei Verdi e dei candidati di sinistra. Non si può cinicamente usare la natura antidemocratica del nostro sistema elettorale per argomentare contro la creazione di un nuovo partito. È ironico che la stragrande maggioranza abbia votato a favore della rappresentanza proporzionale durante i congressi dei partiti. Come ha commentato qualcuno sui social media, “non si può cinicamente usare la natura antidemocratica del nostro sistema elettorale per argomentare contro la creazione di un nuovo partito. È ironico che una maggioranza schiacciante abbia votato a favore della rappresentanza proporzionale alle conferenze di partito. Come ha commentato qualcuno sui social media l’altro giorno guardando quanti si sono iscritti, non si tratta tanto di dividere il voto quanto di riconquistarlo. Infatti, molti sostenitori del nuovo partito si oppongono con forza alla divisione dei voti tra i candidati progressisti dei Verdi e quelli del nuovo partito di sinistra. Allo stesso tempo, dovremmo tendere una mano ai parlamentari laburisti che hanno preso posizione sulla Palestina o hanno votato contro i tagli al welfare: sarebbe sciocco candidare un esponente del partito di sinistra contro John McDonnell o Diane Abbott. Come ha reagito la sinistra marxista o radicale A differenza di alcuni progetti alternativi precedenti, quasi tutti i gruppi di sinistra come il Socialist Party, Counterfire e il Socialist Workers Party hanno appoggiato il nuovo progetto e contribuiranno alla sua realizzazione. Alcuni attivisti indipendenti e socialisti pensano in qualche modo che questa sia una cosa negativa, che inevitabilmente questi gruppi interverranno in modo negativo. Si veda ad esempio questo articolo scherzoso. Se sei un partito aperto e inclusivo, non puoi porre il veto alla partecipazione di diverse migliaia di attivisti esperti e dedicati. A volte i gruppi leninisti allontanano le persone con il loro modo grossolano di lavorare nel movimento di massa. Ad esempio, il Revolutionary Communist Party ha già dichiarato che si unirà per trasformare il partito in un partito marxista rivoluzionario d’avanguardia. Farage, che non è uno stupido, ha persino invitato uno di loro al suo programma televisivo GB News. Se anche solo un quarto o un terzo di coloro che si iscrivono si uniscono e lo costruiscono, allora dovrebbero essere in grado di neutralizzare le retoriche verbose di estrema sinistra che venissero adottate. La chiave per disinnescare la propaganda inutile è avere regole ferree sulla discussione e costruire il partito attraverso il lavoro di massa in difesa dei lavoratori e delle masse oppresse. Le persone serie capiscono che un partito guidato da Corbyn e Sultana sarà chiaramente più a sinistra del Labour e offrirà l’opportunità di costruire un’alternativa al labourismo. Il suo programma sarà inaccettabile per il Capitale, che scatenerà una controffensiva ancora più forte di quella che abbiamo visto con Corbyn nella sua prima versione. Oggi, in una situazione non rivoluzionaria, dedicare tempo a spingerlo ad adottare una linea chiara sulla distruzione dello Stato capitalista è sciocco. Le correnti marxiste possono sollevare tali questioni in modo appropriato: è importante che si sviluppi un polo o una corrente rivoluzionaria. Alcuni compagni tendono a contrapporre in modo grossolano l’elettoralismo alla lotta nelle strade e nei luoghi di lavoro. Qualsiasi costruzione di un’alternativa socialista appare utopistica senza una presenza radicale a tutti i livelli di governo. Anche un’ondata di lotte auto-organizzate richiede una strategia politica e un risultato se si vuole ottenere un cambiamento reale. NON VOGLIAMO UN LABOUR PARTY 2. D’altra parte, non vogliamo che il partito ripeta gli errori della fallimentare leadership di Corbyn al Labour Party. È probabile che alcune delle persone che aderiranno lo vedranno come un’occasione per recuperare il Labour Party che ritengono Blair e Starmer abbiano distrutto. Alcuni potrebbero vederlo come un gruppo di pressione per esercitare pressione sulla leadership laburista, forse anche per costringere Starmer e l’ala destra ad andarsene e poi riunificarsi con la nave madre. Se il nuovo partito passerà tutto il suo tempo a elaborare la politica sociale perfetta per il nostro immaginario futuro tecnocratico di sinistra quando governeremo lo Stato, non arriverà da nessuna parte. Se si considererà un Partito Laburista 2.0, con una politica migliore di quella attuale ma senza sbocchi per una reale partecipazione popolare, sarà distrutto dalle forze contrarie. Durante il periodo di Corbyn siamo rimasti intrappolati in una situazione in cui i membri del Labour erano spesso costretti ad aspettare che una manciata di persone al vertice prendesse delle decisioni, invece di diventare essi stessi agenti e leader. Non possiamo ripetere quell’errore. James Schneider sottolinea poi come sia necessario sviluppare quello che lui chiama potere popolare piuttosto che un elettoralismo ristretto: il partito dovrebbe investire nello sviluppo dell’auto-organizzazione nei nostri luoghi di lavoro e nella società civile. Mi piace la sua formulazione: class war with a grin (guerra di classe col sorriso). In altre parole, abbiamo bisogno di un partito che apra nuovi orizzonti e sviluppi una cultura politica migliore. Dovrebbe essere sfrontato e combattivo, sfidando la narrativa dei media mainstream. Abbiamo fallito una volta nel trattenere le migliaia di nuovi attivisti che si sono uniti al Labour. Non erano interessati a come funzionava il partito e si sono allontanati. Il vantaggio che abbiamo questa volta è che non stiamo portando persone in un partito pre-elettorale. Il vantaggio che abbiamo questa volta è che non stiamo portando le persone in un’istituzione preesistente e soffocante. Abbiamo almeno la possibilità di fare qualcosa di diverso. E I VERDI? Penso che Schneider sia piuttosto scettico nei confronti dei Verdi. Egli suggerisce che essi abbiano un approccio elettoralistico matematico e che gruppi come Extinction Rebellion avrebbero avuto un impatto maggiore. Ritengo che un risultato del 10% nei sondaggi e la possibilità di avere circa 800 consiglieri comunali e quadruplicare il numero dei propri parlamentari siano la prova di un certo impatto. I gruppi più radicali possono emergere e scomparire piuttosto rapidamente. I Verdi sono eterogenei: sono molto diversi a nord di Londra, a Bristol o nella campagna del Norfolk. Se Zack Polanski dovesse vincere la leadership, rafforzerebbe l’ala radicale e aprirebbe la strada ad alleanze elettorali in aree come le città dove il Labour è vulnerabile. Si è parlato, visti i sondaggi, che un nuovo partito di sinistra con una dozzina o più di parlamentari potrebbe, insieme ai Verdi, avere un ruolo decisivo in caso di parlamento senza maggioranza. Data la volatilità della politica britannica, questo non può essere escluso. Quello che sappiamo è che i nuovi partiti di sinistra in Grecia, Spagna e Italia sono stati distrutti dalla questione delle alleanze di governo con partiti di tipo laburista. Potrebbe essere possibile dare un sostegno esterno a un governo impegnato in politiche progressiste senza alcuna coalizione generalizzata e senza assumere alcun ministero. Questo è ciò che hanno fatto il Bloque de Esquerda e il PC in Portogallo alcuni anni fa. È comprensibile se questo impedisce la formazione di un governo di estrema destra o neofascista. Tuttavia, questa discussione su un parlamento senza maggioranza non dovrebbe dominare. LA MOSSA DECISIVA DI SULTANA Quello che tutti possono vedere oggi, visto il numero di adesioni, è che non possiamo semplicemente liquidare questa situazione come l’ennesimo progetto di sinistra come Respect, Socialist Alliance o Left Unity. Si tratta di qualcosa di diverso. La gente sembra sorpresa che il processo non sia stato facile, ma quando la posta in gioco è così alta e abbiamo un’opportunità storica, allora le persone si appassionano e lottano per difendere la loro posizione. Non dovremmo sottovalutare il contributo di Zarah Sultana. Era un po’ come la nuova amica che è venuta in vacanza con un gruppo ben consolidato che impiegava sempre un’eternità per scegliere il ristorante la sera. Si era già sprecata almeno mezz’ora e lei si è semplicemente seduta e tutti l’hanno seguita con riluttanza. Naturalmente ci sono state lamentele tra il gruppo consolidato per l’audacia della nuova amica. Chiaramente la corte di consiglieri e lo staff di Corbyn sono stati colti di sorpresa da Sultana e si sono sentiti messi da parte. Ma almeno lei ha smosso le cose. Ancora più importante, ha ampliato il fascino della nuova formazione. Appartiene a un’altra generazione, è una donna e ha origini sudasiatiche. Zarah incarna la generazione che il Labour ha perso a causa della Palestina. Allo stesso tempo, sembra che l’idea di una federazione libera sia stata ora superata dai piani di una conferenza e dall’adesione delle persone al partito. Lo stesso Scnheider, vicino a Corbyn, sostiene una struttura democratica e una leadership collettiva. Il diavolo potrebbe essere nei dettagli, ma ci sono tutte le possibilità che il partito venga costituito democraticamente e diventi un punto di riferimento nazionale per milioni di persone per un’alternativa di sinistra a Starmer. The post UK, il nuovo partito di sinistra: un’opportunità storica? first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo UK, il nuovo partito di sinistra: un’opportunità storica? sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Quanto è rossa davvero l’estate di New York?
PER WALL STREET MAMDANI È COMUNISTA. E’ DAVVERO COSÌ? UNA COSA È CERTA: I MILIARDARI NON DOVREBBERO ESISTERE Zohran Mamdani ha scritto una pagina di storia politica con la sua vittoria alle primarie democratiche per la carica di sindaco di New York. Con oltre 565.000 voti, il 33enne socialista appoggiato da Alexandria Ocasio-Cortez ha superato ogni precedente record elettorale per una primary nella metropoli americana. È riuscito là dove altri si erano fermati: battere Andrew Cuomo, un ex governatore ancora protetto da una fitta rete di potere centrista, e vincere con largo margine nel Ranked Choice Voting, in soli tre round. Una scossa sismica per il Partito Democratico e per Wall Street, che ne ha percepito immediatamente il rischio politico: aumenti delle tasse per i milionari, patrimoniali su rendite e proprietà, un ritorno alla redistribuzione. Il panico è scattato immediatamente: “è ufficialmente l’estate calda dei comunisti”, ha dichiarato Dan Loeb, fondatore dell’hedge fund Third Point, mentre un gruppo di super-ricchi newyorkesi si è mobilitato sotto l’egida di “New Yorkers for a Better Future Mayor 25” per fermarlo con 20 milioni di dollari di contro-campagna. Ma quanto è rossa davvero questa estate? Il trionfo di Mamdani ha scatenato entusiasmi genuini nei sindacati, nei movimenti di base, nei settori popolari delle boroughs. La United Federation of Teachers, il sindacato 32BJ, il Council on Hotel and Gaming Trades, le infermiere e i lavoratori dei trasporti: tutti si sono schierati con “Zo”, vedendo nella sua candidatura la prima occasione reale di sovvertire l’ordine neoliberale della città. “Una visione positiva e ottimista per una città veramente accessibile”, l’ha definita Manny Pastreich del 32BJ. Persino alcuni democratici eletti hanno rotto gli indugi: il deputato Adriano Espaillat, inizialmente sostenitore di Cuomo, è salito sul palco con Mamdani a Washington Heights, sancendo simbolicamente il passaggio di un pezzo dell’establishment alle forze del socialismo municipale. Eppure, come fa notare John Nichols su The Nation, il partito democratico ufficiale è rimasto paralizzato. Chuck Schumer, Hakeem Jeffries, il governatore Hochul: silenzio. Altri, come la senatrice Kirsten Gillibrand, hanno preferito attacchi ambigui, salvo poi correggersi dopo le accuse di islamofobia. Il segnale è chiaro: Mamdani ha vinto, ma la macchina democratica nazionale è troppo legata agli interessi economici per seguirlo. Troppo timida per alzare la voce contro i miliardari che gridano all’“esproprio”, troppo compromessa con la finanza immobiliare, le fondazioni tech, le lobby sanitarie. E troppo spaventata all’idea che il populismo redistributivo possa sfuggire di mano. Il nodo sta proprio qui. Mamdani non ha solo vinto. Ha rilanciato una domanda politica e morale che negli Stati Uniti nessuno osa più pronunciare: “Abbiamo davvero bisogno dei miliardari?” A questo proposito, l’analisi di Romaric Godin su Mediapart è una doccia fredda necessaria. Godin riconosce il potenziale radicale della proposta di Mamdani, ma la inserisce in una cornice che ne denuncia i limiti sistemici. L’idea di tassare i miliardari per finanziare i servizi pubblici, sostiene, si basa su un presupposto fragile: che il capitalismo continui a generare sufficiente valore da poter essere redistribuito. Ma la realtà è che il capitalismo attuale non produce più benessere diffuso: produce rendita, monopolio e sorveglianza. Il numero di miliardari si è moltiplicato per oltre 50 dal 1987 al 2023, ma i salari reali stagnano, la produttività ristagna, la disuguaglianza cresce. Jeff Bezos non ha creato valore attraverso la produttività, ma attraverso il monopolio e la logistica predatoria. Il trickle-down è un mito: i miliardari non investono in attività produttive, bensì in strumenti di cattura del valore. Se l’argomento di Michael Strain sul Financial Times è che Bezos ha “creato 11 trilioni di dollari per tutti noi”, allora possiamo serenamente rispondere che il capitalismo moderno ha smesso di essere un motore collettivo. È qui che l’economia incontra la politica. Mamdani, come Sanders e Ocasio-Cortez, propone un socialismo democratico che non rifiuta il capitalismo, ma ne vuole contenere gli eccessi. Non è una rivoluzione, è una riparazione. Ma anche questa modesta riparazione fa paura. Perché mette in discussione il principio sacro dell’accumulazione illimitata. Perché chiama i ricchi per nome, chiede loro una “giusta quota” e li toglie dall’aura di benefattori. Mamdani non è un comunista, come ha detto in modo scomposto Trump: è un cittadino che pretende che anche i miliardari lo siano. Godin resta scettico: senza una rottura strutturale con la logica dell’accumulazione, anche il miglior programma redistributivo rischia di restare appeso alla crescita che non c’è. E ha ragione. Ma sbaglia chi scambia questo scetticismo per cinismo. Perché una cosa è certa: la vittoria di Mamdani segna un cambio di fase. Per la prima volta una città globale come New York potrebbe avere un sindaco che non solo nomina il capitalismo, ma lo interroga. Non un outsider, ma un eletto con mezzo milione di voti. Non un teorico, ma un organizzatore. Quanto è rossa davvero l’estate di NY? Forse non abbastanza da bruciare il sistema. Ma abbastanza da illuminarne le crepe. E per chi viene dai margini, dalle boroughs e dai sindacati, può bastare per cominciare. The post Quanto è rossa davvero l’estate di New York? first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Quanto è rossa davvero l’estate di New York? sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Addio Mujica, il guerrigliero che divenne presidente
E’ MORTO PEPE MUJICA LO STORICO LEADER DELL’URUGUAY. ERA NATO IL 20 MAGGIO 1935. UNA VITA STRAORDINARIA, DA TUPAMARO A PRESIDENTE Demetrio perse la sua terra a Casupá durante la crisi degli anni Trenta. Il suo nuovo progetto, il cemento prefabbricato, lo portò nella città coloniale di Carmelo per costruire i capannoni necessari al nuovo progetto. Lì conobbe Lucy, che proveniva da una famiglia piemontese dedita ai vigneti. La nuova famiglia non ha avuto fortuna nemmeno con l’azienda familiare che ha sviluppato su un ettaro situato sul Paso de la Arena, a Montevideo. Alla fine, Lucy e i suoi figli, José e María, rimasero senza il padre, che morì quando i bambini avevano rispettivamente 8 e 2 anni. Tutti e tre vissero “in dignitosa povertà”. Giacche logore, vestiti rattoppati, ma c’era carne da mangiare. E c’era lo zio “Angelito”, che gli fece conoscere la passione per i libri e la politica. José Mujica, per tutti Pepe, lo ha ricordato nel libro di María Ester Gilio “Mujica, de tupamaro a presidente”. José “Pepe” Mujica, storico leader ricordato per la magia delle sue parole, è morto martedì 13 maggio. La vita dell’ex leader uruguaiano è stata un film, come ha scritto Mercedes López San Miguel sull’argentino Pagina12. Pepe, come lo chiamavano tutti in Uruguay, sarà ricordato per la saggezza delle sue parole. Era nato il 20 maggio 1935. Ed è entrato nella storia: un ex guerrigliero tumaparo che il 1° marzo 2010 è diventato presidente del suo piccolo Paese. All’inizio del 2025, Pepe Mujica ha detto addio alla vita pubblica e ha chiesto di poter riposare nell’intimità della sua fattoria, già affetto da un cancro all’esofago in fase molto avanzata. “Quello che chiedo è che mi lascino in pace. Non chiedetemi più interviste o altro. Il mio ciclo è finito. Onestamente, sto morendo. Il guerriero ha diritto al riposo”, ha dichiarato al settimanale Búsqueda. Durante il suo governo, il suo discorso davanti alle Nazioni Unite è stato riprodotto in innumerevoli video su YouTube e la sua figura è stata catapultata con l’avanzamento dell’agenda dei diritti, come la regolamentazione del mercato della cannabis, la depenalizzazione dell’aborto e il matrimonio egualitario, che ha persino generato un costante pellegrinaggio di stranieri alla sua fattoria a Rincón del Cerro. Pepe Mujica ha donato quasi il 90% del suo stipendio da presidente in beneficenza e ha sempre vissuto a vivere nella sua fattoria di Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo, insieme a Lucía Topolansky, allora senatrice e anch’essa ex tupamaro. Una piccola parte del mondo della coppia, che non aveva figli, uno stile di vita semplice, l’amore per il tango e la coltivazione di fiori e ortaggi, è stata raccontata dal regista Emir Kusturica nel documentario “El Pepe, una vida suprema”. Una volta che la sua compagna di sempre sarà morta, la fattoria passerà nelle mani del MPP, il partito che hanno fondato insieme. In una recente intervista al New York Times, l’autorevole quotidiano statunitense lo ha descritto come un “filosofo schietto”. “La vita è bella. Con tutte le sue vicissitudini, amo la vita. E la sto perdendo perché sono nel momento di andarmene”, ha detto Mujica. Alla domanda su come vorrebbe essere ricordato, è stato categorico: “Per quello che sono: un vecchio pazzo che ha la magia della parola”. UNA VITA DA MILITANTE Mujica è diventato un attivista da adolescente. “Avevo 14 anni quando ho iniziato a far parte di un gruppo anarchico”, racconta a María Ester Gilio nel libro Pepe Mujica, de tupamaro a presidente (Pepe Mujica, da tupamaro a presidente). Da giovane, dopo un esordio al seguito di Enrique Erro, leader di un settore minoritario del Partito Nazionale intorno al 1956, è stato sempre più coinvolto nei partiti di sinistra ed è diventato marxista. Un marxismo difficile da inquadrare nelle visioni dei socialisti e dei comunisti dell’epoca. Quella di un curioso e avido lettore. In questa ricerca, si unì alla lotta armata con il Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros, un movimento di guerriglia urbana ispirato alla rivoluzione cubana. Fu imprigionato per la prima volta nel 1964 per il tentato assalto a una filiale dell’azienda Sudamtex e nel 1969 entrò in clandestinità perché la polizia scoprì armi e munizioni che i guerriglieri gli avevano consegnato in custodia. Mujica partecipò alla presa della città di Pando (a Canelones, a pochi chilometri da Montevideo) l’8 ottobre 1969, quando decine di guerriglieri presero il controllo della stazione di polizia, della caserma dei pompieri e altri assaltarono la centrale telefonica e le filiali bancarie. L’operazione durò mezz’ora, tanto durò la fuga e lo scontro con la polizia, che causò la morte di tre tupamaros, un poliziotto e un civile. Una scena in bianco e nero che mette insieme parte della sua vita. Un’altra volta una pattuglia gli sparò sei volte a terra. Fu arrestato più volte. Nel 1971 fu protagonista di un altro momento da film: l’evasione attraverso un tunnel di 111 prigionieri (106 guerriglieri) dal carcere di Punta Carretas, una delle più grandi fughe dalla prigione della storia. Dopo il colpo di Stato del 1973, Mujica divenne ostaggio della dittatura.  Nel libro Memorias del calabozo, Fernández Huidobro ha parlato con Mauricio Rosencof della dolorosa esperienza che hanno vissuto insieme a Raúl Sendic, Jorge Manera, Henry Engler, Adolfo Wasem, Jorge Zabalza e Julio Marenales, che venivano fatti avvicendare tra le caserme. “Una notte del settembre 1973, nove militanti del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros furono prelevati di sorpresa da ognuna delle nostre celle nella prigione di Libertad….. Quel lungo viaggio di nove ostaggi della tirannia durò esattamente undici anni, sei mesi e sette giorni”. “Fummo prelevati di sorpresa da ognuna delle nostre celle”, raccontano gli ex guerriglieri Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro nell’introduzione al libro Memorias del calabozo (Ricordi della prigione) nel carcere di Libertad. Nella solitudine del gelido mattino presto di quell’inverno crescente, persino il motore dei camion che ci aspettavano sembrava voler parlare a bassa voce perché gli altri prigionieri (migliaia) non sentissero”. “Fu un trasferimento vergognoso, un trasferimento con la consapevolezza che si stava commettendo qualcosa di grave”, aggiungono pagine dopo. Questo “viaggio” avrebbe occupato 11 anni della loro vita, con brevi soggiorni in diverse caserme dell’esercito nell’interno del Paese. Mujica, insieme a Rosencof e Huidobro, sarebbe stato assegnato alla IV Divisione dell’Esercito, responsabile della costa orientale. Oltre ai continui trasferimenti, la punizione imposta dalle Forze Armate era crudele: gli ostaggi erano tagliati fuori sia gli uni dagli altri che dal mondo esterno, in modo che il loro unico contatto con esso fosse momentaneo, o attraverso gli spioncini installati nelle porte delle rispettive prigioni o nel giornale che i soldati usavano nel bagno, a cui i prigionieri potevano accedere solo una volta al giorno. Dal canto suo, il mutevole “habitat”, spiega, era privo di mobili e non superava mai i due metri quadrati. Inoltre, i carcerieri imponevano di “stare seduti su una piccola panca di legno, con le spalle alla porta e la faccia premuta contro il muro” per periodi di tempo prolungati, oltre ad altri metodi di tortura e umiliazione che caratterizzavano le dittature latinoamericane. Mujica iniziò a parlare con le formiche e ad avere delle allucinazioni e finì nell’Ospedale Militare all’inizio degli anni Ottanta. Uno psichiatra gli consigliò di leggere e scrivere. A proposito di quel periodo, Pepe racconta: “Prendevo le pillole che mi dava e le buttavo in bagno”. C’era qualcosa, però, che questa donna mi aiutò a fare. Mi diede il permesso di leggere libri di scienze… Mi autorizzò anche a scrivere, e l’esercizio della scrittura disciplinò il mio cervello”, ha raccontato in Pepe Mujica, de tupamaro a presidente. DALLA GUERRIGLIA AL FRENTE AMPLIO L’8 marzo 1985, un uomo magro fu rilasciato dal carcere. La descrizione potrebbe valere per lui o per gli altri compagni che lasciarono il carcere senza altri progetti che la vita di tutti i giorni. Un vecchio trattore e alcuni cani accompagnarono le mattine di Pepe e Lucía Topolansky, la sua compagna, nella loro fattoria di Rincón del Cerro, il luogo dove ricominciò con ciò che conosceva: l’agricoltura. Pepe Mujica ha riacquistato la libertà con un’amnistia nel 1985 e, con alcuni membri del MLN-T iniziò un processo di incorporazione nel sistema politico uruguaiano. Nel 1989 gli ex guerriglieri fondarono il Movimiento de Participación Popular (MPP) e si unirono al Frente Amplio (FA). Nel 1994 Mujica fu eletto deputato e nel 1999 senatore; l’MPP cominciava a mostrare una grande capacità di accumulazione che lo avrebbe portato a essere, nelle elezioni del 2004 e in quelle successive, il settore più votato della coalizione di sinistra. Prima di diventare presidente della Repubblica è stato ministro dell’Allevamento e dell’Agricoltura nel primo governo del Frente Amplio guidato da Tabaré Vázquez. All’epoca, Mujica dichiarò al giornale di essere consapevole che “c’è una sinistra uruguaiana con cui non ci troviamo bene”, ma che “camminiamo perché abbiamo bisogno l’uno dell’altro”. “Siamo uniti dalla paura. La paura che vinca la destra. E la stessa cosa deve accadere ai nostri compagni”, ha detto. Nel 2009 si è presentato come candidato unico del Frente Amplio (coalizione di una trentina di partiti, movimenti e correnti di sinistra, socialisti, comunisti, trotzkisti e democristiani. Nel loro programma comune si definiscono progressisti, antimperialisti, antirazzisti e antipatriarcali), e ha vinto in coppia con Danilo Astori e da quel momento la sua figura è diventata nota in tutto il mondo. La notizia della sua morte è l’apertura di tutti i giornali latino americani. I governi del Frente Amplio, quelli dei socialisti Tabaré Vázquez (2005-2010 e 2015-2020) e Pepe Mujica (2010-2015), hanno definitivamente rotto il sistema bipartitico, l’alternanza pluridecennale del Partido Nacional e del Partido Colorado. La vita austera del vecchio guerrigliero, la sua semplicità, il suo modo di parlare semplice e diretto, la sua lotta contro la corruzione e gli sprechi, il suo impegno sociale, la sua capacità di parlare e dialogare sia con la gente comune che con i leader delle grandi potenze, la sua tolleranza e la costante ricerca del consenso con chi difendeva altre posizioni ideologiche, gli valsero il rispetto anche di molti politici e persone con posizioni diametralmente opposte alle sue. CRITICHE DA SINISTRA Tuttavia, scrive Roberto Montoya su El Salto Diario, un sito spagnolo, la sua vita politica pubblica non è stata esente da aspre critiche da parte di settori che condividevano la sua militanza nei Tupamaros e da militanti di altri gruppi di sinistra. Molti sostenevano che Mujica si stesse facendo assorbire dal sistema stesso contro cui aveva combattuto fin da giovane. Nel maggio 2007 aveva rilasciato una dichiarazione in cui faceva autocritica sul suo passato di guerrigliero: “Mi pento profondamente di aver preso le armi con poca abilità e di non aver evitato una dittatura in Uruguay”. L’adattamento del vecchio guerrigliero ai nuovi tempi, il suo modo peculiare di fare politica dalla base, prima come deputato, poi come senatore e infine come presidente, è stato spesso visto dai settori più radicali della sinistra come un abbandono dei valori ideologici dei Tupamaros. Le critiche ricevute da settori della sinistra, alcune delle quali molto aspre, si sono concentrate su vari aspetti delle sue posizioni politiche: l’assenza di progressi significativi nella redistribuzione della ricchezza durante il suo mandato, i suoi cambiamenti di posizione nei confronti dei militari o le sue divergenze con il movimento femminista. Più di qualche attivista dei Tupamaros ha sostenuto che Mujica si stava facendo assorbire proprio dal sistema contro cui aveva lottato fin da giovane. Nel 2019, dopo essere stato eletto senatore, ha rilasciato alcune dichiarazioni controverse e aggressive al settimanale uruguaiano Voces. Mujica ha riconosciuto il machismo, ha denunciato la società patriarcale, ma ha sostenuto che il femminismo non può sostituire la lotta di classe. “Vedo anche classi sociali all’interno dello stesso movimento femminista”, ha sostenuto. Mujica non è stato l’unico dei tanti ex leader della guerriglia divenuti presidenti con l’avvento della democrazia nei Paesi dell’America Latina e dell’Africa ad essere rimproverato per la sua metamorfosi dai suoi ex compagni di militanza. Lo ha sperimentato personalmente Nelson Mandela, leader dell’African National Congress (ANC) e dell’organizzazione guerrigliera Umkhonti we Sizwe (MK) (Lancia della Nazione), che dopo 27 anni di carcere è diventato presidente del Sudafrica. Molti dei suoi ex compagni lo criticarono per aver fatto troppe concessioni a coloro che erano stati complici dell’apartheid, dell’oppressione, della brutale repressione e dei crimini subiti per decenni dalla maggioranza della popolazione nera, di cui Mandela stesso faceva parte. È successo anche con Dilma Rousseff, marxista come Mandela e Mujica, militante della guerriglia Grupo Política Operária (Polop), anch’essa torturata e incarcerata per due anni, che finirà per diventare presidente del Brasile. La sinistra radicale metteva in discussione la sua politica di coesistenza al potere con settori della destra, che erano proprio quelli che avrebbero finito per tradirla e per organizzare un golpe morbido contro di lei per rovesciarla. IL CAPITOLO DI VERITÀ E GIUSTIZIA Nonostante la promozione di un programma di misure sociali progressiste fin dal primo governo del Frente Amplio, le divisioni al suo interno sono apparse presto evidenti. Tabaré Vázquez pose il veto su una proposta della maggioranza della coalizione, approvata in Parlamento, per legalizzare l’interruzione di gravidanza, e pose nuovamente il veto su una proposta legislativa del Frente Amplio per abolire la Ley de Caducidad, che aveva lasciato impuniti i crimini commessi da militari, polizia e civili durante la dittatura militare. Tabaré Vázquez accettò solo che alcuni dei responsabili di questi crimini non sarebbero stati coperti da questa amnistia. Una delle controversie che da anni si protraggono all’interno del Frente Amplio è la posizione da assumere nei confronti della legge sulla scadenza delle pretese punitive dello Stato, approvata nel 1986 durante il governo di Julio María Sanguinetti, leader del tradizionale partito conservatore Colorado, che aveva vinto le prime elezioni dopo il ritorno alla democrazia nel 1984. Questa legge de Caducidad concedeva l’amnistia per i reati commessi dalla dittatura militare tra il 1973 e il 1° marzo 1985, quando Sanguinetti entrò in carica. Mujica denunciò Sanguinetti per aver usato la controversa legge per ostacolare le indagini sui casi di prigionieri scomparsi ma da presidente non sarebbe mai riuscito ad abrogarla. Come riparazione storica più che simbolica, è stato l’ex tupamaro Mujica a chiedere pubblicamente scusa, a nome dello Stato uruguaiano, per la scomparsa di María Claudia Iruretagoyena, nuora del poeta Juan Gelman. Lo ha fatto nel marzo 2012, in ottemperanza a una sentenza della Corte interamericana dei diritti umani sul caso Gelman. Il capitolo della memoria, della verità e della giustizia non è stato privo di difficoltà durante il governo di Mujica, con gravi difficoltà nel rovesciare la Ley de Caducidad, che dava l’impunità a militari e poliziotti accusati di crimini contro l’umanità. E anche a causa della nomina di Guido Manini Ríos, a capo dell’esercito e poi esponente dell’estrema destra, alleato del governo uscente di Luis Lacalle Pou. MUJICA AL GOVERNO Mujica ha sostituito Tabaré Vázquez nel 2010 dopo il secondo trionfo elettorale del Frente Amplio e ha dato al governo un carattere più progressista. Durante il suo mandato, sono stati legalizzati l’aborto e il matrimonio omosessuale e l’Uruguay è diventato il primo Paese al mondo a legalizzare la vendita e il consumo controllati di marijuana, regolati dallo Stato. Per quanto riguarda il matrimonio omosessuale, ha detto: “Dicono che è moderno, ma è più vecchio di tutti noi. È una realtà oggettiva. Esiste e non legalizzarlo significherebbe torturare inutilmente le persone”. “Lasciate che ognuno faccia quello che vuole con il proprio culo”, ha detto in un’intervista. E sul consumo di marijuana: “È uno strumento per combattere il traffico di droga, che è un reato grave, e per proteggere la società”. Mujica ha fatto una precisazione: “Ma attenzione, gli stranieri non potranno venire in Uruguay per comprare marijuana; non ci sarà turismo della marijuana”. Anche durante il governo di Mujica ci sono state polemiche per varie iniziative fallite, come il progetto minerario a cielo aperto di Aratirí, la costruzione del rigassificatore di Gas Sayago e la chiusura di Pluna, che costarono il posto all’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Fernando Lorenzo, e al presidente del Banco República, Fernando Calloia. A ciò si aggiunge il fallimento della compagnia aerea Alas U. PEPE E IL SUDAMERICA Una delle ossessioni del politico veterano era il Sudamerica. “Non vedo l’integrazione per domani. Penso a 25, 30 anni da oggi. Dobbiamo imparare a sopportarci a vicenda, a destra e a sinistra”, ha detto Mujica a questo giornalista durante il suo ultimo viaggio a Buenos Aires a proposito della tanto agognata integrazione regionale. Lui, che ha avuto un ruolo di primo piano accanto a Lula, Chávez, Cristina Kirchner, Rafael Correa ed Evo Morales in un momento in cui questo desiderio sembrava possibile e le condizioni di vita dei settori più svantaggiati stavano migliorando. Il quotidiano uruguaiano di sinistra, La Diaria, ricorda che in una delle sue ultime interviste al giornale, Mujica ha riflettuto sul fatto che anche nel MLN-T erano “prigionieri di un’epoca e di un tempo”. Il “problema”, sottolineava Mujica all’epoca, era che “non si impara nulla dalla realtà se non si ha una visione critica di essa e non la si vede più complicata”. Nonostante sia un piccolo Paese di 3,5 milioni di abitanti senza particolare rilevanza a livello internazionale, durante i governi del Frente Amplio, e soprattutto durante il mandato di Mujica, l’Uruguay ha svolto un ruolo attivo nelle nuove organizzazioni regionali dell’America Latina e dei Caraibi nei primi decenni del XXI secolo, quando sono saliti al potere più governi progressisti che mai nella storia della regione. Forze progressiste con caratteristiche diverse sono salite al potere in Argentina, Uruguay, Cile, Brasile, Paraguay, Bolivia, Ecuador, El Salvador, Venezuela e Nicaragua, e in contrasto con le turbolenze, le divisioni interne e le gravi deviazioni ideologiche sperimentate da molti di questi processi, il Frente Amplio è riuscito a mantenere una relativa stabilità interna nonostante le differenze tra i suoi gruppi costituenti. Mujica ha attribuito queste deviazioni in altri Paesi al personalismo e all’allontanamento di molti leader dai movimenti sociali e dalle maggioranze che li hanno portati al potere. Ricorda Montoya  che Pepe, negli ultimi anni ha finito per essere molto critico non solo nei confronti di Daniel Ortega, seguendo la deriva dittatoriale del vecchio leader del FSLN, o di Nicolás Maduro, che considerava aver tradito l’ideologia chavista; ma si è anche arrabbiato con Cristina Kirchner o Evo Morales per non aver accettato che “il loro tempo è finito” e ai quali ha raccomandato di farsi da parte e passare il testimone alle nuove generazioni. Dopo la sua presidenza, Mujica è diventato una figura mondiale: è stato mediatore nel processo di pace tra le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia e il governo colombiano.       The post Addio Mujica, il guerrigliero che divenne presidente first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Addio Mujica, il guerrigliero che divenne presidente sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Come andare all’attacco di Trump e dei suoi avatar
LA LOTTA CONTRO L’ESTREMA DESTRA NON PUÒ LIMITARSI A UNA SEMPLICE LOGICA DIFENSIVA [ROMARIC GODIN] Lo shock è ovviamente terribile. All’inizio del 2025, gli Stati Uniti, fino a poco tempo fa presentati come l’esempio assoluto del legame indistruttibile tra democrazia e capitalismo, si stanno rovesciando in un altro mondo. I primi atti dell’amministrazione Trump tradiscono un colpo di Stato di fatto che mira a rendere nulla la Costituzione americana. L’irruzione di un regime neofascista nella prima potenza militare ed economica del mondo provoca un naturale sgomento e porta a un riflesso comprensibile: cercare di salvaguardare “il mondo di prima”, che naturalmente sembra più clemente di quello promesso da Donald Trump ed Elon Musk. Così laggiù cerchiamo di salvaguardare i quadri dello Stato di diritto e qui in Europa cerchiamo di salvaguardare quello stesso Stato di diritto dalle grinfie degli incensatori e dei mediatori di potere del nuovo regime statunitense. Tutto questo è, ovviamente, estremamente necessario e urgente. Ma questo movimento di resistenza non deve accontentarsi di una semplice posizione difensiva o nostalgica. Non deve mirare a un ritorno a uno status quo ante idealizzato. Per sconfiggere in modo efficace e duraturo il ritorno dell’idra autoritaria, occorre analizzare le condizioni del suo riemergere e proporre un’alternativa democratica credibile, capace cioè di evitare il ripetersi del peggio. Il riferimento deve essere la Resistenza che, durante la Seconda guerra mondiale, mentre guidava la lotta ovunque contro il fascismo tedesco, italiano e giapponese, conduceva il dibattito per costruire un mondo liberato dalle condizioni in cui il fascismo era emerso. E una volta sconfitto il fascismo, la lotta è continuata per costruire una nuova società. In Francia, il Consiglio Nazionale della Resistenza (CNR) riconobbe che la fonte del pericolo fascista era l’abbandono del popolo di fronte alle crisi capitalistiche. La lotta antifascista portò quindi all’istituzione di uno Stato sociale che cambiò profondamente la società. È difficile rendersene conto oggi, ma la Francia del dopo 1945 rappresenta una rottura totale con la Francia dell’anteguerra, che aveva una delle reti di sicurezza sociale più piccole del mondo occidentale. Questo cambiamento è stato il prodotto di una lotta contro le radici della guerra e del fascismo, oltre che contro il fascismo stesso. Ed è questo approccio che ora deve perseguitare coloro che intendono sollevarsi contro il potere del capitalismo autoritario contemporaneo. LE RADICI ECONOMICHE DEL TRUMPISMO Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo iniziare a individuare le radici dell’attuale colpo di stato. Esse vanno ricercate nelle esigenze dei settori rentier dell’economia statunitense e, soprattutto, del settore tecnologico. Si tratta, è bene ricordarlo, del prodotto di una storia più lunga, quella del rallentamento dell’economia globale dopo la crisi del 2008, che nessuna misura è stata in grado di scongiurare e che ha dato vita a metodi predatori la cui naturale conclusione è la presa di potere dello Stato americano. Non potendo produrre valore con i mezzi consueti, il capitale si è rifugiato nei settori rentier, dove il valore viene catturato senza passare per il mercato. Ma questi settori, per continuare la loro accumulazione, hanno bisogno di controllare la società nel suo complesso, per sottometterla alla pseudo-realtà dei loro algoritmi. È qui che ha origine la violenza antidemocratica e imperiale di Trump. Gli osservatori mainstream che finora si sono abbandonati all’apologia di un capitalismo che credevano fonte di libertà e democrazia si ritrovano sbalorditi dall’improvviso emergere di una “oligarchia”, come ha scritto Serge July su Libération. Ma è importante notare quanto questo stesso stupore sia il prodotto di un errore. La posizione apologetica sul capitalismo, convalidata dal rifiuto di ogni “economismo”, ha portato a una cecità nei confronti delle forze all’opera nell’ultimo mezzo secolo. Coloro che hanno difeso la controrivoluzione neoliberale, che cercava proprio di annullare gli effetti della lotta antifascista del dopoguerra, ora si stupiscono della “controrivoluzione” trumpista, come ha titolato Le Monde l’11 febbraio. Ma questa rottura è la logica conseguenza della precedente. Da quando il sogno neoliberista di un mercato perfetto ed efficiente ha portato al disastro nel 2008 e si è dimostrato incapace di aumentare la produttività e la crescita, i vincitori di questo mercato hanno preso in mano la situazione e stanno cercando di costruire un mondo che serva i loro interessi. La prima insidia del nostro tempo è quindi credere che il capitalismo neoliberale sia l’antidoto all’inclinazione fascista di un Trump. Potrebbe esserci la tentazione di idealizzare il regime precedente, non solo perché era democratico e meno violento, ma anche perché potremmo pensare che la concorrenza e il mercato siano una risposta adeguata alla lotta contro gli oligarchi tecnologici. Questo farebbe rivivere il mito del “capitalismo democratico”, in cui il funzionamento di un’economia di mercato regolata sarebbe il fondamento della democrazia liberale. Il problema è che è proprio questo “capitalismo democratico” ad aver dato vita alla mostruosità Trump-Musk. La sacrosanta “economia di mercato”, che per quarant’anni è stata adornata di tutte le virtù dagli intellettuali alla moda, è in realtà in una crisi permanente che non può che portare a una conclusione autoritaria e monopolistica. MERCATI “DISCIPLINATI” La concorrenza, presentata come soluzione a tutti i mali della società dai neoliberisti, non è mai più di una soluzione temporanea. Porta inevitabilmente alla concentrazione, per il funzionamento stesso dei mercati, e i grandi gruppi che emergono da questo fenomeno hanno una sola ossessione: conservare le loro posizioni. Quando la crescita diventa sempre più lenta, come oggi, lo fanno prendendo il potere politico e mettendo in riga la società. Combattere il trumpismo rilanciando le illusioni neoliberiste sarebbe quindi il più disastroso degli errori. Sarebbe dimenticare che la gente si è rivolta all’estrema destra soprattutto perché i neoliberali hanno fallito, perché non hanno mantenuto le promesse di migliorare le condizioni di vita e non hanno esitato, quando è stato necessario, a ricorrere a metodi pesanti. Il deterioramento della democrazia liberale e la sua crescente riduzione a formalità elettorale non sono una novità per Trump. Dagli anni ’80, i neoliberali hanno lavorato duramente per ridurre il ruolo dei sindacati, per ridurre il ruolo del collettivo sul posto di lavoro, mercificare le relazioni sociali e colonizzare l’immaginario idealizzando gli “imprenditori”. L’obiettivo di questo movimento è ovviamente quello di controllare i voti per impedire qualsiasi sfida all’ordine sociale. E se ciò non bastasse, i neoliberisti non hanno esitato a bloccare la democrazia inserendo i fondamenti della loro dottrina nel diritto costituzionale e nei trattati internazionali. Se necessario, la “disciplina di mercato” colpirebbe le società, come ha fatto in Grecia dal 2010. Infine, il regime neoliberale non ha esitato a ricorrere alla repressione. Dai minatori britannici ai “gilet gialli”, il manganello ha spesso avuto l’ultima parola di fronte alla protesta. Questa politica, peraltro inefficace, ha spianato la strada all’orrore di Trump, come in precedenza alla dittatura di Vladimir Putin in Russia, e come ha indebolito le democrazie europee di fronte all’estrema destra. Ha preparato le persone alla violenza, alla negazione della democrazia, alle situazioni di emergenza – in breve, alla sottomissione della società agli interessi del capitale. Logicamente, quando l’estrema destra propone una politica fatta su misura per i plutocrati, gran parte della popolazione difficilmente si commuove. Infine, il fallimento neoliberale è la culla stessa della xenofobia e del razzismo dell’estrema destra. Le ragioni sono due. In primo luogo, perché dal 2008 i partiti neoliberali non hanno esitato a sfruttare la questione dell’immigrazione e ad usarla a proprio vantaggio nel tentativo di rimanere al potere. Il caso di Emmanuel Macron, che ama presentarsi come “anti-Trump”, parla da sé. Dal 2017, il presidente francese ha giocato con i temi dell’estrema destra, fino alla famosa legge sull’immigrazione alla fine del 2023, con l’unico risultato di rendere questa stessa estrema destra la forza principale del Paese. In secondo luogo, non riuscendo a rilanciare la produttività e la crescita, i neoliberali hanno costruito un’economia “a somma zero” in cui le questioni di redistribuzione sono ora questioni di competizione all’interno della società stessa. Per ottenere di più, i gruppi sociali devono fingere di “prendere” dagli altri. E poiché i neoliberali rifiutano qualsiasi redistribuzione dall’alto verso il basso e hanno, a tal fine, distrutto qualsiasi senso di classe sociale, sono logicamente le affiliazioni etniche o razziali ad aver ripreso il sopravvento. E coloro che propongono una redistribuzione su queste basi sono i partiti di estrema destra. È facile capire la follia di resistere al trumpismo cercando di preservare le condizioni per l’emergere di questo autoritarismo plutocratico. L’unica ambizione sarebbe quella di guadagnare un po’ di tempo prima che si verifichi nuovamente l’inevitabile punto di svolta. Eppure questo è il cuore della politica difensiva che da anni viene portata avanti nei Paesi occidentali: “bloccare” l’estrema destra senza cercare di affrontare le fonti del suo successo, e aspettare con ansia la prossima scadenza. Tutti sembrano trovarsi nei panni della du Barry che, prima della sua esecuzione, chiedeva: “Ancora un momento, signor boia”. Dobbiamo uscire da questa logica disastrosa. LA DEMOCRAZIA COME ANTIDOTO Per uscire da questa situazione, dobbiamo renderci conto che il cuore del problema risiede nella recente evoluzione del capitalismo. Il capitalismo democratico si è progressivamente svuotato di significato. La democrazia è diventata un ostacolo all’accumulazione del capitale. E questo vale non solo per i giganti tecnologici, ma anche per il resto del capitalismo, che intende imporre le politiche che ritiene necessarie, costi quel che costi. Nessun settore del capitale verrà in soccorso della democrazia. Coloro che dipendono dai sussidi pubblici per mantenere il loro tasso di profitto intendono imporre l’austerità sulla spesa sociale e sui salari, senza alcuna preoccupazione per la convalida popolare. Ciò è stato chiaramente dimostrato di recente nel dibattito sul bilancio francese. D’ora in poi, il compito della resistenza è, come ottant’anni fa, quello di proporre nuove condizioni per l’esistenza della democrazia. Nel 1945 era ormai chiaro che la democrazia non poteva sopravvivere senza una forma di Stato sociale che agisse per proteggere i suoi cittadini. Oggi la sfida è capire quali condizioni sociali siano in grado di sostenere una vera democrazia. Perché ciò che il trumpismo, come il melonismo, ci insegna è questo: la forma democratica ridotta al voto non è una vera democrazia. La vera democrazia deve basarsi su una società civile forte, fondata sulla diversità, sul rispetto delle minoranze, sul dibattito approfondito e sulla libertà individuale, consapevole dei propri limiti sociali e ambientali. In altre parole, le condizioni sociali in cui si vota sono più importanti del voto stesso. Possiamo continuare a credere che democrazia e capitalismo siano inseparabili facendo affidamento su un capitalismo regolamentato e sorvegliato. Ma nel capitalismo di oggi, tali regolamentazioni sembrano delle esche. La corsa all’accumulo rischia di spazzare via queste barriere insieme a ciò che resta della democrazia. Ridurre il potere dei più ricchi è una necessità, ma è sufficiente a fermare il disastro? Nulla è meno certo, perché le esigenze del capitale rimarranno al centro della società. Se il Conseil national de la Résistance (CNR) può essere un modello di come si dovrebbe fare, dobbiamo sempre tenere presente che le condizioni per realizzare il nostro progetto normativo non sono quelle di oggi. L’attuale momento storico richiede senza dubbio un passo più ambizioso. Se il capitalismo è la fonte del trumpismo e dei suoi avatar di estrema destra, allora la battaglia di resistenza deve concentrarsi su una ridefinizione della democrazia liberata dalla logica dell’accumulazione. Ciò significa che le condizioni per la creazione di opinioni devono essere liberate dalle esigenze del capitale. Per raggiungere questo obiettivo, è essenziale ridefinire i bisogni degli individui in termini non di bisogni dell’accumulazione, ma di bisogni sociali e ambientali. Le condizioni per questa ridefinizione risiedono nell’estensione della democrazia stessa, in particolare alle sfere della produzione e del consumo. Queste sono le condizioni per l’emergere di una coscienza la cui assenza sta portando il mondo alla catastrofe. Di fronte alla “libertà di espressione” sbandierata dall’estrema destra, che è solo la libertà di sottomettersi agli ordini del capitale e dei suoi algoritmi, la nuova resistenza deve proporre una libertà più autentica, che si concretizza in una rinnovata solidarietà e nella consapevolezza dei limiti planetari e sociali. Solo così la democrazia potrà tornare ad avere un senso. Tutto questo può e deve essere discusso. Il CNR è anche il frutto di un intenso dibattito all’interno della Resistenza. Ma ciò che dobbiamo tenere presente è che, se è normale e legittimo in questi tempi bui cercare di salvare il salvabile, questo è solo una parte del compito della nuova Resistenza. Questo compito difensivo non deve farci dimenticare l’altro, essenziale, di guardare al futuro. Per poter finalmente passare all’offensiva.   The post Come andare all’attacco di Trump e dei suoi avatar first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Come andare all’attacco di Trump e dei suoi avatar sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.