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Torino, “Democrazia in tempo di guerra” al Circolo Arci La Poderosa
Come avevamo annunciato al termine della esaltante serata del 12 novembre a Torino, al Circolo ARCI “LA PODEROSA”, in risposta alla censura nei confronti dello storico Angelo D’Orsi disposta su indicazione di una serie di personaggi del sottobosco politico nazionale, è stata organizzata, con la collaborazione della dirigenza dello stesso Circolo, un altro evento, di ben maggiore rilievo. Al di là del numero e del prestigio di coloro che hanno accettato l’invito, a cominciare dall’amico e collega Alessandro Barbero (che ringrazio di cuore), si tratta, nella mia personale prospettiva, di un evento che vuole proseguire il tragitto per dar vita a un grande movimento contro la menzogna, contro la narrazione unilaterale, contro la censura alla libertà di informazione, di pensiero, di ricerca, contro il tentativo di militarizzare la scuola, l’università, la cultura, contro la pretesa di piegare la scienza agli interessi di chi produce armi per giocare alla guerra: contro tutto ciò che ci sta spingendo a un conflitto con la Federazione Russa, che sarebbe un salto nel vuoto, con prevedibili rischi di annientamento da parte della maggiore potenza nucleare nel mondo. Perciò questa iniziativa come la precedente si propone anche come una denuncia della russofobia. E vuole essere anche un monito alle classi politiche che in preda alla follia bellicistica, e accanto ad esse, anche e forse soprattutto agli “opinionisti”, i soldatini e le soldatine dell’immenso, grottesco esercito dell’ “Armiamoci e partite!”. Ci vadano loro a combattere per un regime corrotto come quello di Zelensky! Devono ricevere i nostri s/governanti italiani ed europei, il nostro “BASTA!”. Un grido che noi eleviamo ed eleveremo nei prossimi mesi, e che esprime, lo sappiamo, la volontà delle masse popolari. NOI NON VOGLIAMO LA GUERRA. NON VOGLIAMO GETTARE NELLA FORNACE BELLICA LE NOSTRE VITE, QUELLE DEI FIGLI, QUELLE DEI NIPOTI, QUELLA DELLA INTERA UMANITÀ. Di seguito, istruzioni per la partecipazione https://www.eventbrite.com/e/democrazia-in-tempo-di-guerra-tickets-1976580054150 Redazione Torino
Appello di docenti, ricercatori e ricercatrici universitari/e per la liberazione di Mohamed Shahin
Mohamed Shahin è trattenuto nel CPR di Caltanissetta e a rischio di espulsione verso l’Egitto, Paese in cui sarebbe esposto al rischio concreto di persecuzioni, detenzione arbitraria e persino alla pena di morte. La sua colpa è di essersi mobilitato a fianco del popolo palestinese e di aver pronunciato delle opinioni, poi ritrattate, ritenute sufficienti dal ministero dell’Interno per disporre la revoca del suo permesso di soggiorno, il trattenimento e l’avvio della procedura di espulsione. Attorno alla vicenda di Mohamed Shahin si è mobilitata una vasta rete di realtà sociali, religiose e politiche torinesi e non solo, che sono scese in piazza per chiedere la sua liberazione ricordando come la moschea di via Saluzzo, da lui guidata, sia da sempre un presidio di apertura, cooperazione e dialogo interculturale. Si è mossa anche la comunità accademica, che ha pubblicato un appello per la sua liberazione: «Noi docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane esprimiamo profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Caltanissetta a seguito di un decreto di espulsione emesso dal Ministero dell’Interno. La revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo, e il conseguente rischio di rimpatrio forzato in Egitto, sollevano interrogativi gravi sul rispetto dei diritti fondamentali della persona. È noto che il sig. Shahin, prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Le motivazioni alla base della revoca del permesso appaiono collegate alle sue dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce. Casi analoghi, registrati negli ultimi anni, confermano una tendenza a sanzionare cittadini stranieri per opinioni politiche o per manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. L’impiego dei CPR in questo quadro rischia di trasformarsi in una forma di repressione indiretta del dissenso e di limitazione arbitraria dello spazio democratico. È importante ricordare che Mohamed Shahin è da lungo tempo impegnato in pratiche di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose, associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua attività. In particolare, la Rete del dialogo cristiano islamico di Torino, in un comunicato indirizzato al Presidente delle Repubblica e al Ministro dell’Interno, ha evidenziato il ruolo centrale di Mohamed Shahin nel dialogo interreligioso e nella vita associata del quartiere San Salvario. Alla luce di tutto ciò, riteniamo indispensabile un intervento immediato per garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali, della Convenzione di Ginevra e degli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani e protezione contro il refoulement. Chiediamo pertanto: * La liberazione immediata di Mohamed Shahin e la sospensione dell’esecuzione del decreto di espulsione. * La revisione del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno di Mohamed Shahin, garantendo un esame imparziale e conforme agli standard giuridici nazionali e internazionali. * La tutela del diritto alla libertà di espressione in ambito accademico, culturale e religioso, indipendentemente dalla provenienza o dalla fede delle persone coinvolte. * La chiusura dei CPR, luoghi di lesione dei diritti umani. Come docenti e ricercatori riconosciamo la responsabilità civica dell’università nel difendere i valori democratici, promuovere il pluralismo e opporci a ogni forma di discriminazione o compressione illegittima delle libertà fondamentali». Clicca qui per firmare e leggere le adesioni
FREE SHAHIN: Campagna per la liberazione di Mohamed Shahin
“L’arresto di Mohamed Shahin, la revoca del permesso di soggiorno e la decisione del giudice di confermare l’espatrio forzato verso l’Egitto nonostante la richiesta di asilo politico rappresentano una palese violazione dello spirito e della lettera della Costituzione Italiana. Da un lato rappresentano un atto di repressione politica per chi si è battuto contro il genocidio a Gaza e nello stesso tempo un atto di violazione delle più elementari regole umanitarie visto il rischio che Mohamed subisca i Egitto ogni sorta di violenza da parte del regime al potere. Non è tollerabile che un cittadino straniero che partecipa attivamente ai movimenti democratici che attraversano il paese venga trattato come un assassino mettendo addirittura a rischio la sua incolumità fisica. Per questo chiediamo un intervento urgente del governo per fermare questa azione delittuosa tipica di uno stato di polizia e non di uno stato democratico.” (Paolo Ferrero, segretario provinciale Prc-Se) Torino-InfoPal. Mohamed Shahin, leader di una moschea a Torino, in Italia, dissidente politico egiziano (che rischia la pena di morte in Egitto), prominente attivista pro-Palestina e contro il genocidio a città di Gaza, è stato arrestato due giorni fa dalla polizia italiana, su ordine del governo filo-sionista, razzista e islamofobo della prima ministra Meloni, per il suo sostegno alla Palestina. È accusato di aver dichiarato, durante manifestazioni, che l’Operazione Al-Aqsa Flood della Resistenza palestinese, il 7 ottobre 2023, è stata motivata da 80 anni di pulizia etnica e genocidio sionista contro i nativi palestinesi… Un’affermazione storicamente comprovata e condivisa, ma poiché Shahin è un immigrato e quindi legalmente vulnerabile, il governo ne ha ordinato l’arresto e la deportazione. La deportazione di Shahin in Egitto significa che verrà imprigionato, torturato e probabilmente ucciso. La società civile italiana sta sostenendo Shahin e chiede la sua liberazione. È un uomo buono, pacifico e antisionista, conosciuto e amato da musulmani, cristiani e dal resto della popolazione. Il governo Meloni, con i suoi sostenitori razzisti della Lega Nord al potere, sta alimentando divisioni, razzismo e conflitti. A cura di TorinoPerGaza. C’è un angolo di Torino, tra le strade vive di San Salvario, dove per più di vent’anni una figura gentile ha camminato con passo sicuro, salutando volti che nel tempo sono diventati famiglia. È lì, tra quelle vie multiculturali, che Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn Al Khattab, ha costruito la sua vita, il suo futuro e quello dei suoi due splendidi bambini. Torino non è semplicemente il luogo in cui vive: è la città che ha scelto, amata con la dedizione di chi la considera casa in ogni senso. Arrivato in Italia più di vent’anni fa, Mohamed ha intrecciato la sua storia con quella della comunità torinese con una naturalezza rara. Chi lo conosce lo descrive con parole che non hanno bisogno di essere elaborate: un uomo buono, un uomo di fede, un uomo di pace. La sua voce, calma e ferma, è diventata negli anni un punto di riferimento per centinaia di persone. In questi ultimi due anni, il suo impegno verso la causa palestinese è stato totale. Ha ascoltato, ha parlato, ha guidato, ha portato nelle piazze e nei cuori una richiesta semplice e potente: dignità, giustizia, umanità. E in questo percorso non è mai stato solo: attorno a lui, la comunità si è stretta come si fa attorno a un fratello, a un padre, a una guida. Per il quartiere di San Salvario, Mohamed non è soltanto un imam. È un pilastro, una presenza che consola, accompagna, media. Sa trovare le parole giuste per chi attraversa un momento difficile e sa ricordare, con il suo esempio, che il dialogo non è una teoria, ma un gesto quotidiano. La sua fede, però, non è mai stata confinata alle mura della moschea. Mohamed ha sempre creduto che il ruolo di un leader religioso sia anche quello di costruire ponti. Lo ha fatto attraverso il dialogo e l’integrazione, promuovendo attività culturali e sociali che hanno reso Torino un luogo un po’ più aperto, un po’ più unito. Lo ha fatto anche collaborando con le autorità locali e le forze dell’ordine, dimostrando che la sicurezza e la coesione sociale si costruiscono insieme, con fiducia e responsabilità condivisa. Un aspetto spesso ricordato da chi lo conosce è la sua collaborazione, lunga e sincera con i Valdesi, i Cattolici e anche con la sinagoga di San Salvario. In questi anni, Mohamed ha coinvolto i rabbini in momenti di confronto e dialogo, ha visitato più volte la sinagoga e ha invitato il rabbino nella moschea, trasformando la relazione fra le due comunità in un esempio concreto e luminoso di rispetto reciproco e convivenza. Un ponte, ancora una volta. Un ponte costruito non con le parole, ma con i gesti. Tra le sue iniziative più significative, molti ricordano poi quella del 2016, quando partecipò alla distribuzione della Costituzione italiana tradotta in arabo. Non era solo un gesto simbolico: era un invito a far entrare nelle case dei fedeli musulmani i valori fondamentali della Repubblica, perché integrazione significa conoscersi, riconoscersi, camminare nella stessa direzione pur portando storie diverse. Chi incontra Mohamed Shahin ne rimane colpito, quasi toccato. Forse per la sua serenità. Forse per quella luce negli occhi che hanno solo le persone che credono davvero negli altri. O forse perché, semplicemente, Mohamed rappresenta ciò che spesso dimentichiamo: che una comunità si costruisce con la cura, la presenza e l’ascolto. E oggi, mentre in molti alzano la voce per lui, c’è una certezza che attraversa Torino come un filo invisibile: un uomo così non si dimentica. Un uomo così appartiene alla sua comunità. Un uomo così è casa Un uomo così, deve tornare a casa, Ora!   InfoPal
Torino, 30 novembre: Transizioni armate. Riflessioni su guerra, riarmo, natura e territori
DOMENICA, 30 NOVEMBRE 2025 DALLE ORE 10:00 BOCCIOFILA “RAMI SECCHI”, LUNGO DORA PIETRO COLLETTA, 39A, TORINO Il Comitato Resistenza Verde di Torino ha organizzato un incontro dal titolo Transizioni armate, che si terrà domenica 30 novembre, con Linda Maggiori. La giornalista si occupa di riarmo, guerra e Palestina, ma ha scritto anche il libro Alberi – Fermiamo la mattanza (Terra Nuova Edizioni, 2025), raccontando le lotte dei Comitati di tutta Italia contro i progetti che distruggono parchi e viali. L’intento è quello di esaminare sotto vari aspetti le connessioni e le conseguenze del riarmo e delle politiche belliche sull’ambiente e la natura, ma anche di ampliare lo sguardo sulla militarizzazione delle scuole e della società con il contributo dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, che sarà rappresentato da Alessandra Alberti e Terry Silvestrini. L’incontro verrà moderato dal prof. Vittorio Martone. LINDA MAGGIORI: attivista, educatrice, giornalista freelance esperta di lotte territoriali e filiera bellica, attenta osservatrice del genocidio in corso del popolo palestinese e autrice, fra gli altri, di “Alberi: fermiamo la mattanza” (2025, TerraNuova) e dei dossier “Le catene della guerra in Italia” e “I portuali contro le guerre del mondo” . VITTORIO MARTONE: docente di Sociologia dell’ambiente presso l’Università di Torino, esperto di partecipazione e co-progettazione sui beni comuni, criminalità e politiche integrate di sicurezza, conflitti ecologici distributivi e processi di vittimizzazione legati a crimini e danni ambientali. OSSERVATORIO CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLE SCUOLE E DELLE UNIVERSITÀ: realtà che dal 2023 è impegnata in un’attività di monitoraggio e contrasto, a livello nazionale e sui territori, alla crescente militarizzazione dell’istruzione. In allegato il volantino. Transizione Armate Volantino 1_compressedDownload
Askatasuna ‘bene comune’, iniziati i lavori di riqualificazione
Entra nel vivo la trasformazione dello storico centro sociale Askatasuna di corso Regina Margherita 47 a Torino, occupato 29 anni fa e da allora perennemente sotto minaccia di sgombero, in bene comune. Ieri sera  ieri, è stata  organizzata una serata per festeggiare tuttə insieme i 29 anni di Askatasuna! con cena seguita da musica_   Martedì ultimo scorso, nel cortile dell’ex Asilo degli Gnomi, esponenti del Comitato dei proponenti e dei garanti — tra cui lo psichiatra Ugo Zamburru e l’ex sindacalista e storico solidale No Tav Giorgio Cremaschi — hanno annunciato l’avvio delle attività di riordino e di riqualificazione, dentro la campagna “Supporta il 47”.   L’iniziativa arriva pochi giorni dopo il 29esimo anniversario dall’occupazione, che cadeva il 16 novembre. Nell’autunno 1996, “con un corteo studentesco autorganizzato, i compagni e le compagne autonome – si legge su Infoaut.org – si staccarono da una manifestazione istituzionale per “liberare” l’ex Asilo degli Gnomi, in corso Regina Margherita 47.   Non riusciamo ad elencare i momenti più importanti che sono stati vissuti in questi anni perché ogni attimo, è stato vissuto insieme e tutte le iniziative sono state importanti. Non possiamo non ricordare le centinaia di compagni e compagne che hanno reso l’Askatasuna quello che è oggi, anche nei momenti più difficili, quando sembrava di stare ”chiusi in una stanza come Visone e i suoi durante la Resistenza”. Siamo partiti chissà quante volte con il furgone dell’amplificazione dall’Askatasuna per centinaia di manifestazioni. Askatasuna è una parola basca, lingua di un popolo fiero, e significa libertà, e per questo uno spazio sociale non poteva avere un nome migliore”.   SU RADIO ONDA D’URTO L’INTERVISTA A MARTINA, COMPAGNA DI ASKATASUNA TORINO. ASCOLTA O SCARICA   Redazione Italia
Cosa si può ancora fare?
IN QUESTI GIORNI RIMBALZANO LE IMMAGINI DELL’ESPROPRIO DI UNA CASA CHE VERRÀ ABBATTUTA PER FARE POSTO AL CANTIERE DELLA GRANDE OPERA. UNA DONNA ANZIANA NASCONDE IL VISO IN UN FAZZOLETTO, SENZA RABBIA, QUASI PROVANDO VERGOGNA PER QUEL SUO DOLORE GRANDE. ERA CASA SUA DAL 1959. EPPURE IN VAL SUSA NON SMETTONO UN GIORNO DI CHIEDERSI: “ABBIAMO FATTO ABBASTANZA?”, “COSA SI PUÒ ANCORA FARE”? Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo fatto abbastanza? È una domanda che si infila nella memoria in un giorno di metà settimana, metà mese, mercoledì di novembre, mentre sui social girano le immagini dell’esproprio di una casa che verrà abbattuta per fare posto al cantiere della grande opera. Telt il 19 novembre 2025 ha preso ufficialmente possesso delle case della frazione di San Giuliano (Susa). Ad essere abbattute saranno tre per far posto al cantiere della stazione internazionale del Tav. Poco distante lo scatto di un fotografo ritrae una donna anziana che nasconde il viso in un fazzoletto, senza rabbia, quasi provando vergogna per quel suo dolore grande. Era casa sua dal 1959. Il fotografo di un giornale locale sente il bisogno di intitolare la foto: “Progresso?”. Abbiamo fatto abbastanza? Per opporci a questa devastazione? Mettendo a disposizione i nostri corpi, le azioni i pensieri gli scritti? Mettendo a disposizione una buona parte della nostra vita in questi trent’anni di lotta? Chilometri di passi fatti in centinaia di manifestazioni. Incontri, convegni, presidi sotto grandi nevicate o con la pelle bruciata dal sole. Viaggi per tutta Italia per incontrare e farci conoscere. Denunce, processi. Da qualche giorno in calendario le iniziative per ricordare i giorni vissuti per la “Liberazione di Venaus” era il 2005, vent’anni fa. Tuttavia quella grande partecipazione popolare che aveva permesso di correre in migliaia sui prati, rompere i sigilli e perfino riuscire a far arretrare le truppe di occupazione era stato possibile perché alle spalle il movimento aveva già altri dieci anni (totale trent’anni), dove si era costruito piano piano una grande partecipazione popolare. Gli strumenti usati erano stati diversificati: dalle solite assemblee in ogni comune alla partecipazione ai carnevali con maschere di cartone che ricordavano il mostro tav che avanzava… Il rumore del Tgv registrato a Macon in Francia e poi sparato a tutto voluto al cinema. La partecipazione a una gara di lese (slitte) che dalla Sacra di San Michele scendevano a una velocità abbastanza pericolosa fino a Sant’Ambrogio. La “lesa è la tradizione, il Tav la distruzione”. Testi teatrali portati in scena, canti, presidi, ecc. Anni Novanta: le riunioni a Condove con il comitato Habitat e a Bussoleno con il comitato NoTav. Si era appena conclusa la lotta (per una volta vinta) sul mega elettrodotto Grand’Ile Piossasco ma non c’è stato il tempo di festeggiare perché si apriva un altro fronte. Era il 1986 quando sui giornali apparivano notizie sulla grande opera. Si può dire che c’è stato divertimento, allegria, anche nel fare politica. Si può dire che sembra impossibile ora trasmettere quel carico di storie, di incontri, amicizie, amori, costruzione di una vera comunità. Restano ricordi forti, preziosi. Abbiamo fatto abbastanza? Cosa si può ancora fare? Nel tempo, per fortuna, è in atto un passaggio di consegne mentre uno dopo l’altro i protagonisti di allora se ne vanno. Molti dei ragazzi che ora stanno raccogliendo il testimone e portando avanti l’opposizione non erano nati. I ragazzi e le ragazza che stanno organizzando il ventennale di Venaus, allora avevano dieci-undici anni. Pochi conoscono i nomi delle persone che allora avevano messo le basi: i tecnici, i primi amministratori, il presidente dell’Unione montana, il primo avvocato ad occuparsi del tav. Sono fasi diverse e forse è inutile guardare indietro ma andare avanti con nuove idee. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIANLUCA CARMOSINO: > No tav e mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Volerelaluna.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cosa si può ancora fare? proviene da Comune-info.
Il caso Moussa Baldé e la violenza strutturale della detenzione amministrativa
La vicenda di Moussa Baldé ha messo ancora una volta in luce la violenza radicata nei CPR, rivelando come la deumanizzazione sia la regola all’interno di queste strutture e sottolineando l’urgenza di continuare a lottare contro ogni forma di razzismo sistemico e istituzionale. In questa intervista, l’Avvocato Gianluca Vitale, che assiste la famiglia di Moussa e segue il processo in corso, ricostruisce le responsabilità istituzionali, le omissioni e le violenze – anche invisibili – che hanno trasformato una vittima in un “irregolare” da espellere, fino all’isolamento e al suicidio. Una testimonianza indispensabile per comprendere non solo ciò che è accaduto a Moussa, ma ciò che accade ogni giorno nei CPR. PH: Stop CPR Roma QUALI SONO LE CIRCOSTANZE CHE HANNO PORTATO MOUSSA BALDÉ A ESSERE RINCHIUSO NEL CPR DI TORINO, SOPRATTUTTO DOPO AVER SUBITO UNA VIOLENTA AGGRESSIONE? Subito dopo l’aggressione, Moussa – pur essendo la vittima di un reato – è tornato a essere considerato semplicemente un “clandestino”, da trattare come tale: quindi da rinchiudere ed espellere. Era arrivato in Italia qualche anno prima e aveva chiesto la protezione internazionale, un passaggio quasi obbligato per chi entra nel Paese senza reali canali di ingresso regolare. Aveva iniziato un percorso molto positivo: parlava bene italiano e partecipava ad attività con gruppi antirazzisti. Col tempo, però, l’attesa infinita e l’incertezza sul suo futuro hanno incrinato questo equilibrio. Non sapendo se la sua domanda sarebbe mai stata accolta, aveva tentato di raggiungere la Francia, ma era stato respinto. Da lì era iniziata una vita ai margini, fino a perdere il permesso di soggiorno e diventare irregolare. Poi l’aggressione davanti a un supermercato di Ventimiglia. Dopo quel fatto, Moussa è stato fermato dalla polizia che, accertata la sua irregolarità, lo ha consegnato all’ufficio immigrazione. Da lì è iniziato il percorso verso il CPR. COSA SAPPIAMO DELL’AGGRESSIONE SUBITA DA MOUSSA A VENTIMIGLIA? CI SONO INDAGINI IN CORSO SU QUELL’EPISODIO DI VIOLENZA? Il video dell’aggressione, ripreso da una residente, è circolato rapidamente online. I tre aggressori italiani, temendo di essere riconosciuti, si sono presentati spontaneamente alla polizia e sono stati denunciati a piede libero. Moussa, invece, è finito al CPR. Gli aggressori hanno tentato di sostenere di essersi solo difesi, accusando Moussa di averli aggrediti, ma il processo ha poi smentito questa versione. Il giorno successivo, mentre il video suscitava interrogativi e molti parlavano già di un’aggressione a sfondo razzista, la polizia ha diffuso una dichiarazione in cui escludeva motivazioni razziali, avallando la tesi – priva di riscontri – della presunta “precedente aggressione”. Il processo, celebrato a Imperia, si è concluso con la condanna dei tre aggressori a due anni di reclusione con sospensione condizionale della pena. Anche in quella sede la Procura ha deciso di non contestare l’aggravante dell’odio etnico, nonostante un’aggressione del genere non possa che evocare, almeno, un evidente rapporto di superiorità degli aggressori sulla vittima. SECONDO LEI, MOUSSA AVREBBE DOVUTO ESSERE TRATTENUTO IN UN CENTRO DI DETENZIONE, CONSIDERANDO LE SUE CONDIZIONI PSICOLOGICHE E FISICHE DOPO L’AGGRESSIONE? Una volta classificato come straniero irregolare, Moussa ha perso ogni riconoscimento della sua condizione di vittima, e la sua vulnerabilità non è stata minimamente considerata. Avrebbe avuto diritto a essere ascoltato, a presentare denuncia, forse a chiedere un permesso per motivi di giustizia. Aveva bisogno di supporto. Ma nessuno gli ha spiegato nulla. In commissariato gli è stato semplicemente chiesto se volesse denunciare l’aggressione, senza chiarire cosa comportasse. Impaurito e confuso, ha detto di voler solo essere lasciato in pace. Da lì è stato trasferito all’ufficio immigrazione, sempre senza capire cosa gli stesse accadendo. È arrivato al CPR in uno stato di grande fragilità, senza comprendere le ragioni della sua detenzione. È stato quasi subito messo in isolamento, perché presentava delle lesioni cutanee e gli altri detenuti temevano potesse essere scabbia. La soluzione più comoda – anche per evitare tensioni interne – non è stata quella di verificare se fosse psicologicamente idoneo alla detenzione o, in caso contrario, rilasciarlo. Né di spiegare agli altri detenuti che non correvano alcun rischio. Si è preferito isolarlo in una cella, da solo, “eliminando” il problema. Di fatto, non gli è stata garantita alcuna assistenza né supporto psicologico. QUALI RESPONSABILITÀ AVEVANO LA DIREZIONE DEL CPR E IL PERSONALE MEDICO NEI CONFRONTI DI MOUSSA – E DOVE RITIENE CHE ABBIANO FALLITO? Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha annullato il capitolato nazionale di gestione dei CPR proprio perché carente nell’assistenza sanitaria e psicologica e privo di protocolli dedicati al rischio suicidario. La stessa sentenza ribadisce che, al di là delle lacune dell’appalto, gli enti privati che gestiscono i CPR hanno comunque l’obbligo di garantire la salute psicofisica delle persone trattenute. Approfondimenti/CPR, Hotspot, CPA CPR, IL CONSIGLIO DI STATO CONFERMA: VIOLATO IL DIRITTO ALLA SALUTE DEI TRATTENUTI Una sentenza che svela la patogenicità della detenzione amministrativa Avv. Arturo Raffaele Covella 11 Novembre 2025 Questo, per Moussa e per molti altri, non è stato fatto. La valutazione dell’idoneità al trattenimento, ad esempio, si limita a verificare l’assenza di malattie contagiose e la capacità della persona di vivere in una comunità – non in “quel tipo” di comunità, cioè un luogo di detenzione, ma in una comunità generica. In pratica, ci si concentra quasi esclusivamente sull’eventuale presenza di gravi malattie infettive, senza prestare alcuna attenzione alle condizioni psichiche della persona migrante. Oltre a non riconoscere né considerare quella vulnerabilità, né a fornire alcun tipo di supporto, Moussa è stato anche isolato, lasciato da solo in una condizione di ulteriore abbandono, che non poteva che accrescere il rischio di comportamenti autolesivi. CREDE CHE IL SUICIDIO DI MOUSSA POTESSE ESSERE EVITATO CON UN ADEGUATO SUPPORTO MEDICO E PSICOLOGICO? Un’adeguata presa in carico psicologica avrebbe certamente potuto aiutare Moussa a superare quel momento di estrema fragilità. Ma garantire davvero questo tipo di supporto, all’interno del centro, avrebbe richiesto attività di monitoraggio e osservazione costante: un impegno ulteriore che non è stato messo in campo. Al contrario, Moussa è stato collocato da solo nella cella di isolamento, senza alcun sostegno. Quella cella, situata nei cosiddetti “ospedaletti” e separata dalle altre aree del CPR, era totalmente inadatta a qualsiasi forma di osservazione sanitaria. Il Garante nazionale dei detenuti l’aveva descritta come “una gabbia dei vecchi zoo”, a testimonianza delle condizioni disumane dello spazio. Il suo corpo è stato trovato la mattina. La sera precedente, l’infermiera incaricata di somministrargli la terapia si era avvicinata alla cella e lo aveva chiamato. Non avendo ricevuto risposta, ha semplicemente lasciato il bicchierino con i farmaci su un muretto, senza verificare il suo stato. Non sappiamo nemmeno se, in quel momento, Moussa fosse ancora vivo e se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. C’è poi un ulteriore elemento decisivo: non è stata mai presa in considerazione quella che avrebbe dovuto essere l’“opzione zero”. Di fronte alle sue condizioni, alla vulnerabilità evidente e all’aggressione appena subita, le autorità avrebbero dovuto decidere di non detenerlo affatto, avviando semmai un percorso di presa in carico. Evitare la detenzione sarebbe stato, senza dubbio, il modo più efficace per prevenire il rischio di un gesto suicidario. LA SUA FAMIGLIA HA DICHIARATO CHE “SI VEDEVA CHE STAVA MALE“, EPPURE NON SONO STATI INFORMATI DELLA SUA MORTE. PERCHÉ, SECONDO LEI, LE AUTORITÀ NON LI HANNO AVVISATI TEMPESTIVAMENTE? Moussa, come tutte le persone migranti trattenute, non era più visto come una persona, con i diritti e gli affetti che questo comporta. Era ridotto a un semplice soggetto – o addirittura oggetto – da detenere. Quando una persona viene trattenuta, nessuno si preoccupa di capire se abbia una famiglia, legami affettivi o qualcuno da avvisare. Anzi, chi ha appena perso la libertà perde spesso anche il diritto alle relazioni esterne: durante quel periodo, Moussa è stato privato del suo telefono, impossibilitato a comunicare con chi gli era vicino. Nessuno si preoccupa di dire ai parenti che è detenuto; perchè dovrebbero preoccuparsi di avvisarli che è morto? Così è stato anche per Moussa: i suoi familiari in Guinea hanno saputo dell’accaduto solo tramite altre persone, senza alcun contatto diretto dalle autorità italiane. Né lo Stato, né l’ente gestore del CPR hanno mai cercato di mettersi in contatto con la famiglia, neanche per esprimere un minimo segno di vicinanza. Qualche settimana dopo la sua morte, la Ministra dell’Interno, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha limitato la propria dichiarazione ad affermare che “era stato fatto tutto regolarmente”, senza mostrare alcuna forma di dispiacere o un minimo sentimento di cordoglio e umanità per quella perdita. PH: Mai più lager – NO ai CPR C’È UN PROCEDIMENTO LEGALE IN CORSO, E CHI VIENE RITENUTO RESPONSABILE: IL DIRETTORE DEL CPR, IL PERSONALE MEDICO, LO STATO? Attualmente a Torino è in corso un processo nei confronti della direttrice del centro e del responsabile medico, accusati di omicidio colposo per non aver fornito a Moussa un’adeguata assistenza, per non aver predisposto un protocollo di prevenzione del rischio suicidiario e per averlo collocato in isolamento. Nessuno dei funzionari della Questura o, ancor più, della Prefettura è sotto processo. Inizialmente erano stati indagati anche alcuni funzionari per aver utilizzato e consentito l’uso di un luogo di isolamento non previsto da alcuna norma di legge. Tuttavia, il procedimento si è concluso con un’archiviazione, perché quegli spazi – i cosiddetti “ospedaletti” – erano utilizzati da anni e nessuno si era accorto che trattenere una persona lì, senza alcuna base normativa, costituisse un sequestro di persona. Lo Stato, dunque, si è assolto, e sotto processo ci sono solo i gestori privati di quella detenzione. RITIENE CHE IL CASO DI MOUSSA SIA UNA TRAGEDIA ISOLATA O FACCIA PARTE DI UN PROBLEMA SISTEMICO NEL MODO IN CUI L’ITALIA TRATTA I MIGRANTI NEI CENTRI DI DETENZIONE? Il caso di Moussa, purtroppo, è tutt’altro che una eccezione. È quel tipo di detenzione che porta con sé, come conseguenza quasi necessaria, che la persona sia dimenticata in una cella, abbandonata e sottoposta all’arbitrio di chi gestisce il centro (e di chi dovrebbe controllare quella gestione). Di Moussa si è saputo e se ne è parlato solo perché c’era il video della sua aggressione, e perché era evidente che era una vittima e avrebbe dovuto essere trattato come tale. Invece di ricevere aiuto, lo Stato gli ha inflitto l’ulteriore violenza della cella e dell’isolamento. Purtroppo, situazioni simili accadono ogni giorno. Ricordo, ad esempio, anni fa una donna straniera priva di permesso di soggiorno: dopo ore di violenza in una fabbrica abbandonata era riuscita a fuggire e a fermare una volante. Pur potendo denunciare il suo aguzzino, la sua condizione di “clandestina” ha subito avuto la meglio: le è stato notificato un decreto di espulsione. Un altro caso riguarda una badante senza permesso, investita insieme all’anziano che assisteva. Invece di scappare, si era fermata ad aspettare i soccorsi, arrivati insieme alla polizia. Nonostante fosse vittima, la sua posizione irregolare ha prevalso e le è stato notificato un decreto di espulsione. Anche in occasione di un altro decesso al CPR di Torino, quello di Fatih nel 2008, si sospettò che non fosse stato soccorso nonostante un malore. Nel tentativo di far interrogare gli altri detenuti e proteggerli dall’espulsione, un Pubblico Ministero mi rispose che non c’era motivo di agitarsi, perché si trattava “solo di un clandestino” e non c’erano responsabili. Un caso più recente, quello di Faisal nel 2019, conferma lo stesso schema: con evidenti problemi psichici, Faisal era stato collocato nell’“ospedaletto” per valutare la sua compatibilità psicologica con il trattenimento, e lì era rimasto isolato per oltre cinque mesi, fino alla morte. Anche in questo caso, il centro si era limitato a “dimenticare” una persona vulnerabile. Questa disattenzione alle persone è la normalità; non solo a Torino, ma in ogni luogo di detenzione amministrativa. QUALI RIFORME O CAMBIAMENTI STRUTTURALI SAREBBERO NECESSARI PER EVITARE CHE UNA TRAGEDIA DEL GENERE SI RIPETA? È l’intero sistema di gestione dell’immigrazione a dover essere rivoluzionato. La libertà di circolazione dovrebbe essere un diritto per tutte e tutti, mentre da anni si fanno sforzi continui per ostacolarla e limitarla, pur liberalizzando al contempo la circolazione dei capitali e dei flussi finanziari, favorendo nuove forme di colonialismo e affermando il “nostro” diritto di muoverci liberamente. Che senso ha subordinare la possibilità di cercare lavoro alla necessità di “avere già” un lavoro? Proprio questa politica crea l’imbuto in cui si ritrovano molte persone migranti: l’unica via d’accesso diventa la richiesta di protezione internazionale, con tempi di attesa lunghi e spesso frustranti, e infine il tritacarne della detenzione. Il sistema è costruito per non funzionare: trasforma le persone migranti in una massa di forza lavoro facilmente ricattabile, ridotta a semplice fattore produttivo, di cui ci si può facilmente disfare quando diventa “inutile” o quando inizia a rivendicare diritti. PH: Mai più lager – NO ai CPR HA AVUTO ACCESSO A DOCUMENTI, REGISTRAZIONI VIDEO O TESTIMONIANZE UTILI PER COSTRUIRE IL CASO? HA INCONTRATO OSTACOLI NEL REPERIRE QUESTE INFORMAZIONI? Per quanto riguarda l’aggressione subita a Ventimiglia, nel corso del processo sono stati acquisiti tutti i video delle telecamere di sorveglianza, compresa quella della polizia: l’aggressione, infatti, è avvenuta proprio sotto le finestre del più grande commissariato della città. Per quanto riguarda il CPR, è stato acquisito tutto ciò che era possibile ottenere. Il problema principale è che l’“ospedaletto” – formalmente una stanza di osservazione sanitaria – non dispone di alcun sistema di videosorveglianza interno (né esterno). Tutto ciò che accade all’interno rimane quindi invisibile a chiunque dall’esterno. COSA PENSA SIA PIÙ IMPORTANTE CHE L’OPINIONE PUBBLICA SAPPIA SU CHI ERA MOUSSA, AL DI LÀ DEI TITOLI DI GIORNALE? Come molti giovani migranti che arrivano in Italia e in Europa, Moussa era una persona piena di desiderio e gioia di vivere, che inseguiva sogni e speranze. Il folle sistema di gestione della migrazione lo ha prima inserito nel circuito dell’accoglienza, per poi non offrirgli alcuna via d’uscita, gettandolo nell’irregolarità. Moussa è stato vittima non solo della violenza di chi lo ha aggredito, ma anche del razzismo di una società che lo ha visto – come vede altri in difficoltà – come un corpo estraneo da espellere. È stato vittima del razzismo istituzionale di un Paese che rifiuta di comprendere che persone come lui rappresentano una risorsa preziosa. Non dimenticherò mai il suo sguardo spento e disperato, quando mi diceva che non sarebbe rimasto nel CPR, così come non dimenticherò il suo sguardo luminoso in un video di qualche anno prima, in cui raccontava quanto stesse apprezzando la vita in Italia, prima di essere tradito nelle sue speranze e gettato via. QUALE MESSAGGIO DESIDERA LANCIARE ALL’OPINIONE PUBBLICA E AI RESPONSABILI POLITICI ATTRAVERSO QUESTO PROCESSO? Il processo è il luogo deputato ad accertare se è stato commesso un reato, e ad accertare se a commetterlo sono state le persone che in quel processo compaiono come imputati. Insieme ai familiari, che si sono costituiti parte civile, alla Garante cittadina dei diritti delle persone private della libertà, all’ASGI, all’Associazione Franz Fanon, anche loro costituiti parte civile, vorremmo che questo processo servisse anche a far emergere l’inutilità e la disumanità dei CPR, aggiungendo un tassello al percorso verso la loro chiusura. Il processo accerterà se gli imputati siano colpevoli, ma ci auguriamo che dimostri anche a tutti come molti, a diversi livelli, siano responsabili di quella morte e di altre simili. COME STA AFFRONTANDO TUTTO QUESTO LA FAMIGLIA DI MOUSSA? È COINVOLTA NEL PERCORSO GIUDIZIARIO? Come dicevo i familiari, i genitori e le sorelle e i fratelli, si sono costituiti parte civile, e stanno seguendo il processo con enorme dolore ma anche con una straordinaria dignità. Ripetono sempre che questo deve essere un processo che porti verità e giustizia per la morte di Moussa, ma che allo stesso tempo costituisca un passo verso verità e giustizia per tutte le persone migranti che sono state e sono detenute in questi luoghi. Credo che tutti noi possiamo trarre un insegnamento da chi, pur avendo perso un figlio a causa dell’insensibilità di questo Paese, non cerca vendetta, ma giustizia per tutte le persone migranti.
Militari israeliani nelle scuole italiane: inchiesta di Assemblea Scuola Torino sul progetto Net@
PUBBLICHIAMO UNA INTERESSANTE INCHIESTA DI ASSEMBLEA SCUOLA TORINO SU UNA TERRIBILE PROPAGANDA ISRAELIANA CHE VIENE PRESENTATA NELLA SCUOLE SOTTO FORMA DI PCTO. COME OSSERVATORIO CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLE SCUOLE E DELLE UNIVERSITÀ STIGMATIZZIAMO QUESTE INIZIATIVE E RINGRAZIAMO ASSEMBLEA SCUOLA TORINO PER QUESTO PREZIOSO CONTRIBUTO CHE CI HA FATTO PERVENIRE. NET@. DA BE COOL! A PROPAGANDA ISRAELIANA DENTRO LE NOSTRE SCUOLE Dobbiamo puntare molto sulle scuole e abbiamo insegnanti giovani e carismatici che dovranno sfidare un sistema scolastico spesso molto tradizionale portando energia e innovazione. Dafna Gaber Lifshitz, CEO di Appleseeds Net@ a scuola si presenta come un progetto di PCTO (da poco Formazione Scuola-Lavoro) proposto agli studenti: un’opportunità imperdibile per sviluppare digital and social skills utili per la propria crescita umana, professionale e imprenditoriale. L’immagine che vogliono trasmettere è legata a un approccio innovativo, interculturale e utile a colmare diseguaglianze digitali soprattutto nelle zone economicamente e socialmente più svantaggiate. Lo scopo è diffondere competenze digital high-tech, in inglese, per studenti delle scuole superiori. Il progetto di durata pluriennale, spesso si presenta come ‘giovane’ perché, a differenza delle lezioni curricolari standard, è condotto da universitari che capiscono gli studenti e, di conseguenza, sono in grado di proporre un insegnamento molto più efficace rispetto alla scuola tradizionale. All’interno del programma viene insegnato come creare siti web per sponsorizzare prodotti, avviare start up, parlare in pubblico, il time management, ecc. Il programma del terzo e quarto anno in particolare prevede di occuparsi anche di cyber security. Tutto questo è gratuito per le famiglie perché sponsorizzato da istituti, fondazioni, associazioni private e dalle stesse scuole. Quindi un progetto per i giovani, coinvolgente dove la politica non c’entra assolutamente nulla. O quasi. Net@ è un progetto nato in Israele nel 2003. Lì viene pubblicizzato come un merito il fatto che chi esce dopo anni di formazione con Net@ sia in grado di rappresentare una risorsa preziosa per il mercato miliardario delle start up della cybersicurezza e delle tecnologie di guerra, focalizzate sul deep tech, anche per la necessità di dare risposta ai ‘problemi’ di ‘difesa’ e ‘sicurezza’ del paese (che questo settore rappresenti già un rischio per la nostra privacy e le nostre democrazie ce l’hanno rivelato scandali come il software “Pegasus” e lo spyware “Graphite”, spiando decine di migliaia di cittadini tra capi di stato, giornalisti e attivisti in tutto il mondo). Un altro fiore all’occhiello dei promotori di Net@ è che il 56% dei diplomati si arruola nelle unità tecnologiche d’élite dell’IDF. Dal 2018 Net@ si è diffuso per la prima volta all’estero con un progetto pilota a Milano. La volontà espressa dagli organizzatori fin da subito è di portarlo nel resto del territorio italiano e in altri paesi. A offrire i locali e promuovere a Milano il progetto è la Comunità ebraica, la stessa che ha recentemente invitato un militare dell’IDF accusato di probabili crimini di guerra, Adi Karni, a incontrare gli studenti dei licei per racccontare che a Gaza ha visto “solo odio”, che “stiamo facendo il lavoro sporco per voi” e spiegando che “l’Islam avanza in Europa”. Net@ è promosso e sostenuto dall’Agenzia ebraica per Israele (Sochnut), organizzazione sionista israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e dal Keren Hayesod, fondo nazionale di costruzione d’Israele e la centrale finanziaria del movimento sionista mondiale.  Dal 1967 l’Agenzia ebraica si occupa anche delle attività dei coloni israeliani insediatisi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nelle alture del Golan. Oltre alla Jewish Agency for Israel e al Keren Hayesod, altri partner sono l’Appleseeds Academy, l’Associazione Educazione Digitale Italia, la Fondazione Camis De Fonseca e Proedi Media. In un video pubblicato in rete la CEO di Appleseeds, Dafna Lifshitz, afferma che i finanziamenti più importanti di Net@ arrivano dalla USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale). L’USAIDè un’agenzia governativa statunitense creata nel 1961 per contrastare l’influenza dell’Unione Sovietica nel mondo. L’agenzia aveva la funzione di sostenere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America e viene indicata come uno dei suoi strumenti di soft power. Alcuni paesi accusano l’agenzia di essere una copertura della CIA e di essere parte delle politiche di interventismo degli Stati Uniti nel mondo. A partire dal 2019 il progetto è arrivato a Torino all’Istituto Germano Sommeiller e alla scuola ebraica. I docenti inizialmente sono Shinshinim, ovvero giovani israeliani che hanno completato la scuola superiore e rimandano di un anno il servizio militare obbligatorio per prestare servizio nelle comunità ebraiche all’estero. Il loro nome è un acronimo ebraico per “Shnat Sherut” o “anno di servizio”. Agiscono come ambasciatori culturali, portando la cultura e lo stile di vita israeliani, la lingua ebraica e le tradizioni ebraiche alle comunità locali prima di arruolarsi nell’esercito. A maggio 2022 il Keren Hayesod decide di non continuare il programma all’estero per mancanza di risorse. L’organizzazione e la diffusione presso le scuole sono allora affidate alla Fondazione Camis de Fonseca che da quel momento le promuove a Torino. Dall’anno 2023/2024 il progetto parte anche al Liceo Monti di Chieri. La fondazione Camis De Fonseca (ora anche associazione), con lo scopo di trovare partner italiani per poter continuare il progetto, finanzia “Grow in tech” composta generalmente da giovani studenti universitari che, una volta formati in Israele e alla metodologia, possono entrare nelle classi. Recentemente sono stati coinvolti nel progetto anche Merende Digitali e ESSE I Solutions. Lo scopo è quello di creare un ‘nuovo’ progetto Net@ Italia, ‘ripulito’, ma sempre funzionale alle organizzazioni e agli obiettivi strategici originari. Questo è stato detto in modo esplicito e pubblico durante un convegno del 21 maggio 2023 organizzato nella sede della fondazione Camis De Fonseca in cui, tra gli altri passaggi significativi, viene data la parola al rappresentante del Keren Hayesod per l’Italia, Eyal Avneri, il quale dice: “Stiamo lavorando tutti insieme per continuare il progetto Net@ a Torino con formatori italiani e farò il possibile, per la parte mia, per aiutarvi a realizzarlo, mettendo i contatti con Net@ in Israele, almeno a distanza. Sarà, secondo me, una bellissima collaborazione internazionale. […] Vi auguro un in bocca al lupo e spero di vedervi tutti a novembre in Israele”. Durante le attività capita che partecipi la fondatrice della Fondazione De Fonseca, Laura Camis De Fonseca che, sui social, condivide post dove vengono attaccati come antisemiti Papa Bergoglio, la Chiesa Cattolica e agenzie dell’ONU. Si arriva a leggere che “le organizzazioni internazionali sono peggio di una barzelletta, sono diventati organismi criminali che aiutano i jihadisti” e che “gli Stati europei e l’Europa quasi tutta, esattamente come la Chiesa, si riallacciano alle loro vergognose tradizioni antiebraiche”. La fondazione De Fonseca si occupa di geopolitica e ha una posizione politica sul conflitto israelo-palestinese. Basta scorrere velocemente il sito per capire che è una celebrazione del progetto israeliano con una visione piuttosto parziale. Durante l’anno scolastico vengono invitati esperti che propongono un’idea di scuola e di formazione estremamente aziendalistica e imprenditoriale. Altre attività didattiche hanno avuto anche lo scopo di dare una visione estremamente positiva di Israele come “una terra nata da sogni e speranze”, tecnologica, green e inclusiva. Nel 2022 tra gli studenti che partecipano al progetto viene proposto un concorso dal titolo “Israele. Storia, tradizione, sostenibilità e innovazione tecnologica”. I vincitori hanno in premio un viaggio d’istruzione in Israele: visite al museo della diaspora, al Muro del pianto, alla tomba di Ben Gurion. In conclusione, Net@ è un cavallo di Troia che promuove un’idea di scuola aziendale e imprenditoriale al servizio del mercato, valorizza ‘risorse’ per il mondo delle start up e della cybersicurezza, legato mani e piedi al genocidio di Gaza, alla pulizia etnica e alla diaspora palestinese. Forma futuri soldati d’élite nelle unità tecnologiche ed è ideato, organizzato e diffuso da organizzazioni, Istituti e fondazioni sioniste che, non solo negano o non condannano quanto sta avvenendo in Palestina da ottant’anni, ma che ne sono, spesso, direttamente coinvolti. Forse, ancora peggio, Net@ si presenta come un’organizzazione tecnologica giovanile che, proponendo parole d’ordine accattivanti come Be your best self, Be involved, Be open-minded, Be unlimited, Be cool sta consapevolmente formando un movimento giovanile e una parte della futura leadership economica e politica, con lo scopo di renderli funzionali ai suoi obiettivi strategici e organici alla sua ideologia. Assemblea Scuola Torino
Torino, annullata la conferenza “Russofobia, russofilia, verità”. La risposta di Angelo D’Orsi
Non è tardata ad arrivare la risposta del prof. Angelo d’Orsi che con un comunicato ufficiale ha umiliato il PD torinese, nazionale e Pina Picierno. Massima solidarietà al Professor Angelo d’Orsi e condivisione come chiesto da quest’ultimo nel medesimo comunicato. Nella città di Gramsci e Gobetti, medaglia d’oro alla Resistenza, è una vergogna che un sindaco del PD vieti – sulla linea della cancellazione delle esibizioni degli artisti russi – una conferenza sul conflitto russo-ucraino ad un noto esponente dell’accademia torinese solo perché contrasta con la vulgata del regime NATO sostenuta senza pudore dal governo Meloni, dalla destra italiana, dai neoliberali Renzi e Calenda e dal PD. Di seguito il comunicato di D’Orsi. La mia conferenza “Russofobia, russofilia, verità”, prevista l’11 novembre a Torino nei locali del Polo del ‘900 è stata inopinatamente annullata. L’accusa che ‘spiega’ l’annullamento è la stessa che ha impedito al direttore d’orchestra russo Gergiev, al baritono Abdrazaov, per citare solo gli ultimi episodi di cronaca, ossia di fare ‘propaganda’. E quindi senza neppure aspettare che io tenga la mia conferenza vengo poco democraticamente silenziato in nome della democrazia, di cui l’Occidente sarebbe il faro, mentre la Russia di Putin affoga nella ‘autocrazia’. Chi sono io? Sono un ‘terrone’ (salernitano) e vivo a Torino dal 1957, e vi ho compiuto tutti gli studi dalle Medie all’Università dove mi sono laureato con Norberto Bobbio. Sono stato professore ordinario di Storia del pensiero politico nell’ateneo cittadino, e ho insegnato nelle Facoltà di Scienze politiche e di Lettere e Filosofia, diverse altre discipline. Ho collaborato alla creazione dell’Archivio storico dell’ateneo e ho inventato e diretto per un quindicennio i ‘Quaderni di Storia’ dell’Università di Torino. E tra i miei libri ve n’è uno, molto corposo, specificamente dedicato alla nostra università (Allievi e maestri, l’Università di Torino tra 800 e 900). Ho 43 anni di docenza alle spalle, senza contare gli ultimi tre anni nei quali sono stato docente a contratto al Politecnico.  Ho presieduto per anni il più importante corso di laurea della mia Facoltà, quello in Scienze politiche. Di Torino ho studiato la storia culturale pubblicando opere rimaste come pietre miliari, a cominciare da La cultura a Torino tra le due guerre (2000) il libro più discusso in quell’anno, vincitore di premi importanti. Ho scritto la biografia dei tre iconici intellettuali del 900 che hanno operato sotto la Mole: Antonio Gramsci, Leone Ginzburg e ultimo Piero Gobetti, che uscirà in libreria tra qualche mese. Ho fondato e diretto le riviste ‘Historia Magistra’ e ‘Gramsciana’ che escono tuttora e sono considerate testate autorevoli a livello internazionale. Sul piano della milizia civile, dopo essere stato redattore capo del glorioso foglio di GL ‘Resistenza’, ho fondato e diretto ‘Nuova Sinistra’ e, anni dopo, ‘Nuvole’, che poi ho abbandonato. Giornalista pubblicista del 1971 (ho ricevuto la targa per i Decani dei giornalisti piemontesi), ho collaborato intensamente per un ventennio al quotidiano La Stampa e ad altri quotidiani (Corriere della Sera, Il Sole 24 ore, Il Manifesto…). Ho pubblicato oltre 50 volumi, e miei scritti sono usciti in inglese francese spagnolo portoghese tedesco serbocroato: è appena stata pubblicata la traduzione spagnolo della mia biografia di Gramsci, per citare solo l’ultimo esempio. Ho preso parte, sempre, alla vita culturale e al dibattito civile e politico, da indipendente, in città e sul piano nazionale Sono stato anche, sempre come indipendente, candidato sindaco di una coalizione di sinistra. Le mie posizioni di sinistra sono note a tutti, e non tocca a me sottolineare il mio peso di studioso e di intellettuale, ma credo sia universalmente riconosciuto. Ebbene, non avrei mai (e dico mai) potuto immaginare che venisse annullata una mia conferenza nella mia città. Era previsto anche un collegamento dal Donbass con un giornalista italiano, Vincenzo Lorusso, in quanto autore di un recente volumetto intitolato ‘De russophobia’, quindi persona informata e qualificata per parlare. Ma questo era un ‘di più’: il cuore dell’incontro annullato era precisamente la mia conferenza. Dopo un comunicato di una ignota associazione ucraina e di una sigla legata al Partito Radicale (che, ricordo, ha sempre sostenuto le forze di estrema destra nei Balcani e ora in Ucraina, contribuendo a far scarcerare il responsabile dell’omicidio del nostro fotoreporter Andrea Rocchelli, nel Donbass), è scesa in campo la ben nota Pina Picierno (che ricopre la carica di vicepresidente del Parlamento UE), la quale e ha chiesto anzi ingiunto al sindaco di Torino di far annullare l’evento. Così è avvenuto. E io l’ho saputo da un post gongolante della stessa signora, prima che gli organizzatori me lo comunicassero. Ora mi aspetto che la ministra dell’Università venga al mio fianco e mi faccia tenere la conferenza come ha fatto con rulli di tamburi e squilli di trombe con Emanuele Fiano (al quale nessuno aveva vietato di tenere conferenza, ma era stato contestato dagli studenti, cosa ben diversa e che dopo l’episodio sta girando la Penisola per godere dei frutti di quell’episodio). Mi aspetto che il sindaco di Torino dichiari di non essere intervenuto per bloccare la conferenza. Mi aspetto che l’ANPPIA nazionale che a quanto leggo su agenzie di stampa avrebbe sconfessato la sezione locale, ente organizzatore della conferenza, mi chieda scusa. E aspetto le scuse anche della presidenza e della direzione del Polo del ‘900. Mi aspetto che la segretaria del PD sconfessi la Picierno. Mi aspetto un gesto di solidarietà dal mondo accademico e intellettuale, almeno cittadino. Temo che nessuno di questi atti avverrà. Perciò chiedo alle testate giornalistiche con le quali ho collaborato in passato o collaboro nel presente, e ai programmi televisivi delle diverse reti di quali sono stato e sono frequentemente ospite di pubblicare questa mia o di darmi spazio per esporre pubblicamente le mie ragioni nel primo momento utile. Che ad uno storico di professione, un accademico ‘togato’, frequentemente invitato a tenere lezioni in Europa e fuori (le prossime saranno a Parigi, Saragozza, Barcellona, Teheran), venga impedito di tenere una pubblica conferenza è un fatto inaccettabile, di cui sarebbe vergognoso tacere o sarebbe colpevole sottovalutare. Angelo D’Orsi Redazione Italia
Solidarietà al prof. Angelo d’Orsi dall’Osservatorio contro la militarizzazione
L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università e la Scuola per la pace di Torino e Piemonte esprimono la loro vicinanza e solidarietà al professor Angelo d’Orsi, che dell’Osservatorio è stato un fondamentale promotore e sostenitore, nonché relatore in occasione di diversi convegni, e che nelle aule universitarie torinesi è stato docente di alcun3 attivist3 della rete pacifista piemontese. La nostra solidarietà va anche alla sezione torinese dell’ANPPIA (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti) e al suo presidente Boris Bellone, vittime insieme al professore dall’ennesimo e gravissimo episodio di censura preventiva esercitata dalle istituzioni di questo Paese nei confronti della libertà di pensiero, di opinione e di espressione. Questi i fatti: il 12 novembre avrebbe dovuto svolgersi presso il Polo del ‘900 di Torino una conferenza patrocinata dalla sezione torinese dell’ANPPIA (che è uno degli enti che costituiscono il Polo stesso) dal titolo “Russofobia, russofilia, verità”, con la partecipazione del prof. d’Orsi e del giornalista Vincenzo Lorusso, in collegamento dal Donbass. Sulla locandina della conferenza (all. 1) leggiamo le finalità dell’incontro: “La guerra in Ucraina ha avuto come conseguenza lo svilupparsi di una diffidenza per tutto ciò che è russo – cultura, arte, letteratura – con toni a volte grotteschi. In realtà la pace passa attraverso il dialogo, e non con il rifiuto della cultura”. Giovedì 6 novembre sul profilo Facebook di Carlo Calenda compariva la seguente dichiarazione: “Mi segnalano che questa cosa è organizzata dall’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti. Un gruppo di anime belle che evidentemente considera Putin un democratico e non un dittatore fascista”. «Il Fatto quotidiano» ricostruisce le fasi principali di questa vicenda: in breve, forte del legame tra la dirigenza nazionale dell’ANPPIA e il Partito Democratico, Calenda avrebbe chiesto ai dirigenti del PD di bloccare l’iniziativa, mentre al sindaco di centrosinistra di Torino, Stefano Lo Russo, arrivava da parte della vicepresidente del Parlamento Europeo Pina Picierno (sempre del PD) la medesima sollecitazione. Leggiamo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio: “[Il Sindaco] prende in carico la richiesta. Chiama a sua volta Rosanna Purchia, Assessora alla Cultura. La quale si mette in contatto con il Polo Novecento. E poi lo richiama, per spiegargli che il problema è risolto, visto che l’iniziativa è già stata annullata dal Polo Novecento”. Sul calendario delle iniziative del Polo scompare così la conferenza, senza ulteriori comunicati che chiariscano le ragioni di una decisione avvenuta tramite una serie di passaggi perlomeno opachi e comunque riconducibili alle pressioni congiunte di Picierno sul Sindaco Lo Russo e della dirigenza nazionale di ANPPIA sulla sua sezione locale, la cui iniziativa torinese viene sconfessata da Roma. Leggiamo sul sito dell’associazione: “Si trattava di una iniziativa della Sezione torinese di cui non eravamo a conoscenza; né condividiamo in alcun modo le tesi espresse in questi anni da alcuni dei relatori invitati”. (all. 2) Il prof. d’Orsi non riceveva, intanto, alcuna comunicazione da parte degli organizzatori, ma veniva a sapere dell’annullamento della conferenza leggendo sul profilo X della Picierno: “L’evento di propaganda putiniana previsto al Polo del 900 per il 12 novembre è stato annullato. Ringrazio il sindaco di Torino, Stefano Lorusso per la sensibilità, il Polo del 900 e tutti coloro che si sono mobilitati a livello locale e nazionale”. Nella sua ricostruzione dei fatti il prof. d’Orsi rileva come l’intervento di Picierno sia in realtà successivo a “un comunicato di una ignota associazione ucraina e di una sigla legata al Partito radicale”. Proprio sulle pagine del sito di Europa Radicale leggiamo in effetti: “Alle 17:30 di mercoledì 12 novembre saremo davanti al Polo del ‘900 a manifestare il nostro sdegno per le posizioni a sostegno dei crimini di guerra che si stanno compiendo in Ucraina. Ci saremo perché la guerra ibrida di Mosca e la sua propaganda infame con i megafoni di propagandisti come sono Vincenzo Lorusso e Angelo d’Orsi deve essere denunciata in ogni momento”. Alla luce di questa ricostruzione denunciamo dunque le gravissime e sempre più frequenti interferenze della politica rispetto al mondo della cultura e della ricerca, in palese violazione del dettato costituzionale e in particolare degli articoli 21 e 33. Il paradosso è che la censura questa volta ha impedito lo svolgimento di un evento che, analizzando il tema della ‘russofobia’, intendeva denunciare proprio la censura che nei Paesi aderenti alla NATO ha dal 2022 di fatto ostacolato e messo a tacere le voci non certo del governo di Mosca, ma della società civile russa nel suo complesso, avallando l’ingannevole e pericolosa tesi secondo la quale un governo coinciderebbe con il suo popolo. Se però in alcuni casi recenti che hanno colpito l’Osservatorio e la Scuola per la pace, nonché l’editoria scolastica, il bavaglio era stato imposto dal governo Meloni e dai suoi ministri, in primis Valditara, ciò che appare ancora più sconcertante (sebbene non inatteso) in questa occasione è che a vietare un incontro dal sicuro valore scientifico su un tema di strettissima attualità siano stati esponenti della sedicente opposizione: è evidente che, a prescindere dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni, la collocazione atlantista, l’asservimento agli Usa e l’abbraccio mortale con la NATO non sono mai stati messi in discussione dalle nostre classi dirigenti e dai nostri governi, quale che ne fosse il colore e, anzi, è proprio Picierno, più realista del re, a spingere sull’acceleratore della difesa comune europea e del riarmo. Infine, e non meno grave, è il ‘tradimento’ da parte della dirigenza nazionale dell’ANPPIA nei confronti dei suoi valori costitutivi, su tutti l’antifascismo dei suoi padri fondatori, e della memoria di quanti furono perseguitati durante il Ventennio. Come possiamo oggi accettare che proprio gli eredi di giganti come Umberto Terracini (che ne fu presidente) e Sandro Pertini (che ne fu dirigente) si siano oggi trasformati in censori della libertà di espressione e di parola? Siamo pronti, anche in questo caso, a denunciare il tradimento dei valori costituzionali, a richiamare l’attenzione della società civile su quella che ormai non è più solo un’emergenza democratica, ma un’ancora più tragica messa in discussione dei principi cardine degli stati liberali. Nel concludere questo messaggio di solidarietà al professor d’Orsi e all’ANPPIA torinese, rilanciamo ancora una volta le nostre parole d’ordine: antifascismo, Costituzione, pace. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università Scuola per la pace di Torino e Piemonte