Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “La dignità umana non è un concetto astratto”

Pressenza - Thursday, May 15, 2025

Ho incontrato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia al cinema per vedere “Come se non ci fosse un domani”, docufilm su Ultima Generazione. Gli ho chiesto una breve intervista, con una sola domanda:

Alla luce dell’ultimo rapporto sui diritti umani, reso pubblico pochi giorni fa, che cos’è la dignità per Amnesty e come si declina in modo universale?

Dovremmo immaginare la dignità come la dimensione più intima, l’ultimo involucro protettivo del corpo e della vita delle persone. Quella dimensione e quell’involucro senza i quali non c’è più difesa possibile.

Non è un caso che quella parola, dignità, risuoni nelle proteste del Sud del mondo: era la richiesta fondamentale delle cosiddette “primavere arabe”, la parola contenitore di giustizia, diritti (soprattutto economici e sociali), libertà, uguaglianza. Soprattutto, fine della miseria, della povertà e dello spossessamento.

Quante volte abbiamo ascoltato e letto l’espressione “in dignità e nel rispetto dei diritti”. Sono concetti uniti da una congiunzione che vuol dire che senza diritti la dignità è calpestata. Per questo, quella parola è così importante anche per Amnesty International.

Alcune sere fa, al premio Tiziano Terzani del festival “Vicino/Lontano” di Udine – un premio rivoluzionario perché è andato non a un vincitore ma a dei perdenti, le giornaliste e i giornalisti uccisi dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza – ho assistito a un intervento di straordinaria efficacia da parte di colui che è il simbolo del giornalismo che resiste: Wael Al-Dahdouh, che ha fatto dirette per 102 giorni a partire dal 7 ottobre, al quale Israele ha ucciso dodici familiari, compresa la moglie, nel campo profughi di Nuseirat.

Noi, soprattutto nel Nord del mondo dove infatti risuona poco o mai nelle proteste, tendiamo a pensare alla dignità come a un concetto filosofico, astratto.

Wael ha raccontato come sia stato arduo, all’interno dei campi profughi, allestire dei gabinetti di cui le persone, soprattutto le donne, potessero servirsi in condizioni che tutelassero la loro dignità, che in questo caso vuol dire riservatezza e igiene. Come sia stato arduo solo trovare delle parti di tende che potessero isolare dalla vista quei luoghi improvvisati, come si potesse scaricarne il contenuto. Il tutto, sotto le bombe.

Le parole di Wael hanno riportato all’essenzialità il concetto di dignità e per associazione mi hanno fatto venire in mente le tante campagne che Amnesty International ha avviato per convincere i governi a mettere fuorilegge pratiche barbare (penso alle mutilazioni dei genitali femminili, così come ai matrimoni forzati e precoci) e a garantire diritti fondamentali come quello all’abitare. O come, per riprendere il concetto di Wael, quella per garantire, accanto a questo diritto fondamentale, un altro diritto basilare come quello ad avere servizi igienico-sanitari adeguati.

A questo punto, forse, chi legge troverà normale che esista, nel calendario delle “giornate dedicate”, il World Toilet Day, che ricorre ogni 19 novembre. Si stima che in tutto il mondo quasi due miliardi e mezzo di persone vivano senza la toilette. La mancanza e la scarsa qualità dell’acqua, insieme a bassi livelli di igiene e pratiche igienico-sanitarie inadeguate, hanno effetti negativi sulla salute delle persone, sui mezzi di sostentamento e sulle opportunità di accesso all’istruzione. Ogni giorno circa 800 bambini muoiono a causa di malattie legate all’acqua e ai servizi igienici, come la diarrea, che potrebbero essere evitate.

Ma non sono solo i governi a dover essere chiamati in causa: c’è un lavoro di educazione ai diritti che non è meno importante, quello per convincere le comunità ad abbandonare usi, costumi, tradizioni che creano stigma. Uno su tutti: avere il ciclo mestruale.

In alcuni Paesi, le ragazze e le donne cui “è arrivato quel momento del mese” (un giro di parole per non nominare una parola tabù) sono costrette a nascondersi nelle stalle o nelle capanne, o vengono bandite dalle loro case (in Nepal, dove il fenomeno è particolarmente diffuso, vengono separate dagli uomini anche per due settimane); altre lottano per procurarsi tamponi e assorbenti e sono costrette ad arrangiarsi con delle bende. Altre vengono persino arrestate o interrogate solo per aver manifestato pacificamente contro questo stigma.

Da queste riflessioni, da questi racconti e da questi esempi possiamo trarre una conclusione: la dignità si difende giorno per giorno, a partire da bisogni essenziali.

Rayman