
Regno Unito, come i verdi sono diventati rossi
Popoff Quotidiano - Friday, November 14, 2025Basta bravi ragazzi: storia del Green Party, dalle origini negli anni ’70 fino alla leadership di Zack Polanski (Adam Ramsay)
questo articolo è tratto dal media indipendente britannico Novara MediaQuando entrai nel Partito Verde scozzese nel 2001, i Verdi contavano circa 6.000 iscritti nelle tre formazioni del Regno Unito (in Scozia, in Inghilterra e Galles, e nell’Irlanda del Nord). Di recente, più o meno lo stesso numero si è iscritto in un solo giorno. Solo in Inghilterra e Galles, il Partito dei Verdi ha superato i Conservatori, raggiungendo il record di 150.000 membri – due volte e mezzo quelli che aveva quando Zack Polanski (il nuovo leader del partito, classe 1982, si definisce come “eco-populista”: un approccio che combina ambientalismo con politica economica di sinistra e attenzione alle disuguaglianze annunciò la sua candidatura alla leadership, lo scorso maggio, ndr).
Gran parte del merito di questa esplosione di iscrizioni va proprio a Polanski, con il suo carisma naturale, la disponibilità ad affrontare controversie e un messaggio chiaramente di sinistra.
Ma questo “eco-populismo”, per quanto incarnato da Polanski, non è iniziato con lui. Polanski è la conclusione di una storia molto più lunga: la storia di come i Verdi sono diventati un partito esplicitamente di sinistra.
Da People a Ecology a Green
“Molte delle nostre idee sono l’opposto della visione della vita basata sulla competizione sfrenata”, dichiarava il Manifesto for Survival del 1974 del People Party, il predecessore del Partito dei Verdi. “Punteremo a una società in cui i bisogni di base siano soddisfatti, ma in cui i lussi siano difficili da ottenere.”
Fondato due anni prima da un gruppo di quattro amici a Coventry, People proponeva una tassa del 100% sui redditi o profitti oltre certe soglie, una riforma radicale della proprietà terriera, un reddito di base universale e il disarmo nucleare. Ma, poiché riteneva che la “sovrappopolazione” fosse in parte responsabile della crisi climatica, il partito proponeva anche rigidi controlli sull’immigrazione. Nel 1974 ottenne circa 4.500 voti in sette collegi – un risultato tutto sommato significativo.
People era di sinistra, nel senso che si opponeva al capitalismo e sosteneva il controllo democratico dell’economia. Ma non apparteneva alla sinistra. I fondatori provenivano da un ambiente borghese, con tratti vagamente conservatori (uno era un ex consigliere Tory), e le loro pulsioni malthusiane avevano un’impronta decisamente conservatrice. Il loro obiettivo non era rovesciare il capitalismo nell’interesse della classe lavoratrice, ma adattarlo per garantire la sopravvivenza umana di fronte al collasso climatico e all’annientamento nucleare.
Negli anni ’70, partecipanti al movimento di protesta del 1968 che aveva attraversato il mondo iniziarono a fondare partiti verdi, soprattutto in Europa. People presto accolse molti di questi “sessantottini”, spostandosi così più a sinistra. Nel 1975 cambiò nome in “Ecology Party”. In parte per sottolineare il suo ambientalismo; in parte come metafora dell’interconnessione fra i problemi. “L’ecologia è la scienza delle relazioni”, mi ha spiegato Derek Wall, storico del partito ed ex portavoce principale. La prima “ondata verde” arrivò qualche anno dopo, alle elezioni del 1979, quando Ecology riuscì a presentare abbastanza candidati da ottenere uno spazio di propaganda elettorale: la sua base iscritti si gonfiò brevemente da circa 500 a 5.000 (anche se poi calò).
Per molti sessantottini, il problema della sinistra tradizionale – partiti comunisti e socialisti, sindacati – non era la critica al capitalismo, ma il suo essere troppo maschile, statalista e poco attenta all’ambiente. Negli anni ’80 e ’90, l’Ecology Party sostenne lo sciopero dei minatori e chiese il disarmo nucleare unilaterale. Nel 1981, ricorda Wall, lo storico marxista e leader della campagna antinucleare EP Thompson intervenne alla conferenza del partito.
Nel 1985, Ecology cambiò nome in Green Party, riflettendo il successo dei Verdi tedeschi che, pur più giovani, erano riusciti a sfondare grazie al sistema proporzionale e al vasto movimento antinucleare. Il partito britannico ereditò anche i nomi delle sue due principali fazioni dai tedeschi: i “realos” (realisti), favorevoli a professionalizzazione, struttura, modernizzazione ed elettoralismo; e i “fundis” (fondamentalisti), più anarchici e generalmente contrari all’idea di un leader. Wall era un fundi di primo piano, Caroline Lucas una realo.
Alla fine degli anni ’80, con la crescente preoccupazione per questioni ambientali come il buco nell’ozono e con tutti e tre i principali partiti in crisi, molti si avvicinarono ai Verdi. Il partito ottenne il 15% alle europee del 1989, attirando una nuova ondata di iscrizioni – la seconda ondata verde. Ma il partito non aveva la capacità di gestire quell’energia: la leggenda narra che mancasse persino il personale per aprire le buste e versare gli assegni. Inoltre, la credibilità conquistata nel 1989 fu compromessa dall’ingresso del celebre commentatore calcistico David Icke, che divenne rapidamente il volto più noto del partito e poi cominciò a esprimere pubblicamente teorie cospirazioniste bizzarre.
Negli anni ’90, molti attivisti si spostarono verso movimenti anarchici o affini: squat, rave, campagne contro le strade e contro la poll tax. Altri preferirono la via elettorale, pur senza ottenere risultati significativi. La divisione tra realos e fundis si approfondì, generando amarezza e autoreferenzialità, e il partito finì per arrancare.
Nel contesto del dopoguerra fredda, molti membri dei Verdi rifiutavano l’etichetta di socialisti. Quando mi iscrissi nel 2001, l’idea dominante era che il partito dovesse considerare assi diversi dalla classe – genere, razza, sessualità, geografia – ma spesso ciò degenerava in una sorta di allergia a parlare di classe. Era in parte il sintomo della tecnocrazia anti-ideologica diffusa nella politica progressista degli anni ’90 e 2000: si arrivava a conclusioni di sinistra su singole questioni senza inserirle in un quadro coerentemente di sinistra. Ma tutto stava per cambiare di nuovo.
Un po’ meno conversazione (sul clima).
Facevo parte di una generazione relativamente piccola di Verdi millennial entrati nel partito durante gli anni Duemila – nel mio caso, spinto dal movimento anti-globalizzazione, dalle preoccupazioni per il cambiamento climatico e dall’elezione di un deputato verde nel primo parlamento scozzese nel 1999 (nel 2003 i Verdi ottennero 7 seggi, alimentando una mini-ondata di iscrizioni). La nostra generazione si trovò presto e capì che non rientrava perfettamente in nessuna delle fazioni esistenti. Eravamo realos – andavamo in giacca alle conferenze e votammo per introdurre un leader invece dei due “portavoce principali” in un aspro referendum del 2007 – ma, come molti fundis, eravamo socialisti.
Insieme, noi nuovi Young Greens sviluppammo un’analisi condivisa dei problemi del partito e ci mettemmo a risolverli attraverso le sue strutture democratiche interne; trovando lavoro nel partito o presso il numero crescente dei suoi rappresentanti eletti; candidandoci come consiglieri comunali; e attraverso il dibattito online (un gruppo di noi fondò il sito Bright Green proprio con questo scopo).
Le nostre prescrizioni per il partito erano le seguenti. Primo, dovevamo parlare meno del collasso climatico. Anche se la maggior parte di noi era attivista climatica, l’ambientalismo era l’unica cosa che tutti già sapevano dei Verdi. Inoltre, non si poteva risolvere la crisi climatica senza cambiare il sistema economico, che stava rovinando la vita agli elettori tanto quanto il pianeta.
Questo significava costruire messaggi radicati nelle preoccupazioni materiali delle persone. Dicevo spesso ai membri: “Crediamo che le nostre politiche migliorerebbero la vita della maggior parte delle persone, ma quasi mai glielo diciamo.” La campagna per il sindaco di Londra del 2008 di Siân Berry, con lo slogan “Una Londra verde è una Londra più accessibile”, fu un chiaro passo avanti.
A Oxford, dove vivevo allora, conducemmo campagne comunali nel 2012, 2013 e 2014 incentrate sull’opposizione ai tagli all’assistenza sociale e sulla difesa dei diritti dei migranti dall’ondata di Faragismo già allora crescente, e conquistammo seggi ai danni dei laburisti, percepiti come troppo timidi. A livello nazionale, il partito iniziò a formare i candidati locali affinché sondassero le preoccupazioni degli elettori e poi scrivessero i loro volantini proponendo soluzioni verdi: non nascondere politiche radicali, ma parlarne in modo rilevante per le preoccupazioni quotidiane delle persone.
Secondo, ritenevamo necessario essere più chiari nel definirci di sinistra. Fino al 2010 circa, alcuni Verdi sostenevano che il partito non fosse né di sinistra né di destra, ma “in avanti”. Di solito queste persone avevano una politica istintivamente progressista, ma priva di un’analisi del potere. La nostra generazione era esplicitamente di sinistra, e pensava che dirlo fosse importante per vincere le elezioni: la gente non ti vota se non sa cosa rappresenti.
Molti Verdi più anziani non erano d’accordo. Avevano interiorizzato quel senso comune blairiano post-guerra fredda secondo cui era impossibile vincere le elezioni ammettendo di voler nazionalizzare o tassare i ricchi. Bisognava dare ai principi socialisti una patina di accettabilità verde. Come mi disse Berry: “Molti Verdi – non io, però, e neanche [l’ex leader] Caroline Lucas – erano decisamente nervosi all’idea di dichiararsi socialisti prima della leadership di Natalie [Bennett].”
Indicavamo sondaggi che mostravano come le idee socialiste fossero, in realtà, ampiamente popolari. I centristi avevano già molti altri partiti; e comunque, la stampa di destra smascherava facilmente il tentativo di nascondere principi di sinistra dietro politiche ambientaliste, bollando chi ci provava come “cocomeri”: verdi fuori, rossi dentro. Con Natalie Bennett, questa timidezza ideologica iniziò a svanire.
Alla conferenza del 2012 – la prima di Bennett come leader – il partito fu schierato chiaramente a sinistra della posizione timida e ambigua del Labour sull’austerità. Nel suo discorso, Bennett invitò i membri a “non chiedersi cosa i sindacati possano fare per noi. Chiedetevi cosa possiamo fare noi per i sindacati.” Durante il suo mandato, Bennett definì un’agenda economica radicale, anti-neoliberista e anti-austerità che rispondeva allo spirito del post-2008.
Alla stessa conferenza, proposi una politica, scritta originariamente da Peter Tatchell, che sosteneva il diritto dei lavoratori a rilevare la propria azienda e trasformarla in una cooperativa. Fu approvata a larga maggioranza.
Cose ancora più radicali erano in corso all’Università di York, dove la società verde, guidata dall’oggi giornalista Josiah Mortimer, propose di ridefinire costituzionalmente il Partito dei Verdi come “un partito di giustizia sociale e ambientale, che sostiene una trasformazione radicale della società a beneficio di tutti e dell’intero pianeta”.
La proposta passò con il 70% dei voti. Per me rappresentava una generazione ancora più giovane di Verdi, coinvolta nelle proteste studentesche del 2010 e iscrittasi in gran parte grazie alla forte opposizione della neo-eletta deputata verde Caroline Lucas all’aumento delle tasse universitarie e all’austerità.
Clive Lord, uno dei membri originari di People e tra i principali oppositori dei cambiamenti che stavamo introducendo, era furioso: definì me e altri promotori delle riforme “pirati” che “hanno abbordato la nave e stanno combattendo per prenderne il controllo.”
Se noi venivamo spesso attaccati come cocomeri, l’altra fazione pubblicò un bollettino chiamato “il kiwi e il lime” – verdi fino al midollo, non solo fuori (c’era persino chi indicava un terzo gruppo, i “mango”: verdi fuori, gialli/liberali dentro).
Addio guru e tecnocrati.
Un’altra grande vittoria era arrivata qualche anno prima: nelle politiche del partito sopravvivevano ancora scorie di misticismo hippy anti-scientifico – sostegno all’omeopatia, opposizione alla ricerca sulle staminali e così via – che i media (comprensibilmente) amavano mettere in luce. Gran parte di tutto ciò fu eliminato in un dibattito epico alla conferenza di primavera 2010 del Green Party of England and Wales, giusto in tempo per le elezioni generali. Il passaggio culturale dallo scetticismo verso la tecnologia e i “camici bianchi” della generazione antinucleare al razionalismo pro-scienza della generazione climatica era completato.
Per noi, però, essere orgogliosamente di sinistra non significava solo abbandonare le eccentricità. Significava anche abbracciare l’intersezionalità: i diritti delle persone migranti, LGBTQ+ e disabili. Pur essendo già forte in questi ambiti, il partito conservava un residuo malthusiano. L’organizzazione Population Matters, che aveva fatto campagna contro l’ingresso dei rifugiati siriani nel paese (posizione poi ammorbidita), organizzava regolarmente eventi alle conferenze dei Verdi, per esempio. Alla conferenza del 2013, uno dei nostri Young Greens, Sebastian Power, affrontò apertamente l’organizzazione in un dibattito molto seguito, spiegando chiaramente come il neo-malthusianesimo serva a spostare la colpa dai ricchi ai poveri, dai bianchi ai neri, dagli uomini alle donne. L’organizzazione tenta ancora oggi di dialogare con il partito, ma le sue idee sono molto più marginali e difficilmente restano incontestate.
Ecco la traduzione in italiano, con lo stesso registro delle parti precedenti: chiara, scorrevole, rigorosa.
E significava anche costruire una migliore analisi del potere. Peter McColl, figura di spicco dei Verdi scozzesi della nostra generazione, ricorda che tra il 2005 e il 2015 il partito era pieno di persone ossessionate da una singola “politica pallottola magica”. Alcune erano buone – il reddito di base, la rappresentanza proporzionale, “contrazione e convergenza” – altre meno – come i crediti di carbonio negoziabili. Questa ossessione tecnocratica per le politiche senza un’analisi del potere era un retaggio di quel periodo anti-ideologico tra il crollo del Muro e quello delle banche, quando la storia era presumibilmente finita. (È rivelatore che gli interventi più efficaci di Polanski non riguardino quasi mai politiche specifiche, benché la sua proposta di tassa sulla ricchezza sia molto popolare; arrivano invece quando mette in luce le dinamiche di potere, come i miliardari che tentano di incolpare i migranti per i problemi del paese, o i media di destra che lo attaccano.)
La maggior parte di noi riteneva che il partito dovesse essere più audace. Molti addetti stampa e funzionari Verdi sembravano temere le politiche più radicali. Tra molti c’era l’assunto che essere attaccati dai tabloid fosse negativo. Noi invece sentivamo – come Polanski ha dimostrato – che far arrabbiare il Daily Mail fosse un ottimo modo per mobilitare il sostegno progressista. Ripetevo spesso il mantra secondo cui i Verdi avevano una scelta: essere controversi o essere ignorati. Il partito tendeva a preferire la seconda. Questa prudenza, unita ai suoi legami con il movimento pacifista e con il quaccherismo basato sul consenso, e a una generale gentilezza borghese, produceva un tono utile sui pianerottoli, ma destinato ad affogare nelle risse mediatiche.
I cambiamenti che hanno portato il partito dov’è oggi furono in parte guidati dalla nostra generazione di Young Greens.
In parte, furono guidati da tre donne – Berry, Bennett e Lucas – che, tra loro, portarono il partito in un viaggio verso sinistra lungo tutto il decennio 2010.
Sia lode a Lucas.
Lucas fu eurodeputata dal 1999 (quando il Labour introdusse la proporzionale alle europee), poi la prima deputata Verde dal 2010 al 2024, e fino a poco tempo fa la figura più nota del partito. Nel 2008, co-scrisse il rapporto originale sul Green New Deal, che impedì agli ambientalisti di accogliere la crisi finanziaria sostenendo l’austerità come misura di decrescita (come alcuni sussurravano all’epoca), e chiese invece gli enormi investimenti necessari per una transizione a zero emissioni. Una volta in parlamento, Lucas divenne una critica centrale dell’austerità e guidò l’opposizione alla privatizzazione del NHS di Cameron.
Intorno al 2015, ricordo un’intervista in cui a Lucas venne detto che le sue idee suonavano sospettosamente come socialismo. Lei rispose che i Verdi erano “orgogliosi dei nostri principi socialisti”. Feci un gesto di esultanza. Nello stesso periodo, Green Left mi chiese di tenere un workshop sull’“eco-socialismo”, a cui Lucas partecipò. Alla fine disse qualcosa del tipo: “Ma non è semplicemente questo ciò che è la politica Verde?” Come Polanski, non vedeva alcun bisogno di mettere la parola socialismo al centro, ma non lo avrebbe negato se qualcuno chiedeva. “Abbiamo sempre considerato Caroline Lucas un’alleata”, mi ha detto Mortimer.
La maggior parte dei membri entrati prima della recente ondata pro-Polanski si era iscritta per Lucas e per la politica di sinistra e femminista che incarnava. I pochi che sostenevano che la sua non fosse “vera politica Verde”, che secondo loro doveva concentrarsi sul controllo demografico e sulla decrescita, venivano guardati storto. Lucas, insieme a Bennett e Berry, ha posto le fondamenta dell’attuale ascesa.
Tra il 2014 e il 2015, tutti e tre i partiti Verdi del Regno Unito erano chiaramente e orgogliosamente di sinistra. In Scozia, il referendum sull’indipendenza diede ai Verdi scozzesi l’occasione di presentare una visione per il paese, generando una crescita di iscritti pari a otto volte. In Inghilterra e Galles, la leader Natalie Bennett girò il paese organizzando assemblee cittadine, delineando una visione altrettanto ampia e trovando una diffusa voglia di radicalismo di sinistra oltre il soffocante bipartitismo e ben più a sinistra del Labour di Ed Miliband. L’iscrizione ai Verdi nel Regno Unito esplose da circa 15.000 a inizio 2014 a oltre 70.000 nell’estate 2015.
Molti di questi nuovi membri passarono presto al Labour per sostenere il progetto Corbyn, avviato quello stesso anno; altri, come me, rimasero iscritti ma si allontanarono un po’. Ma molti rimasero attivi. Come Naranee Ruthra-Rajan, iscrittasi nel 2009 “per il sostegno ai servizi pubblici”, poi co-presidente del suo partito locale insieme a Polanski nel 2019 e successivamente parte della sua campagna per la leadership, mi disse: “Avevo già trovato il mio partito.” Corbyn le piaceva, aggiunse, ma “avendo visto da vicino come operava il Labour, non mi attirava”.
Navigare il corbynismo.
Il periodo 2015-2020 fu difficile per il partito, in parte per la sua strana relazione con il corbynismo. La maggioranza dei Verdi era più in sintonia con il leader del Labour che molti stessi deputati laburisti, e propose ripetutamente patti elettorali a Corbyn, venendo però respinta. In parte fu difficile anche perché molti membri se ne andarono per unirsi al Labour, causando una crisi finanziaria nel partito.
In parte, fu un periodo duro perché la Brexit costrinse il partito in scomodi semi-allineamenti con la metà europeista dell’establishment. Come ricordò Berry: “Avevamo alleati davvero strani in quel periodo – centristi e centro-destra pro-UE – e ciò creò un’intera diversa configurazione. Non smettemmo di protestare furiosamente contro l’austerità, ma non era quello su cui i media si concentravano.”
Una nicchia che i Verdi individuarono fu che il Labour di Corbyn non aveva colto una crescente radicalizzazione dell’Inghilterra rurale, alimentata in gran parte da uno sviluppo edilizio fuori controllo. L’esplosione dell’attivismo ambientale in Europa nel 2019 – incarnata dall’ascesa di Greta Thunberg e dalla nascita di Extinction Rebellion – fece crescere di nuovo il sostegno ai Verdi, con risultati sorprendenti alle elezioni locali ed europee.
Se negli ultimi cinque anni ci sono state difficoltà per il partito, sono state meno sulla politica e più sul tono. Una questione particolarmente spinosa è stata come affrontare i transfobici. Un piccolo gruppo di ossessivi “gender-critical” è stato tollerato troppo a lungo, e il legame culturale con il movimento pacifista basato sul consenso rese il partito troppo lento nell’espellere chi aveva comportamento ostile. Alla fine, membri più giovani vennero eletti nei comitati giusti e tracciarono linee chiare: le convinzioni gender-critical sono permesse, il comportamento transfobico no. Nel 2024, un’ex Verde gender-critical si candidò come indipendente, e molti dei suoi sostenitori fecero campagna per lei contro il candidato Verde, venendo quindi espulsi – liberando il partito, con sollievo di molti, da alcuni dei suoi elementi più dichiaratamente ostili alle persone trans.
Molti commentatori non notarono l’incredibile crescita che il partito attraversò in quel periodo. Nel 2018, c’erano circa 200 consiglieri Verdi nel Regno Unito. Ora sono quasi 900. Non è solo per la virata a destra del Labour sotto Starmer, sebbene ciò sia stato cruciale. È anche il prodotto dell’ondata Verde del 2015, che Berry descrisse come “l’eredità di Natalie”. Certo, ci fu una perdita di circa 25.000 membri dopo la fase Corbyn, ma il livello di stabilizzazione – circa 42.000 iscritti – era molto più alto dei circa 14.000 del 2014. Il guru elettorale Verde Chris Williams poté così mettersi al lavoro e, una volta che Starmer sostituì Corbyn, l’iscrizione tornò a crescere, arrivando a 58.000 alla fine del 2024. In parte, questa crescita rifletteva la nostra generazione che diventava adulta: incontrai Williams nel 2005 a un evento degli European Young Greens a Barcellona. Fa parte di un gruppo di millennial Verdi che hanno passato i vent’anni a perfezionare l’arte della campagna sul territorio. A trent’anni, l’avevano padroneggiata.
Parte di quel successo arrivò alle elezioni dell’Assemblea di Londra del 2021, quando il partito conquistò tre seggi (era rimasto fermo a due per anni). Il terzo eletto era un membro relativamente nuovo, rapidamente diventato un organizzatore di rilievo in città e un abile comunicatore: Zack Polanski.
Quell’estate, i co-leader del partito, Berry e Jonathan Bartley, si dimisero; Berry mi disse che non poteva accettare l’incapacità del partito di fermare la transfobia nelle sue fila. Nel successivo voto, l’allora vice-leader Amelia Womack – figura chiave della nostra generazione di Verdi (ormai non più giovani) – e l’attivista climatica Tam Omond si candidarono per sostituirli, proponendo uno stile comunicativo più audace e un focus sulla crescita dell’iscrizione e quindi della capacità del partito. Furono sconfitti da Carla Denyer e Adrian Ramsay, che puntavano sul fatto di essere candidati nei due collegi chiave per le successive elezioni nazionali, e che la visibilità aggiuntiva li avrebbe aiutati a vincere. Per me, questa appariva come una strategia del tipo “tenere la testa bassa e organizzarsi attorno alle elezioni” contrapposta a una del tipo “entrare nella conversazione mediatica”. Pur preferendo la linea di Womack/Omond, quella di Ramsay/Denyer si rivelò chiaramente efficace.
Quando Womack si dimise da vice-leader l’anno successivo, Polanski vinse l’elezione per sostituirla; Tyrone Scott – ora nello staff di War on Want, che aveva corso su un programma di “giustizia ambientale, sociale e razziale” con forte accento sull’organizzazione comunitaria – arrivò secondo, e l’ex vice-leader gender-critical Shahrar Ali terzo. Scott era il candidato più associato all’ala sinistra del partito, Polanski ne rappresentava grosso modo il mainstream. Lo rappresenta ancora oggi.
Nel maggio 2024, Bennett mi invitò a pranzo alla Camera dei Lord. Le chiesi quanti dei quattro collegi chiave i Verdi avrebbero vinto. Era incredibilmente sicura che li avrebbero presi tutti e quattro. Uscii dal Parlamento sotto una pioggia battente. Davanti al numero 10 c’era una folla di giornalisti; dagli altoparlanti risuonava Things Can Only Get Better. Le elezioni generali erano state convocate, e Bennett ebbe presto ragione.
Con quattro deputati, la crescita del partito continuò. Ma molti ritenevano che, con il crollo della popolarità del Labour, si stesse perdendo un’enorme opportunità. I leader erano occupati a imparare a fare i parlamentari proprio quando il partito aveva bisogno di qualcuno che mobilitasse sostegno fuori dalle mura soffocanti di Westminster. Denyer sembrò concordare e annunciò che si sarebbe dimessa da co-leader per concentrarsi sul suo ruolo di deputata. Ramsay dichiarò che si sarebbe ricandidato – ora insieme alla collega deputata rurale Ellie Chowns. E lo fece anche il vice-leader, Zack Polanski, come era ovvio per chiunque prestasse attenzione.
Il dibattito tra Chowns, Ramsay e Polanski si concentrò non tanto sulle politiche – tutti sostengono un programma nettamente di sinistra – quanto sul tono.
La strategia di Ramsay e Chowns era costruita sul metodo che aveva permesso loro di vincere i rispettivi seggi – due aree rurali dove i Verdi erano riusciti a radicarsi quando il Labour non aveva colto la crescente radicalizzazione (accelerata dalla “corsa allo spazio” durante la pandemia): un linguaggio e un tono consensuali, depolarizzanti, simili a quelli che useresti parlando con qualcuno davanti alla sua porta, e nei quali entrambi sono visibilmente abili. Al centro di questo approccio c’è un’analisi radicale dei media: la sinistra, per quanto forte urli, non vincerà mai un dibattito mediato dalla stampa di proprietà dei miliardari, e quindi deve suonare più come un vicino che ti parla con calma, convincendoti dolcemente davanti a tè e biscotti, senza sbatterti la politica in faccia. Uno dei loro sostenitori più noti, Rupert Read, sottolineava un altro aspetto: “La gente è stufa della polarizzazione”, mi disse poco prima della recente conferenza del partito. Era preoccupato per i danni democratici derivanti dallo stimolare la rabbia.
L’eco-populismo di Polanski, d’altro canto, mi sembrava un’etichetta che sintetizzava gli argomenti che molti di noi sostenevano da anni: il partito doveva essere più disposto ad abbracciare il conflitto e l’attenzione che ne deriva, e più radicato nei bisogni materiali delle persone. I Verdi non dovevano temere di incanalare la rabbia per le disuguaglianze che lacerano la società, suggeriva Polanski. Il fatto che l’85% dei membri lo abbia sostenuto nelle elezioni interne dimostra che questa è ormai la posizione mainstream nel partito.
Dal punto di vista di molti a sinistra, i Verdi sono diventati solo recentemente una forza chiaramente di sinistra. Ed è in parte vero, ma c’è un altro modo di raccontare la storia. I media di destra evitarono per lo più di attaccare Corbyn sul suo desiderio di tassare i ricchi o nazionalizzare, concentrandosi invece su presunti mancati inchini alla Regina, perché sapevano che l’economia di sinistra era – ed è – popolare. Gli stessi media hanno sempre cercato di rinchiudere i Verdi nel loro stanzino etichettato “eco”, perché non volevano discutere delle sue idee socialiste, per le stesse ragioni. Attraverso un’attenzione implacabile, l’abbraccio del conflitto e una generale carisma, Polanski ha fatto scattare nei tabloid un panico da “i rossi sotto i letti”, che ha finito per trasmettere il suo messaggio.
E anche la sinistra è cambiata: le critiche che i Verdi muovevano negli anni ’80 alla mascolinità tossica, all’omofobia e alla mancanza di ambientalismo non valgono più in generale. C’è una piccola frangia che si può collocare insieme al Workers Party di George Galloway. Ma oltre a quella, l’ecologismo intersezionale dei primi Verdi e il socialismo dei movimenti della classe lavoratrice si sono ormai fusi in un senso comune eco-socialista condiviso da un’ampia parte della sinistra europea. Nel Regno Unito, ciò sta trovando espressione nei Verdi.
Per molti membri storici, l’ultimo mese è stato profondamente emozionante. I 100.000 nuovi iscritti non sembrano intrusi. È più come se avessero affittato una sala enorme per la propria festa e invitato l’intera comunità. All’inizio si sono presentati solo alcuni amici stretti. Poi abbastanza persone da evitare l’imbarazzo. E ora, a un passo dalla mezzanotte, migliaia di persone stanno entrando, con musica, speranza ed entusiasmo. La festa è appena cominciata.
Adam Ramsay è un giornalista scozzese. Sta lavorando al suo libro Abolish Westminster e ha una newsletter Substack con lo stesso nome.
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