Tra fango e frontiera: le organizzazioni che resistono tra Calais e Grande-SyntheTre volte a settimana, poco dopo le due e mezza del pomeriggio, il furgone del
Refugee Women’s Centre parte verso Port Fluvial, la fermata dell’autobus più
vicina alla jungle di Grande-Synthe.
All’ombra dei pali della segnaletica, decine di donne aspettano in silenzio:
nuove arrivate o presenze di lunga data, in cerca di un nome sulla lista e di un
sacchetto di beni essenziali.
È il rito ordinario di un luogo che vive nell’attesa – quella di chi
distribuisce aiuti e quella, più incerta, di chi spera di attraversare la
frontiera franco-britannica.
È a queste donne che il Refugee Women’s Centre dedica la sua attenzione.
L’organizzazione distribuisce vestiti, scarpe, prodotti per neonati e,
soprattutto, tende, coperte e sacchi a pelo – gli unici strumenti che permettono
di resistere al lungo e gelido inverno di questa frontiera.
In mancanza di spazi ufficiali, molte di loro vivono in accampamenti informali,
spesso insieme a familiari o amiche, in una precarietà che si rinnova ogni
giorno. Le volontarie del Centre registrano i nomi, raccolgono richieste e,
nelle ore stabilite, tornano con ciò che serve a garantire un minimo di
sopravvivenza a chi è costretto ad attendere ancora.
Reportage e inchieste/Confini e frontiere
LE INVISIBILI: DONNE IN MOVIMENTO TRA CALAIS E GRANDE-SYNTHE
Resistere e sopravvivere ai margini della frontiera franco-britannica
Aurora Porcelli
30 Giugno 2025
Due volte a settimana, le registrazioni servono anche a organizzare un momento
diverso: la possibilità, rara, di una doccia calda lontano dalle tende. Le
volontarie del Refugee Women’s Centre accompagnano le donne fino a una palestra
messa a disposizione dal comune, dove possono lavarsi, cambiarsi, scegliere
nuovi vestiti. Mentre alcune si concedono pochi minuti di silenzio sotto
l’acqua, i bambinə giocano con i giocattoli sparsi sul pavimento – un frammento
di normalità in mezzo alla precarietà quotidiana.
Il Women’s Centre non è solo in questo lavoro quotidiano di sostegno. Tra Calais
e Grande-Synthe opera una rete fitta di organizzazioni che, con strumenti
diversi, cercano di rispondere all’emergenza umanitaria e di colmare tale vuoto.
Questa rete di solidarietà è fluida ma fortemente interconnessa: le associazioni
si coordinano, condividono informazioni e risorse, si alternano nei turni per
garantire una presenza costante sul campo. In stretta collaborazione con
Utopia56 – attiva soprattutto di notte e durante le emergenze, come i naufragi –
il Women’s Centre mantiene aggiornati i registri delle famiglie da assistere.
Quando un’organizzazione conclude il proprio turno, l’altra raccoglie i nomi
delle persone in difficoltà e li trasmette al mattino seguente, così che nessunə
venga dimenticatə. Si tratta di un sistema fondato su comunicazioni rapide e
fiducia reciproca, ma è proprio questa interdipendenza che permette di non
lasciare indietro nessunə.
Eppure, anche questa rete così compatta arriva ogni giorno al limite delle
proprie forze. La solidarietà tra organizzazioni permette di spingere il lavoro
oltre ciò che sarebbe possibile da sole, ma non basta a compensare le fragilità
profonde di questa frontiera.
Gli sgomberi si susseguono, le risorse restano scarse e l’adattamento all’ultimo
minuto diventa l’unico modo per garantire una presenza costante in un contesto
dove pianificare a lungo termine è semplicemente impossibile.
La continua necessità di ripensare distribuzioni, trasporti e turni genera una
pressione crescente su volontarie e volontari, che non solo devono fare i conti
con mezzi ridotti, ma anche con stanchezza e la frustrazione di offrire aiuti
pensati per l’emergenza in un contesto che di emergenziale ha solo la durata
infinita.
In questo contesto di improvvisazione continua, la capacità di adattamento
diventa parte stessa del lavoro. Per capire cosa significhi lavorare in un
contesto così instabile, ho incontrato Caro, che ha trascorso quasi un anno
lungo questa frontiera: prima come volontaria del Refugee Women’s Centre, poi
come play worker per Project Play – organizzazione che sostiene e tutela bambinə
e famiglie in movimento offrendo attività ludiche, supporto alla genitorialità e
assistenza personalizzata – e infine come Activities Coordinator, ruolo che ha
ricoperto per oltre cinque mesi.
Insieme abbiamo parlato di tutto ciò che spesso resta invisibile dall’esterno:
di come lavorare sul campo cambi la percezione della frontiera, dei momenti più
difficili o significativi nel coordinamento dei progetti, delle sfide quotidiane
e di ciò che chi osserva dall’esterno fatica a comprendere di questa realtà.
Lavorare sul campo, racconta Caro, ha cambiato radicalmente la sua percezione
della frontiera. Prima di arrivare a Calais, conosceva la situazione solo in
termini generali; essere lì le ha mostrato quanto le condizioni di vita delle
persone in movimento fossero disumane e degradanti.
Famiglie che avevano vissuto per anni in Germania, costruendo una vita stabile,
si trovano ancora a rischiare la vita al confine, esposte a violenze e
privazioni quotidiane. Come dice Caro: “Non avevo idea di quanto fossero
effettivamente disumane e degradanti le condizioni di vita – anche dopo anni di
lavoro con richiedenti asilo in Germania.”
I momenti più difficili sono legati alla crescente precarietà del contesto:
sgomberi frequenti, aggressioni da parte della polizia e di gruppi di estrema
destra, condizioni di vita sempre più pericolose negli insediamenti informali.
Come coordinatrice, il peso maggiore è bilanciare la gestione di emergenze,
notizie di violenze e testimonianze traumatiche provenienti da bambinə, insieme
al benessere dei volontari, tutti conviventi nello stesso spazio.
Approfondimenti/Confini e frontiere
L’ARITMETICA DELLE POLITICHE MIGRATORIE: IL CONFINE TRA CALAIS E DOVER
Accordi bilaterali e sgomberi sistematici trasformano vite in statistiche e
diritti in eccezioni
Aurora Porcelli
9 Ottobre 2025
I momenti più significativi nascono dai piccoli successi quotidiani: vedere i
bambinə divertirsi durante le attività organizzate da Project Play, ritrovare un
po’ di autonomia e leggerezza anche solo per qualche ora, conferma l’importanza
di spazi sicuri in cui possano giocare.
Le sfide organizzative sono numerose. I progetti sul campo, spesso a capacità
ridotta e con risorse limitate, dipendono quasi interamente dai volontari, che
provengono da background diversi e devono convivere e collaborare in condizioni
stressanti.
Caro conferma come l’imprevedibilità della frontiera renda impossibile
prepararsi a tutto: non si sa mai se un giorno porterà sgomberi, testimonianze
di violenze, casi di protezione preoccupanti o il numero di bambinə che
parteciperanno alle attività.
Sottolinea: “È semplicemente impossibile prepararsi a tutto: ogni giorno porta
qualcosa di completamente nuovo.”
Infine, quando le chiedo cosa secondo lei le persone al di fuori di Calais non
riescano a capire di questo contesto, lei afferma: «La gravità della situazione,
davvero. La mia prospettiva, probabilmente, è influenzata dal fatto che sono
tedesca. Ma la maggior parte delle persone sembra completamente all’oscuro di
ciò che sta accadendo a Calais, o crede che sia ‘qualcosa che è successo nel
2015’. Forse per la mancanza di copertura mediatica, forse per ignoranza. Almeno
in Germania, molti sembrano completamente inconsapevoli delle conseguenze reali
che discorsi e politiche razziste e discriminatorie hanno sulle persone che sono
venute in Germania a chiedere asilo e, più in generale, nell’Unione Europea».
Eppure, tra sgomberi, risorse limitate e incertezze quotidiane, la forza di
questa rete risiede nella capacità di non arrendersi mai: ogni piccolo gesto,
ogni turno organizzato, ogni momento di gioco per i bambinə diventa un atto di
resistenza e di cura, la dimostrazione concreta che, anche in un contesto ostile
e imprevedibile, la solidarietà può farsi presente e lasciare un segno.