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giornalismo o barbarie

Così l’Europa smantella il diritto d’asilo
A BRUXELLES L’ALLEANZA TRA DESTRE E ESTREME DESTRE VARA DUE REGOLAMENTI CHE AVRANNO PESANTI CONSEGUENZE SULLA VITA DEI RIFUGIATI La commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo (Libe) ha approvato due testi centrali del Patto su migrazione e asilo: la prima lista UE di “Paesi di origine sicuri” e il mandato negoziale per applicare le norme sui cosiddetti “Paesi terzi sicuri”. Il voto passa grazie a una maggioranza costruita tra il Partito Popolare Europeo e i gruppi della destra radicale, mentre i Socialisti votano contro. È un passaggio politico decisivo: consolida un’alleanza strutturale tra conservatori e ultradestra che da mesi, e in realtà da anni, lavora per inasprire la gestione europea delle migrazioni e per normalizzare l’esternalizzazione dell’asilo. «Si smantella così il diritto d’asilo in Europa, ponendo le basi per un piano di deportazione di massa sul modello Trump. La traiettoria dei fascisti è chiara – commenta l’eurodeputata Avs, Ilaria Salis, relatrice ombra in commissione per il gruppo The Left – da un secolo all’altro, da una parte all’altra dell’Oceano». Non è un caso che una rivendicazione giunga dal governo a trazione FDI che vi legge «conferma di ciò che il Presidente Meloni e il Governo sostengono da tempo: per gestire l’immigrazione servono realismo, fermezza e cooperazione internazionale. L’ampliamento dell’elenco dei Paesi sicuri  approvato rappresenta un passo fondamentale per rendere i  rimpatri più rapidi ed efficaci», recita infatti una nota del sottosegretario all’Interno Emanuele Prisco per il quale «si tratta di una svolta importante: saranno  possibili trasferimenti non solo verso i Paesi di origine e di transito degli immigrati irregolari, ma anche verso quelli con  cui esistono accordi di cooperazione. È un cambio di visione che rafforza anche la sicurezza nelle nostre città e restituisce credibilità alle politiche migratorie europee. Ancora una volta l’Europa si muove nella direzione indicata dall’Italia: gestione dei confini, lotta ai trafficanti, rimpatri più veloci e cooperazione internazionale.  Mancano ancora alcuni passaggi per l’approvazione definitiva, ma finalmente la direzione, anche europea, è chiara». L’impianto dei testi approvati serve a rendere più semplice il rimpatrio e il trasferimento dei richiedenti asilo fuori dall’UE. Il primo elenco consente di dichiarare “sicuro” il Paese d’origine e quindi respingere più facilmente le domande di protezione. Il secondo elenca Paesi terzi dove l’UE ritiene possibile inviare persone esiliate anche se non hanno alcun legame con quelle destinazioni — pratica già sperimentata dal Regno Unito con il Ruanda e dall’Italia con l’Albania. L’effetto politico è pesante: si legittima l’outsourcing della gestione migratoria verso Paesi dove la repressione dei diritti umani è documentata. L’inclusione di Marocco, Tunisia, Egitto e Bangladesh nella lista dei “Paesi d’origine sicuri”, nonostante persecuzioni sistematiche di attivisti, avvocati e giornalisti, mostra con chiarezza la natura ideologica dell’operazione. Le ONG per i diritti umani avevano avvertito che questa classificazione è incompatibile con la Convenzione di Ginevra, che impone valutazioni individuali dei rischi. Ma la destra ha tirato dritto. Il 3 dicembre, il PPE e i gruppi dell’estrema destra ottengono 40 voti contro 32 sul dossier Paesi terzi sicuri; 39 contro 25 su quello dei Paesi d’origine. Renew, decisiva in molte votazioni, sceglie l’astensione sulla seconda lista, facilitandone l’approvazione. Non è un incidente isolato: simili combinazioni tra destre e ultradestra avevano già ribaltato il voto sul dovere di vigilanza delle imprese il 13 novembre. La procedura scelta evita anche un passaggio in plenaria, accelerando l’ingresso dei testi nel trilogo con Commissione e Consiglio: un segnale dei nuovi equilibri dell’Europarlamento dopo il voto del 2024, con l’avanzata delle destre radicali e la porosità crescente del PPE verso la retorica securitaria. Per la deputata ecologista Mélissa Camara, questa alleanza “vergognosa” mette a rischio diritti fondamentali e dignità degli esiliati; Damien Carême parla apertamente della fine del diritto d’asilo europeo, ridotto a pura finzione procedurale. E avverte: parte della destra voleva inserire perfino Sudan, Etiopia e Senegal nella lista dei Paesi terzi sicuri. La linea dura non riguarda solo l’elenco dei Paesi. È in corso un inasprimento più ampio: la Commissione propone sanzioni commerciali contro gli Stati che non accettano il rientro dei propri cittadini espellibili, collegando riammissioni e privilegi commerciali. Se i visti non bastano, si immagina la sospensione dei benefici del sistema preferenziale. Un meccanismo che — come riconosce Carême — di fatto già esiste informalmente: l’UE finanzia da anni Paesi terzi affinché fungano da barriera esterna. L’attacco al diritto d’asilo passa anche attraverso una modifica cruciale al concetto di “Paese terzo sicuro”. Oggi, per trasferire una persona fuori dall’UE, deve esistere un “criterio di connessione”, un legame con il Paese ricevente: transito, famiglia, qualche relazione concreta. Questo principio, centrale nell’accordo UE-Turchia del 2016, viene ora reso opzionale. Basterà un accordo politico tra uno Stato membro e un Paese extra-UE per trasferire richiedenti asilo verso luoghi dove non hanno alcun legame. È lo stesso modello “Ruanda” promosso da Johnson nel Regno Unito, bocciato dalla Corte Suprema ma ormai diventato riferimento culturale per le destre europee. La versione del Parlamento introduce un elemento ancora più controverso: anche i minori potranno essere trasferiti se considerati un rischio per la sicurezza o l’ordine pubblico. I ricorsi contro i trasferimenti non avranno più effetto sospensivo: le persone saranno allontanate comunque e solo dopo, in caso di vittoria del ricorso, riportate nell’UE. Per i giuristi, il rischio è evidente: trasferimenti arbitrari, scarsa tutela, contesti ostili e possibili cause davanti alla Corte di giustizia. Ma il quadro complessivo — spiega la ricercatrice Andreina De Leo — probabilmente reggerà, perché la Convenzione di Ginevra non menziona esplicitamente il criterio di connessione. Il governo Meloni gioca un ruolo di primo piano: il relatore della lista dei Paesi d’origine sicuri è l’eurodeputato di FdI Alessandro Ciriani. La misura ha un valore operativo: consente l’applicazione accelerata delle procedure di rimpatrio previste per i centri in Albania. L’evoluzione politica è favorita dall’assetto istituzionale dell’UE. Tutte le principali istituzioni remano nella stessa direzione: la Commissione von der Leyen, il Consiglio dominato da governi di centro-destra e destra radicale, e un Parlamento europeo spostato nettamente a destra. Ursula von der Leyen ha affidato il dossier migrazioni a Magnus Brunner, ex ministro delle Finanze austriaco, un profilo rassicurante e opaco, incaricato di disinnescare il conflitto pubblico e di far passare misure drastiche in modalità quasi silenziosa. Non a caso molte iniziative sono state annunciate in date e orari strategici per minimizzare l’attenzione mediatica. Nel complesso, dunque, l’UE sta consolidando un sistema che rende l’asilo un diritto sempre più formale e sempre meno reale. L’allineamento politico tra popolari, destre e ultradestra, un tempo impensabile, è oggi il motore di un cambio di paradigma che sposta la frontiera dell’Europa sempre più lontano da sé — e i diritti delle persone sempre più lontano dagli standard internazionali. The post Così l’Europa smantella il diritto d’asilo first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Così l’Europa smantella il diritto d’asilo sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Il medico andaluso che vuole bloccare Teva
L’AZIENDA ISRAELIANA CHE SOSTIENE APERTAMENTE IL GENOCIDIO CONTINUA A ESPANDERSI NELLO STATO SPAGNOLO MA ASTURIE E NAVARRA HANNO DECISO DI RESCINDERE I CONTRATTI Aurora Báez Boza su El Salto Paracetamolo, ibuprofene, omeprazolo sono tre farmaci che possiamo trovare nell’armadietto dei medicinali di qualsiasi casa e tra i più comuni nelle prescrizioni mediche. Consumiamo questi farmaci senza pensare al loro involucro politico. Teva, la più grande azienda farmaceutica israeliana, è uno dei distributori di questi principi attivi in Spagna, così come di altre migliaia di farmaci. Teva è leader del settore in Israele e una delle più potenti aziende farmaceutiche a livello mondiale. Nel 2024, secondo la stessa società, ha ottenuto un fatturato di 16,5 miliardi di dollari grazie alla sua attività in tutto il mondo. Il marchio afferma di essere leader nel mercato dei farmaci generici nell’UE. In Spagna, dal 2008 l’azienda ha un proprio stabilimento sul territorio, a Saragozza, ed è la terza azienda farmaceutica per volume che opera nello Stato. Il movimento Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (BDS) la identifica come uno degli obiettivi prioritari per il boicottaggio economico di Israele. SOSTEGNO ATTIVO AL GENOCIDIO E ALL’OCCUPAZIONE ISRAELIANA IN PALESTINA Teva è, sin dalla sua nascita, un’azienda allineata con Israele e un simbolo statale di difesa del progetto sionista. Lo dimostra fin dall’ottobre 2023, quando l’azienda ha manifestato apertamente il proprio sostegno al genocidio perpetrato da Israele. Almeno il 10% del suo personale in Israele si è arruolato o si è unito all’esercito. Tra queste centinaia di lavoratori c’è Hadar Mama, direttore della logistica dell’azienda. Nel dicembre 2023, il quotidiano The Jerusalem Post ha pubblicato un articolo intitolato “The heroes of Teva” (Gli eroi di Teva) in cui elogiava la partecipazione dei dipendenti alle incursioni militari. L’azienda ha inoltre donato materiale alle Forze di Difesa Israeliane e le sue sedi sono state adibite a centri di raccolta di materiali per i soldati. Nei suoi uffici sono affissi cartelloni che mostrano il sostegno all’esercito. Nell’aprile 2024, il marchio ha annunciato la creazione della fondazione “Support the soul” (sostieni un’anima), il cui obiettivo è “curare il trauma nazionale della popolazione israeliana”, in particolare dei soldati dell’IDF. Il direttore esecutivo di Teva Israel, Yossi Ofeck, ha dichiarato durante la presentazione della fondazione che “come azienda farmaceutica nazionale israeliana, ci siamo mobilitati fin dal primo giorno di guerra a beneficio di Israele” e ha aggiunto che “abbiamo donato medicinali essenziali, latte in polvere e computer” all’IDF, oltre ad altro materiale. “Teva ha beneficiato per decenni dell’occupazione illegale dei territori palestinesi da parte di Israele”, afferma il movimento BDS. “È una delle aziende complici nel limitare la fornitura di farmaci alla Palestina, aggravando il carico sanitario che grava sulle persone nei territori occupati”, denuncia l’organizzazione Health Workers 4 Palestine. Oltre a sostenere il genocidio in Palestina e l’occupazione, Teva è stata coinvolta in diversi scandali a livello internazionale. Lo scorso aprile, l’Agenzia delle Entrate spagnola ha richiesto alla casa farmaceutica il pagamento di 36 milioni di euro di imposte non versate nel corso di diversi anni. Un pagamento che si aggiungerà alla multa di 462 milioni di euro inflitta dall’UE per aver violato le regole di concorrenza leale dell’Unione Europea. ALCUNE VITTORIE DEL BOICOTTAGGIO Nonostante le dimensioni dell’azienda, ci sono gruppi e individui che non esitano a confrontarsi con essa. Uno dei casi recenti più popolari è stato quello di Pablo Simón, un medico della località di Chauchina (Granada) che si rifiuta di prescrivere farmaci della Teva. Per questo motivo, come pubblicato dal mezzo di comunicazione Enfoque Judío, la cosiddetta Commissione Sanitaria contro l’Antisemitismo ha denunciato questo medico. Alla fine, l’Ordine dei Medici di Granada, dopo le pressioni di centinaia di persone e organizzazioni a sostegno del medico, ha archiviato la denuncia. “Non ho alcuna spiegazione del perché mi abbiano denunciato proprio ora. I cartelli sono affissi sulla porta del mio studio da più di un anno e non ci sono state lamentele. Al contrario, i pazienti hanno mostrato molto interesse per l’argomento”, sostiene Simón. Il medico sottolinea che non si tratta di un attacco personale, ma che “È una dinamica del movimento sionista quella di negare qualsiasi critica e farci credere che ormai ci sia la pace. È un attacco esemplare per incutere paura”. Il medico insiste sul fatto che “il boicottaggio funziona” e invita tutta la popolazione a chiedere in farmacia la sostituzione dei farmaci Teva nelle loro prescrizioni. “Esistono alternative per tutti i farmaci”, afferma. A metà novembre, il governo delle Asturie ha deciso di smettere di acquistare farmaci da questa azienda farmaceutica israeliana. La decisione è stata presa in risposta a una proposta di legge presentata alla Junta General del Principado de Asturias da Covadonga Tomé, portavoce di Somos Asturies e deputata al parlamento asturiano. Il testo della proposta chiedeva la rottura “con le aziende che, direttamente o indirettamente, svolgono attività commerciali o economiche negli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati”. Sebbene la proposta non vincolante richiedesse la cessazione immediata dei contratti in vigore, il governo asturiano ha dichiarato che la fine dei rapporti avverrà alla scadenza dei contratti in corso con l’azienda, una parte il prossimo 31 gennaio e l’altra il 31 luglio. Dopo l’annuncio delle Asturie, il governo della Navarra ha deciso di limitare i contratti con la società. Smetterà di acquistare farmaci generici da Teva, ma ci saranno eccezioni per prodotti specifici che non possono essere sostituiti. “In un esercizio di responsabilità e di garanzia dell’assistenza, non possiamo fare a meno di questo farmaco e non lo faremo”, spiega il consigliere alla Salute del Governo di Navarra, Fernando Domínguez. Euskadi discuterà della cessazione di questo contratto la prossima settimana, per iniziativa di  EH Bildu, che ha documentato i dati della quantità di denaro che Osakidetza (il Servicio sanitario basco) ha speso dal 2023 per i medicinali della compagnia: oltre 5,5 milioni di euro. Queste cessazioni fanno parte di un movimento internazionale di boicottaggio che sta raccogliendo i suoi frutti: in Italia, il comune di Sesto Fiorentino ha esortato le farmacie a non vendere i prodotti Teva e alcuni ospedali irlandesi hanno smesso di prescriverli. Tutto grazie al boicottaggio popolare. UN’ESPANSIONE CHE NON SI FERMA Mentre alcuni territori all’interno dello Stato rompono i rapporti con la società o ne discutono, l’azienda sembra non smettere di espandersi all’interno del Paese. Nel 2024, l’azienda è cresciuta del 10% in Spagna e ha fatturato 160 milioni di euro nei primi sei mesi dell’anno, secondo El Economista. La produzione nel suo stabilimento di Saragozza, secondo la stessa azienda, è cresciuta del 35% dal 2020. Non cessano nemmeno gli appalti pubblici sul territorio. Il 25 novembre scorso, la direzione dell’Istituto Nazionale di Gestione Sanitaria (Ingensa) ha formalizzato un contratto del valore di quattro milioni di euro con Teva Pharma per la fornitura di medicinali alle comunità autonome attraverso un accordo macro. Da parte sua, la Giunta dell’Andalusia ha speso quasi due milioni di euro in medicinali dall’inizio del 2025 con l’azienda attraverso contratti minori. La spesa del governo andaluso in gare d’appalto e contratti minori con l’azienda supererebbe i sei milioni di euro dal 2023. Si tratta di contratti che si ripetono con cifre simili in diverse istituzioni regionali e statali. Teva è presente non solo nei sistemi sanitari pubblici e nelle farmacie. Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano Público, il finanziamento dei progetti di ricerca e sviluppo di questa azienda farmaceutica nello Stato spagnolo è cresciuto dell’88% dal 2023. Inoltre, l’Università Autonoma di Madrid ha creato una cattedra “in gestione personalizzata dell’asma e della BPCO grave e di altre malattie respiratorie complesse” e intrattiene rapporti con decine di università pubbliche nel Paese. The post Il medico andaluso che vuole bloccare Teva first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Il medico andaluso che vuole bloccare Teva sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Così Putin soffia sul fuoco tra islamofobia e antisemitismo
DOCUMENTI INTERNI AL CREMLINO DIMOSTRANO IL COINVOLGIMENTO DELLA RUSSIA IN OPERAZIONI IN FRANCIA CONTRO EBREI E MUSULMANI Inchiesta di Matthieu Suc su Mediapart La Russia intende diffondere l’immagine di una Francia antisemita e islamofoba. Per essere certo che la nostra società si laceri, il Cremlino ha deciso di alimentare l’odio tra le comunità ebraica e musulmana, prendendole di mira una dopo l’altra. Un servizio di intelligence francese ha recentemente ottenuto alcuni documenti interni al Cremlino in cui, secondo una sintesi consultata da Mediapart, «l’amministrazione presidenziale [russa] si sforza di aumentare le tensioni tra queste due comunità sul territorio nazionale strumentalizzando dibattiti divisivi per seminare divisioni all’interno della società francese e indebolire la coesione nazionale». Sempre secondo le nostre informazioni, lo stesso servizio di intelligence francese ha appreso, ad esempio, che il degrado dei siti culturali e commemorativi ebraici nel maggio 2025 è stato «direttamente approvato dall’amministrazione presidenziale russa». In un rapporto riservato presentato al Parlamento, i servizi di intelligence francesi sottolineavano già in primavera che «la guerra psicologica e informativa» condotta dalla Russia mirava a «fratturare l’opinione pubblica esacerbando le tensioni all’interno della popolazione», in particolare, scrivevano i servizi segreti, in riferimento al «conflitto tra Israele e Hamas». In alcune note versate in un procedimento giudiziario nel 2024 e rivelate da Mediapart, la DGSI sottolineava anche che la Francia era «un obiettivo privilegiato del Cremlino» e che, per destabilizzare gli Stati «percepiti come avversari», i servizi segreti russi identificano «vulnerabilità esistenti come divisioni politiche o intercomunitarie», che sfruttano «per disorientare le menti». Il controspionaggio francese sottolinea che esistono «costanti identificabili» nei temi scelti per le loro operazioni di ingerenza, «principalmente» questioni legate all’immigrazione, all’Islam, all’antisemitismo, all’egemonia statunitense, alle istituzioni (Unione Europea, NATO), ecc. VERNICE VERDE E TESTE DI MAIALE Dal 7 ottobre, la volontà russa di puntare sulla guerra genocida condotta da Israele a Gaza si era manifestata con operazioni di destabilizzazione mirate esclusivamente alla comunità ebraica. Tre settimane dopo l’attacco perpetrato da Hamas in Israele, più di 250 stelle di David erano state dipinte sui muri di diversi edifici nella regione parigina. Nel maggio 2024, due settimane dopo che gli studenti di Sciences Po avevano mostrato mani rosse durante le manifestazioni filopalestinesi (un simbolo che aveva suscitato polemiche, rinviando al massacro di due soldati israeliani nell’ottobre 2000, agli albori della seconda Intifada), trentacinque mani rosse erano state dipinte sul Memoriale della Shoah, a Parigi,  sopra le targhe con i nomi delle persone che hanno salvato gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Ora si tratta di attaccare due comunità religiose per aumentare le possibilità di conflitto in Francia. Questa nuova strategia di destabilizzazione ha trovato una prima applicazione concreta tra maggio e settembre 2025. Prima ci sono state «le pitture verdi». Nella notte tra il 30 e il 31 maggio 2025, alcune sinagoghe, un ristorante e (ancora una volta) il Memoriale della Shoah sono stati vandalizzati. Individui in tuta hanno spruzzato vernice verde sulle loro facciate. Tre cittadini serbi sono stati arrestati ad Antibes (Alpi Marittime) mentre cercavano di lasciare il paese. Secondo la procura di Parigi, sono stati identificati grazie all’analisi delle immagini delle telecamere di sorveglianza e alle indagini sulle comunicazioni telefoniche. Tre mesi dopo ha luogo la seconda fase dell’operazione. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre 2025, una decina di teste di maiale – su alcune delle quali è scritto “MACRON” con vernice blu – vengono depositate davanti a nove luoghi di culto musulmani nella regione parigina. Il giorno dopo, la procura di Parigi denuncia «un evidente tentativo di provocare disordini all’interno della nazione». UN SERBO AL SOLDO DI MOSCA I primi elementi dell’indagine mostrano che due individui hanno acquistato dieci teste di maiale da un allevatore in Normandia qualche ore prima del gesto. Una volta compiuta la loro sinistra impresa, hanno attraversato il confine franco-belga a bordo di un veicolo immatricolato in Serbia. Le Monde ha poi rivelato che entrambe le operazioni sono state condotte a distanza dalla stessa persona. Secondo le informazioni di Mediapart, quest’uomo è un serbo di nome Aleksandar Savic, già noto ai servizi segreti come agente al soldo della Russia. Savic ha prenotato in una mail scritta il 27 agosto le teste di maiale che sarebbero state utilizzate dai suoi complici due settimane dopo. La DGSI aveva già Aleksandar Savic nel mirino per aver trasmesso, tramite messaggistica criptata (Telegram, Viber e Zangi), agli altri tre cittadini serbi arrestati ad Antibes gli indirizzi dei luoghi commemorativi e culturali ebraici a Parigi che sarebbero stati imbrattati con vernice verde. Durante un’operazione di sorveglianza, un servizio di intelligence europeo aveva anche avvistato Aleksandar Savic in contatto con due dei tre serbi poche settimane prima che questi fatti fossero commessi. Secondo le nostre informazioni, il coinvolgimento di Savic in queste due operazioni di destabilizzazione che hanno preso di mira successivamente le comunità ebraica e musulmana è, agli occhi della DGSI, segno del loro controllo da parte della Russia. Tanto più che il ruolo svolto dal capo della cellula, che non ha messo piede in Francia ma ha gestito la logistica dell’operazione, è simile a quello del bulgaro Nikolay Ivanov, appena condannato a quattro anni di carcere per aver finanziato gli spostamenti e l’alloggio a Parigi di altri tre bulgari che hanno imbrattato (le mani rosse) sul Memoriale della Shoah. Tre settimane dopo che alcune teste di maiale erano state lasciate davanti alle moschee, il ministro dell’Interno serbo ha pubblicato un comunicato stampa per annunciare l’arresto di undici serbi sospettati di aver partecipato a diverse operazioni in Francia e Germania con l’obiettivo di diffondere «idee che incitano all’odio, alla discriminazione e alla violenza basate sulle differenze», tra cui la vernice verde e le teste di maiale. Contattata, la procura di Parigi assicura che questi individui non sono stati arrestati su richiesta della Francia. Il loro capo, Aleksandar Savic, è invece «attualmente latitante». Secondo il ministero dell’Interno serbo, che non precisa la nazionalità del servizio in questione, avrebbe agito «su istruzioni di un servizio di intelligence straniero». Non si sa dove si trovi attualmente Aleksandar Savic. Quello che si sa è che il suo omologo dalle mani rosse, Nikolay Ivanov, era fuggito dal suo paese, la Bulgaria, dopo aver deturpato il Memoriale della Shoah per recarsi, come rivelato da Mediapart, a Mosca, prima di rifugiarsi in Croazia, dove era stato infine arrestato. UN MODUS OPERANDI CARATTERISTICO In una nota del luglio 2024 allegata a un procedimento giudiziario, la DGSI delinea uno schema delle operazioni di destabilizzazione condotte dalla Russia e dalla sua organizzazione altamente gerarchizzata. «In primo luogo c’è un ufficiale dell’intelligence russa con base in Russia. Questo mandante ricorre, in secondo luogo, a un intermediario generalmente con base in uno degli antichi paesi satellite dell’URSS o  o provenienti dal crollo del blocco orientale“. Successivamente, l’intermediario entra in contatto con ”individui di lingua russa spesso in condizioni precarie“. Quindi l’intermediario coordina, ”a distanza e in modo dematerializzato”, l’organizzazione di queste campagne. Per ogni missione viene creato un canale Telegram. Gli agenti provocatori ricevono istruzioni molto precise sugli obiettivi da danneggiare. «Sono in grado di dirci in quale negozio acquistare ciò di cui abbiamo bisogno o anche dove parcheggiare», racconta uno degli uomini che hanno depositato le bare sotto la Torre Eiffel. Una volta completata la missione, i messaggi e l’account Telegram vengono cancellati. «Questa organizzazione compartimentata garantisce un certo grado di sicurezza delle operazioni e rende particolarmente complesso stabilire il legame tra la Russia e gli esecutori», deplora in una delle sue note la DGSI. UNA VECCHIA TRADIZIONE DEL KGB Le “misure attive” sono l’eredità di una lunga tradizione sovietica. Si tratta di azioni condotte, in origine dal KGB, per destabilizzare i regimi e le popolazioni dei paesi avversari, in linea con gli interessi dell’URSS di allora e della Russia di oggi. Le prime misure attive conosciute risalgono agli anni ’50, con una campagna di affissione di slogan antisemiti e svastiche nella Repubblica Federale Tedesca e in altri paesi europei. Un episodio soprannominato “l’epidemia delle svastiche”, i cui veri autori sono stati scoperti solo negli anni 2000, grazie allo studio degli appunti manoscritti redatti dal disertore sovietico Vassili Mitrokhine, archivista fino al 1992 presso la prima direzione generale del KGB. Lo sfruttamento di questi archivi ha anche rivelato la diffusione, da parte del KGB, di testi razzisti, presumibilmente prodotti dalla Lega di difesa ebraica, che incitavano al linciaggio dei cittadini afroamericani negli Stati Uniti. Queste misure attive hanno anche assunto la forma di lettere inviate a nome del Ku Klux Klan a paesi africani e asiatici prima delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984.   The post Così Putin soffia sul fuoco tra islamofobia e antisemitismo first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Così Putin soffia sul fuoco tra islamofobia e antisemitismo sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Plan Condor 50 anni dopo: un network di repressione transnazionale
COME LE POLIZIE DEI REGIMI FASCISTI SCATENARONO UN’ONDATA DI OMICIDI E SPARIZIONI TRANSNAZIONALI IN AMERICA LATINA Peter Kornbluh su The Nation Il 25 novembre 1975, in occasione del sessantesimo compleanno del generale Augusto Pinochet, quattro delegazioni di agenti dei servizi segreti del Cono Sur arrivarono a Santiago del Cile su invito dei servizi segreti cileni, la DINA. La loro missione: “istituire qualcosa di simile all’INTERPOL”, secondo l’ordine del giorno riservato della riunione, “ma dedicato alla sovversione”. Durante la loro riunione clandestina di tre giorni tenutasi presso l’Accademia militare cilena, i funzionari militari di Argentina, Bolivia, Cile, Paraguay e Uruguay concordarono di formare “un sistema di collaborazione” per identificare, localizzare, rintracciare, catturare e “liquidare” gli oppositori di sinistra dei loro regimi. Al termine della conferenza, il 28 novembre, un membro della delegazione uruguaiana brindò al paese ospitante e propose che la nuova organizzazione prendesse il nome dal maestoso uccello nazionale del Cile: il condor andino. Ci fu “approvazione unanime”, come riporta un resoconto segreto della riunione. Nacque così il “sistema Condor” transnazionale, un simbolo tristemente famoso degli abusi di potere del passato che l’autoritarismo può portare in futuro. Mezzo secolo fa, l’inaugurazione del Condor diede il via a una serie di atti di terrorismo sponsorizzati dallo Stato in tutto l’emisfero occidentale e oltre. L’“Operazione Condor”, come la definì la CIA nei suoi rapporti top secret, divenne un’agenzia multinazionale di “repressione transfrontaliera” come ha scritto il giornalista investigativo John Dinges nella sua esaustiva opera storica, The Condor Years, “[le cui] squadre andarono ben oltre i confini dei paesi membri per lanciare missioni di assassinio e altre operazioni criminali negli Stati Uniti, in Messico e in Europa”. Durante il periodo di attività del Condor, tra il 1976 e il 1980, Dinges e altri investigatori hanno documentato almeno 654 vittime di rapimenti transnazionali, torture e sparizioni. La maggior parte di questi crimini contro i diritti umani sono stati commessi nella regione del Cono Sur. Ma una sottodirezione del Condor, nome in codice “Teseo” – dal nome dell’eroico re guerriero della mitologia greca – ha istituito un’unità internazionale di squadroni della morte con sede a Buenos Aires che ha lanciato 21 operazioni in Europa e altrove per assassinare gli oppositori dei regimi militari del Cono Sur. UNA INVENZIONE CILENA La creazione del Condor deve essere attribuita al regime di Pinochet, in particolare al capo della DINA Juan Manuel Contreras. Egli era, come riferì alla CIA un membro del Condor, “l’uomo che ha ideato l’intero concetto del Condor e ne è stato il catalizzatore per la sua realizzazione”. Contreras invitò personalmente i suoi omologhi di Argentina, Bolivia, Uruguay e Paraguay a partecipare alla riunione inaugurale a Santiago nel novembre 1975; il Cile ospitò anche la seconda riunione convocata a Santiago il 31 maggio 1976, quando fu creata la sottodirezione del Condor per gli omicidi internazionali, “Teseo”. Per selezionare gli obiettivi da “liquidare”, secondo un rapporto segreto dell’intelligence della CIA, Contreras avrebbe “coordinato i dettagli e gli elenchi degli obiettivi con il presidente cileno Augusto Pinochet Ugarte”. “Il Cile ha molti obiettivi (non identificati) in Europa”, osservava un altro rapporto della CIA. Fonti della CIA indicavano anche che “alcuni leader di Amnesty International potrebbero essere selezionati per l’elenco degli obiettivi”. Santiago del Cile fungeva anche da quartier generale per l’ufficio centrale dati e archivi del Condor. Il Brasile, che aderì al Condor nel 1976, fornì una rete di comunicazioni criptate nota come Condortel. (Anche il Perù e l’Ecuador aderirono al Condor nel 1978). La divisione operativa di comando e controllo del Condor, nota come “Condoreje”, avrebbe avuto sede a Buenos Aires. Anche l’unità speciale dello squadrone della morte “Teseo”, composta da agenti appositamente addestrati provenienti da Cile, Argentina e Uruguay, utilizzava una base a Buenos Aires. “Ogni rappresentante presenterà la sua scelta di obiettivo sotto forma di proposta”, affermava l’accordo “Teseo” del settembre 1976. “La selezione finale di un obiettivo avverrà tramite votazione e sulla base della maggioranza semplice”. Nella sezione “Esecuzione dell’obiettivo”, il testo dell’accordo proseguiva: “Questa è responsabilità della squadra operativa che (A) intercetterà l’obiettivo, (B) eseguirà l’operazione e (C) fuggirà”. Per tali missioni di omicidio, i costi operativi erano stimati “a 3.500 dollari a persona per dieci giorni, con un supplemento di 1.000 dollari la prima volta per l’indennità di vestiario”. IL RUOLO DEGLI STATI UNITI Conosciamo i banali dettagli di queste operazioni terroristiche segrete perché i funzionari del Condor li condivisero con la CIA; e oltre 40 anni dopo , i documenti segreti della CIA sono stati finalmente, anche se solo in parte, declassificati. L’Agenzia sembra aver saputo dell’esistenza dell’Operazione Condor nel marzo del 1976, ma i suoi sforzi di raccolta di informazioni si sono intensificati dopo il secondo incontro dell’Operazione Condor a Santiago, quando è venuta a conoscenza del piano “Teseo”. Gli Stati Uniti sono stati spesso accusati di aver favorito l’Operazione Condor, ma tali accuse sono inesatte. Certamente, funzionari come il Segretario di Stato Henry Kissinger non avevano alcun problema con le “guerre sporche” contro la sinistra in America Latina. Gli Stati Uniti hanno contribuito a portare al potere quei regimi militari repressivi, hanno sostenuto le forze di polizia segrete nel Cono Sur e hanno incoraggiato la condivisione di informazioni di intelligence tra di loro. Kissinger ha fatto orecchie da mercante alle preoccupazioni del Dipartimento di Stato riguardo alle violazioni repressive dei diritti umani. Ma i funzionari statunitensi avevano un grosso problema con le operazioni di assassinio internazionali, in particolare nelle strade delle nazioni alleate in Europa, proprio perché Washington era così strettamente associata alle giunte militari dietro l’Operazione Condor. “A livello internazionale, i generali latini sembrano i nostri”, fu spiegato a Kissinger il 3 agosto 1976, in un documento informativo segreto sull’esistenza dell’Operazione Condor. “Siamo particolarmente identificati con il Cile. Questo non può farci alcun bene”. I funzionari della CIA erano d’accordo; consideravano questi complotti di assassinio del Condor come una bomba a orologeria per l’Agenzia. All’epoca, la CIA era nel mezzo di un proprio enorme scandalo di omicidi, generato dalla pubblicazione del rapporto speciale della Commissione Church del Senato sugli “Presunti complotti di assassinio che coinvolgono leader stranieri” che svela la storia segreta delle operazioni dell’Agenzia contro leader stranieri come Fidel Castro, Patrice Lumumba e il generale cileno Rene Schneider. “I piani di questi paesi di intraprendere azioni offensive al di fuori delle proprie giurisdizioni pongono nuovi problemi all’Agenzia”, avvertì alla fine di luglio 1976 il capo della divisione latinoamericana della CIA, Ray Warren. “È necessario prendere ogni precauzione per garantire che l’Agenzia non venga ingiustamente accusata di essere coinvolta in questo tipo di attività”. In effetti, la CIA era così preoccupata per quelle che Warren definiva “le ripercussioni politiche negative per l’Agenzia qualora il Condor avesse intrapreso degli omicidi” che adottò misure proattive per prevenire le operazioni del Condor in Europa. Uno studio declassificato del Senato degli Stati Uniti, basato su rapporti top secret della CIA, affermava che “la CIA avvertì i governi dei paesi in cui erano probabili gli omicidi, Francia e Portogallo, che a loro volta avvertirono i possibili bersagli”. I funzionari della CIA si consultarono anche con i funzionari del Dipartimento di Stato su come dissuadere i paesi del Condor dalle loro operazioni di assassinio. A metà agosto 1976, Warren informò i suoi superiori che la CIA aveva acconsentito a “un messaggio EXDIS [Exclusive Distribution] del Dipartimento di Stato agli ambasciatori statunitensi a Buenos Aires, Santiago e Montevideo, con l’istruzione di rivolgersi ai più alti livelli dei governi ospitanti ed esprimere la grave preoccupazione del governo degli Stati Uniti per i presunti piani di assassinio previsti nell’ambito dell’Operazione Condor”. Diversi coraggiosi funzionari del Dipartimento di Stato, tra cui Hewson Ryan, William Luers e il sottosegretario per l’America Latina Harry Shlaudeman, fecero pressione con successo sul segretario di Stato Kissinger affinché approvasse la démarche diplomatica, ma gli ambasciatori statunitensi a Santiago e Montevideo si opposero entrambi alla sua consegna. Il 16 settembre 1976, Kissinger respinse la raccomandazione di Shlaudeman di ordinare loro di procedere e “diede istruzioni di non intraprendere ulteriori azioni in merito”. Il 20 settembre Shlaudeman inviò un promemoria a Luers dicendogli di “ordinare agli ambasciatori [statunitensi] di non intraprendere ulteriori azioni, sottolineando che da alcune settimane non vi erano state segnalazioni [dei servizi segreti] che indicassero l’intenzione di attivare il piano Condor”. Ma la CIA non era riuscita a scoprire che il piano di assassinio era stato effettivamente attivato. La mattina seguente un’autobomba esplose nel quartiere delle ambasciate di Washington, DC, uccidendo il principale oppositore internazionale del regime di Pinochet, l’ex ambasciatore cileno Orlando Letelier, e la sua collaboratrice venticinquenne, Ronni Moffitt. Per salvaguardare la segretezza di questo audace complotto, il generale Pinochet – la CIA concluse che egli aveva “ordinato personalmente” l’assassinio di Letelier – e il colonnello Contreras evitarono la struttura Teseo, ma si avvalsero della collaborazione di Condor. “Fui informato che c’era un gruppo dei servizi segreti che gestiva la ‘Rete Condor’”, secondo la confessione dell’assassino della DINA, Michael Townley, «e che includeva Cile, Argentina, Uruguay e Paraguay, e che i paraguaiani ci avrebbero fornito passaporti ufficiali e ottenuto visti ufficiali per entrare negli Stati Uniti». Condor ha dato il suo contributo a uno dei più eclatanti atti di terrorismo internazionale mai commessi nella capitale degli Stati Uniti. GIUSTIZIA E RESPONSABILITÀ È una «ironia storica», come osserva John Dinges, «che questi crimini internazionali delle dittature abbiano dato luogo a indagini, tra cui quella che ha portato all’arresto di Pinochet a Londra, che alla fine avrebbero portato centinaia di militari responsabili davanti alla giustizia». In effetti, i crimini del Condor sono tornati a perseguitare coloro che li hanno commessi. Il primo processo per violazione dei diritti umani in Cile dopo il ritorno al governo civile ha portato alla condanna del colonnello Contreras e del suo vice Pedro Espinoza come mandanti dell’assassinio di Letelier-Moffitt. Lo stesso Pinochet è stato arrestato a Londra in seguito a un mandato dell’Interpol emesso dalla Spagna ai sensi della Convenzione europea contro il terrorismo. Francesca Lessa, autrice di The Condor Trials, ha identificato 50 procedimenti giudiziari che hanno portato alla condanna al carcere di oltre 100 ex ufficiali militari per crimini contro i diritti umani sponsorizzati dal Condor. Queste condanne, e le prove accumulate che le hanno rese possibili, sono in netto contrasto con gli attuali sforzi politici degli ex Stati del Condor per negare che queste atrocità siano mai avvenute. Negacionismo, ovvero il negazionismo, e persino la nostalgia per l’era della dittatura hanno contribuito a un orientamento politico estremista in ex Stati del Condor come il Cile e l’Argentina. E proprio come le operazioni omicide del Condor, i venti politici dell’autoritarismo soffiano oltre il Cono Sur, attraverso l’Europa e persino gli Stati Uniti. Ma a 50 anni dall’ entrata in vigore del Condor, le prove concrete delle atrocità coordinate contro i diritti umani nel Cono Sur non possono essere negate, nascoste o giustificate. Il continuo impegno legale per assicurare i criminali del Condor alla giustizia per i loro sanguinosi abusi di potere è, nella sua essenza universale, uno sforzo per rafforzare la democrazia sulla dittatura e garantire che prevalga l’impegno internazionale del “mai più”. Non ci sono garanzie. Mentre il fascino dell’autoritarismo si diffonde in patria e all’estero, la drammatica storia documentata del Condor rimane un monito mortale di ciò che potrebbe, in realtà, ripetersi. Peter Kornbluh, collaboratore di lunga data di The Nation su Cuba, è coautore, insieme a William M. LeoGrande, di Back Channel to Cuba: The Hidden History of Negotiations Between Washington and Havana. Kornbluh è anche autore di The Pinochet File: A Declassified Dossier on Atrocity and Accountability. The post Plan Condor 50 anni dopo: un network di repressione transnazionale first appeared on Popoff Quotidiano. 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UE, ecco la lobby che supporta le multinazionali a Bruxelles
LA STRATEGIA SEGRETA DEI GIGANTI DELL’INDUSTRIA CONTRO IL DOVERE DI VIGILANZA E IL GREEN DEAL Inchiesta di Cédric Vallet su Mediapart Bruxelles (Belgio).– «Dividi e conquista». Per mesi, la società statunitense specializzata in affari pubblici Teneo ha applicato metodicamente questo precetto prendendo di mira la direttiva europea sul dovere di vigilanza. L’obiettivo: svuotare il testo della sua sostanza o indebolirlo notevolmente. Diverse multinazionali americane, tra cui ExxonMobil, Chevron, Dow Chemical, Koch Industries e la francese TotalEnergies, si sono avvalsi dei servizi di questo gigante della consulenza per cercare di influenzare le istituzioni europee. È attraverso l’ONG olandese Somo che Mediapart ha potuto consultare circa 170 pagine di documenti interni di Teneo. Questi descrivono l’attacco concertato e su larga scala di queste multinazionali – riunite in un’alleanza denominata “Tavola rotonda per la competitività” – contro questo testo emblematico del Green Deal europeo, la cui ambizione era quella di spingere le più grandi aziende a porre rimedio agli impatti negativi delle loro attività sull’ambiente e sui diritti umani, lungo tutta la loro catena di produzione. La revisione della direttiva sul dovere di vigilanza è oggetto di forti tensioni da quando, lo scorso 25 febbraio, la Commissione europea ha proposto di indebolirne la portata attraverso una legge cosiddetta di semplificazione. Le grandi multinazionali e le lobby industriali hanno approfittato di questa breccia per lanciare una battaglia senza quartiere contro questa direttiva che, ai loro occhi, è diventata uno spauracchio. La strategia molto aggressiva di Teneo, che privilegia un’“alleanza delle destre”, induce David Ollivier de Leth, dell’ONG Somo, ad affermare che queste aziende “prevalentemente americane hanno preso in ostaggio il processo legislativo europeo”. SCOMMESSA SULLA DESTRA E SULL’ESTREMA DESTRA La “strategia” di Teneo e dei suoi partner può essere decifrata in un documento del 16 maggio 2025: si tratta di ‘riunire’ i membri pro-business dei gruppi politici a favore dell’indebolimento della direttiva per “affossare il compromesso” sul dovere di vigilanza. I nomi dei deputati sono elencati su quattro pagine e indicati come “obiettivi”, in prima fila tra cui Jörgen Warborn, relatore del testo, deputato svedese di destra (Partito Popolare Europeo, PPE). Teneo organizza una serie di incontri con i deputati e i membri dell’alleanza, durante la plenaria di giugno e poi a settembre. A partire da giugno, Teneo vuole “aumentare la pressione” attraverso incontri, lettere e pubblicità mirate su LinkedIn. I consulenti menzionano la sponsorizzazione di una  «newsletter» del giornale Politico come una delle carte da giocare. L’azienda diffonde così “raccomandazioni di voto, emendamenti” chiavi in mano e briefing agli assistenti e ai deputati. L’industria deve mostrare un “fronte unito”, in particolare durante la cena della tavola rotonda degli industriali europei (ERT) del 15 settembre. Con l’avvicinarsi della votazione in plenaria del 13 ottobre, l’orientamento diventa più chiaro. “Dividere i centristi di Renew e i Socialisti e Democratici attraverso le delegazioni nazionali” è uno degli obiettivi perseguiti. Nel resoconto dell’11 luglio, Teneo afferma che sarà necessario “spingere il relatore ad allearsi il più possibile con i partiti di destra”. Per Teneo, la destra deve abbandonare la coalizione centrista e utilizzare il gruppo di destra molto conservatore, con tendenze di estrema destra, dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) come “ponte” verso i Patrioti per l’Europa, un altro gruppo di estrema destra di cui fa parte il Rassemblement National. L’alleanza delle multinazionali ritiene che l’ECR «debba svolgere un ruolo attivo nella negoziazione di compromessi». «Le maggioranze alternative tra la destra e l’estrema destra sono chiaramente sfruttate da tutti i lobbisti industriali che vi vedono un’opportunità», conferma una fonte del Parlamento europeo. Già dal mese di ottobre, il relatore agitava la minaccia di far passare gli emendamenti del PPE con il sostegno dell’estrema destra. Ed è proprio quello che è successo il 13 novembre durante la votazione al Parlamento europeo. Jörgen Warborn non ha risposto alle sollecitazioni di Mediapart. ACCANIMENTO CONTRO IL DOVERE DI VIGILANZA Gli obiettivi delle multinazionali, descritti nei documenti di Teneo, sono ben noti. Le aziende desiderano innanzitutto cancellare i piani di transizione climatica previsti dalla direttiva. Vogliono poi limitare il dovere di vigilanza alle relazioni commerciali dirette con i subappaltatori europei, evitando così di esaminare le condizioni di lavoro o l’inquinamento nei meandri delle catene di produzione, in Asia o altrove. Anche il meccanismo di responsabilità civile europeo armonizzato è oggetto di critiche. Teneo e i suoi clienti stanno concentrando i loro sforzi su diversi fronti, inviando lettere alla presidente della Commissione europea e ai governi degli Stati membri, cercando di contrastare la “testardaggine” di una parte della Commissione e scrivendo lettere aperte alla stampa, mentre cercano appoggi presso associazioni di datori di lavoro come il Medef o il BDI, il sindacato dei datori di lavoro tedeschi, al fine di «difendere pubblicamente posizioni massimaliste», scrive Teneo. L’alleanza vuole anche influenzare la posizione degli Stati membri riuniti nel Consiglio dell’Unione europea. La società di consulenza vuole «approfittare del debole mandato negoziale del Consiglio e dei disaccordi tra gli Stati», in particolare sui piani di transizione climatica. Teneo ipotizza che su questo tema potrebbe costituirsi una minoranza di blocco attorno all’Italia, «che è nota per sostenere la cancellazione di questo articolo». Alle aziende vengono assegnati governi «target». L’Ungheria e la Germania devono essere contattate da ExxonMobil e Dow Chemical. L’Italia è riservata a Baker Hughes, azienda energetica, mentre la Francia e la presidenza danese del Consiglio dell’UE sono appannaggio di TotalEnergies. Gli incontri di alto livello – Davos, il forum sulla sicurezza di Varsavia, il forum di Cernobbio – sono individuati come luoghi propizi. La Francia è considerata «favorevole» alle richieste dell’alleanza da quando Emmanuel Macron ha chiesto, il 19 maggio 2025, la revoca pura e semplice della direttiva sul dovere di vigilanza. Da parte della presidenza danese, si sostiene che non è stato registrato alcun incontro ufficiale tra l’ambasciatore, il suo vice o gli esperti della rappresentanza permanente danese con Teneo e TotalEnergies. Ma il lobbying si svolge maggiormente dietro le quinte di grandi eventi o forum a cui partecipano politici e aziende. Pertanto, gli incontri di alto livello – Davos, il forum sulla sicurezza di Varsavia, il forum di Cernobbio, la COP – sono esplicitamente indicati da Teneo come luoghi di influenza. «Abbiamo recentemente incontrato la lobbista di Total durante un evento», ammette un diplomatico di un paese europeo. «Ma non c’è alcun mistero in questo tipo di incontri, le loro posizioni sono note». La cena dell’ERT del 15 settembre è stata decisamente un momento importante per l’alleanza delle multinazionali. Erano attesi gli ambasciatori di Francia, Germania e Italia, nonché la rappresentante permanente danese e alcuni commissari europei. Teneo aveva chiesto che fossero presenti almeno uno o due amministratori delegati delle aziende membri dell’alleanza. SFORZO COORDINATO CON GLI STATI UNITI In questa offensiva su tutti i fronti contro il dovere di vigilanza, Teneo punta sui suoi contatti americani. I documenti consultati da Mediapart mostrano una stretta collaborazione tra l’alleanza delle multinazionali, la missione degli Stati Uniti presso l’Unione Europea e la Camera di Commercio americana. Il 6 giugno 2025, Teneo fa riferimento ai negoziati commerciali tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. È tempo di “aumentare la pressione dagli Stati Uniti” affinché il dovere di vigilanza sia identificato come una “barriera non tariffaria”. Il 4 luglio, Teneo assicura che la Camera di commercio degli Stati Uniti è in contatto “continuo” con l’ufficio del rappresentante per il commercio dell’amministrazione Trump per cercare di far salire la direttiva sul diritto di vigilanza tra le sue “priorità”. Il 18 luglio, i consulenti riassumono una riunione con la missione degli Stati Uniti presso l’UE, seguita da una telefonata il 31 luglio. “Il nostro contributo è stato molto utile”, si congratula Teneo nel suo resoconto. “Invieremo loro un elenco di attori – deputati, Stati membri, ecc. – da contattare”, aggiungono i consulenti, riferendosi ai funzionari statunitensi. Il 29 luglio, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e Donald Trump hanno posto le basi di un accordo commerciale svantaggioso per l’UE. I dettagli devono ancora essere resi pubblici, sotto forma di una «dichiarazione congiunta» tra Usa e l’UE. Nel suo rapporto del 1° agosto, Teneo sembra già sapere che tale dichiarazione «dovrebbe includere il dovere di vigilanza» e altre normative europee. Il 21 agosto, l’Unione europea si impegnerà, in questa dichiarazione congiunta, a compiere sforzi per «ridurre l’onere amministrativo» legato al dovere di vigilanza. Infine, Teneo suggerisce di mobilitare «altri governi non europei attraverso associazioni industriali o commerciali» per influenzare il processo legislativo riducendo la «visibilità» degli Stati Uniti. Contattata da Mediapart, Teneo non desidera commentare i dettagli del lavoro svolto per conto dei propri clienti, anche se i consulenti confermano di aver «aiutato diverse aziende a comunicare a un’ampia gamma di attori e decisori le loro preoccupazioni in merito alla direttiva sul dovere di vigilanza». «Tutte le nostre attività si svolgono in totale trasparenza”. Questa “trasparenza” è rivendicata anche da TotalEnergies. Contattata da Mediapart, l’azienda ricorda che le sue ‘posizioni’ sulla direttiva sul dovere di vigilanza – “alcune delle cui disposizioni minano la competitività delle imprese europee” – sono ben note. Il portavoce di ExxonMobil offre una risposta simile: “Siamo sempre stati chiari riguardo alla direttiva sul dovere di vigilanza. Essa aggiunge ulteriori livelli di incertezza e burocrazia”. Il gigante americano ammette apertamente di essere stato in contatto con «decisori politici» per far intendere il proprio punto di vista. All’interno dell’ONG, David Ollivier de Leth sottolinea la mancanza di trasparenza dell’iniziativa promossa da Teneo ed esprime preoccupazione per il peso di queste aziende nei negoziati in corso tra le istituzioni europee. L’8 dicembre, il Parlamento e il Consiglio cercheranno di trovare un compromesso sul testo. The post UE, ecco la lobby che supporta le multinazionali a Bruxelles first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo UE, ecco la lobby che supporta le multinazionali a Bruxelles sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Gli sguardi coloniali sulla Palestina
IL GENOCIDIO NELLA DIDATTICA DELLA STORIA. LA PERSISTENZA DI “SGUARDI COLONIALI” SUL PASSATO INFLUENZA LA COMPRENSIONE DEL PRESENTE Il contributo di Marco Meotto al convegno La scuola non si arruola, organizzato il 4 novembre 2025 - in polemica con il divieto del ministro - da Osservatorio contro la Militarizzazione delle scuole e dell’Università e CESTES Premessa Il contributo, pensato come uno stimolo alla riflessione nel campo della didattica della storia, è stato elaborato per il convegno La scuola non si arruola, organizzato dall’Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole e dell’Università e dal CESTES (Centro Studi sulle Trasformazioni Economico-Sociali). Il convegno non si è mai svolto nella sua proposta originale, perché, con un’inedita e preoccupante scelta censoria il Ministero dell’Istruzione del Merito ha intimato al Cestes (Ente accreditato per l’aggiornamento e la formazione dei docenti) di sospendere l’iniziativa e ne ha oscurato la visibilità sulla piattaforma S.O.F.I.A. per l’aggiornamento dei docenti, poiché in essa “non appare coerente con le finalità di formazione professionale del personale docente presentando contenuti e finalità estranei agli ambiti formativi riconducibili alle competenze professionali dei docenti”. Con un atto di disobbedienza civile l’Osservatorio ha ugualmente svolto il convegno, riorganizzando gli interventi e ridefinendo il titolo sulla base di quanto accaduto. Il convegno “La scuola non va alla guerra. L’educazione alla pace risponde alla repressione” è stato il nuovo titolo. Lascio a chi leggerà le pagine che seguono giudicare se le riflessioni offerte siano o meno “coerenti con le finalità di formazione del personale docente”. INTRODUZIONE I propositi del contributo sono due: il primo è proporre un aggiornamento dei paradigmi di riflessione storiografica sui fenomeni genocidari nella storia del ‘900, il secondo è mostrare quanto la persistenza di “sguardi coloniali” sul passato influenzi la nostra comprensione del presente. A tenere insieme i due propositi è l’esigenza – imposta dal momento storico che stiamo attraversando – di cogliere lo stretto collegamento tra i processi di riarmo, la risignificazione semantica di termini come “guerra”, “difesa” e “pace” e la permanenza delle strutture profonde del modello dello “stato-nazione” nell’immaginario che ancora oggi domina nella società e, di riflesso, nella scuola. Nel ragionamento si proverà a mostrare come il dispositivo militare non sia un semplice strumento dello Stato, ma il braccio armato di quella logica di omogeneizzazione e di difesa dei confini – fisici e identitari – che, portata all’estremo, produce la categoria del ‘nemico interno’ e rende pensabile la sua eliminazione. La militarizzazione della società è così sia un sintomo che un moltiplicatore della logica eliminatoria alla base dei genocidi. 1. OLTRE IL PARADIGMA DELL’ECCEZIONALITÀ Il Novecento è stato spesso definito il “secolo dei genocidi”[1]. Tuttavia, la didattica della storia nella scuola ha spesso trattato questi eventi come mostruose eccezionalità, insistendo sulla specificità irripetibile di ogni fenomeno. Questo è valso in particolar modo per la didattica della Shoah[2]. Ancora più spesso la connotazione di tali fenomeni storici è stata all’insegna della categoria del “crimine”. Di questo risente senz’altro la stessa definizione di “genocidio”, così come pensata dal giurista Raphael Lemkin negli anni Quaranta del Novecento e poi introdotta nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1948. Una prospettiva storiografica improntata all’eccezionalità e alla lettura in senso criminale del genocidio come negazione assoluta dei diritti umani, pur legittima nella sua attenzione alle specificità dei singoli contesti, ha spesso trascurato di indagare le chiavi di lettura che interpretano il genocidio come un fenomeno strutturale e ricorrente nella modernità, strettamente collegato allo sviluppo dello Stato-Nazione, e come un atto politico in senso proprio. Tra le più recenti, si distingue la lezione dello storico Mark Levene – ancora non tradotto in Italia – che vede nel genocidio non certo un’anomalia, ma un’esperienza centrale dell’epoca degli stati-nazione, un lato oscuro della modernità stessa[3]. Per Levene il nodo cruciale è che il genocidio si manifesta come possibilità più propria solo all’interno delle strutture e delle ideologie caratteristiche della modernità[4]. Lo Stato-Nazione, con la sua ossessione per l’omogeneità culturale e linguistica, trasforma le sue minoranze in un “problema” da risolvere, in un corpo estraneo da espellere o al limite da ridurre in condizioni di totale subalternità, per raggiungere la piena coincidenza tra popolo, territorio e sovranità. Con scopi di questo genere si intrecciano mezzi tipici della modernità: l’approccio ingegneristico alla realtà, la fiducia nella capacità di pianificare e rimodellare la società secondo schemi razionali, la centralità del complesso militare-industriale e la progressiva militarizzazione del controllo sociale. Quando questi mezzi si combinano con forme di nazionalismo esclusivo o di ideologie totalizzanti, gli esiti possono essere un piano di distruzione o annientamento di parti o di intere componenti della popolazione. Questo paradigma può valere indifferentemente dall’ideologia al potere, dal momento che – ad esempio – anche all’interno dell’Unione Sovietica (o di altri regimi comunisti) forme di sistematica aggressione violenta nei confronti di gruppi di popolazione identificata su base etnica hanno avuto luogo attraverso pratiche ricorrente nella storia dello stato moderno. Basti pensare alla continuità di pratiche che sussiste tra la persecuzione dei circassi sotto il dominio zarista e le politiche di deportazione e annientamento di tatari e “tedeschi del Volga” in epoca staliniana[5]. Il confine tra difesa dai nemici esterni e eliminazione dei nemici interni, in questo quadro, diventa sempre più labile, e l’apparato militare diventa lo strumento principe per entrambi gli obiettivi. Questo accade perché solo lo Stato moderno possiede quegli strumenti – come la macchina burocratica, i sistemi di trasporto o la tecnologia seriale – che rendono possibile lo sterminio di massa, con un’efficienza industriale, impensabile in epoche precedenti. È in fondo questa anche la tesi sostenuta nel 1989 da Bauman nel noto Modernità e Olocausto[6]: la Shoah va intesa come il punto di approdo di un percorso storico pregresso e non come un’aberrazione inspiegabile. Anche dal punto di vista dello sviluppo politico, è in fondo il concetto moderno di sovranità a creare i presupposti di uno spazio politico chiuso in cui è lo Stato a detenere il diritto incontestabile di fare ciò che vuole con la propria popolazione. Le implicazioni di questa visione sono profonde e scomode: significa che il potenziale genocidario non è un mostro esterno, ma è insito nelle strutture stesse del mondo in cui viviamo, un’ombra proiettata dalla luce stessa della modernità[7]. 2. LE POLITICHE DELLA MEMORIA SACRALIZZATA L’intreccio tra la storia dello Stato-Nazione e l’esito potenzialmente genocida delle sue politiche si scontra con il paradosso delle politiche della memoria pubblica edificate negli ultimi decenni. Le solennità pubbliche per commemorare la Shoah – si pensi al Giorno della Memoria – sono senza dubbio momenti del calendario civile di grande valore. Hanno perseguito l’intento di trasferire il ricordo della persecuzione dal dominio esclusivo dei sopravvissuti e degli storici per consegnarlo alla coscienza collettiva, divenendo un rito laico molto importante per l’Europa postbellica. Non mi soffermo in questa sede sulle riflessioni, molto discusse nel dibattito pubblico, sull’industria culturale della memoria e sulle sue implicazioni semiotiche[8]. Mi limito a segnalare che è proprio nella sacralizzazione pubblica che si è assistito alla cristallizzazione della Shoah entro il paradigma dell’eccezionalità e del “fatto criminale”[9]. Inquadrare lo sterminio principalmente come un crimine mostruoso, un orrore che travalica la comprensione, se da un lato ne afferma l’inaudita gravità, dall’altro ne occulta la natura profondamente politica. La narrazione dell’eccezionalità è una cornice rassicurante, in un certo senso, perché colloca il male al di fuori del circolo della normalità politica moderna, come un incidente di percorso nella storia. Tuttavia, la lezione politica più scomoda e al tempo stesso più necessaria della Shoah ci impone di capire che essa non fu un meteorite piovuto dal nulla sul suolo civile d’Europa, bensì l’esito di processi storici profondi e inquietantemente connessi alla nostra storia. Ci sono ragioni storiche della Shoah che, in fondo, ci parlano in modo diretto di noi: del nostro rapporto con il mondo colonizzato e con le alterità che turbano l’ideale dell’omogeneità dello Stato-nazione[10]. Ciò significa affermare che la Soluzione Finale fu il prodotto estremo di una cultura che aveva già sperimentato, ai margini degli imperi, vale a dire nelle colonie, tecniche di segregazione, controllo e annientamento di popolazioni ritenute “inferiori”. Per quanto riguarda la storia tedesca, ad esempio, il genocidio dei popoli Herero e Nama nell’Africa Sud-Occidentale tedesca – come vedremo – ne fu non solo un semplice prologo, ma un laboratorio dove si testarono ideologie e pratiche che sarebbero state trasposte, pochi anni dopo, nel cuore dell’Europa[11]. Invece, insistere esclusivamente sul “paradigma criminale” per presentare didatticamente la Shoah vuol dire concentrarsi solo sull’epilogo, trascurando il lungo e oscuro percorso che a quell’esito ha condotto. È un percorso che intreccia le leggi razziali europee con le politiche di sfruttamento coloniale e con le formulazioni giuridiche che le hanno accompagnate, che pone accanto alla definizione giuridica del “nemico interno” la paura dell’alterità che minaccia la purezza della comunità nazionale. La focalizzazione sull’eccezionalità ha così reso difficile integrare la Shoah in una storia più ampia della violenza del Novecento, non tanto sottraendola al confronto comparativo con altri genocidi o progetti di pulizia etnica – aspetto che, invece, nell’uso politico della storia è ancora spesso evocato[12] – quanto limitando l’indagine sui suoi fondamenti politici: l’esito di una razionalità propria del modello moderno di Stato-Nazione, modellato sulla necessità di creare comunità omogenee, definendo con precise tassonomie chi appartiene alla comunità e chi ne è estraneo, chi ha diritto di cittadinanza e chi va eliminato[13]. In tal senso, le solennità pubbliche, nel loro necessario e commosso commemorare le vittime, faticano a trasformare quella memoria in una critica sistematica dei meccanismi di affermazione del potere dello Stato moderno e delle sue diverse forme assunte nello sviluppo storico. Il vero e più radicale monito della Shoah non sta dunque solo nel ricordare che l’uomo è capace di immense atrocità, ma nell’indicare come le strutture stesse dello Stato moderno, la sua capacità di classificare, controllare e amministrare la vita, affondino le radici in una storia più lunga di dominio. Questa storia è inseparabile dalle origini coloniali della modernità stessa[14]. Possiamo qui affiancare una riflessione di Mahmood Mamdani, sul quale tornerò, che afferma che l’uso del paradigma criminale nell’interpretazione delle azioni genocide distrugge ogni possibilità di comprenderne le ragioni politiche, poiché sposta tutta l’attenzione sul piano morale[15]. Mamdani afferma ad esempio che la giustizia di transizione di Norimberga “ha effettivamente depoliticizzato il nazismo, attribuendo la responsabilità della violenza nazista a uomini particolari (per lo più uomini) e ignorando il fatto che questi uomini fossero impegnati in un progetto della modernità politica per conto di un corpo sociale: la nazione, il Volk.” E aggiunge che “Gli alleati che perseguirono i singoli nazisti a Norimberga si sono impegnati a ignorare le radici politiche del nazismo, perché queste radici sono anche quelle americane.”[16] E si tratta di radici coloniali. 3. LO SGUARDO COLONIALE: LE RADICI DEL PROCESSO DI SEGREGAZIONE E ANNIENTAMENTO Per comprendere la radicale provocazione di Mamdani – che individua le “radici americane” del nazismo nel retroterra coloniale – è necessario partire dall’assunto che l’inizio del Novecento, il secolo dei genocidi, coincide esattamente con le battute finali di quello che può essere considerato, per scala e sistematicità, il più riuscito processo di sterminio della storia moderna: quello delle popolazioni native del Nord America, che, secondo le stime più recenti, ha causato la scomparsa di oltre il 95% della sua popolazione originaria[17]. La conquista del West e il sistema delle riserve indiane fornirono un repertorio di modelli e un precedente giuridico di profonda ispirazione per il regime nazista. James Q. Whitman ha raccontato come i giuristi nazisti studiarono attentamente le leggi statunitensi che privavano i nativi americani della piena cittadinanza, vedendo negli USA un laboratorio di legislazione razziale[18]. Lo stesso progetto di conquista del ‘Lebensraum‘, che individuava nelle terre a est della Germania lo spazio ‘vitale’, è stato posto in relazione, negli studi di Carrol P. Kakel, con l’ideologia americana dell’espansione verso il West[19]. Le riserve indiane non rappresentarono dunque una forma di tutela delle popolazioni native, ma piuttosto la conclusione logica di una politica di eliminazione. Esse furono lo strumento per completare lo sterminio attraverso mezzi amministrativi, confinando i nativi sopravvissuti in “patrie tribali”[20] prive di sovranità reale, dove potevano essere gestiti come soggetti non-cittadini. Questo sistema di governance indiretta, basato sulla definizione giuridica dell’identità etnica – come ad esempio le blood quantum laws[21] – e sulla segregazione territoriale forzata, costituì un formidabile prototipo delle successive politiche di ingegneria demografica proprie del regime nazista[22]. Il cosiddetto Generalplan Ost, che consisteva nell’ipotesi di creare riserve per le popolazioni slave nei territori occupati dell’est e l’istituzione dei ghetti ebraici come aree di segregazione temporanea prima della risoluzione definitiva del “problema ebraico”[23], dimostra la traslazione di questo modello dall’esperienza coloniale nordamericana al cuore dell’Europa. La decolonizzazione dello sguardo ci impone tuttavia di comprendere – ci ammonisce Mahmood Mamdani – come la stessa dicotomia tra “nativi” e “coloni” sia in fondo uno schema tossico e semplificatorio di cui è difficilissimo liberarsi, perché riproduce la logica identitaria alla base del conflitto stesso. Il caso della Germania è, da questo punto di vista, illuminante: la stessa popolazione tedesca, il cui governo nazista aveva perpetrato il genocidio contro gli ebrei e la riduzione delle popolazioni slave alla condizione di non-cittadini, in nome di una purezza etnica, fu a sua volta vittima, dopo la Seconda guerra mondiale, di massicci trasferimenti forzati. Milioni di cittadini tedeschi di quella che erano stati i confini della Germania tra le due guerre insieme ad altri milioni di Volksdeutschen – i cosiddetti “tedeschi etnici” – furono espulsi dalle regioni dell’Europa orientale e centrale, sulla base di una fortissima spinta nazionalista che emergeva da quelle stesse popolazioni che i nazisti avevano sottomesso[24]. Questi trasferimenti furono attuati sulla base di principi ispiratori – l’idea che uno Stato debba essere etnicamente omogeneo e che le minoranze “straniere” siano un corpo estraneo da rimuovere – che erano in piena continuità con il nazionalismo radicale del quale il nazismo stesso era stato l’espressione più feroce. Questa tragica ironia della storia dimostra come il dispositivo del genocidio e del trasferimento forzato sia una tecnologia politica sempre disponibile, un’opzione che può essere adottata e subita. Le drammatiche vicende che riguardano il controllo, l’amministrazione e il possesso delle “terre di cerniera” tra l’Europa centrale e l’Europa orientale non sono scollegate da una riflessione che interroga la possibilità di applicare la categoria interpretativa del “colonialismo di insediamento”. Peter Wolfe ci dice che il settler colonialism non è un evento, ma una struttura[25]. Il suo motore primario non è banalmente lo sfruttamento della manodopera delle terre occupate, come in altre forme coloniali, ma la garanzia di impadronirsi della terra. L’obiettivo è quindi l’eliminazione degli abitanti di un territorio, non in quanto individui in astratto, ma in quanto ostacolo fisico e giuridico al possesso della terra. Questa struttura è, fin dal suo sorgere, intrinsecamente militarizzata. La violenza non è un effetto collaterale, ma il metodo costitutivo per prendere possesso della terra e proteggere l’insediamento coloniale. La figura del ‘colono’ è dunque inscindibile da quella del ‘soldato’, e la frontiera è uno spazio di guerra permanente. Questa matrice militarista segna indelebilmente le forme di governo che da essa derivano[26]. L’eliminazione, come già accennato, può assumere diverse forme: lo sterminio fisico diretto, l’assimilazione forzata che distrugge l’identità collettiva, o la rimozione e il confinamento in territori marginali. In questa prospettiva, il genocidio non è un incidente di percorso, ma una caratteristica intrinseca, un esito sempre possibile, logico e ricorrente del progetto coloniale di insediamento. È questa struttura a fornire la grammatica fondamentale per leggere, in una chiave non eccezionalista, anche il progetto nazista. L’idea del Lebensraum – e in particolare la sua declinazione nazista[27] – non sarebbe così un’invenzione originale del nazionalsocialismo, ma la riproposizione in suolo europeo di un mito coloniale ben consolidato. Il mito tedesco dello spazio vitale ad Est riprenderebbe, da un lato, il “Destino Manifesto” statunitense, cioè la convinzione che un popolo superiore abbia un diritto divino o storico di espandersi a discapito di popoli ritenuti inferiori[28]. Dall’altro, applicherebbe ai territori dell’Europa orientale lo stesso “sguardo coloniale” che le potenze europee avevano riservato all’Africa, all’Australia o alle Americhe: le terre slave diventano, nell’immaginario nazista, “vuote” o abitate da popoli “subumani” (Untermenschen) indegni di possederle e, quindi, destinate a essere colonizzate dal Volk tedesco. Il colonialismo fornisce così il vocabolario, l’immaginario e la giustificazione per un progetto di conquista e ripopolamento che si sarebbe svolto non in un lontano “altrove”, ma nel cuore stesso dell’Europa. 4. IL LABORATORIO AFRICANO: IL GENOCIDIO DEGLI HERERO E DEI NAMA Se il modello nordamericano delle riserve e la sua logica eliminatoria fornirono un potente riferimento ideologico e giuridico, fu indubbiamente nell’Africa Tedesca del Sud-Ovest (l’odierna Namibia) che la macchina statale di una potenza europea moderna sperimentò per la prima volta, in forma compiuta, lo sterminio sistematico di interi popoli. Secondo quanto ricostruito dallo storico Jürgen Zimmerer il genocidio degli Herero e dei Nama (1904-1908) non fu un semplice episodio di crudeltà coloniale particolarmente feroce, ma un vero e proprio laboratorio dove si testarono, in un contesto di impunità quasi assoluta, le tecniche politiche e burocratiche che sarebbero confluite, pochi decenni dopo, nel cuore del progetto nazista[29]. Si tratta di una tragedia umana che nei libri di testo scolastici trova generalmente poco spazio, ma anche quando è citata, raramente la si colloca in un’ottica interpretativa di più lungo periodo, restando relegata in un discorso che affronta più o meno sommariamente le pratiche più violente del colonialismo. Andrebbe sempre precisato il contesto in cui ebbe luogo lo sterminio praticato dai colonizzatori tedeschi in Africa sud-occidentale. Sin dall’inizio della colonizzazione gli Herero e i Nama, la cui prosperità economica si basava sul possesso delle migliori terre agricole e pascolative di una regione per il resto desertica e poco fertile, erano stati indotti a indebitarsi con i colonizzatori per acquistare prodotti finiti e beni voluttuari tedeschi: a garanzia dei debiti erano state poste gravose ipoteche sulle terre. La trappola del debito scattò a seguito di una congiuntura particolarmente negativa a inizio secolo, quando la peste bovina decimò le mandrie e i raccolti furono molto modesti: i creditori tedeschi, supportati dalla forza militare, cominciarono a espropriare le terre degli Herero e dei Nama e a pignorare anche il bestiame sopravvissuto. La sottrazione del bestiame dà il via alla rivolta degli Herero, che dopo qualche incursione messa a segno negli insediamenti coloniali, sono sconfitti prima in campo aperto e poi incalzati dal generale Lothar von Trotha, inviato appositamente in Africa per “eliminare” il problema. Come ha ricostruito la storica Isabel V. Hull, a partire dal tristemente celebre ordine di sterminio (Vernichtungs Befehl) dell’ottobre 1904 che impose alle truppe la fucilazione di ogni Herero catturato dentro i confini della colonia, la repressione si trasformo in un preciso piano di sterminio. La caccia all’uomo spinse i sopravvissuti nel deserto dell’Omaheke, dove le truppe tedesche avvelenarono i pozzi d’acqua, trasformando l’ambiente stesso in un’arma di annientamento di massa. Quando anche i Nama si ribellarono a loro volta, subirono un destino analogo. Per coloro che non morirono di fame e di sete, furono allestiti campi di concentramento, come quello tristemente noto di Shark Island, il cui scopo principale era annientare i prigionieri, sottoponendoli a lavoro forzato fino allo sfinimento[30]. Le numerose acquisizioni storiografiche odierne ci permettono di leggere questi eventi non come un prologo distante, ma come un antefatto significativo e diretto della Soluzione Finale[31]. In Namibia, la Germania imperiale sperimentò per la prima volta la burocratizzazione dello sterminio, come un processo amministrato, documentato e discusso nei circoli governativi di Berlino. Gli Herero e i Nama furono da subito costruiti ideologicamente come un’alterità radicale: queste popolazioni dell’Africa sudoccidentale erano Untermenschen, subumani, esattamente come lo sarebbero poi stati slavi e ebrei, la cui esistenza stessa era considerata un ostacolo biologico al progetto coloniale. Non ultimo va sottolineato come i campi di concentramento in Namibia, rappresentarono il prototipo di uno spazio eccezionale, al di fuori della legge ordinaria, dove la vita umana era completamente spogliata di valore e ridotta a mera risorsa da sfruttare fino all’annichilimento[32]. Il “laboratorio” africano dimostra con tragica chiarezza l’esistenza di un continuum di violenza che pone in relazione l’esperienza coloniale con il regime nazista e i suoi metodi. Le tecniche di gestione della popolazione, le ideologie razziali e le strutture dell’annientamento migrarono dalla periferia coloniale verso il centro, dimostrando che il confine tra la violenza nel “mondo selvaggio” e la civiltà in patria era molto più permeabile di quanto la narrazione autoassolutoria dell’Occidente abbia, a lungo, voluto ammettere. Che esista una linea di continuità tra l’epoca coloniale e il nazismo è una tesi resa “classica” – ma mai fino in fondo recepita – già da Hannah Arendt, che poneva in continuità l’apoteosi dell’imperialismo con le politiche europee che avrebbero condotto ai fenomeni totalitari. Vale però la pena sottolineare che, nella stessa epoca in cui Arendt scriveva Le origini del totalitarismo, il poeta martinicano Aimé Césaire ci ammoniva – nel suo celebre Discorso sul colonialismo – riguardo al fatto che il nazismo, dopotutto, altro non fosse che uno choc di ritorno per gli europei che, tramite il nazismo, avevano visto applicati su se stessi i metodi coloniali[33]. 5. LA SHOAH ATTRAVERSO LA LENTE COLONIALE Alla luce della matrice coloniale, la storiografia più recente ha cominciato a interrogare la Shoah con domande radicalmente nuove. Il classico – e ormai sterile – dibattito tra intenzionalisti e funzionalisti, che per decenni ha diviso gli studiosi chiedendosi se lo sterminio fosse un piano preciso e deliberato fin dall’inizio o il frutto di una radicalizzazione progressiva del sistema nazista, appare oggi come una disputa che, nel concentrarsi sul quando e sul come, ha finito per eludere la questione più profonda del perché. Perché un progetto di risistemazione demografica dell’Europa su base razziale divenne pensabile? Perché l’eliminazione fisica di interi popoli poté presentarsi come una soluzione politica praticabile? La risposta, per una corrente sempre più influente di storici, va cercata proprio nella normalizzazione, nell’immaginario politico europeo della prima metà del XX secolo, delle logiche e delle pratiche proprio del colonialismo. Lo storico Dirk Moses, con la sua teoria del “paradigma della sicurezza permanente”, sostiene che il nazionalsocialismo ereditò e portò all’estremo una preoccupazione tipica degli stati-nazione moderni[34]: la paura dell’alterità interna percepita come una minaccia esistenziale alla coesione del corpo sociale. In questa logica, va colto lo slittamento concettuale tra il tradizionale antigiudaismo, che diviene antisemitismo nel corso dell’Ottocento, e l’intento eliminazionista del progetto nazista: gli ebrei d’Europa furono costruiti e percepiti come una minaccia prima e poi come un “nemico demografico” da eliminare, nel momento in cui l’espansione a est, a guerra in corso, sembrava praticabile. Lo sterminio non fu quindi un piano elaborato astrattamente, ma una risposta genocidaria a una percezione, non importa quanto infondata e irrealistica, di minaccia demografica, una risposta le cui opzioni erano già state esplorate e normalizzate nelle terre degli imperi coloniali[35]. Si comprende così il senso della provocatoria affermazione di Mahmood Mamdani che abbiamo citato e in cui sostiene che Norimberga abbia “depoliticizzato il nazismo”. In questo senso Mamdani denuncia come l’azione giudiziaria del tribunale alleato abbia ridotto la questione a un processo nei confronti di criminali, occultando il fatto che il progetto nazista non era un’anomalia metafisica, ma l’applicazione in suolo europeo di un modello di Stato-nazione etnicamente omogeneo, la cui realizzazione più compiuta i colonialisti avevano cercato – attraverso lo sterminio e i trasferimenti forzati – in altri continenti. Le “radici americane” del nazismo di cui parla Mamdani non sono certo un’analogia letterale, ma l’individuazione di una grammatica politica comune: la convinzione che la sovranità di un popolo si realizzi attraverso l’eliminazione dell’altro da un territorio desiderato o la sua riduzione in una condizione di totale subalternità. In questa prospettiva, la specificità della Shoah – il suo carattere industriale, burocratico e il suo focus su un gruppo definito per discendenza – non scompare, ma viene riposizionata in un quadro interpretativo più ampio. Essa non è più l’evento unico e incomparabile della narrazione eccezionalista, ma rappresenta piuttosto la sintesi più radicale e tecnologicamente avanzata delle diverse forme di eliminazione proprie del colonialismo di insediamento. È il punto in cui il modello della riserva (fondata sulla segregazione e separazione), il modello del trasferimento forzato (che ha come fine l’espulsione) e il modello del genocidio (che mira all’annientamento fisico) convergono e vengono portati a compimento in un unico, tragico processo, reso possibile dalla tecnologia e dalla burocrazia dello Stato moderno. La Soluzione Finale fu, in ultima analisi, la “questione ebraica” risolta con gli strumenti e l’immaginario della “questione coloniale”. Una chiave di lettura particolarmente efficace ce la fornisce la proposta di Enzo Traverso[36]. Nel suo La violenza nazista. Una genealogia, Traverso parla di una “grammatica della violenza” condivisa, di un repertorio di pratiche e un immaginario che circolano tra la periferia coloniale e il centro europeo. La Shoah non sarebbe dunque comprensibile né come una semplice “copia” dei genocidi coloniali, né come un evento totalmente avulso da essi. Piuttosto, essa rappresenta il momento in cui quella grammatica – fatta di campi, classificazioni razziali, burocrazia dello sterminio e sguardo eliminatorio – viene riassemblata e applicata, con una ferocia e una sistematicità senza precedenti, a un nemico interno al cuore dell’Occidente. Questa genealogia non relativizza la specificità della Shoah, ma ne storicizza le condizioni di possibilità, mostrando come il suo orrore unico sia stato reso pensabile da un linguaggio della distruzione a lungo elaborato altrove. 6. IL PARADIGMA POST-COLONIALE: DALL’APARTHEID AL GENOCIDIO Se il progetto nazista rappresentò l’apice e il crollo di un’applicazione in Europa del modello eliminatorio, il secondo Novecento vide la piena fioritura, l’adattamento e la tragica eredità di questo paradigma nei territori ex-coloniali. Qui, le categorie razziali inventate dall’amministrazione coloniale non scomparvero con l’indipendenza, ma si irrigidirono, divenendo il linguaggio stesso del potere e del conflitto politico nel mondo post-coloniale. L’esempio più sistematico e legalizzato è senza dubbio il regime di apartheid sviluppatosi in Sudafrica. I Bantustan, le “patrie tribali” assegnate ai neri, rappresentano l’evoluzione più compiuta e cinica del modello della riserva indiana – e furono pensati in totale continuità con essa, dal momento che l’edificazione del sistema dell’apartheid, a inizio Novecento, è del tutto parallelo alla risoluzione del “problema indiano” negli Stati Uniti[37]. I Bantustan non furono semplici luoghi di segregazione, ma il perno di un ingegnoso progetto di ingegneria demografica e giuridica. Privando milioni di sudafricani neri della cittadinanza nazionale e confinandoli in entità statuali fittizie e economicamente non vitali, il governo bianco poté simultaneamente sfruttarne la manodopera come “migranti interni” e negare ogni loro diritto politico all’interno dello Stato sudafricano propriamente detto. È l’applicazione su scala industriale del principio in base al quale la “nazione” si definisce attraverso l’esclusione di chi è classificato come non-appartenente ad essa. Un principio che vediamo riaffermato anche oggi attraverso una ripresa tossica del concetto di “nazione” nel discorso pubblico[38]. Un caso evidente di queste dinamiche – e che ci rimanda a vicende di tragica attualità – è quello relativo alle vicende del Sudan. In quest’area dell’Africa il dominio coloniale britannico – o meglio il “condominio” anglo-egiziano – applicò metodicamente la versione moderna del divide et impera, quella fondata, secondo la proposta interpretativa di Mamdani, su “classifica” e “comanda”[39]. Gli amministratori coloniali non si limitarono a sfruttare tensioni preesistenti tra gruppi di popolazione, ma costruirono ex novo identità razziali rigide, amministrando separatamente un “nord” arabo-musulmano e un “sud” nero e animista-cristiano, istituendo persino delle leggi che impedivano agli abitanti di una regione di viaggiare al sud senza permesso, e viceversa. Questa segregazione istituzionalizzata cristallizzò differenze e creò gerarchie razziali laddove in precedenza esistevano relazioni più fluide tra le appartenenze, trasformando così le categorie amministrative coloniali in linee di faglia identitaria insanabili. I semi avvelenati di questa politica germogliarono in decenni di guerre civili e nel successivo genocidio nel Darfur, dove il governo di Khartoum ha riprodotto lo schema coloniale mobilitando milizie janjaweed – composte da miliziani a cavallo appartenenti a gruppo di popolazione di religione islamica e di origine nomadica -contro le popolazioni nere definite, appunto, come “straniere” e “subalterne”[40]. Tuttavia, è il genocidio dei Tutsi in Rwanda nel 1994 a rappresentare l’esito più brutale e letale di questo processo di etnicizzazione coloniale. I belgi, ereditando e irrigidendo le distinzioni preesistenti, trasformarono le categorie sociali fluide di Hutu e Tutsi in razze biologiche e immutabili, fissando questa dicotomia persino sui documenti di identità. Crearono una gerarchia artificiale, favorendo i Tutsi come élite dominante – intesi come “razza hamitica” e quindi ritenuta superiore – durante il periodo coloniale, per poi, in prossimità dell’indipendenza, compiere un brusco voltafaccia e appoggiare la maggioranza Hutu, fomentandone strategicamente il risentimento contro l’élite tutsi che i colonizzatori stessi avevano creato. Questo cinico capovolgimento delle alleanze trasformò una distinzione socio-professionale in una bomba etnica a orologeria. La “razza” divenne così il codice primario della cittadinanza e del conflitto politico. Il genocidio del 1994, pianificato e portato a termine con macabra efficienza dal progetto nazionalista hutu della milizia-partito Interahamwe, fu l’atto finale di questo copione coloniale: il tentativo di creare uno Stato etnicamente “puro” (hutu) attraverso lo sterminio fisico del “nemico interno” tutsi, costruito per decenni come un corpo estraneo e pericoloso per la nazione. Come ha sottolineato Mahmood Mamdani, in Rwanda si passò dalla definizione del “nativo” (soggetto a leggi speciali) alla definizione del “cittadino”, ma un cittadino la cui appartenenza era ormai irrevocabilmente marchiata da un’identità totalmente etnicizzata e razzializzata[41]. Il genocidio fu, in questo senso, una “soluzione finale” per risolvere la questione dell’identità nazionale ereditata dal colonialismo. I casi sudanese e rwandese dimostrano, con tragica evidenza, che lo “sguardo coloniale” non appartiene a un’epoca ormai superata, ma esso è un dispositivo logico e politico di lunga durata. Le sue categorie, una volta interiorizzate, continuano a strutturare i conflitti, a definire l’appartenenza e a fornire, nei momenti di crisi più acuta, il vocabolario stesso dello sterminio. 7. IL CASO PARADIGMATICO DEL PRESENTE: LA PALESTINA La vicenda della Palestina rappresenta l’esempio contemporaneo più chiaro e discusso di un processo di colonialismo d’insediamento ancora in corso. In esso, tutte le logiche analizzate – lo sguardo coloniale, l’eliminazione dell’altro come struttura di pratica politica, l’esercizio di forme di ingegneria demografica e la creazione di forme di cittadinanza subalterna – sono osservabili in tempo reale, offrendo una lente drammaticamente attuale per comprendere la continuità di queste dinamiche. La logica eliminatoria descritta da Patrick Wolfe nelle sue riflessioni sul settler colonialism trova qui una piena applicazione. Il progetto politico sionista, nella sua componente egemonica e statuale, è stato storicamente mosso da un obiettivo primario: l’accesso alla terra e la costruzione di una sovranità nazionale ebraica in un territorio già abitato, ma reinventato come privo di popolazione, sulla base dello slogan propagandistico “un popolo senza terra, per una terra senza popolo”[42]. Ciò ha richiesto, fin dall’inizio, una serie di strategie volte all’eliminazione della società nativa palestinese. Questa eliminazione non si è espressa unicamente attraverso lo sterminio fisico, ma attraverso un ventaglio di tecniche: la sostituzione demografica attraverso l’immigrazione organizzata, l’espropriazione territoriale sistematica – iniziata con la Nakba del 1948 e proseguita con le leggi sulla proprietà degli assenti -, l’occupazione militare da parte dell’esercito israeliano dei territori formalmente sotto sovranità palestinese e, infine, l’assimilazione culturale forzata del territorio, che si esprime con la cancellazione dei toponimi arabi e con la distruzione delle vestigia della presenza araba precedente la nascita di Israele[43]. Ancora una volta la riflessione di Mahmood Mamdani sul governo coloniale che è fondato sull’identità permette di comprendere a pieno la situazione dei palestinesi rimasti all’interno dei confini israeliani del 1948[44]. Essi furono inizialmente sottoposti a un governo militare e, pur ottenendo in seguito una formale cittadinanza israeliana, rimangono di fatto cittadini subalterni, una minoranza interna la cui lealtà è permanentemente posta in condizione di sospetto e i cui diritti sono spesso subordinati alla loro non appartenenza all’identità ebraica dello Stato. Questo status riecheggia la condizione dei nativi confinati nelle riserve o dei sudafricani neri nei Bantustan: fisicamente presenti, ma politicamente segregati e giuridicamente marginalizzati. Infine, all’interno dei territori della Cisgiordania e di Gaza la situazione rappresenta l’evoluzione più contemporanea del modello coloniale. La popolazione palestinese non è stata (ancora) fisicamente sterminata in massa, ma è stata sottoposta a un processo di confinamento frammentato in enclavi non contigue. La Cisgiordania è ormai ridotta a un arcipelago di micro-cantoni separati gli uni dagli altri da check-point o da insediamenti di coloni israeliani. Un bilancio reale della distruzione sistematica operata a Gaza potrà essere compiuto solo nel prossimo futuro. Ciò che è possibile affermare è che il sistema messo in atto dai governi israeliani, sostenuto da un apparato legale e militare e da una condizione di occupazione militare permanente, ha reso nei fatti impossibile l’esistenza di una unità politica e sociale palestinese e ha impedito lo sviluppo di un’economia vitale. Di fatto è stata preclusa la possibilità di un’autodeterminazione vera. Nel caso di Israele vediamo in azione il circolo vizioso per eccellenza: la logica securitaria e militare giustifica l’occupazione, che a sua volta genera resistenza, che viene poi usata per giustificare una militarizzazione ancora più spinta e una repressione più violenta. La violenza strutturale del colonialismo e la violenza diretta dell’occupazione militare si alimentano così a vicenda. È una forma di eliminazione che agisce attraverso l’erosione delle basi materiali per la sopravvivenza collettiva, una “pulizia etnica” lenta ma insesorabile, che normalizza l’apartheid spaziale. Il caso palestinese, dunque, non è un’analogia storica forzata, ma l’ultimo anello – per ora – di una catena logica e storica. Esso ci impone di usare gli strumenti della critica postcoloniale non per archiviare il passato, ma per decifrare un presente in cui lo Stato-nazione, nella sua ricerca di omogeneità etnica, continua a produrre forme di esclusione, segregazione e eliminazione. Ci obbliga a chiederci, oggi, dove e come si stia scrivendo la prossima pagina di questa storia. CONCLUSIONI. PER UNA DIDATTICA DELLA STORIA COME CRITICA DEL PRESENTE Questa ricognizione – senza pretesa di esaustività – attraverso alcune politiche dalle intenzioni genocidarie nel corso del ‘900 non ha avuto l’ambizione di stabilire equivalenze morali, ma di tracciare connessioni storiche e strutturali. Si giunge a una conclusione scomoda ma necessaria: il genocidio non è il ritorno di una barbarie arcaica, ma un potenziale insito nella modernità politica stessa, nel suo cuore oscuro che batte all’incrocio tra Stato-nazione, monopolio assoluto della sovranità e progetto coloniale. La didattica della storia non può più permettersi di insegnare gli eventi genocidari come mostruose eccezioni a un ordine altrimenti fondato sui diritti umani, consegnando i fatti storici a una commemorazione sacralizzata che, pur nel suo valore civile, ne depotenzia la carica politica. Al contrario, la didattica deve farsi decoloniale in senso proprio – il che non significa inseguire mode del momento. Si tratta di smontare gli “sguardi coloniali” che permangono nei nostri manuali e nel senso comune, sulla base di un aggiornamento dei paradigmi storiografici. Compito della ricerca didattica è mostrare come la linea che unisce le riserve indiane, i campi namibiani, i ghetti nazisti, i Bantustan sudafricani, le colline del Rwanda e le enclavi palestinesi non è una forzatura, ma la traccia di un unico, profondo filo rosso: la logica dell’eliminazione dell’Altro per fare posto a una comunità immaginata come pura e pacificata. Alla luce di questa consapevolezza, il vero monito della storia per il nostro presente non è solo annunciare “mai più“. È anche, e forse soprattutto, suggerire alle nuove generazioni: “guardatevi intorno e riconoscetevi nell’altro“. In un’epoca di retorica identitaria e di corsa al riarmo, di crisi migratorie e di ridefinizione violenta dei confini, le strutture mentali e politiche che abbiamo analizzato sono più vive che mai. Smontare la retorica della sicurezza nazionale, che legittima la militarizzazione e l’esclusione, diventa un compito pedagogico urgente. Insegnare questa storia, allora, significa anche decostruire il mito dello Stato che, per proteggerci, deve sempre identificare un nemico e armarsi fino ai denti, mostrando come questo stesso meccanismo sia all’origine dei più grandi disastri del secolo scorso. Insegnare la storia, allora, cessa di essere esercizio di erudizione, ma diventa un atto di critica del presente. Significa dotare le nuove generazioni di strumenti per riconoscere, smascherare e contrastare, nell’oggi, quelle stesse logiche di esclusione che producono la catastrofe. Solo una didattica coraggiosa, che percorre strade scomode, può diventare strumento di comprensione e di trasformazione del mondo. MARCO MEOTTO È DOCENTE DI FILOSOFIA E STORIA E ATTIVISTA DI ASSEMBLEA SCUOLATORINO  NOTE -------------------------------------------------------------------------------- [1] Si vedano: Weitz, E. D. (2003), A century of genocide: Utopias of race and nation, Princeton University Press; Bruneteau, B. (2006), Il secolo dei genocidi, Bologna, Il Mulino. (ed. or. 2004) [2] Una buona rassegna degli sviluppi didattici legati alla storia della Shoah è presentata in: Olivieri, N., Nencioni, C., Mastretta, E., (2020), Formarsi sulla didattica della Shoah: un ventaglio di esperienze, in Novecento.org, n. 13 febbraio 2020. Si veda anche Traverso, E.,  (1995) (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino, Bollati Boringhieri. La riflessione sulla “sacralizzazione” della Shoah è trattata anche in Pisanty V., (2012), Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano. [3] Levene, M. (2005), Genocide in the age of the nation state. Vol. 1. The meaning of genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2005), Genocide in the age of the nation state. Vol. 2. The rise of the West and the coming of genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2013), Devastation: Volume I: The European Rimlands 1912–1938. Oxford University Press; Levene, M., Annihilation: Volume II: The European Rimlands 1939–1953. Oxford University Press [4] Esiste tuttavia una storiografia che, pur riconoscendo una centralità alle forme di genocidio che si sviluppano nell’ambito dello Stato-Nazione, ne sottolinea il carattere di ricorrenza del fenomeno genocidario anche in epoche precedenti. Si veda al proposito Naimark, N.M., (2016), Genocide. A World History, Oxford University Press [5] Sulla vicenda dei Circassi: R. Walter, (2013), The Circassian Genocide. Genocide, Political Violence, Human Rights, Rutgers University Press. Sulle politiche staliniane nei confronti di “tedeschi del Volga” si veda: Iashchenko, I., & Carteny, A. (2024). ‘Is it Genocide or not?’ Some Considerations about the Ethnic Cleansing and Punishment System in Soviet Union (1930s-1950s). Nuovi Autoritarismi E Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società (NAD-DIS), 6(2) [6] Bauman, Z. (1992). Modernità e Olocausto (M. Baldini, trad.). Bologna, Il Mulino (ed. or. 1989). [7] Dopotutto si tratta della tesi di fondo che anima la riflessione di Adorno e Horkheimer nel loro più celebre lavoro: Adorno, T.W., Horkheimer (1966), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, (ed. or. 1947) [8] Riflessioni importanti sull’argomento possono prendere le mosse da: Novick, P. (1999), The Holocaust in American life. Houghton Mifflin; Finkelstein, N. G. (2000), The Holocaust industry: Reflections on the exploitation of Jewish suffering, Verso; Pisanty, V. (2021), I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani. [9] Interessante è la riflessione di David Bidussa che invita a pensare alla Shoah in termini storici e non semplicemente morali. Bidussa, D., (2009), Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino [10] Mi ha aiutato a sviluppare la riflessione sul senso della memoria della Shoah in relazione ai processi di decolonizzazione il saggio di Rothberg, M. (2009), Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford University Press [11] Nicolas Patin (2022), «The massacre of the Herero and Nama: A colonial laboratory for genocide?», Encyclopédie d’histoire numérique de l’Europe [online], ISSN 2677-6588, https://ehne.fr/fr/node/21449 published on 18/02/22 , consulted on 31/10/2025 [12] Sul disinvolto modo con cui si producono storie comparative tra la Shoah e altre tragedie del Novecento sono preziosi alcuni lavori di Focardi:   F. Focardi, B. Greppo (a cura di), (2013), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma; F. Focardi (2020), Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella, Roma [13] È la tesi che si incontra nelle riflessioni di Foucault e in particolare in Foucault, M. (1998), Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Feltrinelli, Milano. Più recentemente le riflessioni antropologiche di James C. Scott, centrate sull’analisi di contesti non europei (in particolar modo il sud-est asiatico) stimolano una riflessione in base alla quale è la forma statale in quanto tale a portare con sé la possibilità dell’annientamento genocida: si veda Scott, J.C., (2020), L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-Est asiatico, Einaudi, Torino. [14] Di grande rilievo sono le riflessioni che accompagnano ad esempio la recente svolta storiografica che sottolinea la centralità delle vicende africane (e del rapporto europeo con l’Africa) nella nascita della modernità: il titolo originale del saggio di Howard W. French – Born in blackness – rende sicuramente meglio l’idea di quanto faccia la traduzione italiana. Vedi French H.W., (2023), L’Africa e la nascita del mondo moderno. Una storia globale, Rizzoli, Milano (ed. or. 2021) [15] Peraltro lo slittamento semantico dal piano politico al piano coloniale non tiene conto di come la stessa origine dei “diritti umani” debba essere riconsiderata alla luce di riflessioni decoloniali. Si veda il recente Zaffaroni. E.R., (2025), Una storia criminale del mondo. Colonialismo e diritti umani dal 1492 ad oggi, Laterza, Bari). Un altro stimolante spunto tiene conto di acquisizioni storico-antropologiche: devo moltissimo alle illuminanti riflessioni del compianto David Graeber e di David Wengrow sull’origine “irochese” della riflessione moderna e illuminista sulla condizione umana. Vedi Graeber, D., Wengrow, D., (2021), L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano [16] Mamdani, M. (2023), Né coloni, né nativi. Lo Stato-Nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, pp. 26 [17]  I dati sono quelli di Stannard, D.E. (2001), Olocausto americano. La conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri (ed. or. 1993) [18] Whitman, J. (2017), Hitler’s American Model: The United States and the Making of Nazi Race Law, Princeton University Press [19] Kakel C.P., (2011) The American West and the Nazi East: A Comparative and Interpretive Perspective, Palgrave; Kakel C.P. (2013), The Holocaust as Colonial Genocide: Hitler’s ‘Indian Wars’ in the ‘Wild East’, Palgrave [20] Leake E., (2024), “The Construction of ‘Tribe’ as a Socio-Political Unit in Global History” in The Historical Journal. 2024;67(4), pp. 826-849. doi:10.1017/S0018246X24000323 [21] Ancora attualmente circa il 70% delle riserve indiane riconosciute dal governo federale degli Stati Uniti assegna la cittadinanza alla “naziona” sulla base di una legislazione fondata sulla “quantità di sangue indiano” posseduta. Il Native Governative Center sostiene che sia un elemento di profonda autodeterminazione lasciare alle nazioni indiane stesse l’ultima parola sull’efficacia delle leggi basate sul sangue (si veda: https://nativegov.org/resources/blood-quantum-and-sovereignty-a-guide/ consultato il 3 novembre 2025) [22] Oltre al già citato Whitman, sul tema segnalo Miller, R.J., (2020), “Nazi Germany’s Race Laws, the United States, and American Indians”, in St. John’s Law Review, Volume 94, 2020, N. 3, pp. 751-817 [23] Una riflessione interessante sull’immaginario nazista e sulla prospettiva di trasformare lo spazio vitale in una vasta regione di comunità di coloni la si trova in Fernández de Betoño, U. (2020): «The Nazi anti-urban utopia: ‘Generalplan Ost’» in Mètode Science Studies Journal, vol. 10, pp. 165-171, 2020, Universitat de Valencia [24] Questo imponente fenomeno (stimato nel movimento di un numero compreso tra 12 e 14 milioni di profughi) comportò almeno 500.000 vittime, in prevalenza tra le fasce di popolazione più fragile, come anziani e bambini. Sul tema: Douglas, R.M. (2012), Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans after the Second World War, Yale University Press [25] Wolfe, P., (2023). “Il colonialismo di insediamento e l’eliminazione del nativo”. In Il colonialismo di insediamento. Diritto, terra e sovranità, a cura di Lorenzo Veracini e Micaela Frulli, Meltemi, Milano, pp. 53-86. In campo accademico internazionale, le riflessioni sulle distinzioni tra il settler colonialism e altre pratiche coloniali si sono andate sviluppando da almeno cinquant’anni. Dal 2011 esiste la rivista internazionale Settler colonial studies, edita da Taylor & Francis [26] Sul caso sudafricano sono ricchi di spunti i saggi raccolti in un’opera collettanea a cura di Miller, S.M., (2009), Soldiers and Settlers in Africa: 1850 – 1918, Koninklijke Brill, Leiden. In particolar modo il capitolo di John Laband (“From Mercenaries to Military Settlers: The British-German Legion, 1854-1861”) [27] Liulevicius, V.G., (2011), The German Myth of the East: 1800 to the Present, Oxford University Press [28] Sul tema del “Manifest Destiny” esistono ormai una storiografia e una riflessione consolidata, tra cui segnalo: Slotkin, R. (1973), Regeneration through Violence. The Mythology of American Frontier, 1600-1860, Wesleyan University Press, Middletown, Connecticut;  Horsman, R. (1981), Race and manifest destiny: the origins of American racial anglo-saxonism, Harvard University Press; [29] Accanto a Zimmerer (2024, cit.), il filone della continuità tra il genocidio namibiano e la successiva storia tedesca è esplorato anche da altri studiosi. Si veda: Erichsen, C.W., Olusoga, D., (2010), The Kaiser’s Holocaust. Germany’s Forgotten Genocide and the Colonial Roots of Nazism, Londres, Faber and Faber, 2010 [30] Hull, I.V., (2005), Absolute Destruction: Military Culture and the Practices of War in Imperial Germany, Cornell University Press, Ithaca and London [31] Zimmerer, J. (2024), From Windhoek to Auschwitz? Reflections on the Relationship between Colonialism and National Socialism, DeGruyter Oldenbourg, Berlin [32] Erichsen, C. W. (2005). “The angel of death has descended violently among them”: concentration camps and prisoners-of-war in Namibia, 1904-08. Leiden: African Studies Centre. Retrieved from https://hdl.handle.net/1887/4646 [33] Césaire, A. (2005). Discours sur le colonialisme, Éditions Présence Africaine, Paris, (ed. or. 1950), p. 88 (traduzione mia): “Sì, varrebbe la pena studiare, clinicamente e in dettaglio, gli approcci di Hitler e dell’hitlerismo e rivelare al borghese molto distinto, attento umanista, buon cristiano del XX secolo che porta dentro di sé un Hitler inconsapevole, che Hitler dimora in lui, che Hitler è il suo demone, che se lo denigra, è per mancanza di logica, e che, in fondo, ciò che non può perdonare a Hitler non è il crimine in sé, il crimine contro l’umanità, non è l’umiliazione dell’umanità stessa, è il crimine contro i bianchi, è l’umiliazione dei bianchi, e per aver applicato all’Europa metodi colonialisti che fino ad allora erano stati applicati solo agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai neri d’Africa.” [34] Moses, A. D. (2021). The Problems of Genocide: Permanent Security and the Language of Transgression. Cambridge University Press [35] Moses (2021, cit.) sviluppa questo ragionamento in particolare nel capitolo intitolato “The Nazi Empire as Illiberal Permanent Security” (pp. 277-331), in cui sostiene che il progetto nazosta teneva insieme un immaginario imperialistico e le pratiche proprie del colonialismo di insediamento. [36] Traverso, E., (2002), La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna [37] Il Land Act del 1913 – che fu il fondamento giuridico ed economico sulla cui base si sarebbe poi sviluppato il sistema dell’apartheid – assegnava il 7% del territorio sudafricano alle popolazioni native e la restante parte ai coloni bianchi. È evidente l’analogia con quanto stesse accadendo quasi contemporaneamente negli Stati Uniti con le leggi di creazione delle riserve indiane. Si veda Worden, N., (2012), The Making of Modern South Africa: Conquest, Apartheid, Democracy, Wiley-Blackwell, Chichester [38] Si veda: Calvi, A., (2022), Con la destra al governo la parola ‘nazione’ è tornata di moda, in “Parole. Numero speciale di Internazionale – L’Essenziale”, Inverno 2022 [39] Mamdani, M., (2012), Define and Rule: Native as Political Identity. Harvard University Press [40] Sharkey, H. J. (2003), Living with Colonialism: Nationalism and Culture in the Anglo-Egyptian Sudan. University of California Press [41] Mamdani, M., (2001), When Victims Become Killers: Colonialism, Nativism, and the Genocide in Rwanda, princeton University Press [42] Pappé, I., (2022), Dieci miti su Israele, Temu Edizioni, Napoli. In particolare si vedano il primo e il secondo capitolo “Palestina, terra di nessuno” e “Gli ebrei: un popolo senza terra”. [43] Si veda il recentissimo Rashidi, K., (2025), Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, Laterza, Roma-Bari [44] Mamdani, M. (2023), cit., pp. 294-370 Bibliografia Adorno, T.W., Horkheimer, M. (1966). Dialettica dell’illuminismo. Torino: Einaudi (ed. or. 1947) Bauman, Z. (1992). Modernità e Olocausto (M. Baldini, trad.). Bologna: Il Mulino (ed. or. 1989) Bidussa, D. (2009). Dopo l’ultimo testimone. Torino: Einaudi Bruneteau, B. (2006). Il secolo dei genocidi. Bologna: Il Mulino (ed. or. 2004) Calvi, A. (2022). Con la destra al governo la parola ‘nazione’ è tornata di moda. In “Parole. Numero speciale di Internazionale – L’Essenziale”, Inverno 2022 Césaire, A. (2005).Discours sur le colonialisme. Paris: Éditions Présence Africaine (ed. or. 1950) Douglas, R.M. (2012). Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans after the Second World War. Yale University Press Erichsen, C.W. (2005). “The angel of death has descended violently among them”: concentration camps and prisoners-of-war in Namibia, 1904-08. Leiden: African Studies Centre Erichsen, C.W., Olusoga, D. (2010). The Kaiser’s Holocaust. Germany’s Forgotten Genocide and the Colonial Roots of Nazism. London: Faber and Faber Fernández de Betoño, U. (2020). The Nazi anti-urban utopia: ‘Generalplan Ost‘. In Mètode Science Studies Journal, vol. 10, pp. 165-171 Finkelstein, N.G. (2000). The Holocaust industry: Reflections on the exploitation of Jewish suffering. Verso Focardi, F., Greppo, B. (a cura di) (2013). L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989. Roma: Viella Focardi, F. (2020). Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe. Roma: Viella Foucault, M. (1998). ”Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976)”. Milano: Feltrinelli French, H.W. (2023). L’Africa e la nascita del mondo moderno. Una storia globale. Milano: Rizzoli (ed. or. 2021) Graeber, D., Wengrow, D. (2021). L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità. Milano: Rizzoli Horsman, R. (1981). Race and manifest destiny: the origins of American racial anglo-saxonism. Harvard University Press Hull, I.V. (2005). Absolute Destruction: Military Culture and the Practices of War in Imperial Germany. Cornell University Press Iashchenko, I., & Carteny, A. (2024). ‘Is it Genocide or not?’ Some Considerations about the Ethnic Cleansing and Punishment System in Soviet Union (1930s-1950s). In ”Nuovi Autoritarismi E Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società” (NAD-DIS), 6(2) Kakel, C.P. (2011). The American West and the Nazi East: A Comparative and Interpretive Perspective. Palgrave Kakel, C.P. (2013). The Holocaust as Colonial Genocide: Hitler’s ‘Indian Wars’ in the ‘Wild East’. Palgrave Leake, E. (2024). The Construction of ‘Tribe’ as a Socio-Political Unit in Global History. In The Historical Journal, 67(4), pp. 826-849 Levene, M. (2005). Genocide in the age of the nation state. Vol. 1. The meaning of genocide. Oxford University Press Levene, M. (2005). Genocide in the age of the nation state. Vol. 2. The rise of the West and the coming of genocide. Oxford University Press Levene, M. (2013). Devastation: Volume I: The European Rimlands 1912–1938. Oxford University Press Levene, M. (2013). Annihilation: Volume II: The European Rimlands 1939–1953. Oxford University Press Liulevicius, V.G. (2011). The German Myth of the East: 1800 to the Present. Oxford University Press Mamdani, M. (2001). When Victims Become Killers: Colonialism, Nativism, and the Genocide in Rwanda. Princeton University Press Mamdani, M. (2012). Define and Rule: Native as Political Identity. Harvard University Press Mamdani, M. (2023). Né coloni, né nativi. Lo Stato-Nazione e le sue minoranze permanenti. Milano: Meltemi Miller, R.J. (2020). Nazi Germany’s Race Laws, the United States, and American Indians. In St. John’s Law Review, Volume 94, N. 3, pp. 751-817 Miller, S.M. (a cura di) (2009). Soldiers and Settlers in Africa: 1850 – 1918. Koninklijke Brill, Leiden Moses, A.D. (2021). The Problems of Genocide: Permanent Security and the Language of Transgression. Cambridge University Press Naimark, N.M. (2016). Genocide. A World History. Oxford University Press Novick, P. (1999). The Holocaust in American life. Houghton Mifflin Olivieri, N., Nencioni, C., Mastretta, E. (2020). Formarsi sulla didattica della Shoah: un ventaglio di esperienze. In Novecento.org, n. 13 febbraio 2020 Pappé, I. (2022). Dieci miti su Israele. Napoli: Temu Edizioni Patin, N., The massacre of the Herero and Nama: A colonial laboratory for genocide? In Encyclopédie d’histoire numérique de l’Europe [online] Pisanty, V. (2012). Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah. Milano: Bruno Mondadori Pisanty, V. (2021). I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe. Bompiani Rashidi, K. (2025). Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza. Roma-Bari: Laterza Rothberg, M. (2009). Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization. Stanford University Press Scott, J.C. (2020). L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-Est asiatico. Torino: Einaudi Sharkey, H.J. (2003). Living with Colonialism: Nationalism and Culture in the Anglo-Egyptian Sudan. University of California Press Slotkin, R. (1973). Regeneration through Violence. The Mythology of American Frontier, 1600-1860. Wesleyan University Press Stannard, D.E. (2001). Olocausto americano. La conquista del nuovo mondo. Bollati Boringhieri (ed. or. 1993) Traverso, E. (a cura di) (1995). Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio. Torino: Bollati Boringhieri Traverso, E. (2002). La violenza nazista. Una genealogia. 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DeGruyter The post Gli sguardi coloniali sulla Palestina first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Gli sguardi coloniali sulla Palestina sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Sardegna, le strane manovre contro gli usi civici
LE INSIDIE NASCOSTE NELLA DECISIONE DI PD E M5S DI UNA “NUOVA MAPPATURA” PER 303MILA ETTARI DI SARDEGNA DIFFUSI IN 340 COMUNI un editoriale di Lucia Chessa* Credo che tanti sardi non sappiano cosa siano gli usi civici, cosa comportino e da dove abbiano origine. Eppure esistono e sono stati accertati su più di 303.000 ettari di Sardegna e in più di 340 comuni su 377 totali. Riguardano per la maggior parte terre pubbliche, i comunali su cui per secoli, le comunità hanno vissuto e in parte continuano a farlo ma, a volte, gravano anche su terre intestate a privati. Per la loro estensione, per il loro valore, per le opportunità diffuse che potrebbero offrire se tutelati e valorizzati più di quanto non sia avvenuto fino ad ora, non sono cose per addetti ai lavori o per ristretti gruppi di tecnici specialisti, al contrario direi che riguardino tutti. Gli usi civici sono dei diritti esercitati da una comunità su terre precisamente identificate. Su queste, i residenti di una determinata comunità, oggi come da tempo immemorabile, hanno per esempio diritto a seminare, pascolare, raccogliere legname, raccogliere funghi, pescare. Ma niente vieta che, attraverso adeguati piani di valorizzazione possano essere utilizzati in maniera non tradizionale, più aderente alle esigenze attuali, nel rispetto di numerose norme, nazionali e regionali, che ne tutelano l’uso collettivo impedendo che su quei terreni si operino trasformazioni tali da pregiudicarne o diminuirne l’esercizio dei diritti spettanti ad ogni individuo di quella data comunità. Ad ogni individuo, non a pochi, né a uno solo. Questi diritti delle comunità, che chiamiamo usi civici, risalgono a tempi lontanissimi, all’epoca medioevale o anche precedente, e la legge riconosce che siano inestinguibili. Cioè non finiscono, non si possono vendere né comprare e non sono usucapibili. Cioè se anche una terra gravata da uso civico fosse utilizzata in via esclusiva, per decenni o più, da un unico soggetto, questo non ne acquisirebbe comunque mai la proprietà. Sono tutelatissimi dunque, per quanto in passato non lo siano stati adeguatamente aprendo la strada a pesanti privatizzazioni e ad interventi che, di fatto, ne hanno sottratto l’uso comunitario. Allo stesso tempo però, per le amministrazioni comunali che ne hanno avuto la volontà ed il coraggio, e tra queste la mia quando ero sindaco di Austis, sono stati strumento potentissimo di tutela dei beni comuni, anche presso i tribunali. Naturalmente fino ad oggi, la necessità di tutela da tentativi di indebita privatizzazione provenivano dall’interno. Oggi però l’assalto più pericoloso viene dall’esterno ed è probabile che, come già avviene, aree molto vaste della Sardegna saranno sottoposte ad interventi massici per l’installazione di impianti eolici, fotovoltaici, impianti di accumulo, reti per trasportare energia nei punti di stoccaggio e poi di “imbarco”. E questo assalto, che sarà capillare più di quanto non lo sia ora, statisticamente ha ottime probabilità di incrociare terreni gravati da uso civico (ricordo: inestinguibili, inalienabili e non usucapibili) i quali, se solo lo si volesse, potrebbero rappresentare un ostacolo insormontabile anche agli speculatori che guardano alla Sardegna con smisurato appetito e con massima audace ed ostinata protervia. Per ciò mi chiedo: perché, proprio adesso, con le difese ridotte al minimo, con un governo nazionale che spiana una strada già spianata agli speculatori delle energie rinnovabili? Perché proprio adesso arriva la recentissima decisione assunta in Regione Sardegna, su iniziativa di Pd e 5Stelle, ma unanimemente condivisa di “avviare un nuovo processo di mappatura dei terreni regionali gravati da uso civico sulla base di un’interlocuzione diretta con le comunità, affiancando alle risultanze meramente cartolari la valorizzazione della conoscenza consuetudinaria come elemento interpretativo essenziale per la ricostruzione giuridica e cartografica del demanio civico”. Cosa è detto con questo linguaggio tecnico/burocratico? Provo a spiegarlo. Proprio per la loro origine, lontanissima nel tempo, gli usi civici sono accertati mediante accurate ricerche storiche e d’archivio secondo modalità che non si improvvisano ma sono stabilite dalla legge. E proprio attraverso queste metodologie, in Sardegna, negli ultimi 15/20 anni, sono stati accertati i terreni gravati da uso civico tra l’altro con grandissimo dispendio di risorse economiche anche perché gli studi erano affidati tramite appalti a società specializzate. L’accertamento è pressoché concluso, ha dato i risultati richiamati e ha interessato la quasi totalità dei comuni sardi. Ora, perché mai si dovrebbe avviare una nuova mappatura “attraverso un’interlocuzione diretta delle comunità”? A chi si vorrebbe chiedere? Al sindaco? Alla parrocchia? A chi utilizza in via esclusiva quei terreni? A chi vi ha edificato sopra? A chi vi ha costruito discariche? A chi ci ha installato impianti di energia rinnovabile? Si vorrebbe chiede agli anziani del paese se per caso ricordano che, qualche secolo fa, quella terra era comunitariamente utilizzata? Le norme per risolvere situazioni consolidate, purché legittime, nelle quali il territorio è stato irrimediabilmente modificato in modo da impedire per sempre il diritto all’uso civico della comunità, esistono già e prevedono un buon bilanciamento degli interessi sia di coloro che, anche inconsapevolmente, hanno modificato ed occupato in maniera esclusiva terreni gravati da uso civico, sia della comunità alla quale occorre restituire una contropartita, un risarcimento, un bene di uguale valore. Mi dispiace dirlo ma l’operazione ha l’aria di essere un tentativo pericoloso di diminuire la porzione di Sardegna protetta da uso civico. Un tentativo ingiusto, massimamente intempestivo che, per quanto ben difficilmente possa sopravvivere al vaglio della corte costituzionale, denuncia un’inaccettabile carenza di attenzione per questa terra. Un tentativo iniquo che non fa onore a chi lo ha pensato e che devia dalla necessità di valorizzare il nostro immenso patrimonio di beni collettivi e di conservare ogni strumento di tutela della Sardegna tutta. Lucia Chessa, già sindaca ad Austis (Nuoro), è segretaria nazionale del partito Rossomori de Sardigna The post Sardegna, le strane manovre contro gli usi civici first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sardegna, le strane manovre contro gli usi civici sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Le “lettere dalla prigione” di Boris Kagarlitsky
IL PRIGIONIERO PIÙ CELEBRE DELLA SINISTRA RUSSA, HA RILASCIATO UN’INTERVISTA CHE GLI È COSTATA ALCUNI GIORNI DI ISOLAMENTO Boris Kagarlítsky e Antonio Airapetov da El Salto Boris Kagarlitski è il prigioniero politico più famoso della sinistra russa. Sociologo, teorico marxista e professore alla Scuola Superiore di Economia, non ha mai lasciato scampo a nessuno. Oggetto delle sue critiche sono stati il Cremlino, Kiev e i governi occidentali, l’opposizione liberale russa, quella nazionalista e il Partito Comunista. E nonostante ciò, lo stile argomentato e rispettoso del professore gli ha fatto guadagnare un sostegno eterogeneo quando nel 2023 è stato incarcerato e condannato a cinque anni di prigione per la sua ferma opposizione all’invasione dell’Ucraina. Grazie alla Campagna Internazionale di Solidarietà sono state raccolte centinaia di firme a favore della sua liberazione tra personalità di spicco della sinistra internazionale, come Naomi Klein, Jean-Luc Mélenchon, Slavoj Žižek, Jeremy Corbyn, Ken Loach o Tariq Ali, tra gli altri. Nel mese di novembre, appena compiuti i 67 anni, Kagarlitski ha trascorso tre giorni in una cella di isolamento della colonia penitenziaria IK-4, in condizioni che minacciano il suo fragile stato di salute, secondo quanto denunciato dal suo avvocato. Si trattava di una punizione per l’estesa intervista rilasciata a Véstnik Buri, uno dei media più rilevanti nella sinistra russa. Le sue risposte sono state trascrutte e montate in video grazie a un’app di AI che successivamente ha avuto un’ampia diffusione dentro e fuori la Federazione Russa. Ne citiamo di seguito alcuni frammenti: A PROPOSITO DEL CARCERE Non è la prima volta che finisce dietro le sbarre: ha già scontato una pena nel 1982, quando era ancora nell’Unione Sovietica, nell’ambito del processo contro il gruppo dissidente dei Giovani Socialisti; è stato nuovamente arrestato nel 1993 dalla polizia di Boris Eltsin durante il colpo di Stato da lui orchestrato, e per la terza volta dalla polizia di Vladimir Putin nel 2020 durante le proteste contro l’abolizione del limite dei mandati presidenziali. Nel 2023, prima di entrare definitivamente in prigione, il regime gli ha dato la possibilità di andare all’estero, come hanno fatto tanti altri oppositori. Sempre nel rispetto di coloro che hanno scelto l’esilio, Kagarlitsky difende la strada scelta: «Non ho rimpianti. Ho preso una decisione e la considero non solo giusta, ma estremamente importante. […] Alcuni dall’esilio, altri dall’interno del Paese, altri ancora dalla prigione: l’importante è che tutti manteniamo la solidarietà e la fede nella nostra causa». Kagarlitsky è il più famoso, ma non è affatto l’unico prigioniero della sinistra russa. Solo per citare alcuni casi: in Russia sono ben noti i processi contro gli antifascisti di Tyumen, il Circolo Marxista di Ufa, il matematico e professore dell’Università di Mosca Azat Miftáhov, o i tre adolescenti di Kansk che sono stati arrestati all’età di soli 14 anni e sono in carcere da tre anni per aver attaccato degli adesivi di solidarietà con Azat. “Nell’IK-4”, spiega Kagarlítsky, “si è formata una comunità di prigionieri politici il cui nucleo è composto da persone di sinistra”. In questo caso si riferisce al militante antifascista libertario Denís Ushakov e al socialdemocratico di sinistra Gáguik Grigorián. Tuttavia il veterano marxista va sempre oltre: “Per quanto possa sembrare paradossale, la maggior parte dei detenuti per reati politici non sono molto politicizzati. Sono semplicemente persone indignate dagli eventi degli ultimi anni che hanno espresso la loro indignazione sui social network e sono finite così nell’IK-4. È stato una volta qui, incontrando altri prigionieri politici, che hanno iniziato a pensare in termini politici […] e hanno scoperto di essere, in modo istintivo, di sinistra. Non perché abbiano letto la teoria, ma per la loro esperienza di vita». A PROPOSITO DELLA GUERRA La guerra è molto presente nella vita della colonia. I detenuti ricevono visite dai reclutatori e le autorità li informano puntualmente su cosa devono fare per arruolarsi nelle forze armate: “I dati sul reclutamento vengono pubblicati mensilmente. […] Nel 2023 ci sono stati mesi in cui centinaia di persone hanno firmato il contratto. Nella primavera del 2024 le cifre oscillavano intorno alle 35-45 persone e poi, dalla fine dell’estate, hanno iniziato a diminuire rapidamente, fino a dicembre, quando si è arruolata una sola persona. Poi c’è stato un certo aumento, ma nulla di spettacolare, tra le 8 e le 11 persone al mese. E anche questa piccola ripresa è legata alle aspettative di pace. Parlo con molti reclute e mi assicurano che non arriveranno al fronte perché il cessate il fuoco è imminente. Inoltre, gli stessi reclutatori insistono su questo punto. Purtroppo, per il momento, ciò non si è verificato. […] Non solo non ho trovato nessuno ideologicamente motivato, anzi, al contrario, ho incontrato più di un convinto oppositore della guerra che si è arruolato. Perché? Per uscire di prigione e guadagnare soldi per le rispettive famiglie. […] Abbiamo anche un certo numero di fanatici che ripetono gli slogan della propaganda, ma nessuno di loro si è arruolato per combattere. Nessuno!” Alla domanda sulle possibilità di un accordo tra Putin e Trump, Kagarlitsky si mostra scettico: «Trump pensava che, offrendo a Mosca condizioni vantaggiose, avrebbe ottenuto rapidamente il risultato desiderato. Ma non capiva affatto le cause e le dinamiche di questo conflitto, che non risiedono nella disputa territoriale o ideologica […], ma nei problemi interni della politica russa e, in parte, anche di quella ucraina. Se non sono in grado di raggiungere un accordo geopolitico, è semplicemente perché la geopolitica, e persino il controllo delle terre rare, sono questioni del tutto secondarie. La questione principale è il cambio al Cremlino. E suppongo che anche in Ucraina sia sul tavolo il problema della ripartizione del potere, anche se in altra forma”. “Il ritardo gioca chiaramente a sfavore della Russia: […] Trump ha già fatto fin dall’inizio il massimo delle concessioni possibili e la logica degli eventi lo costringe a irrigidire la sua posizione”. Ma le dinamiche interne impediscono al regime russo di porre fine al conflitto: «La propaganda del Cremlino e quella liberale coincidono nella stessa visione di élite coese con un leader unico che aspira a un obiettivo globale di cui solo lui ne è a conoscenza. Nulla di più lontano dalla realtà. E’ parecchio tempo che non esiste una leadership unica; le élites sono profondamente divise al loro interno e perseguono obiettivi molto diversi, spesso incompatibili. Ma temono anche una rottura pubblica […]. Di conseguenza, le decisioni […] vengono rinviate. È come una nave che continua ad andare alla deriva mentre sul ponte di comando si discute all’infinito su dove andare. Quanto tempo si può andare avanti così? […] Finché non compare un iceberg. […] Se ci sarà un cambio al potere, ci saranno anche un accordo di pace e un’amnistia. Ma devo ricordare ancora una volta che non si tratta solo dei prigionieri politici. Nelle carceri ci sono migliaia di persone condannate per assenteismo militare. […] E anche per i reati penali comuni […] i tribunali stanno infliggendo pene chiaramente gonfiate per stimolare le persone a firmare contratti con l’esercito. L’amnistia deve essere ampia e non riguardare solo i prigionieri politici”. SULLA SINISTRA “Con la crisi economica mondiale del 2008-2010 è iniziata un’epoca che non è ancora finita. […] In Russia, a livello locale, il modello di ”democrazia guidata” è entrato in crisi. […] Il bivio politico era abbastanza evidente per tutti: una vera democratizzazione o, al contrario, un autoritarismo più esplicito. Le élite russe temevano una democratizzazione perché avrebbe potuto portare alla perdita di controllo. Non solo le élite al potere: anche i leader dell’opposizione liberale, così come i rappresentanti dell’imprenditoria che li sostenevano, temevano un processo incontrollabile. Di conseguenza, invece di cambiamenti radicali, abbiamo assistito all’inutile “protesta di Bolotnaya” [2011-2012]. Il nome stesso è simbolico [Bolotnaya plóschad significa la piazza del pantano]: tutta l’energia della protesta si ritrovò impantanata nell’opportunismo liberale. […] Quegli eventi rafforzarono e, in un certo senso, crearono una nuova sinistra”. Una nuova generazione, che non si era più formata nell’URSS, ha alimentato progetti mediatici solidi nella sinistra durante il decennio 2010. Tuttavia, questi non sono mai riusciti a concretizzarsi in un proprio progetto politico: “Abbiamo raggiunto un pubblico stabile che ha resistito alla prova di questi tre anni di guerra; abbiamo un ambiente, una struttura, una cultura e una tradizione propri. […] Sullo sfondo del crollo morale e politico della vecchia opposizione sistemica, siamo più visibili e meglio preparati a sviluppare iniziative politiche indipendenti. Ma, allo stesso tempo, la società è schiacciata, non solo dalla repressione ma anche dalla depressione. I problemi della sinistra sono, in ultima analisi, i problemi della società russa in generale”. Kagarlítsky considera il periodo bellico come un’impasse: “Siamo in un periodo di transizione. Si è protratto in modo esasperante, ma continua a mancare di contenuti propri. […] A livello globale sta già maturando un nuovo processo di formazione della sinistra. Si pensi al nuovo partito dei sostenitori di Jeremy Corbyn nel Regno Unito o ai nuovi leader della sinistra negli Stati Uniti. […] [In Russia] la coalizione non si costruirà attorno ai diversi atteggiamenti nei confronti di Stalin, ma attorno alle questioni della democratizzazione, della nazionalizzazione dei monopoli naturali e della socializzazione delle piattaforme, delle questioni di guerra e pace, educazione e diritti sociali. […] Bisogna formare una coalizione ampia sulla base di un programma di riforme democratiche e sociali”. A PROPOSITO DI MEMORIA STORICA «Cosa rivendicano le persone [quando difendono la memoria sovietica]? Quale Unione Sovietica? […] Posso rispondere per me stesso. Senza dubbio, considero un risultato della rivoluzione lo Stato sociale […]. L’istruzione delle masse, non solo attraverso la scuola e l’università, ma anche attraverso la diffusione dell’alta cultura. E, naturalmente, l’enorme lavoro di trasformazione di un paese agricolo in uno industriale, lo sviluppo della scienza, ecc. Ma la società sovietica era estremamente contraddittoria. Questi aspetti non solo coesistevano con la repressione, l’annullamento dell’individuo, le campagne denigratorie contro la genetica o il “cosmopolitismo”, un burocratismo esacerbato, ecc., ma erano anche strettamente correlati. […] Per noi, come sinistra, è fondamentale trarre conclusioni critiche da questa esperienza per non ripeterla e non ripetere così la sconfitta”. Lo stalinismo si è trovato inaspettatamente al centro dell’attenzione dei media della sinistra russa negli ultimi mesi. Le diverse fazioni staliniste sono fortemente polarizzate sulla questione della guerra: «C’è un aspetto curioso riguardo agli stalinisti post-sovietici. L’ideologia stalinista storica ha attraversato diverse fasi e ha subito mutamenti sostanziali. Una cosa era l’ideologia degli anni ‘30, in cui c’era ancora molta retorica rivoluzionaria, riferimenti all’interesse di classe, ecc. E un’altra era l’ideologia del periodo 1948-1953, che in sostanza ha preparato l’attuale ‘imperialismo rosso’. […] Nel 2022 è diventato evidente su quale periodo della storia sovietica ciascuno si concentrasse. Tra coloro che si orientavano verso le idee degli anni ’30, molti hanno adottato una posizione critica nei confronti dell’invasione dell’Ucraina, mentre gli “imperialisti rossi” hanno naturalmente sostenuto il regime. Tutto molto logico. D’altra parte, il Partito Comunista della Federazione Russa ha dato una svolta rinnegando ufficialmente la condanna dello stalinismo adottata dal Partito Comunista Sovietico nel XX Congresso del 1956: “Le rappresaglie contro i comunisti nell’URSS sono un fatto noto da tempo. […] Sono stati condotti molti studi. Alcuni di essi [che stimano in circa 700.000 le persone giustiziate dalle troike di Stalin] sono spesso citati dagli stessi stalinisti quando vogliono dimostrare che il numero delle vittime è stato inferiore a quello sostenuto dai liberali. […] Allora perché proprio ora la dirigenza del Partito Comunista rinnega ufficialmente le risoluzioni del XX Congresso, senza alcun nesso diretto con il momento attuale? Mi sembrano esserci due ragioni. La prima è che la storia sta sostituendo la politica. Non si tratta nemmeno di depoliticizzazione, è peggio: la difesa dei miti diventa la sua attività principale. […] Miti, per giunta, reazionari. Il mito del grande leader è di per sé reazionario perché mira a sopprimere l’attività autonoma e democratica delle masse. […] E la seconda ragione è che, forse in modo inconscio, vogliono compiacere l’attuale leadership del Paese. Non è un segreto che l’eredità autoritaria dell’URSS sia accettata e approvata dal regime attuale, a differenza dell’eredità progressista sovietica (l’emancipazione delle donne, la separazione della scuola e della cultura dalla Chiesa, ecc. […] Proprio ora che la lotta per le libertà democratiche diventa un aspetto chiave della lotta per la trasformazione sociale, ci viene offerto il culto dell’autoritarismo e del conservatorismo. […] Da ciò deriva una conclusione. Anche se alcuni non lo vogliono, sarà necessario affrontare la questione della democrazia, perché, in ultima analisi, è anche una questione sociale, una questione di classe”. SULLA DEMOCRAZIA Ponendo la lotta per la democratizzazione del Paese in una posizione così privilegiata, Kagarlitsky entra nel vivo di un’altra questione molto controversa per la sinistra russa: il rapporto con l’opposizione democratico-liberale: «La maggior parte degli oppositori liberali si rifiutava categoricamente di vedere le radici sistemiche ed economiche di ciò che stava accadendo. Non chiedevano di cambiare il sistema, ma di sostituire alcune persone, molto cattive e corrotte, provenienti dai servizi segreti, con altre persone, molto buone e oneste, provenienti dal mondo degli affari”. “La situazione ha iniziato a cambiare verso la fine del decennio 2010 con l’arrivo di una nuova generazione di giornalisti professionisti che non provavano odio verso le idee di sinistra e, in alcuni casi, addirittura simpatizzavano con esse”. Gli attivisti liberali stanno attraversando un processo molto importante di revisione dei propri valori. Ciò non significa che da un giorno all’altro diventeranno tutti di sinistra (anche se alcuni lo hanno già fatto). Ma, almeno, saranno più disposti a dialogare con noi, e in questa situazione il nostro dovere è quello di esporre in modo chiaro e convincente questioni concrete, rispettare gli avversari ed esigere lo stesso rispetto nei nostri confronti. […]. Qualcuno mi mostri, per favore, una citazione di Marx, Lenin o anche Stalin, che affermi esplicitamente che la dittatura borghese è migliore della democrazia borghese. Nessun “classico” ha mai detto una simile assurdità. Ai più ostinati consiglio di leggere il discorso di Stalin al XIX Congresso del PCUS. Il tema chiave è che i comunisti dei paesi capitalisti devono mettersi alla testa della lotta per la democrazia. Perché dico che la questione della democrazia è una questione di classe? Perché l’auto-organizzazione di massa dei lavoratori sarà possibile solo in condizioni di libertà e apertura, quando molti membri della classe operaia, non solo leader e attivisti isolati, potranno affiliarsi a organizzazioni di sinistra, esprimere le loro opinioni senza timore di ritorsioni e, in ultima analisi, influenzare la politica. A SPASSO CON IL LEVIATANO Il ricongiungimento con la famiglia e il suo programma di azione politica non sono le uniche cose che occupano la mente del detenuto. Kagarlitsky ha anche altri progetti letterari: “Sto prendendo appunti sulle storie più curiose e sui personaggi più interessanti. Spero di pubblicare un libro, se mai riuscirò a uscire di qui un giorno, con tutte le storie divertenti, comiche, grottesche e, a volte, ovviamente, un po’ inquietanti che ho osservato durante le mie peregrinazioni nelle carceri. […] Ho già anche il titolo: “Passeggiate con Leviatano”. […] I miei compagni e persino alcuni funzionari sono già a conoscenza di questo libro. Ricordo che a Rzhev il capo della sezione operativa mi chiamò nel suo ufficio e mi chiese: “È vero che sta scrivendo un libro sulla prigione?”. Gli risposi di sì. “Beh, per favore, scriva dei nostri problemi. Abbiamo pochi fondi e non possiamo fare una riforma come si deve”. Gli promisi che l’avrei fatto e lo farò!”. The post Le “lettere dalla prigione” di Boris Kagarlitsky first appeared on Popoff Quotidiano. 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UK, Your Party si chiamerà così ma ancora non sa chi è
LA CONFERENZA DI LIVERPOOL APPROVA IL NOME DEL NUOVO PARTITO DELLA SINISTRA BRITANNICA MA SI SCOPRE CAOTICA E LITIGIOSA Doveva essere il lancio ufficiale di Your Party – il progetto lanciato da Jeremy Corbyn insieme alla deputata Zarah Sultana – del nuovo partito socialista di massa, quello di “tutti i socialisti” (appellativo che in UK ha un’accezione molto più nobile e radicale di quanto ne abbia in Italia dopo l’era Craxi) ma la due giorni di Liverpool è stata caotica e la leadership di Corbyn non ha offerto lo spettacolo edificante come era parso – a vederlo dall’Italia – al tempo della sua ascesa nel Labour. Sabato, infatti, quella che è stata definita la sua “cricca” è stata accusata di aver dato vita a una sorta di “caccia alle streghe” per fare fuori sul nascere l’adesione di settori critici della sinistra. Una lotta per l’egemonia che si incrocia con la competizione a sinistra con un Green Party molto più vivace e radicale di un tempo sotto la guida del nuovo leader Zack Polanski. Il dilemma, almeno uno dei dilemmi, è se YP sarà un partito dei socialisti oppure un Labour 2.0, molto meno radicale e  dove i militanti sono soldatini dei parlamentari. Your Party vuole incarnare la promessa di un nuovo socialismo di massa capace di riorganizzare la sinistra dopo la normalizzazione starmeriana. Corbyn ha parlato di un’“opportunità unica” per costruire un soggetto capace di contrastare “il triopolio del pensiero politico in parlamento”, ma la conferenza di Liverpool ha mostrato fin da subito le linee di frattura. Secondo il Guardian, il debutto del partito è stato oscurato da conflitti interni, un lancio fallimentare dell’adesione e persino minacce di azioni legali. Due parlamentari indipendenti coinvolti nel processo fondativo, Adnan Hussain e Iqbal Mohamed, hanno abbandonato la partita. E come loro, molti degli 800 mila che avevano pre-aderito alla piattaforma hanno scelto di stare alla larga da un processo costituente già percepito come contraddittorio. Anticapitalist Resistance, un gruppo ecosocialista della Quarta Internazionale impegnato nella costruzione di YP, ha sintetizzato così il malessere: “migliaia di persone si aspettano che il partito si dia una regolata, diventi una forza democratica e cominci a radicarsi nelle comunità della classe operaia. La domanda è se YP voglia davvero essere un partito di sinistra aperto oppure una struttura rigida che esclude i socialisti in quanto membri di altre organizzazioni”. Una domanda che diventa centrale quando emerge che le decisioni più importanti sulla doppia appartenenza sono state prese prima che la conferenza potesse esprimersi, e che le espulsioni sono iniziate prima ancora che la regola fosse discussa. A Liverpool hanno votato in 9 mila, in presenza o online, e solo il 37 per cento ha confermato il nome Your Party, scelto in via provvisoria mesi fa. Il resto dei voti si è diviso fra For The Many, Popular Alliance e Our Party. Ma è stata Sultana a riaccendere il dibattito. Ha boicottato la prima giornata in solidarietà con diversi membri del Socialist Workers Party espulsi all’ultimo minuto ed è tornata domenica sul palco con un discorso durissimo contro le decisioni prese “al vertice”, accusando la dirigenza di pratiche antidemocratiche. Novara Media, che ha sostenuto il progetto fin dalle prime fasi, ha confermato che una delle controversie maggiori riguarda proprio le orchestrazioni attribuite al cerchio ristretto attorno a Corbyn, percepite come un tentativo di blindare l’impianto del partito impedendo modifiche da parte dei membri. La regola sulla doppia appartenenza, che vieterebbe agli iscritti di militare in altri partiti, è diventata il punto di rottura. Per gruppi della sinistra radicale come SWP, ACR, Socialist Party o il PCR (erede del Militant di Ted Grant) significherebbe la richiesta implicita di sciogliersi per confluire in un progetto che non ha ancora un manifesto politico. ACR lo ha definito irrealistico: perché organizzazioni con decenni di storia dovrebbero sciogliersi in un soggetto non ancora definito? La conferenza ha finito per ribaltare questo orientamento. Il voto sulla doppia appartenenza ha segnato una vittoria netta per le posizioni di Sultana, con il 69,2 per cento favorevole e il 30,8 contrario, ma le espulsioni erano già avvenute, rendendo evidente la frattura tra democrazia formale e prassi del gruppo dirigente. Il conflitto ha attraversato anche il tema della leadership. I delegati hanno scelto di affidare il partito a un esecutivo collegiale con il 51,6 per cento dei voti, respingendo l’idea del leader unico che Corbyn auspicava per ragioni di chiarezza mediatica. È un voto che congela, per ora, un possibile scontro diretto tra Corbyn e Sultana, ma apre comunque a una revisione futura che potrebbe riportare in auge un modello più tradizionale, forse prima delle elezioni generali. Sultana, dal palco, ha ammesso che la formazione del partito è stata segnata da “intoppi”, ma ha insistito sull’esigenza di far luce sulle decisioni prese ai vertici. Ha chiesto una linea esplicitamente antisionista e la rottura di ogni legame con “lo Stato genocida e apartheid di Israele”, mentre i sostenitori di Corbyn la accusano in privato di avere una visione purista del socialismo e di voler marginalizzare la componente musulmana “socialmente conservatrice” che ha sostenuto il progetto di rinascita corbynista. Sullo sfondo, resta la questione della stampa: il Socialist Worker, organo dello SWP, non ha ottenuto l’accredito per la conferenza mentre lo hanno avuto testate di destra, un dettaglio che ha contribuito a far crescere la percezione di una gestione opaca. L’atmosfera al congresso è stata spesso caotica. Delegati costretti ad agitare le braccia o illuminare il palco con i telefoni per chiedere la parola, espulsioni comunicate la sera prima della conferenza, e persino interventi di Karie Murphy, storica collaboratrice di Corbyn, che durante un comizio pre-congresso indicava alle guardie chi allontanare dalla sala. Un portavoce di Your Party ha giustificato l’esclusione di membri del Revolutionary Communist Group accusandoli di aggressioni politiche a Corbyn, mentre il caso dello SWP si è ulteriormente complicato quando Corbyn ha dichiarato alla stampa che il partito sarebbe registrato presso la Commissione elettorale. Non lo è, e non si opporrebbe ai candidati di YP. Il punto resta quindi politico, non legale. Prima che la conferenza si chiudesse con i delegati che cantavano Bella ciao, Corbyn ha lanciato un appello all’unità dicendo di comprendere tutte le frustrazioni che circondano il processo costituente. Ma la sintesi arriva ancora una volta dalla stampa militante: “La leadership di Your Party perde i voti chiave alla conferenza”, ha titolato il Socialist Worker, ricordando che la base non ha convalidato la centralizzazione che il cerchio magico del vecchio leader sperava di ottenere. Il progetto che doveva unire “tutti i socialisti” parte così in un campo minato, diviso fra eredità corbynista, nuove ambizioni movimentiste e una competizione crescente con un Green Party che intercetta energie giovanili e radicali. La domanda su cosa sarà davvero Your Party rimane aperta. E il dilemma iniziale, se essere un partito socialista di massa o un Labour 2.0, rischia di diventare la frattura fondativa del nuovo soggetto. L’editoriale del Guardian titola: “La prima conferenza del vostro partito non sembra promettere un nuovo inizio”. The post UK, Your Party si chiamerà così ma ancora non sa chi è first appeared on Popoff Quotidiano. 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La lunga fine dell’estate della sinistra greca
DIECI ANNI DOPO LA CAPITOLAZIONE DAVANTI ALLA TROIKA, LA SINISTRA CERCA DI RISORGERE MA NON HA UN PROGETTO CHIAVE NÉ UNA LEADERSHIP Queralt Castillo Cerezuela da El Salto Quest’estate ricorre il decimo anniversario di quel fatidico 5 luglio 2015, quando i cittadini greci si opposero alla troika e si rifiutarono di firmare un terzo memorandum di misure di austerità impossibili da attuare. Ignorando ciò che dicevano i greci, Alexis Tsipras, all’epoca primo ministro del Paese e primo esponente di sinistra a ricoprire tale carica in Europa, obbedì agli ordini di Bruxelles. Questo ha segnato una svolta non solo per Syriza, il partito al governo, ma anche per il resto della sinistra europea. “L’ondata di speranza generata da Syriza era stata accolta con entusiasmo da Podemos e da altre forze emergenti dell’Europa meridionale. L’Oxi greco è diventato, per alcuni giorni, lo slogan internazionale della resistenza all’austerità. Tuttavia, la svolta di 180 gradi dopo il referendum ha agito come un segnale di avvertimento. Ha servito a mostrare i limiti del populismo di sinistra quando raggiunge il potere: senza un sostegno istituzionale o economico sufficiente, i gesti simbolici possono ritorcersi contro chi li promuove”, spiegava alcune settimane fa a El Salto Kostis Kornetis, professore di Storia contemporanea all’Università Autonoma di Madrid e membro consultivo del Commissariato spagnolo e membro consultivo del Commissario España in Libertad 50 años. Tsipras, che aveva vinto le elezioni generali nel gennaio dello stesso anno, non ha avuto vita facile durante il suo mandato (2015-2019): alla grande delusione da parte dei cittadini greci si sono aggiunti gli attacchi della destra e dell’estrema destra, oltre a una povertà strutturale e sistemica le cui conseguenze sono ancora visibili nel Paese ellenico. A poco a poco, la formazione della “sinistra radicale” si è spostata verso il centro, ha adottato una narrativa meno progressista e si è cominciato a parlare della pasokizzazione di Syriza, una deriva verso una posizione ideologica molto più moderata e vicina ai socialdemocratici del PASOK. La Grecia di oggi è molto diversa da quella del 2015, ma nel Paese permangono alcune dinamiche che sono il risultato di tutto ciò. “Ci sono indicatori macroeconomici che fanno pensare che stiamo meglio rispetto al 2015, e questo è vero, ma ciò nasconde anche gravi problemi di disuguaglianza e povertà, molto più visibili allora. Nonostante ciò, il governo presenta la situazione attuale come una storia di successo ed è questa la versione che trasmette alle istituzioni europee, quando chiaramente non è così”, spiega a El Salto Ioannis Katsaroumpas, professore di diritto del lavoro alla Facoltà di Giurisprudenza del Sussex (Regno Unito). Le politiche neoliberiste e anti-immigrazione di Nuova Democrazia, il partito al governo, i problemi strutturali dell’economia o la privatizzazione delle infrastrutture e dei servizi fondamentali per il paese, oltre ai vari casi di corruzione e scandali, hanno indebolito il governo dell’attuale primo ministro Kyriakos Mitsotakis, ma non abbastanza da metterlo in pericolo rispetto a nessun rivale di peso. Dopo l’abbandono della scena politica greca da parte di Tsipras in seguito alla sconfitta elettorale del 2023, in Grecia si ha la sensazione che la sinistra sia alla deriva. Le numerose scissioni e la mancanza di un progetto politico solido da parte dei partiti che sono nati rendono il panorama, al momento, desolante. “Abbiamo diversi partiti di sinistra, ma stanno faticando a trovare una narrativa e un’ideologia che abbiano senso”, afferma Katsaroumpas, che ritiene che “ci sia un fallimento in termini di ideologia e narrativa coerente. E questo è proprio uno dei problemi della sinistra greca: l’assenza di una visione, di un orientamento, di obiettivi. Si tratta di uno spettro politico che continua a fare i conti con l’eredità dell’austerità a tutti i livelli”. Ed è proprio così: la sinistra greca deve affrontare un’eredità complessa e controversa, a cui si aggiungono una frammentazione e una mancanza di leadership evidenti. “Non c’è nessuna figura pubblica che ispiri, come ha fatto Alexis Tsipras alcuni anni fa”, afferma. Attualmente non esiste nemmeno un partito politico forte in grado di guidare questo spettro politico. Alcuni ci provano da tempo, ma non riescono a raggiungere l’obiettivo. Ora, però, potrebbe succedere qualcosa che qualcosa che sconvolga tutto; una svolta di cui si parla da settimane in Grecia: il possibile ritorno di Alexis Tsipras. TORNERÀ? Sebbene le voci sul possibile ritorno di Tsipras abbiano iniziato a circolare all’inizio dell’estate, è stato lo scorso 5 settembre, in occasione del V Vertice Metropolitano di Salonicco, organizzato da The Economist, che le voci hanno preso corpo. L’ex primo ministro ha presentato un Piano Nazionale di Ripresa nell’ambito di una proposta che mira a cambiare il modello produttivo e a migliorare la situazione economica del Paese. In Grecia ci sono opinioni di ogni tipo: chi pensa che si tratti di speculazioni infondate e chi ritiene che l’ex primo ministro abbia dato segnali sufficienti per considerare il suo ritorno come qualcosa di reale e possibile. “Tsipras sta compiendo alcune mosse politiche e, se tornerà, molto probabilmente formerà un nuovo partito, diverso da Syriza. Non sarà un partito di sinistra, ma piuttosto di centro-sinistra, socialdemocratico, progressista, o come si voglia chiamarlo. Quindi non stiamo parlando di una rinascita di Syriza o qualcosa di simile”. Chi parla è Yorgos Siakas, professore associato del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Democrito di Tracia. Secondo l’analista, un possibile ritorno dell’ex leader riconfigurerebbe il panorama politico greco, o almeno quello di una sinistra in crisi. “Tutta l’opposizione di centro-sinistra sarebbe influenzata dal ritorno di Tsipras”, prevede. “L’unica cosa che sappiamo fino ad oggi sono due cose. In primo luogo, che la sua ipotetica formazione si collocherebbe nello spettro della politica progressista. E in secondo luogo: che al momento non esiste alcun partito né alcuna figura di spicco in grado di fare ombra a Mitsotakis e di assumere la guida della Grecia”. Per l’analista greca Anastasia Veneti, professore associato alla Facoltà di Comunicazione dell’Università di Bournemouth, parlare di un ipotetico ritorno di Tsipras è fantascienza: “Dare per scontato il suo ritorno è piuttosto rischioso. Se partiamo dal presupposto che tornerà in politica con un ruolo più attivo, non sappiamo se creerà un proprio partito o se tornerà a Syriza per ricoprire qualche incarico, il che richiederebbe l’avvio di una serie di procedure all’interno del partito. Dato che non sappiamo cosa significhi questo ipotetico ritorno, non possiamo fare supposizioni in questo momento”, sostiene. C’è, tuttavia, qualcosa che giocherebbe a sfavore di Tsipras nel suo ritorno come “grande salvatore” della Grecia, se questa fosse la sua intenzione. “Nonostante siamo al secondo posto peggiore di tutta l’UE in termini di potere d’acquisto, nonostante l’esistenza di cartelli e oligopoli nell’economia greca e nonostante l’alto costo della vita nel Paese, non siamo di fronte a nessuna crisi importante che possa sostenere questa rinascita”, precisa Siakas. LUGLIO 2023, IL CROLLO DI SYRIZA La ricomparsa dell’ex primo ministro greco e il suo possibile ritorno sulla scena politica avviene due anni dopo il crollo elettorale di Syriza, in quelle elezioni che hanno dato il colpo di grazia al partito. Nelle elezioni generali del 21 maggio 2023, Syriza, nonostante fosse dato da molti come secondo favorito dietro a Nuova Democrazia, non è riuscito a convincere la popolazione. Tsipras aveva assicurato che, se avesse vinto, avrebbe  contenuto i prezzi dei generi alimentari attraverso una riduzione dell’IVA, avrebbe aumentato i salari, protetto gli alloggi e controllato il mercato. Niente di tutto ciò ha conquistato il cuore degli elettori. Né la rivelazione delle intercettazioni illegali di giornalisti e politici (anche del suo stesso partito) con il software Predator, né la tragedia dei treni di Tempi del 28 febbraio dello stesso anno, che è costata la vita a 57 persone, hanno avuto ripercussioni negative su Mitsotakis, così come la cattiva gestione degli incendi boschivi che si verificano ogni estate. I risultati hanno anticipato ciò che sarebbe successo in seguito. Poiché Mitsotakis voleva governare con la maggioranza assoluta, ha indetto nuove elezioni per il 25 giugno dello stesso anno. Nuova Democrazia ha vinto con il 40,56% dei voti. Syriza ha ottenuto il 17,83%; il PASOK e il KKE (Partito Comunista Greco) hanno ottenuto rispettivamente l’11,84% e il 7,69% dei voti. Le posizioni successive furono occupate dai gruppi di estrema destra: Spartiates (Spartani), Niki (Vittoria) ed Ellinikí Lisi (Soluzione greca). Dopo la sconfitta, Tsipras, che era stato il primo ministro di estrema sinistra in Europa, lasciò un partito in rovina. Dopo la debacle e l’umiliazione subita dall’onnipotente Mitsotakis, la formazione politica che un tempo era stata il faro della sinistra europea ha iniziato a sgretolarsi. Tsipras ha puntato il dito: «Le forze progressiste a cui abbiamo chiesto collaborazione durante il periodo pre-elettorale erano schierate quasi esclusivamente contro Syriza. E ieri, al momento della storica vittoria elettorale della destra, hanno festeggiato più della ND il calo dei consensi del nostro partito”, ha detto dopo la conoscenza dei risultati. L’ex primo ministro ha lasciato tutte le sue cariche e ha lasciato la formazione, che è entrata in una spirale di lotte per la leadership che ha quasi causato la decomposizione del gruppo. Per cercare di ricomporsi e iniziare una nuova fase, Syriza ha indetto le primarie. Dopo il primo turno è arrivata la sorpresa: l’ex analista di Goldman Sachs Stefanos Kasselakis, un esterno, un intruso – dall’età di 14 anni e fino a quel momento aveva vissuto negli Stati Uniti – ha vinto, contro ogni pronostico, le elezioni interne. Ha confermato la sua vittoria al secondo turno e ha conquistato il potere nel partito. Questa vittoria ha portato gioia e diffidenza in egual misura: era un volto nuovo ed era “arrivato” per riformulare il partito, lontano dalle dinamiche viziate del passato. D’altra parte, è stato visto da una parte importante della formazione come un opportunista estraneo. Le dimissioni non si fecero attendere e alcuni membri storici, come Efi Achtsioglou, ex ministra del Lavoro tra il 2016 e il 2019 nell’esecutivo di Tsipras e uno dei volti più riconoscibili della formazione, abbandonò il gruppo. Altri furono costretti a farlo. Il regno del “Golden Boy”, tuttavia, fu breve: nel settembre 2024 subì una mozione di censura promossa da un gruppo del Comitato Centrale scontento della direzione personalistica che stava prendendo il partito e dovette andarsene. Quello che è successo negli ultimi anni fa sì che, per molte persone, Syriza sia diventato un partito praticamente irrilevante nel panorama politico greco. “La reazione del partito alla leadership di Kasselakis e il modo in cui lo ha trattato lo hanno danneggiato. Syriza è diventato un prodotto politico poco elegante“, ritiene Siakas. Anastasia Veneti, che non entra nel merito della validità politica di Kasselakis, ne sottolinea il carisma e il fatto che in poco tempo sia diventato un volto riconoscibile, un’entità a sé stante, soprattutto in un momento in cui la gente ”presta più attenzione all’immagine che alla sostanza”. Dopo l’uscita di Kasselakis e un altro turno di primarie, ora la leadership del partito è nelle mani di Socratis Famellos, deputato di Syriza dal 2015 e viceministro dell’Ambiente e dell’Energia tra il 2016 e il 2019. L’attuale leader del partito ha basato la sua campagna sull’idea di “una nuova fase”, ma la verità è che da quando è stato eletto, alla fine di novembre 2024, poco è cambiato nel partito. Il punto debole di Famellos è la sua mancanza di carisma politico. “Si sta impegnando molto, ma non sta ottenendo risultati. Purtroppo, non gode di questo tipo di riconoscimento tra l’elettorato, e lo vediamo nei sondaggi“, diagnostica Veneti, che riassume il tutto in una frase: ”Famellos non è Tsipras. Se vuole competere non solo con Mitsotakis, ma anche con Konstantopoulou (Verso la Libertà[1]) o Androulakis (PASOK) dovrà rafforzare la sua immagine e rendersi più riconoscibile, oltre a continuare a lavorare sui punti deboli del partito, indebolito dal fallimento del 2023 e da tutto ciò che ne è seguito. LE ALTRE SINISTRE (CHE NON SONO SYRIZA) Nel paniere della “sinistra greca” si trovano oggi diversi partiti, alcuni dei quali nati come scissioni di Syriza, come nel caso di MEra 25, guidato dall’ex ministro delle Finanze Yannis Varoufakis, Néa Aristerá (Nuova Sinistra) o il già citato Plefsi Eleftherias (Verso la Libertà). Nello spettro progressista si trovano anche gli anarchici di Antarsya – che non si presentano alle elezioni –, lo storico KKE (Partito Comunista Greco) o il partito di recente creazione di Stefanos Kasselakis Kínima Dimokratías (Movimento per la Democrazia). Tra le scissioni di Syriza spicca Verso la libertà, guidato da Zoi Konstantopolou, che negli ultimi anni è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel panorama politico greco. Figlia di personaggi di spicco nella lotta contro la dittatura dei colonnelli in Grecia (1967-1974), Konstantopolou è stata presidente del Parlamento greco dal febbraio 2015 fino all’estate dello stesso anno. Dopo che Alexis Tsipras ha ignorato il 61,3% della popolazione greca che ha votato contro la firma di un terzo memorandum, Konstantopoulou ha lasciato Syriza. Da allora, quando ha fondato il proprio partito, ha acquisito sempre più peso sulla scena politica greca. Non abbastanza, tuttavia, per poter affrontare Mitsotakis. La popolarità di Konstantopolou oscilla dal 3% al 10% in alcuni momenti. «Il problema di Konstantopolou è che guida un partito unipersonale, non possiamo parlare di una formazione politica con una struttura e una base stabile. Per questo motivo è considerato un partito di tendenza», spiega Yorgos Siakas. Una visione condivisa da Anastasia Veneti, che ritiene che il partito di Konstantopolou sia iperpersonalizzato. “Il partito è lei”. La diagnosi condivisa dagli analisti è che la popolazione greca si avvicina o meno al partito a seconda di ciò che fanno le altre formazioni, il che impedisce di parlare di un modello di intenzione di voto stabile. “C’è un modello di popolarità in ascesa, ma non raggiunge il 12% o il 13%. Questa è chiaramente una buona opportunità per il ritorno di Tsipras”, sostiene Siakas, che ritiene che in Grecia il clima sia favorevole alla nascita di nuove formazioni di sinistra. Un’altra formazione inizialmente interessante, nata da una scissione di Syriza e che ha perso slancio negli ultimi anni, è MeRA25. Questo progetto, nato tra il 2017 e il 2018 e guidato in origine dall’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, attualmente non ha alcun deputato o deputata in Parlamento. Nelle ultime elezioni generali ha ottenuto il 2,63% dei voti e non ha raggiunto la soglia del 3% necessaria per entrare in Parlamento. Infine, anche se non può essere considerata una formazione di sinistra, non si può non vedere l’ascesa del  PASOK, che nelle ultime europee ha sottratto a Syriza il secondo posto in Grecia. La figura del suo leader, Nikos Androulakis, è in ascesa ed è un fattore da tenere in considerazione. «Il discorso tenuto da Androulakis a Salonicco, in occasione del già citato V Vertice Metropolitano, è stato uno dei migliori che abbia mai pronunciato. La sua leadership era solitamente molto debole, ma le cose stanno cambiando», spiega Veneti, che rileva anche lo sviluppo di un programma elettorale molto più solido e definito. “Credo che Androulakis potrebbe essere un rivale competitivo per Mitsotakis, ha acquisito fiducia e appare più forte”. Una domanda che si pongono gli elettori di sinistra nel Paese è se, in vista delle prossime elezioni generali – previste per luglio 2027 – ci sia la possibilità che tutti questi gruppi formino un fronte comune, cosa che al momento sarebbe da escludere. Se si mantenessero le percentuali di voto del 2023, una coalizione formata da Syriza, PASOK, KKE, Plefsi Eleftherias e MeRA25 potrebbe raggiungere circa il 40%. “Si dovrebbe fare. Tutti questi leader politici dovrebbero sedersi a un tavolo e riflettere su come rafforzare la sinistra nel suo complesso e cercare di trovare il modo di entrare in contatto con la gente, perché credo che questo sia il problema principale dei partiti di sinistra in generale. Hanno perso la capacità di rispondere alle esigenze della popolazione“, rileva l’analista. Sebbene ci siano più punti di unione che di divisione in tutti questi gruppi, in politica, e questa sembra una premessa universale, ”gli interessi personali e/o gli ego tendono a prevalere sulle questioni politiche”, sostiene. In ogni caso, e in questo concordano tanto Siakas como Veneti, se c’è qualcuno in grado di unire tutte queste fazioni di sinistra, quello è Alexis Tsipras, «perché è una figura molto potente», sottolinea Veneti. LA FORZA DI NUOVA DEMOCRAZIA A prescindere dall’ipotetico ritorno di Tsipras, dalle fluttuazioni di popolarità di Zoi Konstantopoulou o dalla possibilità effimera di creare un fronte di sinistra, ciò che sembra evidente è che, al momento, non esiste un rivale in grado di mettere in ombra Mitsotakis. Nessuno dei recenti scandali ha provocato un crollo nella percezione da parte dei cittadini greci, anche se la manifestazione che si è tenuta nel febbraio 2025 per chiedere giustizia per le vittime dell’incidente di Tempi è stata una delle più massicce degli ultimi decenni. Dalla scomparsa, il 7 ottobre 2020, del gruppo neonazista Alba Dorata, Nuova Democrazia ha saputo approfittare del vuoto lasciato e raccogliere alcuni dei voti di coloro che un tempo votavano per la formazione ultra. Nel cuore del partito al governo convivono ora diverse fazioni di centro-destra e di estrema destra, ed è proprio qui che risiede il nocciolo della questione: l’ampiezza di ciò che questo partito abbraccia. Tuttavia, l’offerta dell’estrema destra è ampia: nelle ultime elezioni generali, quelle in cui Syriza ha subito una pesante sconfitta, il partito di ideologia neonazista Spartiátes (Spartani), sotto l’egida di Ilias Kasidiaris (ex leader di Alba Dorata e attualmente in carcere), ha ottenuto il 4,68% dei voti. Questo non è l’unico partito di ustradestra in parlamento dove coabita con Nike [Victoria], legato alla chiesa ortodossa, fondato da Dimitris Natsios, e con un’ideologia nel fondamentalismo religioso, e Ellinikí Lisi (Soluzione greca) che promuove i valori tradizionali religiosi e l’ultranazionalismo ed è capitanato da Kyriakos Velopoulos. Ioannis Katsaroumpas prevede che, se da qui alle elezioni l’estrema destra trovasse una figura di consenso, ci sarebbero possibilità di un fronte comune per le elezioni generali del 2027. «Data l’importanza della questione migratoria in Grecia, credo che l’estrema destra crescerà nel Paese», spiega. Se ciò accadesse, forse la sinistra dovrebbe ripensare alla possibilità di unirsi, come è avvenuto in altri paesi, come la Francia o la Spagna, in una sorta di coalizione comune. Per il momento, tuttavia, questa opzione non sembra essere sul tavolo. Veneti, Katasaroumpas e Siakas hanno previsioni diverse su quale direzione possa prendere la sinistra greca. Katsaroumpas, ad esempio, ritiene che al momento non ci sia nessuno in quello spettro politico in grado di contrastare Mitsotakis e lo dice chiaramente: “La principale opposizione a Nuova Democrazia verrà dalla destra o dall’estrema destra”, prevede. Più ottimista è Siakas, convinto che, in caso di ritorno di Tsipras, questi potrebbe diventare un forte rivale. Veneti è prudente. “In uno scenario come quello attuale, tutto può succedere”, conclude. DIECI ANNI DI DISASTRO L’estate del 2015, precisamente il 5 luglio, non solo ha segnato una svolta per la sinistra greca, ma anche per il resto della sinistra europea. Il 5 luglio, alla domanda se volessero che il loro governo firmasse un terzo memorandum, il 61,3% della popolazione che si è recata alle urne ha votato no: “oxi”, in greco. Stufi di un’austerità imposta da una troika che s’era dimostrata implacabile, i greci lo avevano espresso con chiarezza. Il “sí” ottenne un 38,69% dei voti. Tra le due opzioni più di venti punti percentuali di differenza. Il 62,5% della popolazione si recò alle urne. Nei mesi precedenti, i creditori avevano respinto in maniera sistematica qualsiasi proposta negoziale col governo di Atene. In Grecia, la popolazione si era sentita umiliata da Bruxelles e da una UE che la guardava dall’alto in basso e la minacciava di espulsione dall’eurozona. Sebbene Tsipras avesse promesso in tutti i modi che avrebbe ascoltato il mandato dei greci, quando è arrivato il momento ha fatto esattamente il contrario: ha capitolato davanti alla Troika. Messo alle strette dai creditori e con poche opzioni a disposizione, l’ex leader di sinistra ha firmato il terzo memorandum e ha accettato le condizioni imposte dai leader europei e dal FMI. In Grecia, gli elettori di sinistra considerarono la capitolazione come un tradimento; e il trauma è ancora vivo adesso. C’è chi continua a riferirsi a Tsipras come “prodotis”, traditore, in greco. La delusione, inoltre, non è rimasta confinata entro i confini ellenici, ma ha colpito duramente il cuore della sinistra europea. Syriza rappresentava un simbolo, e da un giorno all’altro tutto è crollato. “La capitolazione di Tsipras ha provocato un trauma alla sinistra europea, un trauma dal quale non si è ancora ripresa”, sostiene Ioannis Katsaroumpas. Nel 2015 tutti gli occhi erano puntati su Tsipras, che si era presentato all’Europa come un’alternativa al sistema. Il suo inaspettato cambiamento di posizione ha fatto capire che se Syriza non ce l’aveva fatta, nessuno avrebbe potuto farcela. Gli anni successivi e il futuro delle diverse sinistre greche sono stati profondamente segnati da quella decisione. [1] un partito di ispirazione antisistema fondato nel 2016 dall’ex-vicepresidente del Parlamento ellenico Zōī Kōnstantopoulou. I suoi membri derivano da “Unità Popolare”, scissione a sinistra di Syriza del 2015. The post La lunga fine dell’estate della sinistra greca first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo La lunga fine dell’estate della sinistra greca sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Come gli alimenti ultra-trasformati ci fanno ammalare
IL CONSUMO DI ALIMENTI ULTRA-TRASFORMATI È SEMPRE PIÙ ASSOCIATO A MALATTIE CRONICHE QUALI OBESITÀ, DIABETE, DEPRESSIONE Lise Barnéoud per Mediapart Da diversi decenni sono in aumento le malattie croniche come l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari, la depressione e persino i tumori. Potrebbero essere collegate alla massiccia diffusione degli alimenti ultra-trasformati (AUT) nella nostra dieta? Sì, afferma un team internazionale di scienziati in un articolo pubblicato a novembre sulla rivista The Lancet. Dei 104 studi epidemiologici che hanno esaminato, 92 riportano associazioni tra una forte esposizione agli AUT e un aumento del rischio di dodici malattie croniche, in particolare il morbo di Crohn (una malattia intestinale), l’obesità, le dislipidemie (anomalie del colesterolo e dei trigliceridi), il diabete, la depressione e l’insufficienza renale cronica. E 92 sono molti. Ma si tratta comunque di osservazioni di associazioni. Ora, correlazione non significa causalità. Nel corso del XX secolo, la diminuzione del numero di cicogne sembrava seguire perfettamente il calo della natalità. Tuttavia, le cicogne non portano i bambini. Una correlazione non è sufficiente a dimostrare che una variabile influenzi l’altra. Altri parametri possono entrare in gioco. Nel caso dell’alimentazione, molti fattori potrebbero confondere le acque. Innanzitutto, la categoria degli “alimenti ultra-trasformati” è molto ampia e comprende bibite gassate, patatine, crocchette, ma anche latte vegetale e pane in cassetta: le quantità di zuccheri o grassi possono variare notevolmente. Soprattutto, le persone che si nutrono principalmente di alimenti ultra-trasformati potrebbero non essere esattamente le stesse che cucinano cibi non trasformati. Ovviamente, i ricercatori sono consapevoli di questi pregiudizi e cercano di correggerli adeguando i loro gruppi in base all’età, al sesso, ma anche al livello socioeconomico, al consumo di tabacco, all’indice di massa corporea o al livello di attività fisica dei partecipanti. Ma questi aggiustamenti sono insufficienti, secondo Martin Warren, direttore scientifico del Quadram Institute, un centro di ricerca sull’alimentazione e la salute in Gran Bretagna, per il quale molte di queste associazioni potrebbero riflettere soprattutto l’influenza di contesti sociali, alimentari o comportamentali diversi. ALLA RICERCA DI NESSI CAUSALI Per trasformare una correlazione in causalità, occorrerebbe assicurarsi che nessun altro fattore di distorsione possa spiegare tali nessi, garantire che le cause precedano le conseguenze e trovare anche meccanismi biologici in grado di spiegare tali nessi. Su quest’ultimo punto, diversi team apportano ormai degli elementi di risposta. Su quest’ultimo punto, diversi team stanno ora fornendo alcune risposte. Il loro approccio è completamente diverso dagli studi osservazionali. Dopo aver costituito diversi gruppi, di esseri umani o animali, li nutrono in modi diversi e confrontano i risultati, sia su scala macroscopica che microscopica. Per ragioni etiche e organizzative, questi esperimenti cosiddetti interventistici sono generalmente condotti su un numero limitato di individui (meno di 50), per periodi relativamente brevi (meno di tre mesi). «Tuttavia, questi studi sono molto potenti dal punto di vista statistico, perché possiamo confrontare gli stessi individui in due condizioni diverse, il che ci permette di controllare la maggior parte degli altri fattori, compresi quelli genetici», precisa Romain Barrès dell’Istituto di farmacologia molecolare e cellulare di Nizza, che ha recentemente pubblicato uno dei quattro studi clinici esistenti sull’uomo. Questi studi confermano innanzitutto che esiste un nesso causale tra AUT e aumento di peso. Quando si mangiano alimenti trasformati, si mangia di più. In media, per ogni aumento del 10% della percentuale di AUT nei nostri piatti, ingeriamo 35 chilocalorie (kcal) in più al giorno. Pertanto, i partecipanti agli esperimenti interventistici che seguono una dieta composta essenzialmente da AUT in genere aumentano di peso di oltre un chilo in un solo mese. Ciò è dovuto a diversi motivi: questi alimenti sono poveri di fibre e protein. quindi saziano meno. La loro consistenza morbida permette di ingerirli molto rapidamente, senza che il cervello abbia il tempo di ricevere i segnali di sazietà. Ricchi di zuccheri e grassi, sono studiati per essere iper-appetitosi e presentano più calorie in un volume ridotto. OLTRE LE CALORIE Ma la grande lezione di questi studi è un’altra: non è solo perché si mangia di più quando ci si nutre di AUT che sorgono i problemi. “A parità di calorie, la nostra dieta composta per il 77% da AUT comportava comunque un aumento di peso e un’anomalia del colesterolo”, afferma Romain Barrès. Secondo lui, ciò dimostra che la natura ultra-trasformata di questi alimenti gioca un ruolo diretto. E che il cibo non è solo un semplice serbatoio di calorie che il nostro corpo utilizza come un’auto consuma il carburante. A differenza della benzina, infatti, i nostri alimenti hanno una struttura tridimensionale, una consistenza particolare, che determina il modo in cui il nostro corpo sarà in grado di utilizzarli. Se mangiate una mela intera o il succo della stessa mela, osserverete effetti diversi in termini di assorbimento, picco glicemico, riserva di grasso, ecc. Tuttavia, la trasformazione (macinatura, cottura, maturazione, conservazione…) destruttura gli alimenti, rendendo più facilmente accessibili i nutrienti e l’energia che contengono. Ciò finisce per modificare il modo in cui il nostro cervello regola l’accumulo di grassi o la nostra sensazione di fame. E anche il modo in cui il nostro microbiota può trarre beneficio da questi nutrienti. «Invece di analizzare le diete secondo i criteri tradizionali dei carboidrati, dei lipidi o delle vitamine, o anche del consumo di singoli alimenti, bisognerebbe interessarsi al modo in cui gli alimenti sono prodotti: la loro trasformazione e la loro formulazione», scrive il nutrizionista americano Kevin Hall nel suo libro intitolato Food Intelligence, pubblicato a settembre. Al di là della loro trasformazione, vediamo quindi la loro formulazione. Innanzitutto, c’è ciò che non si trova negli AUT, o meno rispetto agli alimenti non trasformati, in particolare meno fibre, meno proteine, meno nutrienti antiossidanti come le vitamine, meno fitonutrienti provenienti da frutta e verdura. COCKTAIL CHIMICI Ma soprattutto ci sono gli elementi in più presenti negli alimenti ultra-trasformati: più sale, più acidi grassi saturi, più zuccheri. Ma anche più sostanze chimiche che non hanno nulla a che vedere con i nutrienti. Queste sostanze possono essersi formate durante i processi di ultra-trasformazione. È il caso, ad esempio, dell’acrilammide, riconosciuta come cancerogena per gli animali e potenzialmente cancerogena per l’uomo dal Centro internazionale di ricerca sul cancro, che compare quando gli alimenti vengono riscaldati a temperature molto elevate. Altre sostanze migrano in questi alimenti dagli imballaggi comunemente utilizzati per la loro conservazione, come ftalati, bisfenoli, le microplastiche e anche il PFAS. Infine, gli industriali aggiungono volontariamente ogni tipo di additivo per migliorare la consistenza, il colore, il gusto o la conservazione degli AUT. “Presi singolarmente, questi additivi non presentano alcun problema per le nostre cellule intestinali o il nostro DNA, ed è per questo che sono stati autorizzati. Ma queste valutazioni non hanno mai tenuto conto del loro impatto sul nostro microbiota, né degli effetti combinati di queste sostanze”, sottolinea Benoît Chassaing, responsabile del team Interazioni Microbiota-Ospite presso l’Istituto Pasteur. I suoi studi sui topi e sugli esseri umani dimostrano che questi additivi tendono a ridurre la ricchezza del microbiota e a disturbare la barriera intestinale. “Eppure, il microbiota è collegato a numerose patologie!”, sottolinea il ricercatore. E non solo alle malattie infiammatorie croniche intestinali, ma anche all’obesità, al diabete di tipo 2, al cancro del colon-retto e alla depressione. Recentemente, basandosi sulla coorte francese NutriNet-Santé, 23 ricercatori, tra cui Benoît Chassaing, hanno valutato l’impatto delle miscele di additivi sull’uomo. Il team ha scoperto che due miscele in particolare – una contenente diversi emulsionanti come carragenine e amidi modificati presenti soprattutto nei brodi o nei dessert a base di latte e l’altra contenente dolcificanti, coloranti e acidificanti tipici delle bevande gassate – erano associate a una maggiore incidenza di diabete. MICROBIOTA ED EPIGENETICA «Stiamo conducendo ulteriori studi per comprendere i meccanismi in gioco, ma riteniamo che esistano sinergie tra diverse sostanze chimiche che alterano in modo specifico il nostro microbiota», prosegue Benoît Chassaing. Un’ipotesi in linea con gli studi sperimentali in vitro che rivelano effettivamente effetti tossici per le cellule e il DNA in presenza di miscele di additivi e non di additivi singoli. Un’altra pista di ricerca: questi alimenti ultra-trasformati potrebbero alterare la lettura dei nostri geni, attraverso meccanismi detti epigenetici. “Negli adulti, osserviamo molti marcatori epigenetici associati alla qualità dell’alimentazione”, afferma Camille Lassale, del Barcelona Institute for Global Health. Marcatori legati all’infiammazione, alla regolazione della glicemia, al metabolismo lipidico e alle malattie cardiovascolari in particolare. Nello studio di Romain Barrès, i partecipanti sottoposti a una dieta ricca di AUT con eccesso di calorie hanno anche visto diminuire la qualità e la motilità dei loro spermatozoi. “Stiamo cercando possibili marcatori epigenetici sul DNA dei loro spermatozoi”, spiega lo specialista. In tal caso, questi marcatori potrebbero essere trasmessi alla prole…”. Il modo in cui gli AUT ci trasformano passa quindi attraverso molteplici meccanismi, la cui spiegazione richiederà probabilmente decenni di ricerca, sottolineano gli specialisti Nel frattempo, le prove della loro nocività si accumulano e dovrebbero farci capire una cosa: esistono mille modi diversi di approcciarsi al cibo. Quando si è scienziati, si pensa soprattutto alle calorie e alle sostanze nutritive. Ma con gli alimenti ultra-trasformati ci si rende conto che non basta assumere le sostanze nutritive giuste e le giuste quantità di calorie per essere in buona salute. L’alimentazione è molto più di questo. The post Come gli alimenti ultra-trasformati ci fanno ammalare first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Come gli alimenti ultra-trasformati ci fanno ammalare sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Sogni, fagotti, uomini soli: lo sguardo di Vallinotto sull’emigrazione
“VITE DURE”, A CUNEO LA MOSTRA FOTOGRAFICA DEL REPORTER TORINESE. CRONACHE DI MIGRAZIONI, FATICHE, SOLITUDINI La durezza del lavoro, la lontananza dagli affetti, i legami sospesi, ma anche la solidarietà, la resilienza e la capacità di reinventare la propria vita altrove. Le “vite dure”. Curata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea, la mostra espone un centinaio di fotografie in bianco e nero dedicate al tema dell’emigrazione degli Italiani fra gli anni ’50 e ’70, scattate da Mauro Vallinotto. Questo artista di Torino, classe 1946, si è avvicinato alla fotografia alla fine degli anni ’60, concentrandosi in particolare sulle questioni sociali di quel periodo. I suoi primi scatti ritraevano le condizioni degli immigrati provenienti dal Sud Italia e le lotte dei lavoratori della FIAT: lavori che lo hanno portato immediatamente a collaborare con il settimanale L’Espresso. “Ho avuto la fortuna di vivere in quella Torino che a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 era uno straordinario laboratorio politico e sociale […] la città-fabbrica di Torino era fatta di tram e biciclette, case fatiscenti, masse di uomini e donne che scendevano dei treni dal Sud con le valigie legate con lo spago […] il loro era un lavoro fatto di sudore e fatica, sporco […] era una umanità dolente così tragicamente simile a quella incontrata in quegli stessi anni nei miei viaggi in Belgio e Germania fatti per raccontare l’odissea delle migliaia di nostri immigrati approdati in terre per loro sconosciute per cultura, lingua e clima […] una fatica di vivere resa più pesante dagli atteggiamenti ostili verso i nuovi arrivati”, scrive Vallinotto nell’Introduzione al catalogo.  Le immagini, acquisite dall’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo, raccontano uno dei capitoli più intensi della storia italiana recente: l’emigrazione di migliaia di italiani o dal Sud in cerca di un futuro migliore nelle fabbriche del Nord, in Germania o in Belgio.  All’inizio degli anni ’70, l’Italia conobbe una nuova ondata migratoria, sia interna che verso l’estero, spinta dalla ricerca di lavoro nelle grandi fabbriche e nei distretti industriali europei. Dal Sud, migliaia di giovani si trasferirono a Torino, attratti dalle campagne di assunzione della FIAT: per molti l’integrazione fu difficile, caratterizzata da soffitte fatiscenti e quartieri ghetto costruiti in fretta e furia intorno alle fabbriche. Oltre confine, la Germania Ovest divenne una destinazione privilegiata. A Wolfsburg, la Volkswagen fece arrivare in treno centinaia di immigrati italiani, alloggiandoli in villaggi operai separati dalla città. Ancora più dure erano le condizioni di coloro che erano impiegati dalle Ferrovie Federali, costretti a vivere nei Bauzug, treni trasformati in cucine e dormitori, costantemente in movimento e senza una dimora fissa. In Belgio, l’estrazione del carbone continuava ad attrarre migranti. Il lavoro rimaneva pesante e afflitto da gravi malattie professionali, ma i nuovi arrivati – giovani siciliani, calabresi e sardi con un background educativo più solido – alimentarono le lotte sindacali e contribuirono a migliorare le condizioni di vita e di lavoro.  La mostra, divisa in cinque sezioni, ci restituisce per immagini questa storia.  PRIMA SEZIONE: SOGNI E FAGOTTI.  Un viaggio lunghissimo, ventitré ore dalla Sicilia al Piemonte attraversando lo Stivale. Le valigie di cartone legate con lo spago racchiudono abiti leggeri e i ricordi di una vita. Uomini di tutte le età sono assiepati nelle carrozze di quei treni dai nomi quasi beffardi: la Freccia del Sud, il Treno del Sole. Dai finestrini aperti entrano i profumi delle terre che stanno lasciando: l’azzurro del mare, le spiagge incastonate nelle rocce laviche, i paesi arroccati sulle colline. Tutto si dissolve lentamente nella corsa verso le fabbriche del Nord. Come cantava Sergio Endrigo: “il treno che viene dal Sud / non porta soltanto Marie /con le labbra di corallo. / Porta gente nata tra gli ulivi, / porta gente che va a scordare il sole”.   Torino: il Treno del Sole alla stazione di Torino Porta Nuova  All’arrivo nella stazione di Porta Nuova, dove le pensiline non bastano a contenere tutti i vagoni, questi migranti in cerca di un futuro si trovano catapultati in un ambiente ostile, sconosciuto. Solo chi ha già un contatto – parenti o amici – sa dove andare. Gli altri, arrivati tra gli anni ’50 e ’60, si muovono spaesati in una città travolta dalla richiesta di manodopera delle fabbriche FIAT e dalla conseguente emergenza abitativa. Tra occupazioni abusive e sgomberi, molti si arrangiano nelle baracche di Borgo San Paolo e di Altessano, oppure si stipano nelle fatiscenti soffitte del centro storico, dove i letti vengono affittati a rotazione, seguendo i turni del lavoro in fabbrica. Si costruiscono in fretta interi quartieri-ghetto, dalle Vallette a Mirafiori Sud, che anziché integrare finiscono per amplificare le distanze sociali e culturali. Nelle strade e nei linguaggi quotidiani emergono diffidenza, pregiudizi, epiteti dialettali inventati per marcare la differenza.   Kästorf: l’arrivo di un emigrato italiano nel villaggio operaio della Volkswagen   Eppure, dentro quelle periferie nate come zone di confine, qualcosa cambia. Le famiglie si radicano, i bambini crescono, le abitudini si fondono. Le tradizioni del Sud resistono e si adattano al ritmo della città industriale. Le feste di quartiere, le voci dei mercati mescolano inflessioni e ricette, e la domenica tutti a giocare a carte, con la bianca camicia d’ordinanza a maniche corte, come nelle piazze dei paesi che hanno lasciato, diventando parte del paesaggio torinese.  Una famiglia di emigrati  SECONDA SEZIONE: UNA VITA SUI BINARI La seconda sezione è dedicata all’emigrazione italiana in Germania, dove gli uomini venivano talvolta impiegati come operai itineranti sui treni.  Negli anni Settanta la Deutsche Bundesbahn, le Ferrovie Federali Tedesche, utilizzava per la manutenzione della rete ferroviaria della Germania Ovest una singolare struttura di lavoro: i Bauzug, i “treni operai”. Erano convogli speciali che univano officina, dormitorio e mensa, viaggiando lungo il Paese per eseguire lavori di riparazione o di controllo ovunque si presentasse un guasto. Le carrozze erano un’eredità delle ferrovie del Terzo Reich: vecchi vagoni con piccole piattaforme alle estremità che non permettevano facilmente il passaggio da un vagone all’altro.   Un emigrato italiano sul treno-alloggio della DB  Ognuna aveva una funzione precisa: alcune erano dotate di letti a castello e cuccette, altre adibite a cucina o a spazio comune. In certi casi c’era persino un cuoco incaricato di preparare i pasti per chi non voleva arrangiarsi. Erano camper su rotaia, microcosmi mobili capaci di offrire tutto il necessario per vivere e lavorare.  A dirigere i lavori erano capisquadra tedeschi, ma la manodopera era composta in gran parte da migranti italiani, arrivati in Germania negli anni del boom economico. Per molti di loro il Bauzug rappresentò un destino di isolamento: non esistendo confini regionali o gerarchie territoriali, i treni operai si muovevano dove serviva, da Monaco a Francoforte, da Amburgo a Stoccarda. Ogni intervento poteva durare giorni o settimane, impedendo di fatto ai nostri connazionali non solo di stabilirsi in un luogo o costruirsi una famiglia, ma anche, più semplicemente, di ricevere la posta da casa, vivendo in una precarietà costante, sospesi tra una fermata e l’altra, lontani dagli affetti e dalla stabilità, nomadi loro malgrado.  LA TERZA SEZIONE: UOMINI SOLI Uomini soli è dedicata agli emigrati italiani alla Volkswagen di Wolfsburg, una vicenda collettiva spesso dimenticata. Si tratta di migliaia di lavoratori, maschi, giunti nella Germania Ovest dopo l’accordo bilaterale tra Roma e Bonn del 1955. Sono i Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti”: reclutati dal Sud – siciliani, calabresi, lucani – spesso senza istruzione né conoscenza del tedesco, a volte persino incapaci di esprimersi in un italiano corretto.  Ad accoglierli è Wolfsburg, città senza radici antiche, fondata nel 1938 come “Stadt des KdF-Wagens”, la città dell’auto del popolo voluta dal regime nazista. Distrutta dalla guerra, rinasce nel dopoguerra attorno alla Volkswagen, diventando negli anni Cinquanta uno dei motori del miracolo economico tedesco, a soli 18 km dal confine con la DDR.   Un emigrato italiano in Germania nella sua cucina di fortuna   I primi italiani arrivano nel 1962, ospitati nelle baracche lasciate dall’esercito britannico dopo l’occupazione, poi trasferiti negli alloggi di Kästorf, un quartiere-dormitorio costruito dall’azienda alla parte opposta della città, quasi a sancirne l’isolamento fisico e sociale.Fuori dalla fabbrica, Wolfsburg offre ben poco: nessun centro storico, pochi svaghi, una vita scandita dal lavoro. Eppure, su poco più di centomila abitanti negli anni Sessanta, oltre ventimila sono italiani: tanto che la città viene chiamata “la più italiana della Germania”.  Kästorf, Germania Ovest. Le note di una fisarmonica contro la malinconia nel villaggio della Volkswagen.  Quello degli operai italiani è un mondo interamente maschile, segnato da turni estenuanti alla catena del Maggiolino, il modello di punta della Volkswagen, dove si lavora piegati dentro le scocche o sollevando portiere e sedili a mano.   Wolfsburg: un operaio italiano al lavoro sul maggiolino Volkswagen  Le serate scorrono nei Kaffeehaus, tra partite a carte o a biliardino e le pagine della Gazzetta dello Sport che arriva con giorni di ritardo.   Kästorf: Partite a tressette nella Kantine del villaggio  Col tempo, quel mondo si apre. Molti dei Gastarbeiter, partiti per restare “solo qualche anno”, mettono radici. Arrivano le famiglie, nascono figli che parlano tedesco come lingua madre. Seconde e terze generazioni perfettamente inserite nel tessuto sociale e culturale della città.  Una famiglia di emigrati italiani  QUARTA SEZIONE: ULTIMA FERMATA MIRAFIORI  L’approdo era sempre lo stesso: la grande fabbrica di Mirafiori, con i suoi ritmi serrati e implacabili che ti prendevano appena varcavi i cancelli d’ingresso. Nel grande stabilimento della Fiat la vita era scandita dai turni in un luogo di lavoro dove contavano i minuti per entrare, uscire, mangiare, andare alla toilette (a discrezione del capo reparto) e, soprattutto, contavano i secondi nella scansione delle operazioni che impegnavano gli operai quasi sempre in posizioni assurde, accucciati sui pianali delle auto o sdraiati sotto i telai degli autocarri.  Torino, 1969: Un guardiano alla Porta 8 della FIAT Mirafiori  Anche a colonna sonora era sempre la stessa, per ore: i soffitti che sorreggevano i convogliatori per far viaggiare motori e scocche erano come un cielo buio; i pavimenti avevano il colore del catrame e tutto, in qualsiasi reparto, era invaso dal fragore e dal calore: le scintille delle saldatrici, lo sferragliare delle catene di montaggio, sibili, getti d’acqua e d’aria compressa, il clangore delle lamiere piegate, le voci di chi urlava all’orecchio del compagno per farsi sentire.   Torino: un metalmeccanico dello stabilimento Fiat OM autocarri  E poi, i 20 minuti per consumare il pranzo nel barachin portato da casa, prima che le lotte sindacali dell’Autunno caldo portassero alle conquiste sancite dallo Statuto dei lavoratori nel 1970. Così ogni giorno, che piovesse o ci fosse il sole, così come l’alternarsi del giorno e della notte nella rotazione dei turni nei reparti.  Rivalta di Torino: il barachin per gli operai nella mensa della Fiat  Andare e tornare dalla Fiat significava tante cose: tram, pullman, treni, biciclette, con il tesserino di riconoscimento tra i denti da mostrare agli ingressi ai sorveglianti avvolti in cupe mantelline. E a fine turno, la corsa tra le pozzanghere del piazzale sterrato della vecchia stazione del Lingotto, dove, violando ogni regola di sicurezza, ci si arrampicava dalla massicciata dei binari sui vagoni per trovare uno spazio dove abbandonarsi al sonno.  E si dormiva, andando e tornando: sui bus navetta, sui pullman, sul tram della linea 10 con il capolinea “FIAT MIRAFIORI” scritto in nero sulla fiancata. Teste reclinate, busti appoggiati al sedile davanti: la spossatezza del dopo, la consapevolezza dell’implacabile appuntamento del giorno seguente.  Torino: la ressa dei lavoratori pendolari per trovare un posto sul treno del ritorno  QUINTA SEZIONE: NERI COME IL CARBONE.  Le foto sono scattate nel cuore del Belgio industriale degli anni Settanta, nella regione di Charleroi, dove la vita dei minatori italiani si consuma tra le gallerie del carbone e i villaggi operai.   La Louvière: una strada del quartiere costruito per ospitare i minatori di Bois du   Il ricordo della tragedia di Marcinelle, dove nel 1956 persero la vita 136 connazionali, è una ferita lontana dal rimarginarsi.   Marcinelle: il cimitero dei minatori italiani morti nella tragedia del 1956   Le miniere restano luoghi segnati da incidenti e malattie professionali: asbestosi, la silicosi e le intossicazioni da gas sono presenze quotidiane e letali. Ma a questa fatica si aggiunge la minaccia incombente della chiusura: il carbone belga non è più competitivo e il piano di smantellamento delle miniere procede inesorabile, innescando un’ondata di disoccupazione che colpisce in primo luogo i lavoratori immigrati.   La Louvière: un minatore appena uscito da un pozzo  Nelle aree dell’Hainaut e del Limburgo, il “Paese Nero”, gli uomini che risalgono dai pozzi, volti scavati, corpi anneriti dalla polvere, occhi che cercano la luce dopo ore di buio, sembrano ignorare le ombre sul loro futuro.   Un minatore negli spogliatoi della miniera di Bois du Luc  Dopo la doccia, si cambiano in spogliatoi senza armadietti, dove gli abiti sono custoditi in piccole borse di tela appese a catene al soffitto per prevenire l’accumulo di pulviscolo.  Gli spogliatoi della miniera di Bois du Luc  Fuori dalle miniere, la vita è dura. I villaggi operai si allineano ai piedi dei terril, le colline nere di scarti minerari. Case identiche, porte in fila lungo la stessa strada, come al Carré du Bois-du-Luc di La Louvière. Nessuna cucina comune, pochi mobili, spesso neppure i vetri alle finestre. Tutto è da costruire, persino la propria quotidianità.   Waterschei: le baracche che ospitano i minatori italiani  Sono quasi tutti uomini soli. I più anziani, emigrati all’inizio degli anni Cinquanta (principalmente bergamaschi e abruzzesi), trascorrono le sere nei bar per italiani o nelle cantines, dove un bicchiere di birra aiuta a dimenticare la fatica e il buio.   Waterschei: Il circolo ritrovo dei minatori italiani del Limburgo  I più giovani, invece, provenienti dal Sud (siciliani, calabresi, pugliesi), non hanno più gli occhi rivolti solo al paese d’origine. Sono la seconda generazione di migranti, e il loro atteggiamento verso il Paese ospitante è radicalmente mutato. Non si sentono più solo ospiti o manodopera usa e getta. Di fronte alla crisi e alle discriminazioni, si organizzano sindacalmente rivendicando pari diritti. Da lavoratori invisibili, diventano protagonisti di una nuova stagione dell’emigrazione italiana: quella dell’integrazione, seppur difficile e combattuta, in un Belgio che sta chiudendo un capitolo fondamentale della sua storia industriale.  Bruxelles: una manifestazione sindacale degli emigrati italiani in Belgio  Il percorso espositivo accompagna il visitatore in un viaggio tra volti segnati dalla fatica, gesti ripetuti accanto ai macchinari in catene di montaggio frenetiche, corpi coperti di polvere e sudore e luoghi malsani, trasporti inadeguati per i pendolari che testimoniano la fatica e la speranza di chi partiva. Sono immagini che mostrano la durezza delle condizioni di lavoro ma rivelano anche la forza e la dignità dei lavoratori, protagonisti silenziosi della costruzione della modernità. I primi piani che spiccano nelle immagini, l’attenzione riservata agli sguardi, la ricerca dei particolari e delle specificità delle situazioni e degli ambienti sono assai diversi dalle immagini cui la cronaca c’è abituati in questi anni, quelle delle folle anonime rinchiuse nei campi di raccolta, di uomini indistinti accalcati su gommoni, di masse umane stipate su carrette del mare, volte a incrementare la “sindrome da invasione” alimentata dalla destra, che fa dell’emigrazione una questione di cronaca nera, di allarme sociale, di pubblica sicurezza, dimenticando le storie personali che stanno dietro ad ogni partenza, ad ogni viaggio e, nella migliore delle ipotesi, ad ogni arrivo. Le foto di Vallinotto, invece, rivelano grande sensibilità e profonda umanità nel cogliere dietro ai volti neri dei minatori, alle tute degli operai, alle valigie di cartone vicende umane difficili, fatte di fatica e sradicamento.  Con uno sguardo partecipe e privo di retorica, Vallinotto restituisce la complessità di quell’esperienza collettiva. La mostra non si limita a documentare, ma invita a riflettere su un’esperienza collettiva che ha segnato il Novecento e continua a parlare al presente.  I curatori hanno scelto di non confrontare esplicitamente il passato e il presente di emigrazione/immigrazione attraverso la giustapposizione di immagini di epoche diverse, ma hanno lasciato alla potenza delle foto di Vallinotto “un compito maieutico” – come lo definisce il curatore Gigi Garelli -, permettendo all’occhio del visitatore la libertà di individuare i termini di un confronto. “oggi gli immigrati di quegli anni sono stati sostituiti dai maghrebini. dei rumeni, dagli albanesi, dai turchi e dei profughi in fuga dalle guerre mediorientali, la fatica di vivere però è rimasta la stessa: nelle loro storie, drammatiche e a volte disumane, dovremmo ritrovare rifuggendo ogni atteggiamento demagogico populista, l’eco delle esperienze e delle speranze che accompagnava il viaggio dei nostri immigrati” sottolinea Vallinotto nell’Introduzione al catalogo.  La mostra sarà aperta fino al 30 novembre il venerdì (dalle 17 alle 19), sabato e domenica (dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19). Nei giorni infrasettimanali, per scuole e visite su prenotazione al 349 193153. Sala del Collegio dei Geometri e Geometri Laureati di Cuneo via San Giovanni Bosco 7h     The post Sogni, fagotti, uomini soli: lo sguardo di Vallinotto sull’emigrazione first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sogni, fagotti, uomini soli: lo sguardo di Vallinotto sull’emigrazione sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.