
Sogni, fagotti, uomini soli: lo sguardo di Vallinotto sull’emigrazione
Popoff Quotidiano - Friday, November 28, 2025“Vite dure”, a Cuneo la mostra fotografica del reporter torinese. Cronache di migrazioni, fatiche, solitudini
La durezza del lavoro, la lontananza dagli affetti, i legami sospesi, ma anche la solidarietà, la resilienza e la capacità di reinventare la propria vita altrove. Le “vite dure”.
Curata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea, la mostra espone un centinaio di fotografie in bianco e nero dedicate al tema dell’emigrazione degli Italiani fra gli anni ’50 e ’70, scattate da Mauro Vallinotto. Questo artista di Torino, classe 1946, si è avvicinato alla fotografia alla fine degli anni ’60, concentrandosi in particolare sulle questioni sociali di quel periodo. I suoi primi scatti ritraevano le condizioni degli immigrati provenienti dal Sud Italia e le lotte dei lavoratori della FIAT: lavori che lo hanno portato immediatamente a collaborare con il settimanale L’Espresso. “Ho avuto la fortuna di vivere in quella Torino che a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 era uno straordinario laboratorio politico e sociale […] la città-fabbrica di Torino era fatta di tram e biciclette, case fatiscenti, masse di uomini e donne che scendevano dei treni dal Sud con le valigie legate con lo spago […] il loro era un lavoro fatto di sudore e fatica, sporco […] era una umanità dolente così tragicamente simile a quella incontrata in quegli stessi anni nei miei viaggi in Belgio e Germania fatti per raccontare l’odissea delle migliaia di nostri immigrati approdati in terre per loro sconosciute per cultura, lingua e clima […] una fatica di vivere resa più pesante dagli atteggiamenti ostili verso i nuovi arrivati”, scrive Vallinotto nell’Introduzione al catalogo.
Le immagini, acquisite dall’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo, raccontano uno dei capitoli più intensi della storia italiana recente: l’emigrazione di migliaia di italiani o dal Sud in cerca di un futuro migliore nelle fabbriche del Nord, in Germania o in Belgio.
All’inizio degli anni ’70, l’Italia conobbe una nuova ondata migratoria, sia interna che verso l’estero, spinta dalla ricerca di lavoro nelle grandi fabbriche e nei distretti industriali europei. Dal Sud, migliaia di giovani si trasferirono a Torino, attratti dalle campagne di assunzione della FIAT: per molti l’integrazione fu difficile, caratterizzata da soffitte fatiscenti e quartieri ghetto costruiti in fretta e furia intorno alle fabbriche. Oltre confine, la Germania Ovest divenne una destinazione privilegiata. A Wolfsburg, la Volkswagen fece arrivare in treno centinaia di immigrati italiani, alloggiandoli in villaggi operai separati dalla città. Ancora più dure erano le condizioni di coloro che erano impiegati dalle Ferrovie Federali, costretti a vivere nei Bauzug, treni trasformati in cucine e dormitori, costantemente in movimento e senza una dimora fissa. In Belgio, l’estrazione del carbone continuava ad attrarre migranti. Il lavoro rimaneva pesante e afflitto da gravi malattie professionali, ma i nuovi arrivati – giovani siciliani, calabresi e sardi con un background educativo più solido – alimentarono le lotte sindacali e contribuirono a migliorare le condizioni di vita e di lavoro.
La mostra, divisa in cinque sezioni, ci restituisce per immagini questa storia.
Prima sezione: Sogni e fagotti.
Un viaggio lunghissimo, ventitré ore dalla Sicilia al Piemonte attraversando lo Stivale. Le valigie di cartone legate con lo spago racchiudono abiti leggeri e i ricordi di una vita. Uomini di tutte le età sono assiepati nelle carrozze di quei treni dai nomi quasi beffardi: la Freccia del Sud, il Treno del Sole. Dai finestrini aperti entrano i profumi delle terre che stanno lasciando: l’azzurro del mare, le spiagge incastonate nelle rocce laviche, i paesi arroccati sulle colline. Tutto si dissolve lentamente nella corsa verso le fabbriche del Nord. Come cantava Sergio Endrigo: “il treno che viene dal Sud / non porta soltanto Marie /con le labbra di corallo. / Porta gente nata tra gli ulivi, / porta gente che va a scordare il sole”.

Torino: il Treno del Sole alla stazione di Torino Porta Nuova
All’arrivo nella stazione di Porta Nuova, dove le pensiline non bastano a contenere tutti i vagoni, questi migranti in cerca di un futuro si trovano catapultati in un ambiente ostile, sconosciuto. Solo chi ha già un contatto – parenti o amici – sa dove andare. Gli altri, arrivati tra gli anni ’50 e ’60, si muovono spaesati in una città travolta dalla richiesta di manodopera delle fabbriche FIAT e dalla conseguente emergenza abitativa. Tra occupazioni abusive e sgomberi, molti si arrangiano nelle baracche di Borgo San Paolo e di Altessano, oppure si stipano nelle fatiscenti soffitte del centro storico, dove i letti vengono affittati a rotazione, seguendo i turni del lavoro in fabbrica. Si costruiscono in fretta interi quartieri-ghetto, dalle Vallette a Mirafiori Sud, che anziché integrare finiscono per amplificare le distanze sociali e culturali. Nelle strade e nei linguaggi quotidiani emergono diffidenza, pregiudizi, epiteti dialettali inventati per marcare la differenza.

Kästorf: l’arrivo di un emigrato italiano nel villaggio operaio della Volkswagen
Eppure, dentro quelle periferie nate come zone di confine, qualcosa cambia. Le famiglie si radicano, i bambini crescono, le abitudini si fondono. Le tradizioni del Sud resistono e si adattano al ritmo della città industriale. Le feste di quartiere, le voci dei mercati mescolano inflessioni e ricette, e la domenica tutti a giocare a carte, con la bianca camicia d’ordinanza a maniche corte, come nelle piazze dei paesi che hanno lasciato, diventando parte del paesaggio torinese.
Una famiglia di emigrati
Seconda sezione: Una vita sui binari
La seconda sezione è dedicata all’emigrazione italiana in Germania, dove gli uomini venivano talvolta impiegati come operai itineranti sui treni.
Negli anni Settanta la Deutsche Bundesbahn, le Ferrovie Federali Tedesche, utilizzava per la manutenzione della rete ferroviaria della Germania Ovest una singolare struttura di lavoro: i Bauzug, i “treni operai”. Erano convogli speciali che univano officina, dormitorio e mensa, viaggiando lungo il Paese per eseguire lavori di riparazione o di controllo ovunque si presentasse un guasto. Le carrozze erano un’eredità delle ferrovie del Terzo Reich: vecchi vagoni con piccole piattaforme alle estremità che non permettevano facilmente il passaggio da un vagone all’altro.
Un emigrato italiano sul treno-alloggio della DB
Ognuna aveva una funzione precisa: alcune erano dotate di letti a castello e cuccette, altre adibite a cucina o a spazio comune. In certi casi c’era persino un cuoco incaricato di preparare i pasti per chi non voleva arrangiarsi. Erano camper su rotaia, microcosmi mobili capaci di offrire tutto il necessario per vivere e lavorare.
A dirigere i lavori erano capisquadra tedeschi, ma la manodopera era composta in gran parte da migranti italiani, arrivati in Germania negli anni del boom economico. Per molti di loro il Bauzug rappresentò un destino di isolamento: non esistendo confini regionali o gerarchie territoriali, i treni operai si muovevano dove serviva, da Monaco a Francoforte, da Amburgo a Stoccarda. Ogni intervento poteva durare giorni o settimane, impedendo di fatto ai nostri connazionali non solo di stabilirsi in un luogo o costruirsi una famiglia, ma anche, più semplicemente, di ricevere la posta da casa, vivendo in una precarietà costante, sospesi tra una fermata e l’altra, lontani dagli affetti e dalla stabilità, nomadi loro malgrado.
La terza sezione: Uomini soli
Uomini soli è dedicata agli emigrati italiani alla Volkswagen di Wolfsburg, una vicenda collettiva spesso dimenticata.
Si tratta di migliaia di lavoratori, maschi, giunti nella Germania Ovest dopo l’accordo bilaterale tra Roma e Bonn del 1955. Sono i Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti”: reclutati dal Sud – siciliani, calabresi, lucani – spesso senza istruzione né conoscenza del tedesco, a volte persino incapaci di esprimersi in un italiano corretto.
Ad accoglierli è Wolfsburg, città senza radici antiche, fondata nel 1938 come “Stadt des KdF-Wagens”, la città dell’auto del popolo voluta dal regime nazista. Distrutta dalla guerra, rinasce nel dopoguerra attorno alla Volkswagen, diventando negli anni Cinquanta uno dei motori del miracolo economico tedesco, a soli 18 km dal confine con la DDR.
Un emigrato italiano in Germania nella sua cucina di fortuna
I primi italiani arrivano nel 1962, ospitati nelle baracche lasciate dall’esercito britannico dopo l’occupazione, poi trasferiti negli alloggi di Kästorf, un quartiere-dormitorio costruito dall’azienda alla parte opposta della città, quasi a sancirne l’isolamento fisico e sociale.Fuori dalla fabbrica, Wolfsburg offre ben poco: nessun centro storico, pochi svaghi, una vita scandita dal lavoro. Eppure, su poco più di centomila abitanti negli anni Sessanta, oltre ventimila sono italiani: tanto che la città viene chiamata “la più italiana della Germania”.
Kästorf, Germania Ovest. Le note di una fisarmonica contro la malinconia nel villaggio della Volkswagen.
Quello degli operai italiani è un mondo interamente maschile, segnato da turni estenuanti alla catena del Maggiolino, il modello di punta della Volkswagen, dove si lavora piegati dentro le scocche o sollevando portiere e sedili a mano.
Wolfsburg: un operaio italiano al lavoro sul maggiolino Volkswagen
Le serate scorrono nei Kaffeehaus, tra partite a carte o a biliardino e le pagine della Gazzetta dello Sport che arriva con giorni di ritardo.
Kästorf: Partite a tressette nella Kantine del villaggio
Col tempo, quel mondo si apre. Molti dei Gastarbeiter, partiti per restare “solo qualche anno”, mettono radici. Arrivano le famiglie, nascono figli che parlano tedesco come lingua madre. Seconde e terze generazioni perfettamente inserite nel tessuto sociale e culturale della città.
Una famiglia di emigrati italiani
Quarta sezione: Ultima fermata Mirafiori
L’approdo era sempre lo stesso: la grande fabbrica di Mirafiori, con i suoi ritmi serrati e implacabili che ti prendevano appena varcavi i cancelli d’ingresso. Nel grande stabilimento della Fiat la vita era scandita dai turni in un luogo di lavoro dove contavano i minuti per entrare, uscire, mangiare, andare alla toilette (a discrezione del capo reparto) e, soprattutto, contavano i secondi nella scansione delle operazioni che impegnavano gli operai quasi sempre in posizioni assurde, accucciati sui pianali delle auto o sdraiati sotto i telai degli autocarri.
Torino, 1969: Un guardiano alla Porta 8 della FIAT Mirafiori
Anche a colonna sonora era sempre la stessa, per ore: i soffitti che sorreggevano i convogliatori per far viaggiare motori e scocche erano come un cielo buio; i pavimenti avevano il colore del catrame e tutto, in qualsiasi reparto, era invaso dal fragore e dal calore: le scintille delle saldatrici, lo sferragliare delle catene di montaggio, sibili, getti d’acqua e d’aria compressa, il clangore delle lamiere piegate, le voci di chi urlava all’orecchio del compagno per farsi sentire.
Torino: un metalmeccanico dello stabilimento Fiat OM autocarri
E poi, i 20 minuti per consumare il pranzo nel barachin portato da casa, prima che le lotte sindacali dell’Autunno caldo portassero alle conquiste sancite dallo Statuto dei lavoratori nel 1970. Così ogni giorno, che piovesse o ci fosse il sole, così come l’alternarsi del giorno e della notte nella rotazione dei turni nei reparti.
Rivalta di Torino: il barachin per gli operai nella mensa della Fiat
Andare e tornare dalla Fiat significava tante cose: tram, pullman, treni, biciclette, con il tesserino di riconoscimento tra i denti da mostrare agli ingressi ai sorveglianti avvolti in cupe mantelline. E a fine turno, la corsa tra le pozzanghere del piazzale sterrato della vecchia stazione del Lingotto, dove, violando ogni regola di sicurezza, ci si arrampicava dalla massicciata dei binari sui vagoni per trovare uno spazio dove abbandonarsi al sonno.
E si dormiva, andando e tornando: sui bus navetta, sui pullman, sul tram della linea 10 con il capolinea “FIAT MIRAFIORI” scritto in nero sulla fiancata. Teste reclinate, busti appoggiati al sedile davanti: la spossatezza del dopo, la consapevolezza dell’implacabile appuntamento del giorno seguente.
Torino: la ressa dei lavoratori pendolari per trovare un posto sul treno del ritorno
Quinta sezione: Neri come il carbone.
Le foto sono scattate nel cuore del Belgio industriale degli anni Settanta, nella regione di Charleroi, dove la vita dei minatori italiani si consuma tra le gallerie del carbone e i villaggi operai.
La Louvière: una strada del quartiere costruito per ospitare i minatori di Bois du
Il ricordo della tragedia di Marcinelle, dove nel 1956 persero la vita 136 connazionali, è una ferita lontana dal rimarginarsi.
Marcinelle: il cimitero dei minatori italiani morti nella tragedia del 1956
Le miniere restano luoghi segnati da incidenti e malattie professionali: asbestosi, la silicosi e le intossicazioni da gas sono presenze quotidiane e letali. Ma a questa fatica si aggiunge la minaccia incombente della chiusura: il carbone belga non è più competitivo e il piano di smantellamento delle miniere procede inesorabile, innescando un’ondata di disoccupazione che colpisce in primo luogo i lavoratori immigrati.
La Louvière: un minatore appena uscito da un pozzo
Nelle aree dell’Hainaut e del Limburgo, il “Paese Nero”, gli uomini che risalgono dai pozzi, volti scavati, corpi anneriti dalla polvere, occhi che cercano la luce dopo ore di buio, sembrano ignorare le ombre sul loro futuro.
Un minatore negli spogliatoi della miniera di Bois du Luc
Dopo la doccia, si cambiano in spogliatoi senza armadietti, dove gli abiti sono custoditi in piccole borse di tela appese a catene al soffitto per prevenire l’accumulo di pulviscolo.
Gli spogliatoi della miniera di Bois du Luc
Fuori dalle miniere, la vita è dura. I villaggi operai si allineano ai piedi dei terril, le colline nere di scarti minerari. Case identiche, porte in fila lungo la stessa strada, come al Carré du Bois-du-Luc di La Louvière. Nessuna cucina comune, pochi mobili, spesso neppure i vetri alle finestre. Tutto è da costruire, persino la propria quotidianità.
Waterschei: le baracche che ospitano i minatori italiani
Sono quasi tutti uomini soli. I più anziani, emigrati all’inizio degli anni Cinquanta (principalmente bergamaschi e abruzzesi), trascorrono le sere nei bar per italiani o nelle cantines, dove un bicchiere di birra aiuta a dimenticare la fatica e il buio.
Waterschei: Il circolo ritrovo dei minatori italiani del Limburgo
I più giovani, invece, provenienti dal Sud (siciliani, calabresi, pugliesi), non hanno più gli occhi rivolti solo al paese d’origine. Sono la seconda generazione di migranti, e il loro atteggiamento verso il Paese ospitante è radicalmente mutato. Non si sentono più solo ospiti o manodopera usa e getta. Di fronte alla crisi e alle discriminazioni, si organizzano sindacalmente rivendicando pari diritti. Da lavoratori invisibili, diventano protagonisti di una nuova stagione dell’emigrazione italiana: quella dell’integrazione, seppur difficile e combattuta, in un Belgio che sta chiudendo un capitolo fondamentale della sua storia industriale.
Bruxelles: una manifestazione sindacale degli emigrati italiani in Belgio
Il percorso espositivo accompagna il visitatore in un viaggio tra volti segnati dalla fatica, gesti ripetuti accanto ai macchinari in catene di montaggio frenetiche, corpi coperti di polvere e sudore e luoghi malsani, trasporti inadeguati per i pendolari che testimoniano la fatica e la speranza di chi partiva. Sono immagini che mostrano la durezza delle condizioni di lavoro ma rivelano anche la forza e la dignità dei lavoratori, protagonisti silenziosi della costruzione della modernità. I primi piani che spiccano nelle immagini, l’attenzione riservata agli sguardi, la ricerca dei particolari e delle specificità delle situazioni e degli ambienti sono assai diversi dalle immagini cui la cronaca c’è abituati in questi anni, quelle delle folle anonime rinchiuse nei campi di raccolta, di uomini indistinti accalcati su gommoni, di masse umane stipate su carrette del mare, volte a incrementare la “sindrome da invasione” alimentata dalla destra, che fa dell’emigrazione una questione di cronaca nera, di allarme sociale, di pubblica sicurezza, dimenticando le storie personali che stanno dietro ad ogni partenza, ad ogni viaggio e, nella migliore delle ipotesi, ad ogni arrivo. Le foto di Vallinotto, invece, rivelano grande sensibilità e profonda umanità nel cogliere dietro ai volti neri dei minatori, alle tute degli operai, alle valigie di cartone vicende umane difficili, fatte di fatica e sradicamento.
Con uno sguardo partecipe e privo di retorica, Vallinotto restituisce la complessità di quell’esperienza collettiva. La mostra non si limita a documentare, ma invita a riflettere su un’esperienza collettiva che ha segnato il Novecento e continua a parlare al presente.
I curatori hanno scelto di non confrontare esplicitamente il passato e il presente di emigrazione/immigrazione attraverso la giustapposizione di immagini di epoche diverse, ma hanno lasciato alla potenza delle foto di Vallinotto “un compito maieutico” – come lo definisce il curatore Gigi Garelli -, permettendo all’occhio del visitatore la libertà di individuare i termini di un confronto. “oggi gli immigrati di quegli anni sono stati sostituiti dai maghrebini. dei rumeni, dagli albanesi, dai turchi e dei profughi in fuga dalle guerre mediorientali, la fatica di vivere però è rimasta la stessa: nelle loro storie, drammatiche e a volte disumane, dovremmo ritrovare rifuggendo ogni atteggiamento demagogico populista, l’eco delle esperienze e delle speranze che accompagnava il viaggio dei nostri immigrati” sottolinea Vallinotto nell’Introduzione al catalogo.
La mostra sarà aperta fino al 30 novembre il venerdì (dalle 17 alle 19), sabato e domenica (dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19). Nei giorni infrasettimanali, per scuole e visite su prenotazione al 349 193153. Sala del Collegio dei Geometri e Geometri Laureati di Cuneo via San Giovanni Bosco 7h
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