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Che cos’è il Golden Dome, lo scudo spaziale di Donald Trump
Immagine in evidenza da White House.gov, licenza Creative Commons Raggi laser sparati dai satelliti. E altri satelliti “sentinella” a sorvegliare il cielo statunitense, oltre a batterie antimissile in allerta 24 ore su 24. Il Golden Dome Shield – la “Cupola d’oro” di Donald Trump — sarà una rivoluzione per la Difesa a stelle e strisce. E potrebbe anche sancire l’avvio di una nuova Guerra Fredda, questa volta combattuta in orbita. Il faraonico scudo spaziale del presidente degli Stati Uniti sta però dividendo il Paese, con una battaglia su un budget da 175 miliardi di dollari e con una raffica di critiche sull’efficacia militare di questo arsenale che “proteggerà la nostra patria”, come ha detto Trump a metà maggio dagli hangar della Al Udeid Air Base, nel deserto del Qatar. Per poi aggiungere, prima dallo Studio Ovale e poi al vertice Nato dell’Aja, che “avremo il miglior sistema mai costruito”. La Cupola d’oro intercetterà i missili “anche se vengono sparati dall’altra parte del mondo” e persino dallo spazio. Trump mira a realizzare oggi il sogno delle Star Wars di Ronald Reagan negli anni ’80: un “ombrello spaziale” che protegga gli Stati Uniti dalla grande paura di un attacco missilistico sferrato dai suoi nemici: Iran, Corea del Nord, Cina o Russia. Oltre al programma del suo predecessore, la Cupola d’oro ha un’altra fonte di ispirazione: l’Iron Dome, lo scudo di Israele che – nonostante i dubbi sollevati sulla sua reale efficacia – ha intercettato razzi e missili dall’Iran e dalle milizie proxy filo-iraniane. Secondo Jeffrey Lewis, esperto di Difesa del californiano Middlebury Institute, la differenza tra quest’ultimo e la proposta di Trump sarebbe pari a quella tra “un kayak (l’Iron Dome) e una corazzata (Il Golden Dome)”. L’ALLARME DEL PENTAGONO Da anni, il Pentagono sostiene che gli Stati Uniti non abbiano tenuto il passo con gli ultimi missili sviluppati da Cina e Russia, che tradotto vuol dire: sono necessarie nuove contromisure. I generali statunitensi hanno rivelato che Mosca e Pechino possiedono centinaia di missili balistici intercontinentali, oltre a migliaia di missili da crociera in grado di colpire la terraferma da New York a Los Angeles. I sistemi di difesa missilistica a terra statunitensi, in Alaska e in California, hanno fallito quasi la metà dei test. All’inizio dell’anno, un alto ufficiale ha avvertito che – in caso di conflitto, magari legato a un’invasione di Taiwan – i missili cinesi potrebbero colpire la base aerea di Edwards, in California. In un’analisi dettagliata sulla rivista Defense News, gli esperti Chuck de Caro e John Warden hanno spiegato perché la Cupola d’oro non è sufficiente per fermare un attacco cinese contro gli Stati Uniti: “Oggi gli Stati Uniti potrebbero trovarsi in una situazione simile a quella della Corea nell’ottobre 1950: sebbene il presidente Donald Trump stia compiendo sforzi intensi per rafforzare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, con iniziative che vanno dall’F-47 e dal B-21 Raider alla promessa di un sistema di difesa aerospaziale denominato Golden Dome, questi sistemi non sono ancora operativi”. Comunque, proseguono gli analisti, “la Cina ha costantemente aumentato il proprio potere offensivo sotto la guida del presidente Xi Jinping”. GOLDEN DOME: COME FUNZIONA Il Golden Dome Shield, sfruttando una costellazione di centinaia di satelliti e grazie a sensori e intercettori sofisticati, potrebbe neutralizzare i missili nemici in arrivo anche subito dopo il loro decollo e prima che raggiungano gli States. Un esempio? Proviamo a immaginare che un giorno la Cina decida di lanciare un missile contro gli Stati Uniti. Grazie al Golden Dome, i satelliti americani rileverebbero le sue scie luminose. E, mentre il missile sarebbe ancora nella sua fase di “spinta”, uno degli intercettori spaziali sparerebbe un laser, o una munizione alternativa, per far esplodere il missile ed eliminare la minaccia. Il nuovo sistema di difesa si estenderà su terra, mare e spazio. Servirà per neutralizzare un’ampia gamma di minacce aeree “di nuova generazione”, tra cui missili da crociera, balistici e ipersonici. Questi ultimi, in particolare, sono i più difficili da abbattere per la loro manovrabilità ad alta velocità.  Il Golden Dome dovrebbe fermare i missili in tutte e quattro le fasi di un potenziale attacco: rilevamento e distruzione prima di un’offensiva, intercettazione precoce, arresto a metà volo e arresto durante la discesa verso un obiettivo. E lo farà grazie a una flotta di satelliti di sorveglianza e a una rete separata di satelliti d’attacco. La “Cupola d’oro” fermerà anche i sistemi di fractional orbital bombardment (Fob, Sistema di Bombardamento Orbitale Frazionale) in grado sparare testate dallo spazio. IN CAMPO I GIGANTI DELLE ARMI Fiutando un’opportunità di business senza precedenti, i giganti dell’industria militare americana – L3Harris Technologies, Lockheed Martin e RTX Corp – si sono già schierati in prima fila. L3Harris ha investito 150 milioni di dollari nella costruzione di un nuovo stabilimento a Fort Wayne, nell’Indiana, dove produce satelliti per sensori spaziali che fanno parte degli sforzi del Pentagono per rilevare e tracciare le armi ipersoniche. Al 40esimo Space Symposium di Colorado Springs, Lockheed Martin ha invece diffuso un video promozionale che mostra una Cupola d’oro che scherma le strade deserte e notturne delle città americane. Per 25 miliardi di dollari, la Booz Allen Hamilton, società di consulenza tecnologica della Virginia, sostiene di poter lanciare in orbita duemila satelliti per rilevare ed eliminare i missili nemici. Mentre dall’US Space Force, in qualità di vicecapo delle operazioni, il generale Michael A. Guetlein, a cui Trump ha affidato la regia del mega progetto, ha assicurato che il Golden Dome sarà operativo entro la fine del suo mandato nel 2030. Il finanziamento di quest’opera, però, è una sfida enorme. Per ora sul piatto ci sono 25 miliardi di dollari: un settimo della spesa totale ipotizzata. Il governo stima infatti che la Cupola d’oro possa costare fino a 175 miliardi di dollari, una cifra che il Congressional Budget Office punta a far rientrare nel più corposo bilancio da 542 miliardi che gli Stati Uniti intendono spendere in progetti spaziali nei prossimi vent’anni. Un’iniziativa cara come l’oro, dunque. Anche perché Trump, sembra ossessionato dal prezioso metallo (il suo ufficio alla Casa Bianca è stato del resto letteralmente dorato: dalle tende al telecomando della Tv). UOMINI D’ORO E CONFLITTO DI INTERESSE Mentre i colossi della difesa e dello spazio fiutano l’affare, nel resto degli Stati Uniti divampano gli scontri su costi e appalti. Perché a costruire la Cupola d’oro si sono candidati uomini d’oro: in pole position c’è il miliardario Elon Musk, proprietario di SpaceX e della costellazione Starlink, ex braccio destro di Trump prima che la loro liaison finisse, con il magnate che ha lasciato la Casa Bianca sbattendo la porta.  Un voltafaccia che il presidente non ha digerito: sebbene SpaceX rimanga il frontrunner del settore, l’amministrazione USA è a caccia di nuovi partner spaziali da imbarcare nel progetto, a cominciare dal Project Kuiper di Amazon di Jeff Bezos, insieme alle startup Stoke Space e Rocket Lab, mentre la Northrop Grumman sta alla finestra consapevole di poter essere il vincitore nel lungo periodo. Siccome il Golden Dome sarà un concentrato tecnologico, in campo ci sono anche Palantir, società di analisi dei big data del tycoon conservatore Peter Thiel, e Anduril di Palmer Luckey, azienda specializzata in sistemi autonomi avanzati, dall’intelligenza artificiale alla robotica. Intanto un gruppo di 42 membri del partito Democratico ha scritto all’ispettore generale del Pentagono per aprire un’indagine, dopo che si è saputo che SpaceX potrebbe aggiudicarsi un maxi contratto per la costruzione del Golden Dome. Con in testa la senatrice Elizabeth Warren, i democratici chiedono trasparenza ed esprimono timori per possibili “conflitti di interesse” tra l’amministrazione Trump, Musk e le altre aziende americane. LO SCETTICISMO DEI MILITARI Passando dal fronte economico a quello militare, più di un esperto è scettico sull’efficacia del Golden Dome Shield: malgrado Trump continui a dire che frenerà le minacce al 97%, sul progetto aleggia più di un interrogativo. Anzitutto, come saranno gli intercettori? È ancora da decidere. Un dirigente della stessa Lockheed non ha nascosto, parlando con il sito Defense One, che intercettare un missile nella sua fase di spinta è “terribilmente difficile” e che si potrebbe metterlo fuori combattimento solo “nelle fasi relativamente lente dopo il suo lancio”.  Per Thomas Withington, esperto di electronic e cyber warfare del Royal United Services Institute, i raggi laser sono preferibili ai missili, pesano meno e riducono il costo di lancio dell’intercettore. Ma ammette che questa tecnologia non è mai stata testata nello spazio. Un gruppo indipendente dell’American Physical Society ha calcolato che servirebbero 16mila intercettori per mettere fuori uso 10 missili intercontinentali simili all’ipersonico Hwasong-18 nordcoreano. Per questo motivo, su The Spectator, Fabian Hoffmann, ricercatore di tecnologia missilistica del Centre for European Policy Analysis, ha definito il Golden Dome un “progetto mangiasoldi”. UNA NUOVA GUERRA FREDDA Negli Stati Uniti non mancano i perplessi. L’ufficio indipendente del bilancio del Congresso ha avvertito che il progetto potrebbe costare fino a 524 miliardi di dollari e richiedere 20 anni per essere realizzato. Ma i dubbi riguardano anche la validità e utilità dello scudo spaziale. Scienziati come Laura Grego, intervistata dal MIT Technology Review, definiscono il progetto, da sempre,  “tecnicamente irraggiungibile, economicamente insostenibile e strategicamente poco saggio”. E poi ci sono le conseguenze geopolitiche, che potrebbero minare gli equilibri delle superpotenze. La Cina ha già espresso la sua preoccupazione su questo progetto. Il Cremlino è pronto a parlare con Washington di armi tattiche e nucleari. Nel prossimo decennio, il pericolo è che si inneschi una spirale incontrollata, con una corsa agli armamenti anti-satellite per bucare il Golden Dome. Come all’inizio di una nuova Guerra Fredda, è possibile che Trump stia cercando di costringere i suoi nemici a investire in tecnologie costose al fine di indebolirne l’economia, così come le “guerre stellari” di Reagan avevano contribuito a mandare in bancarotta l’Unione Sovietica. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: se la prossima amministrazione statunitense decidesse di cancellare il Golden Dome, a quel punto a finire in un buco nero sarebbero decine di miliardi di dollari statunitensi. L'articolo Che cos’è il Golden Dome, lo scudo spaziale di Donald Trump proviene da Guerre di Rete.
Il nome dice tutto: dal Ministero della Difesa al Ministero della Guerra
Il presidente statunitense Trump ha deciso di ripristinare dopo 78 anni il nome ministero della Guerra al ministero della Difesa. Il ripristino del nome originale e non orwelliano al ministero della Guerra degli Stati Uniti dovrebbe avere un impatto positivo sul linguaggio e sulla comprensione delle persone. Trump senza dubbio lo fece per celebrare la sadica malevolenza associata alla parola “guerra”. Ha agito mentre persegue orribili guerre in Palestina e Ucraina, minacciando (e iniziando) guerre contro Venezuela e Iran, spostando enormi risorse dai bisogni umani e ambientali ai preparativi di guerra negli Stati Uniti e nei paesi seguaci membri della NATO. Minacciò di invadere Chicago e di mostrarle il significato del nome appena ripristinato. Sicuramente 78 anni di propaganda non si annullano rapidamente. Tutti o la maggior parte dei governi di tutto il mondo che hanno copiato gli Stati Uniti nel rinominare i loro eserciti “difesa” resisteranno con fervore al ripristino del vecchio nome. Anche gli attivisti per la pace parlano incessantemente di “Ministero della Difesa”, “industria della difesa”, “appaltatori della difesa”, ecc. Se decenni di appassionati appelli da parte di alcune persone per non aver ripetuto a pappagallo la stessa propaganda contro cui lavoriamo non hanno avuto praticamente alcun impatto, ci si può aspettare che ci vogliano almeno alcune settimane prima che le persone capovolgano le loro abitudini linguistiche per obbedire a un buffone fascista. Cambiare quelle abitudini linguistiche, per qualsiasi motivo, sarebbe un beneficio per tutti. Le parole modellano il nostro pensiero tanto quanto lo comunicano. Non dovremmo applaudire Trump per aver abbandonato l’idea che le guerre siano condotte non per sadismo, potere o profitto, ma perché sta cercando di normalizzare l’esaltazione di sadismo, potere e profitto. Se coloro che si oppongono al male abbandonassero l’idea che il più grande male del mondo sia “difensivo” e “umanitario”, staremmo molto meglio. Se il Congresso dovesse approvare National War Authorization and Appropriations Acts invece dei cosiddetti Nation “Defense” Acts, subito si potrebbe dare una spinta ai modi di agire di una o tre “teste” del Congresso in movimento. La Costituzione degli Stati Uniti consente al Congresso di radunare e sostenere eserciti per non più di due anni alla volta. Non prevede il complesso permanente di think tank accademici dei media militari industriali congressuali “di intelligence”. Gli infiniti e massicci War Authorization Acts in continua crescita potrebbero far sì che il Congresso si fermi e noti l’assenza negli ultimi 84 anni di qualsiasi Dichiarazione di Guerra, o di qualsiasi momento in cui il ministero della Guerra degli Stati Uniti non fosse in guerra, o di qualsiasi guerra che sia servita a qualcosa. Trump crede che ripristinando il nome “Ministero della Guerra” ripristinerà un’era immaginaria in cui gli Stati Uniti “hanno vinto” le guerre — una potente ammissione che per 78 anni il governo degli Stati Uniti ha speso trilioni di dollari uccidendo milioni di persone, distruggendo società, distruggendo lo stato di diritto, causando danni ambientali orribili e duraturi, alimentando il bigottismo, limitando le libertà civili, corrodendo la cultura e privando iniziative positive di risorse che avrebbero potuto trasformare il mondo in meglio. Ma, nelle parole di Jeanette Rankin, che ha votato al Congresso degli Stati Uniti contro entrambe le “belle” guerre mondiali, non si può vincere una guerra più di un uragano. Gli Stati Uniti “vinsero” le guerre imperialiste e di coalizione ai tempi del Ministero della Guerra commettendo massacri e genocidi ritenuti inaccettabili nell’era che porta all’attuale genocidio in diretta streaming a Gaza e consentendo ad alleati come l’Unione Sovietica di uccidere e morire (un po’ come gli ucraini oggi) prima di produrre innumerevoli film di Hollywood che suggeriscono una storia diversa. Ripristinare con il nome l’accettabilità di genocidi, bombardamenti a tappeto e bombardamenti nucleari non deriva per forza dal ripristinare il nome dell’istituzione responsabile. Riconoscendo l’orrore irragionevole di tali cose potrebbe consentire lo sviluppo di un significativo movimento di protesta contro la guerra negli Stati Uniti. Un tale movimento non dovrebbe essere semplicemente anti-Trump. Non dovremmo essere preoccupati da ciò che egli chiama la macchina da guerra, ma dalla macchina da guerra stessa, anche quando il cambio di nome viene osteggiato o invertito. Un modo per aiutare a lungo termine sarebbe rimuovere coscientemente dal nostro linguaggio e dai nostri pensieri, non solo la parola “difesa”, ma tutta la varietà di insidiosi termini di propaganda di guerra. Si potrebbe  provare anche a dare nomi onesti a ogni dipartimento governativo, prendere in considerazione alternative alla guerra o addirittura di abolirla. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. David Swanson
Charlie Kirk, un omicidio perfetto?
Charlie Kirk, 31 anni – influencer cofondatore dell’organizzazione giovanile conservatrice d’estrema destra Turning Point Usa (Tpusa), cristiano evangelico integralista e grande propagandista di Trump – è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco durante un raduno il 10 settembre in una università dello Utah.  Mentre era sul palco è stato colpito da un proiettile che lo ha raggiunto al collo. Trasportato in ospedale è morto poco dopo. Il cecchino si dice fosse appostato a 200 MT di distanza. Kirk, giovane esponente della destra radicale, ha aiutato Trump in modo determinante, facendogli prendere i voti necessari per vincere le elezioni, con circa 10/12 milioni di voti portati tramite sit-in in scuole universitarie e college, grazie ai suoi video virali e ad azzeccate campagne di promozione. “Le armi salvano vite” – diceva Charlie Kirk da convinto sostenitore delle armi, aggiungendo – “Vale la pena accettare qualche morto in più, se questo significa poter esercitare il diritto di avere un’arma per difendere gli altri diritti concessi da Dio”. Fu profetico! Per anni è stato un costruttore assiduo, sui social media e in tv, di una narrazione tossica, fascista e disumanizzante dell’Altro. Tra le altre: “Se mia figlia di 10 anni fosse stuprata, dovrebbe partorire il bambino”; “I neri stavano meglio quando erano schiavi perché commettevano meno crimini”; “La legge perfetta di Dio dice che i gay andrebbero lapidati a morte”; “I bambini dovrebbero assistere alle esecuzioni pubbliche”; o che le personalità afroamericane famose (come Michelle Obama) “non hanno le capacità cerebrali per essere prese sul serio” e che “hanno rubato il posto ad un bianco”; e che Israele non sta affamando il popolo palestinese. La sua carriera politica di ideologo di Trump si è fondata sull’odio, sulla banalizzazione, sul tono autoritario, sulla violenza verbale e sulla giustificazione della violenza fisica. Per anni Charlie Kirk ha difeso il modello di società armata, polarizzata, presentando il conflitto come virtù e le armi come “garanzia di libertà”. Cronache Ribelli, sulle sue pagine social ha scritto: “Da quando Charlie Kirk è stato ucciso chi non esprime pubblico cordoglio, chi non si straccia le vesti, chi non è disposto a colpevolizzarsi per questa morte diventa automaticamente un criminale. Insomma, noi dovremmo provare empatia per un uomo che non aveva empatia per alcuna categoria umana che non fossero i multimiliardari, bianchi e sani. Per lui le donne stuprate dovevano partorire e stare zitte, i neri stavano meglio quando c’era la schiavitù, i ciechi non possono fare i medici, a Gaza non c’è alcuna crisi umanitaria e nessun crimine. Per gli estremisti come lui i morti sul lavoro non sono violenza, i morti per mancate cure sanitarie non sono violenza, i morti di fame, sete, povertà non sono violenza. Persino i genocidi non sono violenza. Questa strategia la conosciamo bene. Si basa sulla normalizzazione: se tanta gente muore di lavoro o sul lavoro allora diventa normale. Sulla frammentazione: se la violenza non arriva come un colpo singolo ma a piccole dosi (mancati screening, malattie professionali, precarietà, marginalità, inquinamento) allora non è violenza. Sulla comparazione: di che ti lamenti c’è sempre chi sta peggio di te. Sull’invisibilità della sofferenza delle classi subalterne, che vengono espulse da ogni narrazione mediatica. Noi continuiamo a dire che se la violenza deve essere condannata, allora si cominci da quella sistemica e profonda. (…)” Una nazione, gli USA, che presenta più di 392 milioni di armi da fuoco in circolazione: numero infinitamente più alto di tutta la popolazione statunitense. Di quale libertà stiamo parlando? Evidentemente stiamo parlando della “libertà” autoinflitta della popolazione statunitense di rischiare di morire quotidianamente per colpi di arma da fuoco sia di persone “normali” sia di persone mentalmente instabili: una strage silente di 45.000 persone morte per colpi d’arma solo nel 2024. Ma non è l’unica opzione che sta dietro alla morte di Kirk. Dietro a questo marasma di violenza normalizzata quotidiana e di giustizia a mo’ di Far West, gli USA sono anche la nazione dei complotti: dei complotti veri, non quelli inventi saltuariamente da qualche “complottista da tastiera” o da qualche propagandista di Trump. “Complotti” che abbiamo visto negli ultimi decenni: golpe blandi spacciati per “regime-change” (tentativi terroristici contro Cuba); guerre spacciate per “operazioni di peacekeeping” o “guerre umanitarie” (Iraq, Jugoslavia); interventi e occupazioni militari di suoli esteri spacciati per “esportazione di democrazia, diritti umani e diritti delle donne” (Afghanistan); colpi di Stato neonazisti spacciati per “rivoluzioni” (Euromaidan in Ucraina nel 2014); spacciare per “resistenze” quelle che in realtà sono scontri etnonazionalisti tra eserciti nazionali (conflitto russo-ucraino dal 2022); additare di “terrorismo” le vere resistenze di popolo e le lotte per l’autodeterminazione (Palestina); regime-change violenti spacciati per “rivoluzioni pacifiche” (paesi post-sovietici); omicidi mirati con drone di persone definite “pericolo per la sicurezza degli USA” (funzionari iraniani). Tutte cose che è la storia degli USA a raccontarci, che essi siano governati da Democratici e Repubblicani. Secondo le indiscrezioni Charlie Kirk negli ultimi mesi aveva cominciato ad essere ingombrante, a denunciare un sistema di controllo eterodiretto sui principali mainstream, a dubitare di Israele, a criticare fortemente le politiche di aggressione dell’entità sionista che prima sosteneva. Secondo le testimonianze di un amico di lunga data di Charlie Kirk, a The Grayzone (Articolo di Max Blumenthal e Anya Parampil – 12 settembre 2025), fu lo stesso Kirk a rifiutare un’offerta fatta all’inizio di quest’anno dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu di organizzare una massiccia nuova iniezione di denaro da parte sionista nella sua organizzazione Turning Point USA. Nelle settimane precedenti al suo assassinio, avvenuto il 10 settembre, Kirk aveva iniziato a detestare il Primo Ministro israeliano, considerandolo un “bullo”, ha detto la fonte. Kirk era disgustato da ciò a cui aveva assistito all’interno dell’amministrazione Trump, dove Netanyahu cercava di dettare personalmente le decisioni del Presidente in materia di personale e sfruttava risorse israeliane come la miliardaria donatrice Miriam Adelson per tenere la Casa Bianca saldamente sotto il suo controllo. Secondo l’amico di Kirk, che aveva anche avuto accesso al Presidente Donald Trump e alla sua cerchia ristretta, Kirk aveva fortemente messo in guardia Trump lo scorso giugno dal bombardare l’Iran per conto di Israele. “Charlie è stato l’unico a farlo”, hanno detto, ricordando come Trump “gli abbia urlato contro” in risposta e abbia chiuso adirato la conversazione. La fonte ritiene che l’episodio abbia confermato nella mente di Kirk l’idea che il Presidente degli Stati Uniti fosse caduto sotto il controllo di una potenza straniera maligna e stesse conducendo il suo Paese verso una serie di conflitti disastrosi. Il mese successivo, Kirk era diventato il bersaglio di una prolungata campagna privata di intimidazione e rabbia smodata da parte di ricchi e potenti alleati di Netanyahu, figure che lui stesso definiva pubblicamente “pezzi grossi” e “personaggi ingerenti” ebrei. “Aveva paura di loro”, ha sottolineato la fonte. Kirk aveva 18 anni quando lanciò il TPUSA nel 2012. Fin dall’inizio, la sua carriera fu trainata da donatori sionisti, che inondarono la sua giovane organizzazione di denaro attraverso organizzazioni neoconservatrici come il David Horowitz Freedom Center . Nel corso degli anni, ripagò i suoi ricchi sostenitori scatenando un’incessante ondata di diatribe anti-palestinesi e islamofobe , accettando viaggi di propaganda in Israele e bloccando severamente le forze nazionaliste che contestavano il suo sostegno a Israele durante gli eventi del TPUSA. Nell’era Trump, pochi gentili americani si erano dimostrati più preziosi di Charlie Kirk per l’autoproclamato stato ebraico. Ma mentre l’attacco genocida di Israele alla Striscia di Gaza assediata scatenava una reazione senza precedenti nei circoli di destra di base, dove solo il 24% dei giovani repubblicani ora simpatizza con Israele piuttosto che con i palestinesi, Kirk iniziò a cambiare idea. A volte, seguiva la linea israeliana, diffondendo disinformazione sui bambini decapitati da Hamas il 7 ottobre e negando la carestia imposta alla popolazione di Gaza. Eppure, allo stesso tempo, cedeva alla sua base, chiedendosi ad alta voce se Jeffrey Epstein fosse una risorsa dell’intelligence israeliana, mettendo in dubbio se il governo israeliano avesse permesso che gli attacchi del 7 ottobre proseguissero per promuovere obiettivi politici a lungo termine, e ripetendo a pappagallo narrazioni familiari al suo più accanito critico di destra, lo streamer Nick Fuentes.  A luglio 2025, al suo Summit d’azione studentesca TPUSA, Kirk ha offerto un forum alla base della destra per sfogare la propria rabbia per l’assedio politico di Israele all’amministrazione Trump. Lì, relatori come gli ex sostenitori di Fox News Tucker Carlson e Megyn Kelly, e il comico ebreo antisionista Dave Smith , hanno denunciato l’assalto sanguinoso di Israele alla Striscia di Gaza assediata, hanno bollato Jeffrey Epstein come una risorsa dell’intelligence israeliana e hanno apertamente schernito miliardari sionisti come Bill Ackman per “averla fatta franca con le truffe” pur non avendo “alcuna competenza”. Dopo la discussione, Kirk è stato bombardato da messaggi di testo e telefonate infuriate da parte dei ricchi alleati di Netanyahu negli Stati Uniti, compresi molti di coloro che avevano finanziato il TPUSA. Secondo il suo amico di lunga data, i donatori sionisti hanno trattato Kirk con assoluto disprezzo, intimandogli di fatto di tornare sui propri passi.  “Gli veniva detto cosa non era permesso fare, e questo lo stava facendo impazzire”, ha ricordato l’amico di Kirk. Il leader dei giovani conservatori non solo era alienato dalla natura ostile delle interazioni, ma anche “spaventato” dalle reazioni negative. Kirk è apparso visibilmente indignato durante un’intervista del 6 agosto con la conduttrice conservatrice Megyn Kelly, mentre discuteva dei messaggi minacciosi che riceveva dai pezzi grossi filo-israeliani.  In una delle sue ultime interviste, condotte con il principale influencer israeliano negli Stati Uniti, Ben Shapiro, Kirk ha cercato ancora una volta di sollevare la questione della censura nei confronti dei critici di Israele.  “Un amico mi ha detto, in modo interessante: ‘Charlie, ok, abbiamo respinto i media sul COVID, sui lockdown, sull’Ucraina, sul confine'”, ha detto Kirk a Shapiro il 9 settembre. “Forse dovremmo anche chiederci: i media stanno presentando la verità assoluta quando si tratta di Israele? Solo una domanda!”        “È caccia al Killer”, così hanno titolato le principali notizie subito dopo l’omicidio di Kirk. Inizialmente non era stato ancora trovato l’assassino, e sempre ovviamente Trump e la sua amministrazione repubblicana hanno subito puntato il dito contro le “sinistre radicali”. Altrettanto ovviamente fin da subito si percepiva che fosse una bugia. Poi il killer è stato trovato: il capro espiatorio, funzionale per tutte le stagioni e tutte le evenienze. E’ il 22enne Tyler Robinson, che sui proiettili del fucile usato per uccidere Kirk avrebbe inciso lo slogan “Bella ciao, bella ciao ciao ciao” e “Hey, fascista beccati questa!” (hanno riferito le autorità americane in conferenza stampa, confermando l’arresto del 22enne Tyler Robinson), sparando da un tetto al 31enne attivista conservatore. Notizia che potrebbe dare l’impressione di un classico omicidio politico, ma qualcosa risulta dissonante rispetto alla narrazione mainstream. Robinson è un affiliato al Partito Democratico? O è di “sinistra radicale”? O è appartenente dell’amalgama della “sinistra neoliberale”? No. Robinson, che non ha alcun precedente penale, è un maschio bianco di famiglia repubblicana che vive con la sua famiglia e i suoi due fratelli minori nella contea di Washington, a St. George. https://x.com/benryanwriter/status/1966651218232832325 I dubbi sono molti e più approfondiamo, più ci sono elementi che avvolgono il caso di mistero. O siamo di fronte ad un caso di omicidio particolare, o stiamo parlando di una società che sta implodendo su stessa e non riesce più a gestire il dissenso nè interno nè esterno.   Ulteriori info: https://edition.cnn.com/2025/09/12/us/tyler-robinson-charlie-kirk-shooting-suspect-invs https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/09/12/chi-e-tyler-robinson-killer-charlie-kirk-proiettili-bella-ciao/8124904/ > L’omicidio Kirk è una tragedia e un disastro Lorenzo Poli
Rompere l’assedio, fermare il genocidio
La Global Sumud Flottilla, carica di aiuti alimentari e sanitari, composta da più di 50 imbarcazioni provenienti da tutta Europa battenti bandiera di diversi Paesi, è salpata da Barcellona per dirigersi verso Gaza, congiungendosi con le imbarcazioni che sono salpate da Genova, Tunisi e quelle che salperanno dai porti siciliani e greci. Le imbarcazioni si incontreranno tutte in acque internazionali, dove proseguiranno il loro viaggio verso la Striscia di Gaza con la partecipazione di attivisti e volontari provenienti da oltre 44 Paesi. L’obiettivo è esplicito: “rompere il blocco illegale di Gaza e aprire un corridoio umanitario e porre fine al genocidio in corso del popolo palestinese”, rompere l’assedio piratesco che Israele impone al popolo di Gaza che genera carestia e morte. Oltre al valore umanitario, la spedizione è un atto simbolico di disobbedienza civile nei confronti delle restrizioni imposte in modo piratesco da Israele. La Global Sumud Flottilla vuole essere un richiamo ai principi di diritto internazionale e alla necessità di garantire corridoi umanitari sicuri per una popolazione, quella gazawi, allo stremo. Il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha in modo criminale dichiarato che: “Gli attivisti della Sumud Flotilla saranno trattati come terroristi; gli attivisti saranno arrestati e trattenuti in detenzione prolungata – a differenza della precedente prassi – nelle prigioni israeliane di Ketziot e Damon, utilizzate per detenere i terroristi in condizioni rigorose tipicamente riservate ai prigionieri di sicurezza; tutte le navi che partecipano alla flottiglia saranno confiscate e riutilizzate per le forze dell’ordine israeliane.” Vedremo cosa faranno i Governi del “democratico” occidente, che si appellano al diritto internazionale in relazione alle azioni dello Yemen nel mar Rosso contro le navi dirette in Israele, nei confronti delle eventuali azioni piratesche della marina israeliana contro le imbarcazioni umanitarie della Global Sumud Flottilla. Tante imbarcazioni della Sumud Flottilla battono bandiera italiana e lo Stato Italiano ha il dovere di garantire la libertà di navigazione e la sicurezza dei propri cittadini che agiscono per scopi altamente umanitari. Mentre la Global Sumud Flottilla prende il largo, il Parlamento dello Stato sionista ha dato via libera a nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania, rendendo impossibile la creazione di una entità statuale palestinese, e ponendo le basi all’annessione di tutta la regione all’interno di Israele, violando diverse risoluzioni dell’ONU. In contemporanea l’esercito israeliano sta intensificando le sue azioni nella striscia di Gaza con l’obiettivo dichiarato dell’occupazione di tutta Gaza City, dove sono presenti più di un milione di civili. Questa mossa arriva in un momento di grave preoccupazione per la crisi umanitaria a Gaza, dove centinaia di migliaia di civili sono sfollati e a rischio carestia. In modo parallelo arriva la decisione del Governo Trump di negare l’ingresso alla delegazione dell’Autorità palestinese a New York per potersi recare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una decisione che delegittima le stesse Nazioni Unite. Fa specie la dichiarazione del presidente statunitense Trump sul premier israeliano Netanyahu: «È un eroe di guerra, […] E anche un brav’uomo», proprio mentre il Governo reazionario sionista di Israele sta in modo incontrastato portando avanti la politica di pulizia etnica e la realizzazione del progetto del “grande Israele”. Persino il presidente francese Emmanuel Macron ha affermato che “L’offensiva militare israeliana a Gaza non può che portare a un vero disastro per i due popoli e trascinerà la regione in una guerra permanente». La politica genocida del Governo sionista ultranazionalista e integralista di Israele non è contrastata da nessun Paese del “democratico” occidente. Continuano in modo normale le relazioni politiche e commerciali. Il traffico di armi non si è mai interrotto. Il colosso industriale bellico italiano Leonardo spa fa affari milionari continuando ad esportare in Israele sistemi bellici di alto livello tecnologico che vengono usati per mietere vittime fra i i civili palestinesi. I paesi occidentali, quelli del cosiddetto BRICS, quelli arabi (a cominciare da Egitto, Giordania, Arabia Saudita, emirati del Golfo, ecc.) assistono in silenzio ad una delle pagine più buie della storia contemporanea. Chi si oppone al massacro sono le centinaia di migliaia di donne e uomini che invadono le piazze delle maggiori città del Pianeta, che in modo unanime chiedono la fine del genocidio del popolo palestinese e una pace permanente in Medio Oriente. Quello che fa sperare è la crescente opposizione al Governo sionista israeliano che si intravede all’interno dello stesso Israele contro la guerra genocida che si trascina ormai da quasi due anni. Il riuscitissimo sciopero generale contro il Governo Netanyahu, che ha visto oltre un milione di israeliani scendere in piazza non solo per il rilascio degli ostaggi ancora in mano alle milizie palestinesi, ma esplicitamente contro la guerra e contro il genocidio del popolo palestinese è un nervo scoperto all’interno della società israeliana. In migliaia hanno invaso le strade di Jerusalem, Tell Aviv, di tante altre città. Blocchi stradali hanno interessato le principali arterie del Paese. Diverse decine di manifestanti sono stati gli arresti. Sono tantissimi i ragazzi e le ragazze che si sottraggono all’arruolamento rifiutando di indossare la divisa dell’IDF. La protesta dell’opposizione israeliana alla guerra apre nuove prospettive per la creazione di un fronte transnazionale per fermare in Israele la deriva sciovinista, nazionalista, permeata da estremismo religioso che sta alla base della pulizia etnica e del genocidio del popolo palestinese. Gli stati nazione basati sul modernismo capitalista, gli stati teocratici (sia quello sionista che l’utopico stato palestinese) creano barriere, divisione, odio. La cooperazione fra i popoli, la fratellanza fra genti diverse sono la medicina contro la guerra e la sopraffazione. La creazione di una entità confederale democratica dove coesistano palestinesi, musulmani, cristiani, ebrei, atei; dove ogni cittadino sia considerato come tale, con pieni e pari diritti di ogni altro; dove sia garantito il ritorno dei profughi e il diritto di cittadinanza per tutte e tutti; dove ci sia il massimo rispetto per ogni credo liberato da ogni integralismo fanatico, questa è la prospettiva reale per quella terra martoriata da soprusi, apartheid, guerre.   Renato Franzitta
Accordo Usa-Ue: sono dazi nostri!
di Marco Bersani Il fatto che l’incontro per definire un accordo sui dazi fra Stati Uniti e Unione Europea si sia tenuto nel lussuoso Golf Club di Turnberry, in Scozia, di proprietà del tycoon Trump, la dice lunga sulla gerarchia Continua a leggere L'articolo Accordo Usa-Ue: sono dazi nostri! proviene da ATTAC Italia.
Alligator Alcatraz: ingiunzioni di giudici e inchieste giornalistiche
Sul disumano centro di detenzione di immigrati “Alligator Alcatraz” (che non è un soprannome, si chiama davvero così) voluto da Trump per dare l’esempio su come trattare chi cerca di entrare negli Stati Uniti pendono due grane piuttosto serie. Kathleen Williams, giudice federale della corte distrettuale della Florida del sud ha ordinato la chiusura del centro entro 60 giorni; il provvedimento fa seguito alla denuncia presentata da gruppi ambientalisti e dalla tribù Miccosukee secondo cui il Centro provoca danni gravi e irreparabili al fragile ecosistema delle paludi. Per di più secondo quanto emerso da un’analisi dei documenti legali condotta dal Miami Herald, cinque degli appaltatori assunti dalla Florida per costruire e gestire l’Alligator Alcatraz sono collegati ad accuse di pratiche commerciali improprie e uso improprio di fondi pubblici. Il centro è da tempo oggetto di proteste da parte dei movimenti contrari alla politica contro l’immigrazione portata avanti dal Presidente Trump.   Pressenza IPA
Chi pagherà i dazi di Trump?
Era il 2 aprile 2025 quando nel giardino delle rose della Casa Bianca il presidente degli USA ha esordito dicendo: «Questo è uno dei più importanti giorni nella storia d’America. È la nostra dichiarazione di indipendenza economica». Durante quel discorso Trump ha mostrato ad un pubblico di fedelissimi una tabella con le proposte di tariffe doganali reciproche tra gli USA e il resto del mondo. Se fosse stato il 1° aprile, in Italia avremmo pensato ad uno scherzo, anche perché l’esposizione della tabella trumpiana ricordava quelle che la fantomatica “Camila” fornisce a Zaia/Crozza. È il caso di segnalare che la formula utilizzata per stabilire i dazi in realtà calcolava la percentuale del rapporto tra disavanzo commerciale USA e valore delle importazioni dall’estero. Pertanto il Presidente degli USA ha palesemente scambiato lucciole per lanterne. In questo modo Trump ha attribuito numeri falsi ai dazi degli altri Paesi, per poter dire che, con magnanimità, gli USA stabilivano dazi reciproci soltanto del 50% di quelli applicati dagli altri. Non solo: Trump ha mostrato solamente una tabella relativa alle merci, per le quali gli USA risultano in deficit commerciale con quasi tutti i Paesi. Ha volutamente tralasciato di considerare lo scambio dei servizi, per i quali la situazione è rovesciata, poiché sono gli altri Paesi in disavanzo commerciale nei confronti degli USA. Insomma, l’impostazione del problema dei dazi da parte di Trump è illogica nel metodo e viziata nei contenuti. Non è un caso che subito dopo la presentazione della proposta trumpiana tutte le borse mondiali sono crollate, compresa quella degli USA. Persino la logica del mercato non può approvare le scelte irragionevoli degli apprendisti stregoni. Infatti a pagare il prezzo dell’imposizione dei dazi trumpiani saranno anzitutto i cittadini americani, che compreranno i prodotti stranieri ad un prezzo maggiorato. Inoltre, l’aumento dei prezzi dei prodotti negli USA farà salire l’inflazione, riducendo il poter d’acquisto dei cittadini americani, in particolare di quelli a basso reddito. La recente riforma fiscale dell’amministrazione Trump, il cosiddetto “Big Beautiful Bill”, ha fortemente ridotto le tasse sui redditi più alti e sulle imprese. Di conseguenza i dazi servono a Trump per compensare la riduzione del gettito delle imposte dirette sui contribuenti più ricchi. Ovviamente l’aumento dei prezzi sui beni materiali negli USA porterà a minori acquisti di merci importate, con conseguenze negative anche per le economie dei Paesi esportatori verso gli USA. Questi ultimi dovranno cercare di trovare mercati alternativi con minori barriere doganali. L’impatto negativo dei dazi USA ci sarà sicuramente in tutti i Paesi che esportano verso gli USA, ma con molta probabilità sarà inferiore al danno causato all’economia e ai consumatori in USA. Recentemente Tommaso Monacelli su sito lavoce.info ha scritto: «L’aumento dei dazi Usa sull’Ue non è una strategia “patriottica” che colpisce gli stranieri. È una tassa mascherata imposta a imprese e cittadini americani che, spesso inconsapevolmente, ne subiscono gli effetti diretti e indiretti, in termini di minore possibilità di scelta. Difficile sbandierare tutto ciò come una “vittoria di Trump”». Parafrasando Democrito si potrebbe dire che “il peggior governo è quello, non dove sono le peggiori leggi, ma dove i peggiori governano”. Rocco Artifoni
Chi controlla le terre rare controlla il mondo
Immagine in evidenza da Unsplash Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese. Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio. Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici, protesi intelligenti e molto altro ancora. Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà, fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per svolgere funzioni diverse).  Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio, neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.  Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria, dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le posseggono. TERRE RARE, MINERALI CRITICI E AI Le terre rare (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici con proprietà simili e spesso presenti insieme nei minerali: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, ittrio e scandio. Le materie prime critiche, di cui possono far parte anche alcune terre rare, sono invece quei materiali identificati dai vari governi come economicamente e strategicamente essenziali, ma che presentano un alto rischio di approvvigionamento a causa della concentrazione delle fonti e della mancanza di sostituti validi e a prezzi accessibili. Nel 2024 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato il Regolamento europeo sulle materie prime critiche, elencandone 34, di cui 17 definite “strategiche”, il cui controllo o accesso influisce direttamente su obiettivi di sicurezza, sviluppo tecnologico e autonomia industriale. Le terre rare, in realtà, spiega ancora Marta Abbà, non sono rare, ma la loro presenza nel mondo non è omogenea e l’estrazione e la lavorazione risultano molto costose e inquinanti.  Le maggiori riserve sono possedute dalla Cina, in cui ammontano, secondo le stime, a 44 milioni di tonnellate, con una capacità estrattiva che nel 2024 ha toccato la cifra di 270mila tonnellate all’anno. Altri stati che possiedono significative riserve sono il Brasile (21 milioni di tonnellate, attualmente ancora pochissimo sfruttate), l’Australia (5,7 milioni di tonnellate), l’India (6,9 milioni di tonnellate), la Russia (3,8 milioni di tonnellate) e il Vietnam (3,5 milioni di tonnellate).  A questo gruppo di paesi si è aggiunta di recente la Groenlandia, salita alla ribalta delle cronache per i suoi enormi giacimenti di materie prime critiche e per il conseguente interesse mostrato da Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Il sito più rilevante, Kvanefjeld, nel sud dell’isola, è considerato uno dei più promettenti a livello globale e, secondo le stime della società che ne detiene la licenza estrattiva, potrebbe contenere fino al 15% delle riserve mondiali conosciute di terre rare. A far gola alle grandi potenze tecnologiche sono in particolare l’alluminio, derivato della bauxite, e il silicio, necessari per la produzione dei wafer (la base di silicio su cui vengono costruiti i microchip) e per l’isolamento dei chip, il niobio, utilizzato nei cavi superconduttori, il germanio, necessario per i cavi in fibra ottica utilizzati per la trasmissione di dati ad alta velocità, cruciale per l’AI, e ancora gallio, tungsteno, neodimio, ittrio, tutti componenti essenziali per l’industria dei microchip.    Per via delle loro applicazioni nell’industria high tech, molti di questi materiali ed elementi sono stati identificati come strategici sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti e sono per questo oggetto di accordi e trattati bilaterali con i paesi produttori.  Nonostante la presenza di alcune riserve di terre rare in entrambe le regioni, il fabbisogno risulta infatti di gran lunga superiore alla capacità produttiva domestica, obbligando di fatto sia Washington che Bruxelles a importare le materie dall’estero, prima di tutto dalla Cina e in secondo luogo, per quanto riguarda l’Unione Europea, dalla Russia.  Per questo motivo, Dewardric L. McNeal, direttore e analista politico della società di consulenza Longview Global, ha affermato alla CNBC che “gli Stati Uniti devono ora trattare le materie prime critiche non come semplici merci, ma come strumenti di potere geopolitico. Come la Cina già fa”. IL POTERE DEL DRAGONE ASIATICO E LE RISPOSTE USA Dopo settimane di tensioni e accuse reciproche per i dazi imposti dall’amministrazione Trump, il governo di Pechino ha deciso di rallentare l’export di terre rare tra aprile e maggio, come già fatto in precedenza sia nel 2023 che nel 2024, quando alla scrivania dello studio ovale sedeva ancora Joe Biden e il tema caldo di discussione era l’isola di Taiwan. Per farsi un’idea della portata di questa mossa, basti pensare che, come stimato dal Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), se la Cina imponesse un divieto totale sulle esportazioni dei soli gallio e germanio, minerali utilizzati in alcuni semiconduttori e in altre produzioni high tech, il PIL statunitense potrebbe diminuire di 3,4 miliardi di dollari. Anche per questo, il tono di Washington da inizio giugno è diventato più conciliante e il rapporto tra le due potenze si è andato normalizzando, fino ad arrivare il 28 giugno al raggiungimento di un accordo tra i due paesi. Nonostante i dettagli siano ancora scarsi, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha dichiarato che la Cina ha accettato di facilitare l’acquisizione da parte delle aziende americane di magneti, terre rare cinesi e altri materiali fondamentali per l’industria tecnologica.  Quella che Trump ha festeggiato come una sua grande vittoria diplomatica, ha però reso ancor più evidente come le catene di approvvigionamento dei minerali critici siano molto concentrate, fragili e soprattutto troppo esposte all’influenza e al controllo di Pechino. Come abbiamo visto, la Cina è il paese in cui si trovano le maggiori riserve mondiali di terre rare, ma non è solo questo elemento a spostare l’ago della bilancia geopolitica a favore del dragone asiatico. L’influenza della Cina abbraccia infatti anche i paesi “amici”, come la Mongolia e il Myanmar, secondo produttore mondiale di terre rare pesanti (più scarse e più difficili da separare), le cui principali operazioni minerarie sono significativamente partecipate da Pechino, estendendo ulteriormente il controllo effettivo della potenza asiatica. La posizione dominante della Cina è determinata anche dal fatto di possedere il monopolio di fatto della raffinazione, cioè la complessa operazione metallurgica per trasformare la materia prima grezza in materiali utilizzabili. Un processo non solo complesso, ma altamente inquinante e di conseguenza quasi impossibile da eseguire in Europa o negli Stati Uniti, a causa dei più elevati standard di compliance ambientale che ne farebbero schizzare il costo alle stelle.  Il processo di raffinazione richiede infatti un uso estensivo di sostanze chimiche, in particolare acidi forti (come l’acido solforico, nitrico o cloridrico) per separare le terre rare dai minerali a cui sono legate, creando delle scorie tossiche molto difficili da smaltire, se si seguono, appunto, standard elevati di tutela ambientale. Un esempio del devastante impatto ambientale di questo processo è particolarmente visibile nella città di Baotou, nella vasta area industriale della regione cinese della Mongolia Interna, dove il panorama è dominato da un lago artificiale del diametro di circa 9 chilometri, composto interamente da fanghi neri e sostanze chimiche tossiche, risultato degli sversamenti di rifiuti di scarto derivanti dall’estrazione e raffinazione delle terre rare. L’Occidente, in pratica, ha scelto di esternalizzare le negatività ambientali derivanti dall’estrazione di terre rare in Cina e questa, da parte sua, ha accettato di buon grado, dando priorità al potere economico e geopolitico che ne deriva rispetto alla salute dei suoi cittadini e alla tutela del proprio ambiente naturale. La dipendenza delle catene di approvvigionamento occidentali diventa ancor più evidente se si prende come esempio la miniera di Mountain Pass in California, una delle maggiori operazioni statunitensi nel settore delle terre rare. Nonostante produca circa il 15% degli ossidi di terre rare a livello globale, si trova a dover inviare l’intera produzione in Cina per le fasi di separazione e raffinazione.  Per questo motivo, il Pentagono nel 2020 ha assegnato 9,6 milioni di dollari alla società MP Materials per la realizzazione di un impianto di separazione di terre rare leggere a Mountain Pass. Nel 2022, sono stati investiti ulteriori 35 milioni di dollari per un impianto di trattamento di terre rare pesanti. Questi impianti, spiega il Center for Strategic and International Studies, sarebbero i primi del loro genere negli Stati Uniti, integrando completamente la catena di approvvigionamento delle terre rare, dall’estrazione, separazione e lisciviazione (un processo chimico che serve a sciogliere selettivamente i metalli desiderati dal minerale) a Mountain Pass, fino alla raffinazione e produzione di magneti a Fort Worth, in Texas. Tuttavia, anche quando saranno pienamente operativi, questi impianti saranno in grado di produrre solo mille tonnellate di magneti al neodimio-ferro-boro entro la fine del 2025 — meno dell’1% delle 138mila tonnellate prodotte dalla Cina nel 2018. Non sorprende, dunque, che gli Stati Uniti, come vedremo, stiano cercando strade alternative in grado di diversificare maggiormente la propria catena di approvvigionamento di questi materiali. Ne è un esempio l’accordo fortemente voluto dall’amministrazione USA con l’Ucraina che, dopo un tira e molla di diverse settimane, culminato con la furiosa lite di fine febbraio nello studio ovale tra Donald Trump e JD Vance da una parte e Volodymyr Zelensky dall’altra, ha infine visto la luce a inizio maggio. L’accordo, in estrema sintesi, stabilisce che l’assistenza militare americana sarà considerata parte di un fondo di investimento congiunto dei due paesi per l’estrazione di risorse naturali in Ucraina. Gli Stati Uniti si assicurano inoltre il diritto di prelazione sull’estrazione mineraria pur lasciando a Kiev l’ultima parola sulle materie da estrarre e l’identificazione dei siti minerari. L’accordo stabilisce infine che la proprietà del sottosuolo rimarrà all’Ucraina, cosa non scontata date le precedenti richieste da parte di Washington in tal senso. Quello con l’Ucraina è solo uno dei tanti tavoli di trattativa aperti dalle diverse amministrazioni statunitensi con paesi ricchi di materie critiche: dall’Australia al vicino Canada, passando per il Cile, ricchissimo di litio, e poi ancora il Brasile, dove si estrae il 90% del niobio utilizzato per la produzione di condensatori, superconduttori e altri componenti ad alta tecnologia, e il Vietnam, con cui l’allora presidente Joe Biden ha siglato un accordo di collaborazione nel settembre 2023. È evidente come gli Stati Uniti, da diversi anni, stiano mettendo in campo tutte le risorse economiche e diplomatiche a disposizione per potersi assicurare il necessario approvvigionamento di materie critiche e terre rare, senza le quali la Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi giorni. LA GLOBAL GATEWAY EUROPEA In Europa la situazione è anche peggiore rispetto agli Stati Uniti. Non solo l’Unione Europea importa oltre il 98% delle terre rare raffinate, con la Cina ovviamente nel ruolo di principale fornitore, ma è anche sprovvista di giacimenti importanti. Uno dei pochi siti promettenti è stato individuato nel 2023 a Kiruna, nella Lapponia svedese, e secondo l’azienda mineraria di stato svedese LKAB potrebbe arrivare a soddisfare, una volta a pieno regime, fino al 18% del fabbisogno europeo di terre rare.  C’è però un enorme problema, oltre a quello già descritto dell’impatto ambientale: è difficile pensare che possa entrare in produzione prima di almeno una decina di anni. Troppi, considerato che le battaglie per la supremazia tecnologica e per la transizione energetica si stanno combattendo ora. Un discorso a parte merita la Groenlandia, territorio autonomo posto sotto la Corona danese, ricchissima di materie prime critiche, terre rare e anche uranio, ma dove le leggi attuali sono molto restrittive in termini di estrazione e che, per di più, è entrata nel mirino dell’amministrazione Trump, diventando oggetto di forti frizioni politiche.  L’interesse dell’Unione Europea nei confronti della grande isola artica è sancito dall’accordo firmato nel novembre del 2023 tra le due parti, che dà il via a un nuovo partenariato strategico tra i due soggetti, il cui cuore pulsante è rappresentato dallo sfruttamento congiunto delle materie prime. Anche in questo caso, però, come per il giacimento di Kiruna, si tratta di un progetto a lungo termine che difficilmente potrà vedere la luce e dare risultati concreti in tempi brevi. L’Unione Europea ha quindi deciso di muoversi sulla scia degli Stati Uniti e della “Nuova Via della Seta” cinese, cercando di chiudere accordi bilaterali di investimento e scambio commerciale con diversi paesi ricchi di materie prime critiche. La strategia “Global Gateway” lanciata nel 2021 rappresenta uno dei più grandi piani geopolitici e di investimento dell’Unione, che ha messo sul tavolo oltre 300 miliardi di euro fino al 2027, con l’obiettivo dichiarato, tra gli altri, di diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie critiche. La Global Gateway, a cui si è aggiunto nel 2023 il Critical Raw Material Act, che pone obiettivi specifici di approvvigionamento al 2030, ha portato a diversi accordi fondamentali per la sopravvivenza dei piani di transizione digitale ed energetica del continente: Argentina, Cile e Brasile in America Latina; Kazakistan, Indonesia e Mongolia in Asia; Namibia, Zambia, Uganda e Rwanda in Africa sono alcuni dei paesi con cui la Commissione Europea ha già siglato delle partnership strategiche o ha intavolato delle discussioni di alto livello per agevolare degli investimenti comuni nell’estrazione di terre rare, proprio come fatto dagli Stati Uniti con l’Ucraina.   Considerata la volontà dell’Unione Europea di competere nel settore dell’intelligenza artificiale, quantomeno per ciò che riguarda l’espansione dei data center sul territorio, una robusta e diversificata rete di approvvigionamento delle materie prime critiche è fondamentale. Come si legge infatti sul sito della Commissione Europea, “nel corso del 2025, la Commissione proporrà il Cloud and AI Development Act, con l’obiettivo almeno di triplicare la capacità dei data center europei nei prossimi 5-7 anni e di soddisfare appieno il fabbisogno delle imprese e delle pubbliche amministrazioni europee entro il 2035. La legge semplificherà l’implementazione dei data center, individuando siti idonei e snellendo le procedure autorizzative per i progetti che rispettano criteri di sostenibilità e innovazione. Allo stesso tempo, affronterà la crescente domanda energetica promuovendo l’efficienza energetica, l’adozione di tecnologie innovative per il raffreddamento e la gestione dell’energia, e l’integrazione dei data center all’interno del sistema energetico più ampio”. Il piano non solo è ambizioso in termini di obiettivi, ma tiene strettamente legate le due facce della strategia generale europea, ovvero lo sviluppo tecnologico e la transizione verde entro il quale deve essere inquadrato. Impossibile pensare di fare l’uno o l’altra, tantomeno entrambi, senza le materie prime necessarie.  AFRICA, VECCHIA E NUOVA TERRA DI CONQUISTA In questo quadro geopolitico già di per sé complesso, un discorso a parte meritano i paesi del Sud Globale e in particolare quelli africani, che come si è visto sono quelli in cui si trovano le maggiori riserve di materie prime critiche e terre rare.   Il timore, come già raccontato nel reportage dall’AI Summit di Parigi, è che ancora una volta si vada a configurare un modello di estrattivismo colonialista, in cui i paesi più ricchi, dove avviene la produzione di tecnologia, si arricchiranno ancor di più, mentre i paesi più poveri, da dove vengono prelevate le materie prime, subiranno i devastanti impatti sociali e ambientali di queste politiche. Il rapporto “Rare Earth Elements in Africa: Implications for U.S. National and Economic Security”, pubblicato nel 2022 dal Institute for Defense Analyses, una società senza scopo di lucro statunitense, è molto esplicito nel prevedere un aumento dell’influenza del continente africano nel settore e le problematiche che ciò può comportare. “Man mano che le potenze globali si rivolgono ai mercati africani per rafforzare la propria influenza”, si legge nell’executive summary del rapporto, “è probabile che l’estrazione delle terre rare nel continente aumenti. In Africa si contano quasi 100 giacimenti di terre rare, distribuiti in circa la metà dei paesi del continente. Cinque paesi — Mozambico, Angola, Sudafrica, Namibia e Malawi — ospitano da soli la metà di tutti i siti di giacimento di terre rare in Africa. Attualmente, otto paesi africani registrano attività estrattiva di REE, ma a gennaio 2022 solo il Burundi disponeva di una miniera operativa in grado di produrre a livello commerciale. Tuttavia, altri paesi potrebbero raggiungere presto capacità produttive simili”. La parte che più interessa in questo frangente è però il punto in cui i ricercatori sottolineano come “la gestione delle risorse naturali in Africa e gli indicatori di buona governance devono migliorare, se si vuole garantire che i minerali di valore non portino benefici solo alle imprese americane, ma anche ai cittadini africani”. Considerando che la “Academy of international humanitarian law and human rights” dell’Università di Ginevra ha mappato 35 conflitti armati attualmente in corso nell’Africa subsahariana, di cui molti hanno proprio come causa il possesso delle risorse minerarie, sembra difficile prevedere che questa volta la storia prenda una strada diversa da quella già percorsa in passato. ROTTE ALTERNATIVE In virtù delle complessità descritte per l’approvvigionamento delle terre rare e, più in generale, delle materie prime critiche, alcune società stanno sperimentando delle vie alternative per produrle o sostituirle. La società britannica Materials Nexus, per esempio, ha dichiarato a inizio giugno di essere riuscita a sviluppare, grazie alla propria piattaforma di AI, una formula per produrre magneti permanenti senza l’utilizzo di terre rare. La notizia, ripresa dalle maggiori testate online dedicate agli investimenti nel settore minerario, ha subito destato grande interesse, non solo perché aprirebbe una strada completamente nuova per i settori tecnologico ed energetico, ma perché sarebbe uno dei primi casi in cui è l’intelligenza artificiale stessa a trovare una soluzione alternativa per il suo stesso sviluppo. Secondo Marta Abbà, se anche la notizia data da Material Nexus dovesse essere confermata, ci vorrebbero comunque anni prima di arrivare alla messa in pratica di questa formula alternativa. Sempre che – cosa per nulla scontata – la soluzione non solo funzioni davvero, ma si dimostri anche sostenibile a livello economico e a livello ambientale. È più realistico immaginare lo sviluppo di un’industria tecnologicamente avanzata in grado di riciclare dai rifiuti sia le terre rare che gli altri materiali critici, sostiene Abbà. Prodotti e dispositivi dismessi a elevato contenuto tecnologico possono in tal senso diventare delle vere risorse, tanto che l’Unione Europea ha finanziato 47 progetti sperimentali in questa direzione. Tra questi, c’è anche un promettente progetto italiano: Inspiree, presso il sito industriale di Itelyum Regeneration a Ceccano, in provincia di Frosinone. È il primo impianto in Europa per la produzione di ossidi e carbonati di terre rare (neodimio, praseodimio e disprosio) da riciclo chimico di magneti permanenti esausti. L’impianto di smontaggio, si legge nel comunicato di lancio del progetto, potrà trattare mille tonnellate all’anno di rotori elettrici, mentre l’impianto idrometallurgico a regime potrà trattare duemila tonnellate all’anno di magneti permanenti ottenuti da diverse fonti, tra cui anche hard disk e motori elettrici, con il conseguente recupero di circa cinquecento tonnellate all’anno di ossalati di terre rare, una quantità sufficiente al funzionamento di un milione di hard disk e laptop, e di dieci milioni di magneti permanenti per applicazioni varie nell’automotive elettrico. Nonostante questi progetti, l’obiettivo europeo di coprire entro il 2030 il 25% della domanda di materie prime critiche, tra cui le terre rare, grazie al riciclo, appare ancora molto distante, considerando che a oggi siamo appena all’1%. La strada dell’economia circolare è sicuramente incerta, lunga e tortuosa, ma allo stesso tempo più sostenibile di quella estrattivista e in grado di garantire una strategia di lungo periodo per il continente europeo. L'articolo Chi controlla le terre rare controlla il mondo proviene da Guerre di Rete.
Gli Stati Uniti trasferiscono le forze dalle basi del Golfo in vista di un possibile attacco all’Iran
Washington – The Cradle. Il 18 giugno, gli Stati Uniti hanno iniziato a trasferire aerei e mezzi navali da siti militari chiave nell’Asia occidentale, a causa del timore di una potenziale ritorsione iraniana, hanno dichiarato ai giornalisti due funzionari statunitensi in condizione di anonimato. L’operazione di riposizionamento include aerei non ospitati nei rifugi rinforzati della base aerea di al-Udeid in Qatar, e navi militari precedentemente di stanza nel porto del Bahrein, sede della Quinta Flotta della Marina statunitense. Un funzionario ha affermato che gli spostamenti rientrano nelle procedure standard di protezione delle forze armate. “Non è una pratica insolita”, ha affermato il funzionario. “La protezione delle forze armate è la priorità”. L’ambasciata statunitense a Doha ha emesso un’allerta di sicurezza il giorno successivo, intimando al personale dell’ambasciata e ai cittadini statunitensi di aumentare la vigilanza e annunciando una restrizione temporanea all’accesso ad al-Udeid, la più grande installazione militare statunitense della regione. Queste misure giungono mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump continua a mostrare ambiguità sull’eventuale adesione di Washington alla guerra in corso di Israele contro l’Iran. “Potrei farlo. Potrei non farlo. Voglio dire, nessuno sa cosa farò”, ha detto Trump ai giornalisti mercoledì fuori dalla Casa Bianca. Secondo un articolo di Bloomberg che cita fonti anonime, alti funzionari statunitensi si stanno preparando per un possibile attacco all’Iran nei prossimi giorni, con alcuni che indicano il fine settimana come una potenziale finestra temporale. La situazione è stata descritta come instabile e soggetta a cambiamenti. Dall’inizio della campagna aerea israeliana, il 13 giugno, attacchi aerei hanno colpito le infrastrutture nucleari e missilistiche iraniane, provocando evacuazioni di massa a Teheran e altrove. Israele sostiene che l’operazione mira a impedire all’Iran di produrre un’arma nucleare. Teheran nega di voler sviluppare armi nucleari. L’inviato iraniano alle Nazioni Unite a Ginevra ha dichiarato mercoledì che Teheran ha avvertito Washington che risponderà con decisione se gli Stati Uniti saranno direttamente coinvolti nello sforzo bellico israeliano. “Se confermiamo il coinvolgimento [diretto] degli USA negli attacchi contro di noi, risponderemo”, ha dichiarato l’ambasciatore Ali Bahreini. “Non mostreremo alcuna riluttanza nel difendere il nostro popolo, la nostra sicurezza e il nostro territorio: risponderemo con serietà e forza, senza ritegno”. Bahreini ha aggiunto che Teheran considera già Washington complice delle azioni israeliane e ha espresso preoccupazione per il fatto che gli Stati Uniti possano contribuire a un potenziale attacco all’impianto nucleare fortificato iraniano di Fordow. Gli Stati Uniti hanno inoltre dispiegato più truppe e aerei da combattimento nella regione e mantengono circa 60 mila militari in tutta l’Asia occidentale. Traduzione per InfoPal di F.H.L.
No kings day a Firenze
Anche Firenze si è associata alle iniziative del “No kings day” per protestare contro il governo Trump in solidarietà con le donne, gli immigrati, la comunità LGBTQ+ e tutti coloro che vedono minacciati i propri diritti da tale amministrazione. Circa 100 persone, statunitensi e non solo, hanno risposto all’appello dell’Associazione Good Trouble Firenze e si sono radunate nel pomeriggio del 14 giugno in via dei Gondi, a lato di Palazzo Vecchio. I manifestanti esibivano cartelli in inglese, colorati e dal contenuto ironico. Si leggeva ad esempio “melt ICE”, in riferimento all’ Immigration and Customs Enforcement (ICE), la famigerata agenzia federale statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione o “I think therefore I am not a Trump supporter”. Diversi oratori si sono alternati al microfono in inglese e in italiano, intervallati da interventi musicali, tra cui una partecipatissima Bella Ciao e la canzone del Che, suonati da un gruppo di musicisti sudamericani. Il mattino seguente i partecipanti sono stati poi allietati dalle notizie provenienti da media indipendenti americani riguardo al fallimento della parata organizzata da Trump a Washington, per celebrare il proprio 79 esimo compleanno in coincidenza con il 250 esimo anniversario della fondazione dell’esercito statunitense. Per la parata – costata all’erario USA 45 milioni di dollari, con il coinvolgimento di 7000 uomini, 150 mezzi terrestri e 50 aerei – erano attese 200 mila persone, ma ne sono arrivate solo 20 mila, come si è potuto osservare dalle tribune allestite restate semi vuote. Dalle facce evidentemente deluse di Trump e dei suoi collaboratori è stato possibile rilevare tutto il loro disappunto per il clamoroso fiasco di un evento che, nelle intenzioni del borioso presidente, avrebbe dovuto assomigliare alla parata del 14 luglio a Parigi. A tale notizia non è stato purtroppo dato il giusto risalto dai media italiani. Sono andate invece bene le manifestazioni del “No kings day”, che si sono svolte in 2000 città statunitensi, con il coinvolgimento di circa 11 milioni di americani, e in numerose città europee e non solo, tra cui appunto anche Firenze. https://www.facebook.com/profile.php?id=61576013661049 https://economictimes.indiatimes.com/news/international/global-trends/trumps-45-million-birthday-parade-turns-into-a-drowsy-disaster/articleshow/121861068.cms?utm_source=chatgpt.com Enrico Campolmi