Gli sguardi coloniali sulla Palestina

Popoff Quotidiano - Tuesday, December 2, 2025

Il genocidio nella didattica della storia. La persistenza di “sguardi coloniali” sul passato influenza la comprensione del presente

Il contributo di Marco Meotto al convegno La scuola non si arruola, organizzato il 4 novembre 2025 - in polemica con il divieto del ministro - da Osservatorio contro la Militarizzazione delle scuole e dell’Università e CESTES

Premessa
Il contributo, pensato come uno stimolo alla riflessione nel campo della didattica della storia, è stato elaborato per il convegno La scuola non si arruola, organizzato dall’Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole e dell’Università e dal CESTES (Centro Studi sulle Trasformazioni Economico-Sociali).
Il convegno non si è mai svolto nella sua proposta originale, perché, con un’inedita e preoccupante scelta censoria il Ministero dell’Istruzione del Merito ha intimato al Cestes (Ente accreditato per l’aggiornamento e la formazione dei docenti) di sospendere l’iniziativa e ne ha oscurato la visibilità sulla piattaforma S.O.F.I.A. per l’aggiornamento dei docenti, poiché in essa “non appare coerente con le finalità di formazione professionale del personale docente presentando contenuti e finalità estranei agli ambiti formativi riconducibili alle competenze professionali dei docenti”.
Con un atto di disobbedienza civile l’Osservatorio ha ugualmente svolto il convegno, riorganizzando gli interventi e ridefinendo il titolo sulla base di quanto accaduto. Il convegno “La scuola non va alla guerra. L’educazione alla pace risponde alla repressione” è stato il nuovo titolo.
Lascio a chi leggerà le pagine che seguono giudicare se le riflessioni offerte siano o meno “coerenti con le finalità di formazione del personale docente”.

Introduzione

I propositi del contributo sono due: il primo è proporre un aggiornamento dei paradigmi di riflessione storiografica sui fenomeni genocidari nella storia del ‘900, il secondo è mostrare quanto la persistenza di “sguardi coloniali” sul passato influenzi la nostra comprensione del presente.
A tenere insieme i due propositi è l’esigenza – imposta dal momento storico che stiamo attraversando – di cogliere lo stretto collegamento tra i processi di riarmo, la risignificazione semantica di termini come “guerra”, “difesa” e “pace” e la permanenza delle strutture profonde del modello dello “stato-nazione” nell’immaginario che ancora oggi domina nella società e, di riflesso, nella scuola.

Nel ragionamento si proverà a mostrare come il dispositivo militare non sia un semplice strumento dello Stato, ma il braccio armato di quella logica di omogeneizzazione e di difesa dei confini – fisici e identitari – che, portata all’estremo, produce la categoria del ‘nemico interno’ e rende pensabile la sua eliminazione.

La militarizzazione della società è così sia un sintomo che un moltiplicatore della logica eliminatoria alla base dei genocidi.

  1. Oltre il paradigma dell’eccezionalità

Il Novecento è stato spesso definito il “secolo dei genocidi”[1]. Tuttavia, la didattica della storia nella scuola ha spesso trattato questi eventi come mostruose eccezionalità, insistendo sulla specificità irripetibile di ogni fenomeno. Questo è valso in particolar modo per la didattica della Shoah[2]. Ancora più spesso la connotazione di tali fenomeni storici è stata all’insegna della categoria del “crimine”. Di questo risente senz’altro la stessa definizione di “genocidio”, così come pensata dal giurista Raphael Lemkin negli anni Quaranta del Novecento e poi introdotta nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1948.

Una prospettiva storiografica improntata all’eccezionalità e alla lettura in senso criminale del genocidio come negazione assoluta dei diritti umani, pur legittima nella sua attenzione alle specificità dei singoli contesti, ha spesso trascurato di indagare le chiavi di lettura che interpretano il genocidio come un fenomeno strutturale e ricorrente nella modernità, strettamente collegato allo sviluppo dello Stato-Nazione, e come un atto politico in senso proprio.

Tra le più recenti, si distingue la lezione dello storico Mark Levene – ancora non tradotto in Italia – che vede nel genocidio non certo un’anomalia, ma un’esperienza centrale dell’epoca degli stati-nazione, un lato oscuro della modernità stessa[3].

Per Levene il nodo cruciale è che il genocidio si manifesta come possibilità più propria solo all’interno delle strutture e delle ideologie caratteristiche della modernità[4]. Lo Stato-Nazione, con la sua ossessione per l’omogeneità culturale e linguistica, trasforma le sue minoranze in un “problema” da risolvere, in un corpo estraneo da espellere o al limite da ridurre in condizioni di totale subalternità, per raggiungere la piena coincidenza tra popolo, territorio e sovranità.

Con scopi di questo genere si intrecciano mezzi tipici della modernità: l’approccio ingegneristico alla realtà, la fiducia nella capacità di pianificare e rimodellare la società secondo schemi razionali, la centralità del complesso militare-industriale e la progressiva militarizzazione del controllo sociale. Quando questi mezzi si combinano con forme di nazionalismo esclusivo o di ideologie totalizzanti, gli esiti possono essere un piano di distruzione o annientamento di parti o di intere componenti della popolazione. Questo paradigma può valere indifferentemente dall’ideologia al potere, dal momento che – ad esempio – anche all’interno dell’Unione Sovietica (o di altri regimi comunisti) forme di sistematica aggressione violenta nei confronti di gruppi di popolazione identificata su base etnica hanno avuto luogo attraverso pratiche ricorrente nella storia dello stato moderno. Basti pensare alla continuità di pratiche che sussiste tra la persecuzione dei circassi sotto il dominio zarista e le politiche di deportazione e annientamento di tatari e “tedeschi del Volga” in epoca staliniana[5].

Il confine tra difesa dai nemici esterni e eliminazione dei nemici interni, in questo quadro, diventa sempre più labile, e l’apparato militare diventa lo strumento principe per entrambi gli obiettivi. Questo accade perché solo lo Stato moderno possiede quegli strumenti – come la macchina burocratica, i sistemi di trasporto o la tecnologia seriale – che rendono possibile lo sterminio di massa, con un’efficienza industriale, impensabile in epoche precedenti. È in fondo questa anche la tesi sostenuta nel 1989 da Bauman nel noto Modernità e Olocausto[6]: la Shoah va intesa come il punto di approdo di un percorso storico pregresso e non come un’aberrazione inspiegabile.

Anche dal punto di vista dello sviluppo politico, è in fondo il concetto moderno di sovranità a creare i presupposti di uno spazio politico chiuso in cui è lo Stato a detenere il diritto incontestabile di fare ciò che vuole con la propria popolazione. Le implicazioni di questa visione sono profonde e scomode: significa che il potenziale genocidario non è un mostro esterno, ma è insito nelle strutture stesse del mondo in cui viviamo, un’ombra proiettata dalla luce stessa della modernità[7].

  1. Le politiche della memoria sacralizzata

L’intreccio tra la storia dello Stato-Nazione e l’esito potenzialmente genocida delle sue politiche si scontra con il paradosso delle politiche della memoria pubblica edificate negli ultimi decenni.
Le solennità pubbliche per commemorare la Shoah – si pensi al Giorno della Memoria – sono senza dubbio momenti del calendario civile di grande valore. Hanno perseguito l’intento di trasferire il ricordo della persecuzione dal dominio esclusivo dei sopravvissuti e degli storici per consegnarlo alla coscienza collettiva, divenendo un rito laico molto importante per l’Europa postbellica. Non mi soffermo in questa sede sulle riflessioni, molto discusse nel dibattito pubblico, sull’industria culturale della memoria e sulle sue implicazioni semiotiche[8].

Mi limito a segnalare che è proprio nella sacralizzazione pubblica che si è assistito alla cristallizzazione della Shoah entro il paradigma dell’eccezionalità e del “fatto criminale”[9].

Inquadrare lo sterminio principalmente come un crimine mostruoso, un orrore che travalica la comprensione, se da un lato ne afferma l’inaudita gravità, dall’altro ne occulta la natura profondamente politica. La narrazione dell’eccezionalità è una cornice rassicurante, in un certo senso, perché colloca il male al di fuori del circolo della normalità politica moderna, come un incidente di percorso nella storia.

Tuttavia, la lezione politica più scomoda e al tempo stesso più necessaria della Shoah ci impone di capire che essa non fu un meteorite piovuto dal nulla sul suolo civile d’Europa, bensì l’esito di processi storici profondi e inquietantemente connessi alla nostra storia. Ci sono ragioni storiche della Shoah che, in fondo, ci parlano in modo diretto di noi: del nostro rapporto con il mondo colonizzato e con le alterità che turbano l’ideale dell’omogeneità dello Stato-nazione[10].

Ciò significa affermare che la Soluzione Finale fu il prodotto estremo di una cultura che aveva già sperimentato, ai margini degli imperi, vale a dire nelle colonie, tecniche di segregazione, controllo e annientamento di popolazioni ritenute “inferiori”. Per quanto riguarda la storia tedesca, ad esempio, il genocidio dei popoli Herero e Nama nell’Africa Sud-Occidentale tedesca – come vedremo – ne fu non solo un semplice prologo, ma un laboratorio dove si testarono ideologie e pratiche che sarebbero state trasposte, pochi anni dopo, nel cuore dell’Europa[11].

Invece, insistere esclusivamente sul “paradigma criminale” per presentare didatticamente la Shoah vuol dire concentrarsi solo sull’epilogo, trascurando il lungo e oscuro percorso che a quell’esito ha condotto. È un percorso che intreccia le leggi razziali europee con le politiche di sfruttamento coloniale e con le formulazioni giuridiche che le hanno accompagnate, che pone accanto alla definizione giuridica del “nemico interno” la paura dell’alterità che minaccia la purezza della comunità nazionale.

La focalizzazione sull’eccezionalità ha così reso difficile integrare la Shoah in una storia più ampia della violenza del Novecento, non tanto sottraendola al confronto comparativo con altri genocidi o progetti di pulizia etnica – aspetto che, invece, nell’uso politico della storia è ancora spesso evocato[12] – quanto limitando l’indagine sui suoi fondamenti politici: l’esito di una razionalità propria del modello moderno di Stato-Nazione, modellato sulla necessità di creare comunità omogenee, definendo con precise tassonomie chi appartiene alla comunità e chi ne è estraneo, chi ha diritto di cittadinanza e chi va eliminato[13].

In tal senso, le solennità pubbliche, nel loro necessario e commosso commemorare le vittime, faticano a trasformare quella memoria in una critica sistematica dei meccanismi di affermazione del potere dello Stato moderno e delle sue diverse forme assunte nello sviluppo storico.

Il vero e più radicale monito della Shoah non sta dunque solo nel ricordare che l’uomo è capace di immense atrocità, ma nell’indicare come le strutture stesse dello Stato moderno, la sua capacità di classificare, controllare e amministrare la vita, affondino le radici in una storia più lunga di dominio. Questa storia è inseparabile dalle origini coloniali della modernità stessa[14].

Possiamo qui affiancare una riflessione di Mahmood Mamdani, sul quale tornerò, che afferma che l’uso del paradigma criminale nell’interpretazione delle azioni genocide distrugge ogni possibilità di comprenderne le ragioni politiche, poiché sposta tutta l’attenzione sul piano morale[15].

Mamdani afferma ad esempio che la giustizia di transizione di Norimberga “ha effettivamente depoliticizzato il nazismo, attribuendo la responsabilità della violenza nazista a uomini particolari (per lo più uomini) e ignorando il fatto che questi uomini fossero impegnati in un progetto della modernità politica per conto di un corpo sociale: la nazione, il Volk.” E aggiunge che “Gli alleati che perseguirono i singoli nazisti a Norimberga si sono impegnati a ignorare le radici politiche del nazismo, perché queste radici sono anche quelle americane.”[16] E si tratta di radici coloniali.

  1. Lo sguardo coloniale: le radici del processo di segregazione e annientamento

Per comprendere la radicale provocazione di Mamdani – che individua le “radici americane” del nazismo nel retroterra coloniale – è necessario partire dall’assunto che l’inizio del Novecento, il secolo dei genocidi, coincide esattamente con le battute finali di quello che può essere considerato, per scala e sistematicità, il più riuscito processo di sterminio della storia moderna: quello delle popolazioni native del Nord America, che, secondo le stime più recenti, ha causato la scomparsa di oltre il 95% della sua popolazione originaria[17].

La conquista del West e il sistema delle riserve indiane fornirono un repertorio di modelli e un precedente giuridico di profonda ispirazione per il regime nazista. James Q. Whitman ha raccontato come i giuristi nazisti studiarono attentamente le leggi statunitensi che privavano i nativi americani della piena cittadinanza, vedendo negli USA un laboratorio di legislazione razziale[18]. Lo stesso progetto di conquista del ‘Lebensraum‘, che individuava nelle terre a est della Germania lo spazio ‘vitale’, è stato posto in relazione, negli studi di Carrol P. Kakel, con l’ideologia americana dell’espansione verso il West[19].

Le riserve indiane non rappresentarono dunque una forma di tutela delle popolazioni native, ma piuttosto la conclusione logica di una politica di eliminazione. Esse furono lo strumento per completare lo sterminio attraverso mezzi amministrativi, confinando i nativi sopravvissuti in “patrie tribali”[20] prive di sovranità reale, dove potevano essere gestiti come soggetti non-cittadini. Questo sistema di governance indiretta, basato sulla definizione giuridica dell’identità etnica – come ad esempio le blood quantum laws[21] – e sulla segregazione territoriale forzata, costituì un formidabile prototipo delle successive politiche di ingegneria demografica proprie del regime nazista[22]. Il cosiddetto Generalplan Ost, che consisteva nell’ipotesi di creare riserve per le popolazioni slave nei territori occupati dell’est e l’istituzione dei ghetti ebraici come aree di segregazione temporanea prima della risoluzione definitiva del “problema ebraico”[23], dimostra la traslazione di questo modello dall’esperienza coloniale nordamericana al cuore dell’Europa.

La decolonizzazione dello sguardo ci impone tuttavia di comprendere – ci ammonisce Mahmood Mamdani – come la stessa dicotomia tra “nativi” e “coloni” sia in fondo uno schema tossico e semplificatorio di cui è difficilissimo liberarsi, perché riproduce la logica identitaria alla base del conflitto stesso. Il caso della Germania è, da questo punto di vista, illuminante: la stessa popolazione tedesca, il cui governo nazista aveva perpetrato il genocidio contro gli ebrei e la riduzione delle popolazioni slave alla condizione di non-cittadini, in nome di una purezza etnica, fu a sua volta vittima, dopo la Seconda guerra mondiale, di massicci trasferimenti forzati. Milioni di cittadini tedeschi di quella che erano stati i confini della Germania tra le due guerre insieme ad altri milioni di Volksdeutschen – i cosiddetti “tedeschi etnici” – furono espulsi dalle regioni dell’Europa orientale e centrale, sulla base di una fortissima spinta nazionalista che emergeva da quelle stesse popolazioni che i nazisti avevano sottomesso[24]. Questi trasferimenti furono attuati sulla base di principi ispiratori – l’idea che uno Stato debba essere etnicamente omogeneo e che le minoranze “straniere” siano un corpo estraneo da rimuovere – che erano in piena continuità con il nazionalismo radicale del quale il nazismo stesso era stato l’espressione più feroce. Questa tragica ironia della storia dimostra come il dispositivo del genocidio e del trasferimento forzato sia una tecnologia politica sempre disponibile, un’opzione che può essere adottata e subita.

Le drammatiche vicende che riguardano il controllo, l’amministrazione e il possesso delle “terre di cerniera” tra l’Europa centrale e l’Europa orientale non sono scollegate da una riflessione che interroga la possibilità di applicare la categoria interpretativa del “colonialismo di insediamento”.

Peter Wolfe ci dice che il settler colonialism non è un evento, ma una struttura[25]. Il suo motore primario non è banalmente lo sfruttamento della manodopera delle terre occupate, come in altre forme coloniali, ma la garanzia di impadronirsi della terra. L’obiettivo è quindi l’eliminazione degli abitanti di un territorio, non in quanto individui in astratto, ma in quanto ostacolo fisico e giuridico al possesso della terra.

Questa struttura è, fin dal suo sorgere, intrinsecamente militarizzata. La violenza non è un effetto collaterale, ma il metodo costitutivo per prendere possesso della terra e proteggere l’insediamento coloniale. La figura del ‘colono’ è dunque inscindibile da quella del ‘soldato’, e la frontiera è uno spazio di guerra permanente. Questa matrice militarista segna indelebilmente le forme di governo che da essa derivano[26].

L’eliminazione, come già accennato, può assumere diverse forme: lo sterminio fisico diretto, l’assimilazione forzata che distrugge l’identità collettiva, o la rimozione e il confinamento in territori marginali. In questa prospettiva, il genocidio non è un incidente di percorso, ma una caratteristica intrinseca, un esito sempre possibile, logico e ricorrente del progetto coloniale di insediamento.

È questa struttura a fornire la grammatica fondamentale per leggere, in una chiave non eccezionalista, anche il progetto nazista. L’idea del Lebensraum – e in particolare la sua declinazione nazista[27] – non sarebbe così un’invenzione originale del nazionalsocialismo, ma la riproposizione in suolo europeo di un mito coloniale ben consolidato. Il mito tedesco dello spazio vitale ad Est riprenderebbe, da un lato, il “Destino Manifesto” statunitense, cioè la convinzione che un popolo superiore abbia un diritto divino o storico di espandersi a discapito di popoli ritenuti inferiori[28]. Dall’altro, applicherebbe ai territori dell’Europa orientale lo stesso “sguardo coloniale” che le potenze europee avevano riservato all’Africa, all’Australia o alle Americhe: le terre slave diventano, nell’immaginario nazista, “vuote” o abitate da popoli “subumani” (Untermenschen) indegni di possederle e, quindi, destinate a essere colonizzate dal Volk tedesco. Il colonialismo fornisce così il vocabolario, l’immaginario e la giustificazione per un progetto di conquista e ripopolamento che si sarebbe svolto non in un lontano “altrove”, ma nel cuore stesso dell’Europa.

  1. Il laboratorio africano: il genocidio degli Herero e dei Nama

Se il modello nordamericano delle riserve e la sua logica eliminatoria fornirono un potente riferimento ideologico e giuridico, fu indubbiamente nell’Africa Tedesca del Sud-Ovest (l’odierna Namibia) che la macchina statale di una potenza europea moderna sperimentò per la prima volta, in forma compiuta, lo sterminio sistematico di interi popoli. Secondo quanto ricostruito dallo storico Jürgen Zimmerer il genocidio degli Herero e dei Nama (1904-1908) non fu un semplice episodio di crudeltà coloniale particolarmente feroce, ma un vero e proprio laboratorio dove si testarono, in un contesto di impunità quasi assoluta, le tecniche politiche e burocratiche che sarebbero confluite, pochi decenni dopo, nel cuore del progetto nazista[29].

Si tratta di una tragedia umana che nei libri di testo scolastici trova generalmente poco spazio, ma anche quando è citata, raramente la si colloca in un’ottica interpretativa di più lungo periodo, restando relegata in un discorso che affronta più o meno sommariamente le pratiche più violente del colonialismo.

Andrebbe sempre precisato il contesto in cui ebbe luogo lo sterminio praticato dai colonizzatori tedeschi in Africa sud-occidentale. Sin dall’inizio della colonizzazione gli Herero e i Nama, la cui prosperità economica si basava sul possesso delle migliori terre agricole e pascolative di una regione per il resto desertica e poco fertile, erano stati indotti a indebitarsi con i colonizzatori per acquistare prodotti finiti e beni voluttuari tedeschi: a garanzia dei debiti erano state poste gravose ipoteche sulle terre. La trappola del debito scattò a seguito di una congiuntura particolarmente negativa a inizio secolo, quando la peste bovina decimò le mandrie e i raccolti furono molto modesti: i creditori tedeschi, supportati dalla forza militare, cominciarono a espropriare le terre degli Herero e dei Nama e a pignorare anche il bestiame sopravvissuto. La sottrazione del bestiame dà il via alla rivolta degli Herero, che dopo qualche incursione messa a segno negli insediamenti coloniali, sono sconfitti prima in campo aperto e poi incalzati dal generale Lothar von Trotha, inviato appositamente in Africa per “eliminare” il problema.

Come ha ricostruito la storica Isabel V. Hull, a partire dal tristemente celebre ordine di sterminio (Vernichtungs Befehl) dell’ottobre 1904 che impose alle truppe la fucilazione di ogni Herero catturato dentro i confini della colonia, la repressione si trasformo in un preciso piano di sterminio. La caccia all’uomo spinse i sopravvissuti nel deserto dell’Omaheke, dove le truppe tedesche avvelenarono i pozzi d’acqua, trasformando l’ambiente stesso in un’arma di annientamento di massa. Quando anche i Nama si ribellarono a loro volta, subirono un destino analogo. Per coloro che non morirono di fame e di sete, furono allestiti campi di concentramento, come quello tristemente noto di Shark Island, il cui scopo principale era annientare i prigionieri, sottoponendoli a lavoro forzato fino allo sfinimento[30].

Le numerose acquisizioni storiografiche odierne ci permettono di leggere questi eventi non come un prologo distante, ma come un antefatto significativo e diretto della Soluzione Finale[31]. In Namibia, la Germania imperiale sperimentò per la prima volta la burocratizzazione dello sterminio, come un processo amministrato, documentato e discusso nei circoli governativi di Berlino. Gli Herero e i Nama furono da subito costruiti ideologicamente come un’alterità radicale: queste popolazioni dell’Africa sudoccidentale erano Untermenschen, subumani, esattamente come lo sarebbero poi stati slavi e ebrei, la cui esistenza stessa era considerata un ostacolo biologico al progetto coloniale. Non ultimo va sottolineato come i campi di concentramento in Namibia, rappresentarono il prototipo di uno spazio eccezionale, al di fuori della legge ordinaria, dove la vita umana era completamente spogliata di valore e ridotta a mera risorsa da sfruttare fino all’annichilimento[32].

Il “laboratorio” africano dimostra con tragica chiarezza l’esistenza di un continuum di violenza che pone in relazione l’esperienza coloniale con il regime nazista e i suoi metodi.
Le tecniche di gestione della popolazione, le ideologie razziali e le strutture dell’annientamento migrarono dalla periferia coloniale verso il centro, dimostrando che il confine tra la violenza nel “mondo selvaggio” e la civiltà in patria era molto più permeabile di quanto la narrazione autoassolutoria dell’Occidente abbia, a lungo, voluto ammettere.

Che esista una linea di continuità tra l’epoca coloniale e il nazismo è una tesi resa “classica” – ma mai fino in fondo recepita – già da Hannah Arendt, che poneva in continuità l’apoteosi dell’imperialismo con le politiche europee che avrebbero condotto ai fenomeni totalitari. Vale però la pena sottolineare che, nella stessa epoca in cui Arendt scriveva Le origini del totalitarismo, il poeta martinicano Aimé Césaire ci ammoniva – nel suo celebre Discorso sul colonialismo – riguardo al fatto che il nazismo, dopotutto, altro non fosse che uno choc di ritorno per gli europei che, tramite il nazismo, avevano visto applicati su se stessi i metodi coloniali[33].

  1. La Shoah attraverso la lente coloniale

Alla luce della matrice coloniale, la storiografia più recente ha cominciato a interrogare la Shoah con domande radicalmente nuove. Il classico – e ormai sterile – dibattito tra intenzionalisti e funzionalisti, che per decenni ha diviso gli studiosi chiedendosi se lo sterminio fosse un piano preciso e deliberato fin dall’inizio o il frutto di una radicalizzazione progressiva del sistema nazista, appare oggi come una disputa che, nel concentrarsi sul quando e sul come, ha finito per eludere la questione più profonda del perché. Perché un progetto di risistemazione demografica dell’Europa su base razziale divenne pensabile? Perché l’eliminazione fisica di interi popoli poté presentarsi come una soluzione politica praticabile?

La risposta, per una corrente sempre più influente di storici, va cercata proprio nella normalizzazione, nell’immaginario politico europeo della prima metà del XX secolo, delle logiche e delle pratiche proprio del colonialismo. Lo storico Dirk Moses, con la sua teoria del “paradigma della sicurezza permanente”, sostiene che il nazionalsocialismo ereditò e portò all’estremo una preoccupazione tipica degli stati-nazione moderni[34]: la paura dell’alterità interna percepita come una minaccia esistenziale alla coesione del corpo sociale. In questa logica, va colto lo slittamento concettuale tra il tradizionale antigiudaismo, che diviene antisemitismo nel corso dell’Ottocento, e l’intento eliminazionista del progetto nazista: gli ebrei d’Europa furono costruiti e percepiti come una minaccia prima e poi come un “nemico demografico” da eliminare, nel momento in cui l’espansione a est, a guerra in corso, sembrava praticabile. Lo sterminio non fu quindi un piano elaborato astrattamente, ma una risposta genocidaria a una percezione, non importa quanto infondata e irrealistica, di minaccia demografica, una risposta le cui opzioni erano già state esplorate e normalizzate nelle terre degli imperi coloniali[35].

Si comprende così il senso della provocatoria affermazione di Mahmood Mamdani che abbiamo citato e in cui sostiene che Norimberga abbia “depoliticizzato il nazismo”. In questo senso Mamdani denuncia come l’azione giudiziaria del tribunale alleato abbia ridotto la questione a un processo nei confronti di criminali, occultando il fatto che il progetto nazista non era un’anomalia metafisica, ma l’applicazione in suolo europeo di un modello di Stato-nazione etnicamente omogeneo, la cui realizzazione più compiuta i colonialisti avevano cercato – attraverso lo sterminio e i trasferimenti forzati – in altri continenti. Le “radici americane” del nazismo di cui parla Mamdani non sono certo un’analogia letterale, ma l’individuazione di una grammatica politica comune: la convinzione che la sovranità di un popolo si realizzi attraverso l’eliminazione dell’altro da un territorio desiderato o la sua riduzione in una condizione di totale subalternità.

In questa prospettiva, la specificità della Shoah – il suo carattere industriale, burocratico e il suo focus su un gruppo definito per discendenza – non scompare, ma viene riposizionata in un quadro interpretativo più ampio. Essa non è più l’evento unico e incomparabile della narrazione eccezionalista, ma rappresenta piuttosto la sintesi più radicale e tecnologicamente avanzata delle diverse forme di eliminazione proprie del colonialismo di insediamento. È il punto in cui il modello della riserva (fondata sulla segregazione e separazione), il modello del trasferimento forzato (che ha come fine l’espulsione) e il modello del genocidio (che mira all’annientamento fisico) convergono e vengono portati a compimento in un unico, tragico processo, reso possibile dalla tecnologia e dalla burocrazia dello Stato moderno. La Soluzione Finale fu, in ultima analisi, la “questione ebraica” risolta con gli strumenti e l’immaginario della “questione coloniale”.

Una chiave di lettura particolarmente efficace ce la fornisce la proposta di Enzo Traverso[36]. Nel suo La violenza nazista. Una genealogia, Traverso parla di una “grammatica della violenza” condivisa, di un repertorio di pratiche e un immaginario che circolano tra la periferia coloniale e il centro europeo. La Shoah non sarebbe dunque comprensibile né come una semplice “copia” dei genocidi coloniali, né come un evento totalmente avulso da essi. Piuttosto, essa rappresenta il momento in cui quella grammatica – fatta di campi, classificazioni razziali, burocrazia dello sterminio e sguardo eliminatorio – viene riassemblata e applicata, con una ferocia e una sistematicità senza precedenti, a un nemico interno al cuore dell’Occidente. Questa genealogia non relativizza la specificità della Shoah, ma ne storicizza le condizioni di possibilità, mostrando come il suo orrore unico sia stato reso pensabile da un linguaggio della distruzione a lungo elaborato altrove.

  1. Il paradigma post-coloniale: dall’apartheid al genocidio

Se il progetto nazista rappresentò l’apice e il crollo di un’applicazione in Europa del modello eliminatorio, il secondo Novecento vide la piena fioritura, l’adattamento e la tragica eredità di questo paradigma nei territori ex-coloniali. Qui, le categorie razziali inventate dall’amministrazione coloniale non scomparvero con l’indipendenza, ma si irrigidirono, divenendo il linguaggio stesso del potere e del conflitto politico nel mondo post-coloniale.

L’esempio più sistematico e legalizzato è senza dubbio il regime di apartheid sviluppatosi in Sudafrica. I Bantustan, le “patrie tribali” assegnate ai neri, rappresentano l’evoluzione più compiuta e cinica del modello della riserva indiana – e furono pensati in totale continuità con essa, dal momento che l’edificazione del sistema dell’apartheid, a inizio Novecento, è del tutto parallelo alla risoluzione del “problema indiano” negli Stati Uniti[37].

I Bantustan non furono semplici luoghi di segregazione, ma il perno di un ingegnoso progetto di ingegneria demografica e giuridica. Privando milioni di sudafricani neri della cittadinanza nazionale e confinandoli in entità statuali fittizie e economicamente non vitali, il governo bianco poté simultaneamente sfruttarne la manodopera come “migranti interni” e negare ogni loro diritto politico all’interno dello Stato sudafricano propriamente detto. È l’applicazione su scala industriale del principio in base al quale la “nazione” si definisce attraverso l’esclusione di chi è classificato come non-appartenente ad essa. Un principio che vediamo riaffermato anche oggi attraverso una ripresa tossica del concetto di “nazione” nel discorso pubblico[38].

Un caso evidente di queste dinamiche – e che ci rimanda a vicende di tragica attualità – è quello relativo alle vicende del Sudan. In quest’area dell’Africa il dominio coloniale britannico – o meglio il “condominio” anglo-egiziano – applicò metodicamente la versione moderna del divide et impera, quella fondata, secondo la proposta interpretativa di Mamdani, su “classifica” e “comanda”[39].
Gli amministratori coloniali non si limitarono a sfruttare tensioni preesistenti tra gruppi di popolazione, ma costruirono ex novo identità razziali rigide, amministrando separatamente un “nord” arabo-musulmano e un “sud” nero e animista-cristiano, istituendo persino delle leggi che impedivano agli abitanti di una regione di viaggiare al sud senza permesso, e viceversa. Questa segregazione istituzionalizzata cristallizzò differenze e creò gerarchie razziali laddove in precedenza esistevano relazioni più fluide tra le appartenenze, trasformando così le categorie amministrative coloniali in linee di faglia identitaria insanabili. I semi avvelenati di questa politica germogliarono in decenni di guerre civili e nel successivo genocidio nel Darfur, dove il governo di Khartoum ha riprodotto lo schema coloniale mobilitando milizie janjaweed – composte da miliziani a cavallo appartenenti a gruppo di popolazione di religione islamica e di origine nomadica -contro le popolazioni nere definite, appunto, come “straniere” e “subalterne”[40].

Tuttavia, è il genocidio dei Tutsi in Rwanda nel 1994 a rappresentare l’esito più brutale e letale di questo processo di etnicizzazione coloniale. I belgi, ereditando e irrigidendo le distinzioni preesistenti, trasformarono le categorie sociali fluide di Hutu e Tutsi in razze biologiche e immutabili, fissando questa dicotomia persino sui documenti di identità. Crearono una gerarchia artificiale, favorendo i Tutsi come élite dominante – intesi come “razza hamitica” e quindi ritenuta superiore – durante il periodo coloniale, per poi, in prossimità dell’indipendenza, compiere un brusco voltafaccia e appoggiare la maggioranza Hutu, fomentandone strategicamente il risentimento contro l’élite tutsi che i colonizzatori stessi avevano creato. Questo cinico capovolgimento delle alleanze trasformò una distinzione socio-professionale in una bomba etnica a orologeria. La “razza” divenne così il codice primario della cittadinanza e del conflitto politico. Il genocidio del 1994, pianificato e portato a termine con macabra efficienza dal progetto nazionalista hutu della milizia-partito Interahamwe, fu l’atto finale di questo copione coloniale: il tentativo di creare uno Stato etnicamente “puro” (hutu) attraverso lo sterminio fisico del “nemico interno” tutsi, costruito per decenni come un corpo estraneo e pericoloso per la nazione.

Come ha sottolineato Mahmood Mamdani, in Rwanda si passò dalla definizione del “nativo” (soggetto a leggi speciali) alla definizione del “cittadino”, ma un cittadino la cui appartenenza era ormai irrevocabilmente marchiata da un’identità totalmente etnicizzata e razzializzata[41]. Il genocidio fu, in questo senso, una “soluzione finale” per risolvere la questione dell’identità nazionale ereditata dal colonialismo.

I casi sudanese e rwandese dimostrano, con tragica evidenza, che lo “sguardo coloniale” non appartiene a un’epoca ormai superata, ma esso è un dispositivo logico e politico di lunga durata. Le sue categorie, una volta interiorizzate, continuano a strutturare i conflitti, a definire l’appartenenza e a fornire, nei momenti di crisi più acuta, il vocabolario stesso dello sterminio.

  1. Il caso paradigmatico del presente: la Palestina

La vicenda della Palestina rappresenta l’esempio contemporaneo più chiaro e discusso di un processo di colonialismo d’insediamento ancora in corso. In esso, tutte le logiche analizzate – lo sguardo coloniale, l’eliminazione dell’altro come struttura di pratica politica, l’esercizio di forme di ingegneria demografica e la creazione di forme di cittadinanza subalterna – sono osservabili in tempo reale, offrendo una lente drammaticamente attuale per comprendere la continuità di queste dinamiche.

La logica eliminatoria descritta da Patrick Wolfe nelle sue riflessioni sul settler colonialism trova qui una piena applicazione. Il progetto politico sionista, nella sua componente egemonica e statuale, è stato storicamente mosso da un obiettivo primario: l’accesso alla terra e la costruzione di una sovranità nazionale ebraica in un territorio già abitato, ma reinventato come privo di popolazione, sulla base dello slogan propagandistico “un popolo senza terra, per una terra senza popolo”[42].

Ciò ha richiesto, fin dall’inizio, una serie di strategie volte all’eliminazione della società nativa palestinese. Questa eliminazione non si è espressa unicamente attraverso lo sterminio fisico, ma attraverso un ventaglio di tecniche: la sostituzione demografica attraverso l’immigrazione organizzata, l’espropriazione territoriale sistematica – iniziata con la Nakba del 1948 e proseguita con le leggi sulla proprietà degli assenti -, l’occupazione militare da parte dell’esercito israeliano dei territori formalmente sotto sovranità palestinese e, infine, l’assimilazione culturale forzata del territorio, che si esprime con la cancellazione dei toponimi arabi e con la distruzione delle vestigia della presenza araba precedente la nascita di Israele[43].

Ancora una volta la riflessione di Mahmood Mamdani sul governo coloniale che è fondato sull’identità permette di comprendere a pieno la situazione dei palestinesi rimasti all’interno dei confini israeliani del 1948[44]. Essi furono inizialmente sottoposti a un governo militare e, pur ottenendo in seguito una formale cittadinanza israeliana, rimangono di fatto cittadini subalterni, una minoranza interna la cui lealtà è permanentemente posta in condizione di sospetto e i cui diritti sono spesso subordinati alla loro non appartenenza all’identità ebraica dello Stato. Questo status riecheggia la condizione dei nativi confinati nelle riserve o dei sudafricani neri nei Bantustan: fisicamente presenti, ma politicamente segregati e giuridicamente marginalizzati.

Infine, all’interno dei territori della Cisgiordania e di Gaza la situazione rappresenta l’evoluzione più contemporanea del modello coloniale. La popolazione palestinese non è stata (ancora) fisicamente sterminata in massa, ma è stata sottoposta a un processo di confinamento frammentato in enclavi non contigue. La Cisgiordania è ormai ridotta a un arcipelago di micro-cantoni separati gli uni dagli altri da check-point o da insediamenti di coloni israeliani. Un bilancio reale della distruzione sistematica operata a Gaza potrà essere compiuto solo nel prossimo futuro.

Ciò che è possibile affermare è che il sistema messo in atto dai governi israeliani, sostenuto da un apparato legale e militare e da una condizione di occupazione militare permanente, ha reso nei fatti impossibile l’esistenza di una unità politica e sociale palestinese e ha impedito lo sviluppo di un’economia vitale. Di fatto è stata preclusa la possibilità di un’autodeterminazione vera.
Nel caso di Israele vediamo in azione il circolo vizioso per eccellenza: la logica securitaria e militare giustifica l’occupazione, che a sua volta genera resistenza, che viene poi usata per giustificare una militarizzazione ancora più spinta e una repressione più violenta. La violenza strutturale del colonialismo e la violenza diretta dell’occupazione militare si alimentano così a vicenda.
È una forma di eliminazione che agisce attraverso l’erosione delle basi materiali per la sopravvivenza collettiva, una “pulizia etnica” lenta ma insesorabile, che normalizza l’apartheid spaziale.

Il caso palestinese, dunque, non è un’analogia storica forzata, ma l’ultimo anello – per ora – di una catena logica e storica. Esso ci impone di usare gli strumenti della critica postcoloniale non per archiviare il passato, ma per decifrare un presente in cui lo Stato-nazione, nella sua ricerca di omogeneità etnica, continua a produrre forme di esclusione, segregazione e eliminazione. Ci obbliga a chiederci, oggi, dove e come si stia scrivendo la prossima pagina di questa storia.

Conclusioni. Per una didattica della storia come critica del presente

Questa ricognizione – senza pretesa di esaustività – attraverso alcune politiche dalle intenzioni genocidarie nel corso del ‘900 non ha avuto l’ambizione di stabilire equivalenze morali, ma di tracciare connessioni storiche e strutturali. Si giunge a una conclusione scomoda ma necessaria: il genocidio non è il ritorno di una barbarie arcaica, ma un potenziale insito nella modernità politica stessa, nel suo cuore oscuro che batte all’incrocio tra Stato-nazione, monopolio assoluto della sovranità e progetto coloniale.

La didattica della storia non può più permettersi di insegnare gli eventi genocidari come mostruose eccezioni a un ordine altrimenti fondato sui diritti umani, consegnando i fatti storici a una commemorazione sacralizzata che, pur nel suo valore civile, ne depotenzia la carica politica. Al contrario, la didattica deve farsi decoloniale in senso proprio – il che non significa inseguire mode del momento. Si tratta di smontare gli “sguardi coloniali” che permangono nei nostri manuali e nel senso comune, sulla base di un aggiornamento dei paradigmi storiografici.

Compito della ricerca didattica è mostrare come la linea che unisce le riserve indiane, i campi namibiani, i ghetti nazisti, i Bantustan sudafricani, le colline del Rwanda e le enclavi palestinesi non è una forzatura, ma la traccia di un unico, profondo filo rosso: la logica dell’eliminazione dell’Altro per fare posto a una comunità immaginata come pura e pacificata.

Alla luce di questa consapevolezza, il vero monito della storia per il nostro presente non è solo annunciare “mai più“. È anche, e forse soprattutto, suggerire alle nuove generazioni: “guardatevi intorno e riconoscetevi nell’altro“. In un’epoca di retorica identitaria e di corsa al riarmo, di crisi migratorie e di ridefinizione violenta dei confini, le strutture mentali e politiche che abbiamo analizzato sono più vive che mai.

Smontare la retorica della sicurezza nazionale, che legittima la militarizzazione e l’esclusione, diventa un compito pedagogico urgente. Insegnare questa storia, allora, significa anche decostruire il mito dello Stato che, per proteggerci, deve sempre identificare un nemico e armarsi fino ai denti, mostrando come questo stesso meccanismo sia all’origine dei più grandi disastri del secolo scorso.

Insegnare la storia, allora, cessa di essere esercizio di erudizione, ma diventa un atto di critica del presente. Significa dotare le nuove generazioni di strumenti per riconoscere, smascherare e contrastare, nell’oggi, quelle stesse logiche di esclusione che producono la catastrofe. Solo una didattica coraggiosa, che percorre strade scomode, può diventare strumento di comprensione e di trasformazione del mondo.

Marco Meotto è docente di filosofia e storia e attivista di Assemblea scuolaTorino

 NOTE

[1] Si vedano: Weitz, E. D. (2003), A century of genocide: Utopias of race and nation, Princeton University Press; Bruneteau, B. (2006), Il secolo dei genocidi, Bologna, Il Mulino. (ed. or. 2004)

[2] Una buona rassegna degli sviluppi didattici legati alla storia della Shoah è presentata in: Olivieri, N., Nencioni, C., Mastretta, E., (2020), Formarsi sulla didattica della Shoah: un ventaglio di esperienze, in Novecento.org, n. 13 febbraio 2020. Si veda anche Traverso, E.,  (1995) (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino, Bollati Boringhieri. La riflessione sulla “sacralizzazione” della Shoah è trattata anche in Pisanty V., (2012), Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano.

[3] Levene, M. (2005), Genocide in the age of the nation state. Vol. 1. The meaning of genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2005), Genocide in the age of the nation state. Vol. 2. The rise of the West and the coming of genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2013), Devastation: Volume I: The European Rimlands 1912–1938. Oxford University Press; Levene, M., Annihilation: Volume II: The European Rimlands 1939–1953. Oxford University Press

[4] Esiste tuttavia una storiografia che, pur riconoscendo una centralità alle forme di genocidio che si sviluppano nell’ambito dello Stato-Nazione, ne sottolinea il carattere di ricorrenza del fenomeno genocidario anche in epoche precedenti. Si veda al proposito Naimark, N.M., (2016), Genocide. A World History, Oxford University Press

[5] Sulla vicenda dei Circassi: R. Walter, (2013), The Circassian Genocide. Genocide, Political Violence, Human Rights, Rutgers University Press. Sulle politiche staliniane nei confronti di “tedeschi del Volga” si veda: Iashchenko, I., & Carteny, A. (2024). ‘Is it Genocide or not?’ Some Considerations about the Ethnic Cleansing and Punishment System in Soviet Union (1930s-1950s). Nuovi Autoritarismi E Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società (NAD-DIS), 6(2)

[6] Bauman, Z. (1992). Modernità e Olocausto (M. Baldini, trad.). Bologna, Il Mulino (ed. or. 1989).

[7] Dopotutto si tratta della tesi di fondo che anima la riflessione di Adorno e Horkheimer nel loro più celebre lavoro: Adorno, T.W., Horkheimer (1966), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, (ed. or. 1947)

[8] Riflessioni importanti sull’argomento possono prendere le mosse da: Novick, P. (1999), The Holocaust in American life. Houghton Mifflin; Finkelstein, N. G. (2000), The Holocaust industry: Reflections on the exploitation of Jewish suffering, Verso; Pisanty, V. (2021), I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani.

[9] Interessante è la riflessione di David Bidussa che invita a pensare alla Shoah in termini storici e non semplicemente morali. Bidussa, D., (2009), Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino

[10] Mi ha aiutato a sviluppare la riflessione sul senso della memoria della Shoah in relazione ai processi di decolonizzazione il saggio di Rothberg, M. (2009), Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford University Press

[11] Nicolas Patin (2022), «The massacre of the Herero and Nama: A colonial laboratory for genocide?», Encyclopédie d’histoire numérique de l’Europe [online], ISSN 2677-6588, https://ehne.fr/fr/node/21449 published on 18/02/22 , consulted on 31/10/2025

[12] Sul disinvolto modo con cui si producono storie comparative tra la Shoah e altre tragedie del Novecento sono preziosi alcuni lavori di Focardi:   F. Focardi, B. Greppo (a cura di), (2013), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma; F. Focardi (2020), Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella, Roma

[13] È la tesi che si incontra nelle riflessioni di Foucault e in particolare in Foucault, M. (1998), Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Feltrinelli, Milano. Più recentemente le riflessioni antropologiche di James C. Scott, centrate sull’analisi di contesti non europei (in particolar modo il sud-est asiatico) stimolano una riflessione in base alla quale è la forma statale in quanto tale a portare con sé la possibilità dell’annientamento genocida: si veda Scott, J.C., (2020), L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-Est asiatico, Einaudi, Torino.

[14] Di grande rilievo sono le riflessioni che accompagnano ad esempio la recente svolta storiografica che sottolinea la centralità delle vicende africane (e del rapporto europeo con l’Africa) nella nascita della modernità: il titolo originale del saggio di Howard W. French – Born in blackness – rende sicuramente meglio l’idea di quanto faccia la traduzione italiana. Vedi French H.W., (2023), L’Africa e la nascita del mondo moderno. Una storia globale, Rizzoli, Milano (ed. or. 2021)

[15] Peraltro lo slittamento semantico dal piano politico al piano coloniale non tiene conto di come la stessa origine dei “diritti umani” debba essere riconsiderata alla luce di riflessioni decoloniali. Si veda il recente Zaffaroni. E.R., (2025), Una storia criminale del mondo. Colonialismo e diritti umani dal 1492 ad oggi, Laterza, Bari). Un altro stimolante spunto tiene conto di acquisizioni storico-antropologiche: devo moltissimo alle illuminanti riflessioni del compianto David Graeber e di David Wengrow sull’origine “irochese” della riflessione moderna e illuminista sulla condizione umana. Vedi Graeber, D., Wengrow, D., (2021), L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano

[16] Mamdani, M. (2023), Né coloni, né nativi. Lo Stato-Nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, pp. 26

[17]  I dati sono quelli di Stannard, D.E. (2001), Olocausto americano. La conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri (ed. or. 1993)

[18] Whitman, J. (2017), Hitler’s American Model: The United States and the Making of Nazi Race Law, Princeton University Press

[19] Kakel C.P., (2011) The American West and the Nazi East: A Comparative and Interpretive Perspective, Palgrave; Kakel C.P. (2013), The Holocaust as Colonial Genocide: Hitler’s ‘Indian Wars’ in the ‘Wild East’, Palgrave

[20] Leake E., (2024), “The Construction of ‘Tribe’ as a Socio-Political Unit in Global History” in The Historical Journal. 2024;67(4), pp. 826-849. doi:10.1017/S0018246X24000323

[21] Ancora attualmente circa il 70% delle riserve indiane riconosciute dal governo federale degli Stati Uniti assegna la cittadinanza alla “naziona” sulla base di una legislazione fondata sulla “quantità di sangue indiano” posseduta. Il Native Governative Center sostiene che sia un elemento di profonda autodeterminazione lasciare alle nazioni indiane stesse l’ultima parola sull’efficacia delle leggi basate sul sangue (si veda: https://nativegov.org/resources/blood-quantum-and-sovereignty-a-guide/ consultato il 3 novembre 2025)

[22] Oltre al già citato Whitman, sul tema segnalo Miller, R.J., (2020), “Nazi Germany’s Race Laws, the United States, and American Indians”, in St. John’s Law Review, Volume 94, 2020, N. 3, pp. 751-817

[23] Una riflessione interessante sull’immaginario nazista e sulla prospettiva di trasformare lo spazio vitale in una vasta regione di comunità di coloni la si trova in Fernández de Betoño, U. (2020): «The Nazi anti-urban utopia: ‘Generalplan Ost’» in Mètode Science Studies Journal, vol. 10, pp. 165-171, 2020, Universitat de Valencia

[24] Questo imponente fenomeno (stimato nel movimento di un numero compreso tra 12 e 14 milioni di profughi) comportò almeno 500.000 vittime, in prevalenza tra le fasce di popolazione più fragile, come anziani e bambini. Sul tema: Douglas, R.M. (2012), Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans after the Second World War, Yale University Press

[25] Wolfe, P., (2023). “Il colonialismo di insediamento e l’eliminazione del nativo”. In Il colonialismo di insediamento. Diritto, terra e sovranità, a cura di Lorenzo Veracini e Micaela Frulli, Meltemi, Milano, pp. 53-86. In campo accademico internazionale, le riflessioni sulle distinzioni tra il settler colonialism e altre pratiche coloniali si sono andate sviluppando da almeno cinquant’anni. Dal 2011 esiste la rivista internazionale Settler colonial studies, edita da Taylor & Francis

[26] Sul caso sudafricano sono ricchi di spunti i saggi raccolti in un’opera collettanea a cura di Miller, S.M., (2009), Soldiers and Settlers in Africa: 1850 – 1918, Koninklijke Brill, Leiden. In particolar modo il capitolo di John Laband (“From Mercenaries to Military Settlers: The British-German Legion, 1854-1861”)

[27] Liulevicius, V.G., (2011), The German Myth of the East: 1800 to the Present, Oxford University Press

[28] Sul tema del “Manifest Destiny” esistono ormai una storiografia e una riflessione consolidata, tra cui segnalo: Slotkin, R. (1973), Regeneration through Violence. The Mythology of American Frontier, 1600-1860, Wesleyan University Press, Middletown, Connecticut;  Horsman, R. (1981), Race and manifest destiny: the origins of American racial anglo-saxonism, Harvard University Press;

[29] Accanto a Zimmerer (2024, cit.), il filone della continuità tra il genocidio namibiano e la successiva storia tedesca è esplorato anche da altri studiosi. Si veda: Erichsen, C.W., Olusoga, D., (2010), The Kaiser’s Holocaust. Germany’s Forgotten Genocide and the Colonial Roots of Nazism, Londres, Faber and Faber, 2010

[30] Hull, I.V., (2005), Absolute Destruction: Military Culture and the Practices of War in Imperial Germany, Cornell University Press, Ithaca and London

[31] Zimmerer, J. (2024), From Windhoek to Auschwitz? Reflections on the Relationship between Colonialism and National Socialism, DeGruyter Oldenbourg, Berlin

[32] Erichsen, C. W. (2005). “The angel of death has descended violently among them”: concentration camps and prisoners-of-war in Namibia, 1904-08. Leiden: African Studies Centre. Retrieved from https://hdl.handle.net/1887/4646

[33] Césaire, A. (2005). Discours sur le colonialisme, Éditions Présence Africaine, Paris, (ed. or. 1950), p. 88 (traduzione mia): “Sì, varrebbe la pena studiare, clinicamente e in dettaglio, gli approcci di Hitler e dell’hitlerismo e rivelare al borghese molto distinto, attento umanista, buon cristiano del XX secolo che porta dentro di sé un Hitler inconsapevole, che Hitler dimora in lui, che Hitler è il suo demone, che se lo denigra, è per mancanza di logica, e che, in fondo, ciò che non può perdonare a Hitler non è il crimine in sé, il crimine contro l’umanità, non è l’umiliazione dell’umanità stessa, è il crimine contro i bianchi, è l’umiliazione dei bianchi, e per aver applicato all’Europa metodi colonialisti che fino ad allora erano stati applicati solo agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai neri d’Africa.”

[34] Moses, A. D. (2021). The Problems of Genocide: Permanent Security and the Language of Transgression. Cambridge University Press

[35] Moses (2021, cit.) sviluppa questo ragionamento in particolare nel capitolo intitolato “The Nazi Empire as Illiberal Permanent Security” (pp. 277-331), in cui sostiene che il progetto nazosta teneva insieme un immaginario imperialistico e le pratiche proprie del colonialismo di insediamento.

[36] Traverso, E., (2002), La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna

[37] Il Land Act del 1913 – che fu il fondamento giuridico ed economico sulla cui base si sarebbe poi sviluppato il sistema dell’apartheid – assegnava il 7% del territorio sudafricano alle popolazioni native e la restante parte ai coloni bianchi. È evidente l’analogia con quanto stesse accadendo quasi contemporaneamente negli Stati Uniti con le leggi di creazione delle riserve indiane. Si veda Worden, N., (2012), The Making of Modern South Africa: Conquest, Apartheid, Democracy, Wiley-Blackwell, Chichester

[38] Si veda: Calvi, A., (2022), Con la destra al governo la parola ‘nazione’ è tornata di moda, in “Parole. Numero speciale di Internazionale – L’Essenziale”, Inverno 2022

[39] Mamdani, M., (2012), Define and Rule: Native as Political Identity. Harvard University Press

[40] Sharkey, H. J. (2003), Living with Colonialism: Nationalism and Culture in the Anglo-Egyptian Sudan. University of California Press

[41] Mamdani, M., (2001), When Victims Become Killers: Colonialism, Nativism, and the Genocide in Rwanda, princeton University Press

[42] Pappé, I., (2022), Dieci miti su Israele, Temu Edizioni, Napoli. In particolare si vedano il primo e il secondo capitolo “Palestina, terra di nessuno” e “Gli ebrei: un popolo senza terra”.

[43] Si veda il recentissimo Rashidi, K., (2025), Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, Laterza, Roma-Bari

[44] Mamdani, M. (2023), cit., pp. 294-370

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