Chi controlla le terre rare controlla il mondo
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Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il
petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla
dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese.
Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la
capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre
rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione
geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso
approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio.
Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da
quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello
medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici,
protesi intelligenti e molto altro ancora.
Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo
sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà,
fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono
qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere
al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di
semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per
le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per
applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un
particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per
svolgere funzioni diverse).
Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio,
neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione
dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.
Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza
artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria,
dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte
le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le
posseggono.
TERRE RARE, MINERALI CRITICI E AI
Le terre rare (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici con proprietà simili e
spesso presenti insieme nei minerali: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio,
promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio,
itterbio, lutezio, ittrio e scandio.
Le materie prime critiche, di cui possono far parte anche alcune terre rare,
sono invece quei materiali identificati dai vari governi come economicamente e
strategicamente essenziali, ma che presentano un alto rischio di
approvvigionamento a causa della concentrazione delle fonti e della mancanza di
sostituti validi e a prezzi accessibili.
Nel 2024 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato il Regolamento europeo
sulle materie prime critiche, elencandone 34, di cui 17 definite “strategiche”,
il cui controllo o accesso influisce direttamente su obiettivi di sicurezza,
sviluppo tecnologico e autonomia industriale.
Le terre rare, in realtà, spiega ancora Marta Abbà, non sono rare, ma la loro
presenza nel mondo non è omogenea e l’estrazione e la lavorazione risultano
molto costose e inquinanti.
Le maggiori riserve sono possedute dalla Cina, in cui ammontano, secondo le
stime, a 44 milioni di tonnellate, con una capacità estrattiva che nel 2024 ha
toccato la cifra di 270mila tonnellate all’anno. Altri stati che possiedono
significative riserve sono il Brasile (21 milioni di tonnellate, attualmente
ancora pochissimo sfruttate), l’Australia (5,7 milioni di tonnellate), l’India
(6,9 milioni di tonnellate), la Russia (3,8 milioni di tonnellate) e il Vietnam
(3,5 milioni di tonnellate).
A questo gruppo di paesi si è aggiunta di recente la Groenlandia, salita alla
ribalta delle cronache per i suoi enormi giacimenti di materie prime critiche e
per il conseguente interesse mostrato da Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Il
sito più rilevante, Kvanefjeld, nel sud dell’isola, è considerato uno dei più
promettenti a livello globale e, secondo le stime della società che ne detiene
la licenza estrattiva, potrebbe contenere fino al 15% delle riserve mondiali
conosciute di terre rare.
A far gola alle grandi potenze tecnologiche sono in particolare l’alluminio,
derivato della bauxite, e il silicio, necessari per la produzione dei wafer (la
base di silicio su cui vengono costruiti i microchip) e per l’isolamento dei
chip, il niobio, utilizzato nei cavi superconduttori, il germanio, necessario
per i cavi in fibra ottica utilizzati per la trasmissione di dati ad alta
velocità, cruciale per l’AI, e ancora gallio, tungsteno, neodimio, ittrio, tutti
componenti essenziali per l’industria dei microchip.
Per via delle loro applicazioni nell’industria high tech, molti di questi
materiali ed elementi sono stati identificati come strategici sia dall’Unione
Europea che dagli Stati Uniti e sono per questo oggetto di accordi e trattati
bilaterali con i paesi produttori.
Nonostante la presenza di alcune riserve di terre rare in entrambe le regioni,
il fabbisogno risulta infatti di gran lunga superiore alla capacità produttiva
domestica, obbligando di fatto sia Washington che Bruxelles a importare le
materie dall’estero, prima di tutto dalla Cina e in secondo luogo, per quanto
riguarda l’Unione Europea, dalla Russia.
Per questo motivo, Dewardric L. McNeal, direttore e analista politico della
società di consulenza Longview Global, ha affermato alla CNBC che “gli Stati
Uniti devono ora trattare le materie prime critiche non come semplici merci, ma
come strumenti di potere geopolitico. Come la Cina già fa”.
IL POTERE DEL DRAGONE ASIATICO E LE RISPOSTE USA
Dopo settimane di tensioni e accuse reciproche per i dazi imposti
dall’amministrazione Trump, il governo di Pechino ha deciso di rallentare
l’export di terre rare tra aprile e maggio, come già fatto in precedenza sia nel
2023 che nel 2024, quando alla scrivania dello studio ovale sedeva ancora Joe
Biden e il tema caldo di discussione era l’isola di Taiwan.
Per farsi un’idea della portata di questa mossa, basti pensare che, come stimato
dal Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), se la Cina imponesse un divieto
totale sulle esportazioni dei soli gallio e germanio, minerali utilizzati in
alcuni semiconduttori e in altre produzioni high tech, il PIL statunitense
potrebbe diminuire di 3,4 miliardi di dollari.
Anche per questo, il tono di Washington da inizio giugno è diventato più
conciliante e il rapporto tra le due potenze si è andato normalizzando, fino ad
arrivare il 28 giugno al raggiungimento di un accordo tra i due paesi.
Nonostante i dettagli siano ancora scarsi, il segretario al Tesoro degli Stati
Uniti, Scott Bessent, ha dichiarato che la Cina ha accettato di facilitare
l’acquisizione da parte delle aziende americane di magneti, terre rare cinesi e
altri materiali fondamentali per l’industria tecnologica.
Quella che Trump ha festeggiato come una sua grande vittoria diplomatica, ha
però reso ancor più evidente come le catene di approvvigionamento dei minerali
critici siano molto concentrate, fragili e soprattutto troppo esposte
all’influenza e al controllo di Pechino.
Come abbiamo visto, la Cina è il paese in cui si trovano le maggiori riserve
mondiali di terre rare, ma non è solo questo elemento a spostare l’ago della
bilancia geopolitica a favore del dragone asiatico.
L’influenza della Cina abbraccia infatti anche i paesi “amici”, come la Mongolia
e il Myanmar, secondo produttore mondiale di terre rare pesanti (più scarse e
più difficili da separare), le cui principali operazioni minerarie sono
significativamente partecipate da Pechino, estendendo ulteriormente il controllo
effettivo della potenza asiatica.
La posizione dominante della Cina è determinata anche dal fatto di possedere il
monopolio di fatto della raffinazione, cioè la complessa operazione metallurgica
per trasformare la materia prima grezza in materiali utilizzabili.
Un processo non solo complesso, ma altamente inquinante e di conseguenza quasi
impossibile da eseguire in Europa o negli Stati Uniti, a causa dei più elevati
standard di compliance ambientale che ne farebbero schizzare il costo alle
stelle.
Il processo di raffinazione richiede infatti un uso estensivo di sostanze
chimiche, in particolare acidi forti (come l’acido solforico, nitrico o
cloridrico) per separare le terre rare dai minerali a cui sono legate, creando
delle scorie tossiche molto difficili da smaltire, se si seguono, appunto,
standard elevati di tutela ambientale.
Un esempio del devastante impatto ambientale di questo processo è
particolarmente visibile nella città di Baotou, nella vasta area industriale
della regione cinese della Mongolia Interna, dove il panorama è dominato da un
lago artificiale del diametro di circa 9 chilometri, composto interamente da
fanghi neri e sostanze chimiche tossiche, risultato degli sversamenti di rifiuti
di scarto derivanti dall’estrazione e raffinazione delle terre rare.
L’Occidente, in pratica, ha scelto di esternalizzare le negatività ambientali
derivanti dall’estrazione di terre rare in Cina e questa, da parte sua, ha
accettato di buon grado, dando priorità al potere economico e geopolitico che ne
deriva rispetto alla salute dei suoi cittadini e alla tutela del proprio
ambiente naturale.
La dipendenza delle catene di approvvigionamento occidentali diventa ancor più
evidente se si prende come esempio la miniera di Mountain Pass in California,
una delle maggiori operazioni statunitensi nel settore delle terre rare.
Nonostante produca circa il 15% degli ossidi di terre rare a livello globale, si
trova a dover inviare l’intera produzione in Cina per le fasi di separazione e
raffinazione.
Per questo motivo, il Pentagono nel 2020 ha assegnato 9,6 milioni di dollari
alla società MP Materials per la realizzazione di un impianto di separazione di
terre rare leggere a Mountain Pass. Nel 2022, sono stati investiti ulteriori 35
milioni di dollari per un impianto di trattamento di terre rare pesanti.
Questi impianti, spiega il Center for Strategic and International Studies,
sarebbero i primi del loro genere negli Stati Uniti, integrando completamente la
catena di approvvigionamento delle terre rare, dall’estrazione, separazione e
lisciviazione (un processo chimico che serve a sciogliere selettivamente i
metalli desiderati dal minerale) a Mountain Pass, fino alla raffinazione e
produzione di magneti a Fort Worth, in Texas.
Tuttavia, anche quando saranno pienamente operativi, questi impianti saranno in
grado di produrre solo mille tonnellate di magneti al neodimio-ferro-boro entro
la fine del 2025 — meno dell’1% delle 138mila tonnellate prodotte dalla Cina nel
2018. Non sorprende, dunque, che gli Stati Uniti, come vedremo, stiano cercando
strade alternative in grado di diversificare maggiormente la propria catena di
approvvigionamento di questi materiali.
Ne è un esempio l’accordo fortemente voluto dall’amministrazione USA con
l’Ucraina che, dopo un tira e molla di diverse settimane, culminato con la
furiosa lite di fine febbraio nello studio ovale tra Donald Trump e JD Vance da
una parte e Volodymyr Zelensky dall’altra, ha infine visto la luce a inizio
maggio.
L’accordo, in estrema sintesi, stabilisce che l’assistenza militare americana
sarà considerata parte di un fondo di investimento congiunto dei due paesi per
l’estrazione di risorse naturali in Ucraina. Gli Stati Uniti si assicurano
inoltre il diritto di prelazione sull’estrazione mineraria pur lasciando a Kiev
l’ultima parola sulle materie da estrarre e l’identificazione dei siti minerari.
L’accordo stabilisce infine che la proprietà del sottosuolo rimarrà all’Ucraina,
cosa non scontata date le precedenti richieste da parte di Washington in tal
senso.
Quello con l’Ucraina è solo uno dei tanti tavoli di trattativa aperti dalle
diverse amministrazioni statunitensi con paesi ricchi di materie critiche:
dall’Australia al vicino Canada, passando per il Cile, ricchissimo di litio, e
poi ancora il Brasile, dove si estrae il 90% del niobio utilizzato per la
produzione di condensatori, superconduttori e altri componenti ad alta
tecnologia, e il Vietnam, con cui l’allora presidente Joe Biden ha siglato un
accordo di collaborazione nel settembre 2023.
È evidente come gli Stati Uniti, da diversi anni, stiano mettendo in campo tutte
le risorse economiche e diplomatiche a disposizione per potersi assicurare il
necessario approvvigionamento di materie critiche e terre rare, senza le quali
la Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi giorni.
LA GLOBAL GATEWAY EUROPEA
In Europa la situazione è anche peggiore rispetto agli Stati Uniti. Non solo
l’Unione Europea importa oltre il 98% delle terre rare raffinate, con la Cina
ovviamente nel ruolo di principale fornitore, ma è anche sprovvista di
giacimenti importanti.
Uno dei pochi siti promettenti è stato individuato nel 2023 a Kiruna, nella
Lapponia svedese, e secondo l’azienda mineraria di stato svedese LKAB potrebbe
arrivare a soddisfare, una volta a pieno regime, fino al 18% del fabbisogno
europeo di terre rare.
C’è però un enorme problema, oltre a quello già descritto dell’impatto
ambientale: è difficile pensare che possa entrare in produzione prima di almeno
una decina di anni. Troppi, considerato che le battaglie per la supremazia
tecnologica e per la transizione energetica si stanno combattendo ora.
Un discorso a parte merita la Groenlandia, territorio autonomo posto sotto la
Corona danese, ricchissima di materie prime critiche, terre rare e anche uranio,
ma dove le leggi attuali sono molto restrittive in termini di estrazione e che,
per di più, è entrata nel mirino dell’amministrazione Trump, diventando oggetto
di forti frizioni politiche.
L’interesse dell’Unione Europea nei confronti della grande isola artica è
sancito dall’accordo firmato nel novembre del 2023 tra le due parti, che dà il
via a un nuovo partenariato strategico tra i due soggetti, il cui cuore pulsante
è rappresentato dallo sfruttamento congiunto delle materie prime.
Anche in questo caso, però, come per il giacimento di Kiruna, si tratta di un
progetto a lungo termine che difficilmente potrà vedere la luce e dare risultati
concreti in tempi brevi. L’Unione Europea ha quindi deciso di muoversi sulla
scia degli Stati Uniti e della “Nuova Via della Seta” cinese, cercando di
chiudere accordi bilaterali di investimento e scambio commerciale con diversi
paesi ricchi di materie prime critiche.
La strategia “Global Gateway” lanciata nel 2021 rappresenta uno dei più grandi
piani geopolitici e di investimento dell’Unione, che ha messo sul tavolo oltre
300 miliardi di euro fino al 2027, con l’obiettivo dichiarato, tra gli altri, di
diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie critiche.
La Global Gateway, a cui si è aggiunto nel 2023 il Critical Raw Material Act,
che pone obiettivi specifici di approvvigionamento al 2030, ha portato a diversi
accordi fondamentali per la sopravvivenza dei piani di transizione digitale ed
energetica del continente: Argentina, Cile e Brasile in America Latina;
Kazakistan, Indonesia e Mongolia in Asia; Namibia, Zambia, Uganda e Rwanda in
Africa sono alcuni dei paesi con cui la Commissione Europea ha già siglato delle
partnership strategiche o ha intavolato delle discussioni di alto livello per
agevolare degli investimenti comuni nell’estrazione di terre rare, proprio come
fatto dagli Stati Uniti con l’Ucraina.
Considerata la volontà dell’Unione Europea di competere nel settore
dell’intelligenza artificiale, quantomeno per ciò che riguarda l’espansione dei
data center sul territorio, una robusta e diversificata rete di
approvvigionamento delle materie prime critiche è fondamentale.
Come si legge infatti sul sito della Commissione Europea, “nel corso del 2025,
la Commissione proporrà il Cloud and AI Development Act, con l’obiettivo almeno
di triplicare la capacità dei data center europei nei prossimi 5-7 anni e di
soddisfare appieno il fabbisogno delle imprese e delle pubbliche amministrazioni
europee entro il 2035. La legge semplificherà l’implementazione dei data center,
individuando siti idonei e snellendo le procedure autorizzative per i progetti
che rispettano criteri di sostenibilità e innovazione. Allo stesso tempo,
affronterà la crescente domanda energetica promuovendo l’efficienza energetica,
l’adozione di tecnologie innovative per il raffreddamento e la gestione
dell’energia, e l’integrazione dei data center all’interno del sistema
energetico più ampio”.
Il piano non solo è ambizioso in termini di obiettivi, ma tiene strettamente
legate le due facce della strategia generale europea, ovvero lo sviluppo
tecnologico e la transizione verde entro il quale deve essere inquadrato.
Impossibile pensare di fare l’uno o l’altra, tantomeno entrambi, senza le
materie prime necessarie.
AFRICA, VECCHIA E NUOVA TERRA DI CONQUISTA
In questo quadro geopolitico già di per sé complesso, un discorso a parte
meritano i paesi del Sud Globale e in particolare quelli africani, che come si è
visto sono quelli in cui si trovano le maggiori riserve di materie prime
critiche e terre rare.
Il timore, come già raccontato nel reportage dall’AI Summit di Parigi, è che
ancora una volta si vada a configurare un modello di estrattivismo colonialista,
in cui i paesi più ricchi, dove avviene la produzione di tecnologia, si
arricchiranno ancor di più, mentre i paesi più poveri, da dove vengono prelevate
le materie prime, subiranno i devastanti impatti sociali e ambientali di queste
politiche.
Il rapporto “Rare Earth Elements in Africa: Implications for U.S. National and
Economic Security”, pubblicato nel 2022 dal Institute for Defense Analyses, una
società senza scopo di lucro statunitense, è molto esplicito nel prevedere un
aumento dell’influenza del continente africano nel settore e le problematiche
che ciò può comportare.
“Man mano che le potenze globali si rivolgono ai mercati africani per rafforzare
la propria influenza”, si legge nell’executive summary del rapporto, “è
probabile che l’estrazione delle terre rare nel continente aumenti. In Africa si
contano quasi 100 giacimenti di terre rare, distribuiti in circa la metà dei
paesi del continente. Cinque paesi — Mozambico, Angola, Sudafrica, Namibia e
Malawi — ospitano da soli la metà di tutti i siti di giacimento di terre rare in
Africa. Attualmente, otto paesi africani registrano attività estrattiva di REE,
ma a gennaio 2022 solo il Burundi disponeva di una miniera operativa in grado di
produrre a livello commerciale. Tuttavia, altri paesi potrebbero raggiungere
presto capacità produttive simili”.
La parte che più interessa in questo frangente è però il punto in cui i
ricercatori sottolineano come “la gestione delle risorse naturali in Africa e
gli indicatori di buona governance devono migliorare, se si vuole garantire che
i minerali di valore non portino benefici solo alle imprese americane, ma anche
ai cittadini africani”.
Considerando che la “Academy of international humanitarian law and human rights”
dell’Università di Ginevra ha mappato 35 conflitti armati attualmente in corso
nell’Africa subsahariana, di cui molti hanno proprio come causa il possesso
delle risorse minerarie, sembra difficile prevedere che questa volta la storia
prenda una strada diversa da quella già percorsa in passato.
ROTTE ALTERNATIVE
In virtù delle complessità descritte per l’approvvigionamento delle terre rare
e, più in generale, delle materie prime critiche, alcune società stanno
sperimentando delle vie alternative per produrle o sostituirle.
La società britannica Materials Nexus, per esempio, ha dichiarato a inizio
giugno di essere riuscita a sviluppare, grazie alla propria piattaforma di AI,
una formula per produrre magneti permanenti senza l’utilizzo di terre rare.
La notizia, ripresa dalle maggiori testate online dedicate agli investimenti nel
settore minerario, ha subito destato grande interesse, non solo perché aprirebbe
una strada completamente nuova per i settori tecnologico ed energetico, ma
perché sarebbe uno dei primi casi in cui è l’intelligenza artificiale stessa a
trovare una soluzione alternativa per il suo stesso sviluppo.
Secondo Marta Abbà, se anche la notizia data da Material Nexus dovesse essere
confermata, ci vorrebbero comunque anni prima di arrivare alla messa in pratica
di questa formula alternativa. Sempre che – cosa per nulla scontata – la
soluzione non solo funzioni davvero, ma si dimostri anche sostenibile a livello
economico e a livello ambientale.
È più realistico immaginare lo sviluppo di un’industria tecnologicamente
avanzata in grado di riciclare dai rifiuti sia le terre rare che gli altri
materiali critici, sostiene Abbà. Prodotti e dispositivi dismessi a elevato
contenuto tecnologico possono in tal senso diventare delle vere risorse, tanto
che l’Unione Europea ha finanziato 47 progetti sperimentali in questa direzione.
Tra questi, c’è anche un promettente progetto italiano: Inspiree, presso il sito
industriale di Itelyum Regeneration a Ceccano, in provincia di Frosinone. È il
primo impianto in Europa per la produzione di ossidi e carbonati di terre rare
(neodimio, praseodimio e disprosio) da riciclo chimico di magneti permanenti
esausti.
L’impianto di smontaggio, si legge nel comunicato di lancio del progetto, potrà
trattare mille tonnellate all’anno di rotori elettrici, mentre l’impianto
idrometallurgico a regime potrà trattare duemila tonnellate all’anno di magneti
permanenti ottenuti da diverse fonti, tra cui anche hard disk e motori
elettrici, con il conseguente recupero di circa cinquecento tonnellate all’anno
di ossalati di terre rare, una quantità sufficiente al funzionamento di un
milione di hard disk e laptop, e di dieci milioni di magneti permanenti per
applicazioni varie nell’automotive elettrico.
Nonostante questi progetti, l’obiettivo europeo di coprire entro il 2030 il 25%
della domanda di materie prime critiche, tra cui le terre rare, grazie al
riciclo, appare ancora molto distante, considerando che a oggi siamo appena
all’1%.
La strada dell’economia circolare è sicuramente incerta, lunga e tortuosa, ma
allo stesso tempo più sostenibile di quella estrattivista e in grado di
garantire una strategia di lungo periodo per il continente europeo.
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