Se cade Bayrou, cade anche Macron?
Articolo di Aurélie Dianara
In Francia, un nuovo movimento sociale nato in piena estate minaccia di
«bloccare tutto» a partire dal 10 settembre per protestare contro le nuove
misure di austerità annunciate dal governo. Con grande sorpresa di tutti, il
primo ministro François Bayrou ha chiesto un voto di fiducia all’Assemblea
Nazionale l’8 settembre, pur essendo quasi certo di perderlo. A meno di un
improbabile colpo di scena, dovrà quindi rassegnare le dimissioni, il che
potrebbe tagliare le gambe alla mobilitazione in corso – almeno questo è ciò che
spera il presidente Emmanuel Macron.
Mentre la Francia è impantanata da più di un anno in una grave crisi di regime,
la sequenza politica e sociale che si apre questa settimana si preannuncia
quindi decisiva. Segnerà finalmente il crollo della macronia e delle sue
politiche neoliberiste? Potrà costituire un’opportunità per la sinistra di
rottura o rischia di portare al tanto temuto arrivo al potere dell’estrema
destra? Tutto dipenderà dalla forza e dall’evoluzione di questo movimento
popolare, e dalla sua unione con le forze sindacali e progressiste.
L’OSTINAZIONE NEOLIBERISTA DELLA MACRONIA
Lo scorso 15 luglio, sperando senza dubbio di approfittare dell’apatia politica
estiva, Bayrou ha presentato, in una conferenza stampa dai toni apocalittici, il
suo progetto di bilancio per i prossimi anni. Secondo lui, la Francia si
troverebbe «in una situazione di estremo pericolo» a causa del suo indebitamento
eccessivo (114% del Pil) e del livello del suo deficit (5,4% del Pil).
Il primo ministro, membro della coalizione presidenziale, raccomandava quindi
43,8 miliardi di euro di risparmi a partire dal 2026. Risparmi che dovrebbero
essere realizzati, ovviamente, a spese dei ceti sociali più fragili:
un’ennesima riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione, la mancata
sostituzione di un funzionario pubblico su tre, il congelamento delle pensioni,
delle prestazioni sociali e dei finanziamenti degli enti locali, la soppressione
del rimborso di alcuni farmaci, nuove privatizzazioni, ecc. E, come se non
bastasse, la soppressione di due giorni festivi senza compenso salariale, il che
equivarrebbe a far lavorare ogni lavoratore e lavoratrice un trimestre in più,
gratuitamente, nel corso della sua vita. Senza contare che il bilancio
dell’esercito deve ancora essere aumentato (per arrivare a 64 miliardi nel 2030
contro i 32 miliardi del 2017), mentre il bilancio della transizione ecologica,
degli ospedali e dell’istruzione ristagna ben al di sotto del fabbisogno.
Bayrou si ostina quindi a perseguire la politica dei suoi predecessori dall’era
Macron: quella «politica dell’offerta» che consiste nel derubare i poveri per
arricchire i ricchi. Non si parla quindi di ripristinare l’imposta sul
patrimonio (4,5 miliardi di euro persi all’anno), di abolire la flat tax sui
redditi da capitale (9 miliardi all’anno) o di mettere in discussione gli aiuti
pubblici alle imprese concessi senza contropartita sociale o ecologica (211
miliardi all’anno). Eppure sono proprio le politiche di riduzione delle imposte
sulle imprese e sulle famiglie più ricche che hanno aumentato il deficit
pubblico e portato all’attuale situazione di indebitamento. Da quando è salito
al potere nel 2017, Macron ha creato 1.000 miliardi di debiti. Nel frattempo, la
ricchezza delle 500 persone più ricche di Francia è raddoppiata.
Il primo ministro, che ha sostenuto tutti i governi che si sono succeduti
nell’era Macron, è quindi uno dei responsabili di questo aumento del debito
pubblico, che ora vuole far pagare ai meno fortunati. Non sorprende, quindi, che
il Piano Bayrou abbia acceso la miccia.
Il rifiuto di Macron di rispettare il risultato delle urne dopo le elezioni
legislative del luglio 2024, vinte dalla coalizione di sinistra del Nouveau
Front Populaire (Nfp), e la sua ostinazione nel nominare primi ministri
provenienti dalla destra e dal centro-destra, avevano già provocato una crisi
politica e istituzionale senza precedenti. La crisi economica e sociale che si
profila all’orizzonte rischia di essere esplosiva. Inoltre, quest’estate, una
petizione contro la legge Duplomb sull’agricoltura, che prevedeva in particolare
l’autorizzazione dell’acetamiprid (un pesticida tossico), ha raccolto oltre due
milioni di firme, un record per questo tipo di strumento democratico, indicando
già un clima sociale teso.
«BLOCCHIAMO TUTTO»: COME IL PIANO BAYROU HA ACCESO LA MICCIA
Durante tutta l’estate, i media mainstream non hanno mancato di descrivere la
mobilitazione popolare prevista per il 10 settembre come un movimento a volte
«nebuloso» e «confuso», a volte «complottista», «di estrema destra», o
addirittura «guidato dalla Russia». Bisogna dire che lo slogan «Blocchiamo
tutto» appare come un appello proteiforme ripreso da tutte le parti sui social
network.
Gli iniziatori dell’appello sono enigmatici: sarebbe stato lanciato inizialmente
da Les essentiels (Gli essenziali), un collettivo apparso a metà maggio sui
social network, in particolare su Tiktok. Inizialmente marginale, il loro
pubblico è esploso a luglio, all’indomani degli annunci di Bayrou. Sul loro
sito, Les essentiels rivendicano di non avere portavoci e descrivono in
dettaglio le loro proposte in un piano denominato «France souveraine» (Francia
sovrana): uscire dall’Unione europea, alleggerire gli «oneri» a carico dei
padroni, creare un prestito nazionale per riacquistare il debito pubblico e
rilocalizzare l’occupazione tassando le importazioni. Denunciano i media,
accusati di essersi allineati agli interessi dei potenti, e assicurano che la
Francia sarebbe nelle mani di reti segrete (in particolare la massoneria), il
che conferisce loro effettivamente toni complottisti. Oltre a proporre il
divieto di «affiliazioni occulte» per chiunque abbia potere di influenza e di
decisione, chiedono lo scioglimento dei partiti politici, colpevoli secondo loro
di bloccare la democrazia.
Ma il 10 settembre è poi diventato il punto di convergenza di tutte le proteste;
l’effetto valanga dei social network ha diluito i discorsi fascisti e
complottisti e le rivendicazioni sociali hanno preso il sopravvento su tutto il
resto. Sul sito «Indignons-nous, bloquons tout» (Indigniamoci, blocchiamo
tutto), che raccoglie la maggior parte delle iniziative, si parla solo di
opporsi al piano Bayrou e di censurare il governo. Quello che sta emergendo è un
movimento senza un unico vessillo, che si sta costruendo al di fuori delle
organizzazioni tradizionali e che cresce di settimana in settimana, attraverso
assemblee generali locali, gruppi locali «indigniamoci» su Telegram,
condivisioni sui social network, gruppi di lavoro e volantini artigianali. Ogni
gruppo locale è teatro di accesi dibattiti tra ex gilet gialli, elettori di
Marine Le Pen, sindacalisti, insubordinati o semplici cittadini senza etichetta
partitica. Studenti, lavoratori di diversi settori, disoccupati e pensionati
discutono di una fiscalità più equa e dei mezzi per bloccare tutto (rifiutarsi
di consumare, svuotare i conti bancari, bloccare gli assi di trasporto o i
centri logistici, fare lo sciopero generale, effettuare operazioni di pedaggio
gratuito sulle autostrade, manifestare, occupare piazze o rotatorie, ecc.).
Se la genesi del movimento – nato sui social network in relazione alle questioni
di giustizia fiscale, apartitico – può far pensare a quella dei gilet gialli,
c’è una differenza sostanziale: questa volta, la maggior parte delle
organizzazioni di sinistra ha deciso fin dall’inizio di unirsi alle sue fila.
Per quanto riguarda i partiti politici, La France Insoumise (Lfi) in primo
luogo, il Nouveau Parti Anticapitaliste, Révolution Permanente, gli Ecologisti,
il Partito comunista e persino il Partito socialista (Ps) hanno annunciato che
sosterranno o si metteranno al servizio del movimento, pur insistendo
sull’importanza di rispettare la sua indipendenza e autonomia. Una parte dei
sindacati, spinta dalla propria base, ha poi deciso di unirsi al movimento: la
Cgt ha indetto uno sciopero per il 10 settembre, mettendo in guardia dai
tentativi di infiltrazione dell’estrema destra, così come Solidaires e diversi
sindacati locali. La Cfdt e la Fo, più a destra, mantengono una maggiore
distanza per il 10, ma l’intersindacale ha indetto una mobilitazione per il 18
settembre. Anche numerosi sindacati e organizzazioni giovanili hanno invitato a
mobilitarsi il 10 settembre, così come associazioni della società civile – come
Attac –, organizzazioni femministe – come il movimento #NousToutes – e
collettivi che lottano per il clima e l’ecologia – come i Soulèvements de la
Terre.
Il Rassemblement National (Rn), dal canto suo, ha deciso di non associarsi alla
mobilitazione e ha dichiarato che «non ha la vocazione di essere l’organizzatore
di manifestazioni». Ciò non significa, ovviamente, che non ci saranno militanti
o elettori di estrema destra nel movimento, come del resto è avvenuto all’inizio
dei Gilet Gialli. Mentre i macronisti e la destra, ovviamente, resteranno alla
larga dal movimento.
BYE-BYE-BAYROU, BYE-BYE-MACRON?
Di fronte alla prospettiva di questa mobilitazione esplosiva, e sapendo che
rischiava fortemente di essere censurato dal parlamento durante la discussione
del suo progetto di bilancio a settembre, Bayrou ha quindi deciso di mettere
alla prova la fiducia del governo. Tutti i partiti di sinistra (compreso il Ps),
così come il Rn (dopo aver rifiutato otto volte di censurare il governo in due
anni), hanno annunciato fin da subito che non avrebbero votato la fiducia.
Dopo la caduta di Bayrou l’8 settembre sono possibili diversi scenari. Il primo
è che Macron tenti di formare un nuovo governo. Avendo rifiutato per più di un
anno di nominare un ministro proveniente dal Nfp, nonostante fosse uscito
vincitore dalle urne, è improbabile che ora si decida a farlo. Potrebbe decidere
di nominare, per la terza volta dalle elezioni legislative del luglio 2024, un
primo ministro proveniente dalla sua «base comune» presidenziale per portare
avanti il suo programma macronista, ad esempio l’attuale ministro dell’Interno
Bruno Retailleu (Les Républicains) o il suo predecessore Gérald Darmanin
(Renaissance). Ma, poiché le stesse cause producono gli stessi effetti, un nuovo
governo di questo tipo avrebbe di nuovo grandi difficoltà a far approvare un
bilancio e governare, e la crisi di regime sarebbe solo prolungata.
Un’altra possibile variante di questo primo scenario: tentare di formare una
coalizione di governo che vada dalla destra dei Républicains al Ps, cedendo ad
esempio sui due giorni festivi o sul mancato rinnovo dei funzionari pubblici.
L’apparente suicidio politico di François Bayrou può infatti nascondere una
tattica politica: quella di provocare una crisi sui mercati finanziari per
esercitare pressione sul Ps, invitandolo ad agire con «responsabilità». Questo
scenario sembra molto probabile, anche se l’attuale clima di agitazione sociale
e le elezioni comunali in programma nel maggio 2026 potrebbero dissuadere il Ps
– per una volta – dal tradire la sinistra e il programma su cui è stato eletto.
In teoria, Macron potrebbe anche nominare un primo ministro proveniente dal Rn
(che era il primo partito politico alle ultime elezioni), ma quest’ultimo esige
lo scioglimento dell’Assemblea.
Questo è il secondo scenario possibile: un nuovo scioglimento e un ritorno alle
elezioni anticipate, per la seconda volta dall’inizio, nel 2022, del secondo
mandato di Macron. Oltre al Rn, anche Lfi chiede lo scioglimento. Macron ha
annunciato più volte nelle ultime settimane che non scioglierà l’Assemblea se il
governo sarà rovesciato, ma non è sua abitudine mantenere la parola data. Anche
perché una nuova elezione potrebbe assorbire le forze militanti del paese e
esaurire il movimento popolare. Il terzo scenario sarebbe le dimissioni del
Presidente della Repubblica. Dato che è, in definitiva, il primo responsabile
della crisi di regime che sta attraversando la Francia, sarebbe l’esito più
dignitoso dal punto di vista democratico. Inoltre, secondo alcuni sondaggi 67%
dei francesi sarebbe favorevole alla sua dimissione. Ma Macron sembra troppo
attaccato al suo trono per arrivare a questo punto. D’altra parte, Lfi ha già
annunciato che presenterà, per la seconda volta, una mozione di destituzione, ma
questa procedura funziona secondo regole molto rigide e ha poche possibilità di
successo: non è mai successo nell’ambito della V Repubblica.
Mentre il primo scenario, quello della nomina di un nuovo governo, nelle sue
diverse varianti, ci costringerebbe a ripartire per un altro giro sulla giostra
macronista, lo scioglimento o la destituzione implicherebbero un ritorno alle
urne. In questo caso, sarà essenziale un’unione della sinistra su una linea di
rottura con l’attuale sistema di produzione e consumo. L’ultima elezione di
Donald Trump negli Stati uniti e la cocente sconfitta di Kamala Harris lo hanno
dimostrato ancora una volta: quando la sinistra non assume la propria identità
economica e sociale, e quando continua ad armare un regime genocida in Israele,
è l’estrema destra a prevalere. Ma la sinistra è attualmente divisa e alcuni –
in particolare nel Ps – sperano di poter costruire una nuova coalizione
elettorale senza Lfi, il che garantirebbe una sconfitta elettorale per la
sinistra.
Ovviamente, l’esito della crisi politica e le conseguenze dell’8 settembre
dipenderanno dalla forza del movimento sociale che si lancerà il 10 settembre.
Le due cose sono collegate. La questione è sapere se le dimissioni di Bayrou
disinnescheranno la contestazione popolare o se, al contrario, fungeranno da
catalizzatore. Se il popolo scenderà in piazza, se i sindacati si uniranno al
movimento e se si presenterà una sinistra unita, di rottura, in collegamento con
una forte mobilitazione popolare, sarà possibile sconfiggere sia la macronie che
l’estrema destra. Ma nulla è sicuro in questa fase, anche se le prime assemblee
«Bloquons tout» sono strapiene e se questo inizio di anno scolastico ha
decisamente l’aria di una fine di regno.
*Aurélie Dianara è una ricercatrice in storia Europea presso l’Università di
Bochum, membro della redazione della rivista francese Contretemps, e attivista
femminista e queer.
L'articolo Se cade Bayrou, cade anche Macron? proviene da Jacobin Italia.