Il mito del compromesso storico cancella gli anni ’70

Popoff Quotidiano - Thursday, October 16, 2025

Il film su Berlinguer rilancia il mito attorno a questo leader ma la sua «grande ambizione» è stata in gran parte un’illusione (Romaric Godin)

Il film Berlinguer. La Grande Ambition di Andrea Segre (nelle sale dall’8 ottobre) mette in scena un racconto nostalgico su un’“occasione mancata”, quella di una trasformazione della società italiana grazie all’unità delle classi popolari, comuniste e cattoliche. Una storia che si scontra con l’attualità della politica italiana ed europea, con una vita politica dominata dall’estrema destra, ormai più o meno alleata con la destra.

Nel sottotesto, questo film difende l’idea che la storia avrebbe potuto essere diversa se i comunisti guidati da Enrico Berlinguer fossero riusciti a entrare nel governo dopo la sua vittoria elettorale del 1976. Il leader comunista appare quindi come un salvatore che la follia della destra e dell’estrema sinistra terroristica ha impedito di realizzare la sua opera. Ma è una lettura che sembra quantomeno ingenua.

Per capirlo, bisogna tenere conto di gran parte della storia di quel periodo, ampiamente oscurata da questa agiografia cinematografica. Il film parte dal 1973, ovvero dal doppio shock costituito dal colpo di Stato in Cile e dal tentativo di assassini, in Bulgaria, dello stesso Enrico Berlinguer. Quest’ultimo costruirà quindi la sua visione di un percorso democratico verso il socialismo basato sul «compromesso storico» tra il Partito Comunista Italiano (PCI) e gli elementi popolari della Democrazia Cristiana (DC). Il PCI rifiutava così il modello di Mosca, evitando però l’errore di Salvador Allende di una base sociale troppo ristretta.

Per realizzare questa «grande ambizione», Enrico Berlinguer si oppone quindi ai comunisti sovietici, alla sua destra, e a un’opposizione di sinistra ridotta, nel film, all’agitazione «studentesca». Ma è qui che sta il problema. Perché questa storia inizia prima. Nel 1969, precisamente, quando la crisi del capitalismo italiano diventa tangibile e assume una forma originale in Occidente. Quell’anno il Paese è sconvolto da rivolte spontanee nelle fabbriche dei lavoratori che, partendo dalle rivendicazioni classiche, iniziano a contestare l’organizzazione sociale e il lavoro.

La rivolta operaia italiana

Nell’aprile 1969, a Battipaglia, in provincia di Salerno, nel sud del Paese, la popolazione si ribella dopo l’annuncio della chiusura di due fabbriche e caccia le forze dell’ordine dalla città per più di quarantotto ore. Gli scontri causano un morto e costringono il governo a salvare le due fabbriche. Questi eventi, chiamati pudicamente in italiano «fatti di Battipaglia», lasciano sbalorditi i politici: nessun leader guida il movimento e le rivendicazioni diventano rapidamente sistemiche.

Progressivamente, questa rivolta si diffonde e raggiunge il Nord industriale. I «comitati unitari di base» (CUB) si sono già moltiplicati nelle fabbriche, in particolare in quella del produttore di pneumatici Pirelli, nel quartiere Bicocca di Milano, che si dimostra molto attivo. Il fuoco covava e scoppiò alcuni mesi dopo durante l’“autunno caldo” del 1969. La mobilitazione sindacale sui salari si infiammò e travolse le organizzazioni. Gli scioperi selvaggi si moltiplicarono. Il 19 novembre, lo sciopero generale sfociò in una situazione quasi insurrezionale a Milano, dove un poliziotto fu ucciso.

La risposta del capitalismo italiano sarà quella che verrà definita «la strategia della tensione». Il 12 dicembre 1969, una bomba esplode in una banca in piazza Fontana, nel centro di Milano, causando 16 morti e 88 feriti. La sera stessa vengono arrestati numerosi anarchici. Tra loro c’è Giuseppe Pinelli, che poche ore dopo cade dalla finestra della stazione di polizia dove era stato interrogato. Negli anni ’80 si scoprirà che l’attentato è stato perpetrato dall’estrema destra neofascista per provocare la dichiarazione dello stato di emergenza e la repressione del movimento operaio. Gli anarchici non avevano nulla a che fare con questa vicenda.

Questo attentato apre un periodo buio durante il quale si moltiplicano gli attentati di estrema destra, a cui risponde la violenza di estrema sinistra. Tuttavia, in questi “anni di piombo”, la rabbia dei lavoratori italiani e la loro contestazione del capitalismo non si placano. Peggio ancora, questa rabbia si radicalizza con il confermarsi della crisi mondiale. Nel 1973, una nuova ondata di scioperi selvaggi si abbatte sul Paese. Allo stabilimento Fiat di Mirafiori, il più grande d’Europa, uno striscione accoglie i visitatori: «Qui comandiamo noi».

La contestazione è sempre meno rivendicativa. Ciò che viene contestato è proprio la gerarchia, il lavoro, la società. Questa contestazione è permanente. Ogni volta che si manifesta, viene contrastata con la violenza dell’estrema destra e tentativi di colpo di Stato. L’ultimo momento chiave di questo movimento “autonomo” italiano è il 1977, anno in cui il Paese è sconvolto da manifestazioni e scioperi.

Questa è la particolarità dell’Italia degli anni ’70: il movimento di contestazione iniziato nel 1968 non si è placato in pochi anni e non si è limitato alle cerchie intellettuali. Si è diffuso nel mondo del lavoro. «In Italia, unico caso in Europa, il movimento si è affermato come forza sociale per lungo tempo, sviluppando un potenziale che ha scoperto il significato storico del 1968», sottolineano Nanni Balestrini e Primo Moroni in un’opera su questo periodo, L’Orda d’oro 1968-1977 (Feltrinelli, 1997, tradotto nel 2017 dalle edizioni L’éclat).

Il PCI in una morsa

Sarebbe quindi un errore limitare il movimento autonomo italiano alle sue derive terroristiche o a una gioventù studentesca sognatrice, come fa il film. Il movimento era profondo ed era una sfida diretta al Partito Comunista e ai sindacati. Tanto quanto i dirigenti aziendali, anche gli operai contestavano la tradizionale struttura del movimento sociale.

È in questo contesto che agisce Enrico Berlinguer, nominato nel 1972 alla guida del PCI. Sebbene relegato all’opposizione dal 1947, il partito è un’istituzione della Prima Repubblica italiana. Ha contribuito alla fondazione della Repubblica e all’elaborazione della sua Costituzione. Fa parte del panorama politico del Paese. Il rigetto del sistema sovietico, confermato dopo la repressione della Primavera di Praga nel 1968, rafforzava ulteriormente questa realtà. Per il PCI era importante tradurre il malcontento operaio in termini elettorali per mantenere il controllo della classe operaia.

Questa posizione costringe Berlinguer a respingere come «utopia» la contestazione del capitalismo presente tra i lavoratori italiani, per promettere miglioramenti concreti del tenore di vita. Da qui nasce l’idea del «compromesso storico» con la Democrazia Cristiana (DC), ovvero con il partito che gestisce il capitalismo italiano.

Questo compromesso funziona su un mercato implicito: ottenere concessioni «sociali» in cambio di un ritorno all’ordine nelle fabbriche. E il cuore di questo compromesso è la salvaguardia della democrazia liberale, perché salvaguardando l’ordine capitalista, secondo il PCI, si disinnesca la violenza neofascista. È la lezione che trae dagli eventi di Santiago del Cile.

Il fallimento dell’accordo con la DC

La strategia inizialmente ebbe successo. L’abbandono dell’alleanza con Mosca, il discorso di Berlinguer sull’obiettivo del socialismo e la minaccia di un colpo di Stato fascista fecero del PCI, nel 1975, un baluardo per il mondo operaio. L’anno successivo, il partito ottenne il suo miglior risultato, con il 34% dei voti alle elezioni legislative. Ma questo successo era solo la punta dell’iceberg.

La crisi economica che colpisce il mondo e l’Italia rende improbabili le concessioni del capitale. Allo stesso tempo, l’agitazione operaia rimane forte. La DC decide quindi di intrappolare il PCI chiedendogli garanzie per accettare il compromesso storico. Dopo le elezioni del 1976, il partito accetta di sostenere con la sua astensione i governi di Giulio Andreotti. Non dice nulla sulle politiche di austerità e sulla repressione del movimento autonomo nel 1977. Questa buona volontà dei comunisti permette di guadagnare tempo per disinnescare la rivolta dei lavoratori, screditando al contempo il partito tra gli operai.

L’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel maggio 1978 non pone fine alla possibilità del «compromesso storico». In realtà, il PCI continua a sostenere Andreotti per un altro anno. E solo dopo il suo doppio fallimento alle elezioni legislative ed europee del 1979 la strategia della «grande intesa» viene finalmente abbandonata con rammarico. Nel frattempo, il PCI è diventato inutile per il padronato italiano, che riprende il controllo della situazione con l’appoggio dei socialisti di Bettino Craxi.

La repressione del movimento autonomo, la sua riduzione a fenomeno terrorista e l’escalation della disoccupazione mettono fine all’eccezione italiana degli anni 70. Nell’autunno del 1980, la direzione della Fiat annuncia 30mila licenziamenti a Mirafiori, luogo simbolo delle lotte sociali del decennio precedente. Enrico Berlinguer è in prima linea nella lotta, cerca di ristabilire l’immagine del PCI. Ma è troppo tardi.

La rivendicazione socialista dei lavoratori italiani è stata sepolta e le promesse di Berlinguer si sono rivelate illusorie. La strada è libera per l’attuazione della controrivoluzione neoliberista che nel 1990 travolgerà il PCI. La sinistra italiana sprofonda allora in una corsa alla moderazione che lascia spazio agli eredi dei neofascisti degli anni ’70 che, con Giorgia Meloni, sono ormai al potere.

Il mito del «compromesso storico» deve quindi essere rivisto. Non come un’«occasione mancata», ma come un profondo errore di analisi. Enrico Berlinguer, tutto intento a distanziarsi sia dagli “autonomi” che dal blocco dell’Est, ha sopravvalutato la capacità di apertura della democrazia liberale in un periodo di crisi del capitalismo. Ha dimenticato che quest’ultima si inseriva in un quadro preciso: quello del rispetto dell’accumulazione del capitale.

Ciò che è in discussione qui non è la buona volontà di Enrico Berlinguer, che era senza dubbio sincera. Ma mettendo in contrapposizione la realtà elettorale con quella della contestazione operaia, egli è diventato il sostegno dei capitalisti italiani. Infatti, se Aldo Moro fosse sopravvissuto e fosse riuscito a formare un governo di coalizione con il PCI, nulla garantisce che la speranza di Berlinguer di avviare una transizione verso il socialismo avrebbe trovato uno sbocco. Non è nemmeno certo che le misure di ridistribuzione sarebbero state possibili.

L’Italia era in crisi e il capitale esigeva misure forti prima di qualsiasi riforma sociale. E poiché, parallelamente, la combattività operaia era stata indebolita, un governo del genere sarebbe esploso in volo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, avrebbe intrapreso, come in Francia cinque anni dopo, una «svolta di rigore». Il «compromesso storico» cercava una via elettorale per superare il capitalismo che non esisteva. Era, in gran parte, un’illusione. La sua trasformazione in mito mantiene, purtroppo, viva questa illusione.

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