
Il nodo della vita quotidiana
Comune-info - Saturday, December 6, 2025Le lotte dei movimenti dei decenni passati oggi hanno bisogno di essere ripensate in profondità per radicarsi in modi nuovi a cominciare dal locale, dalla creazione di forme comunitarie più o meno autonome, ma prima di tutta dalla capacità di prendersi cura della vita di ogni giorno. È in questo scenario che ogni sera dal nulla nel cuore di Trieste nasce una piazza aperta al mondo per incontrare i migranti della rotta balcanica

A partire dalla lettura del testo Né verticale né orizzontale. Una teoria dell’organizzazione politica (ed. Alegre) di Rodrigo Nunes, professore di teoria politica in Inghilterra e in Brasile, che ha fatto recentemente una serie di incontri in Italia, mi viene da ripensare che la nascita di Linea d’Ombra a Trieste è avvenuta per una richiesta di aiuto immediato e necessario, a partire da una situazione drammatica di sofferenza umana ma dotata di una particolare valenza storico-politica. Il tentativo consiste nel trasformare in una narrazione politica coerente il minuscolo tuffo etico-esistenziale (fatta di emozioni, esigenze, comportamenti spontanei e tentativi di organizzazione) in cui si riflette l’attuale situazione sociopolitica del nostro paese nel rimando a una dinamica storica fondamentale, letteralmente incarnata da corpi migranti (che oggi si pone a tutti noi come una domanda radicale esistenziale e politica, veramente politica perché esistenziale e veramente esistenziale perché politica).
Per uno come me, la riflessione sull’oggi politico rimanda sempre agli anni Sessanta-Settanta: che cosa è mancato allora che ha spinto alla dissoluzione di quel periodo di lotte, aggregazioni, tentativi di cambiamento? Accanto alla capacità di lottare, probabilmente è mancata la capacità di costruire. Che vuol dire “costruire”? Come aiuta a chiarire l’analisi di Nunes, “costruire” significa radicarsi in un contesto localizzato in grado di autoriprodursi per durare, in grado di resistere e di arricchirsi, coinvolgendo sempre di più singoli e gruppi. Ma a una condizione essenziale: l’autoriproduzione deve poter partire da o coinvolgere anche i bisogni fondamentali del vivere quotidiano, ciò che con termine più astratto si chiama autoriproduzione della vita quotidiana. Ciò accade in varia misura, ad esempio, in alcune situazioni sudamericane, soprattutto con il movimento zapatista, e nel Rojava di Siria. Da qui un’ulteriore riflessione: il radicamento nel locale non significa chiusura ma il contrario: apertura, sia perché nei fatti ogni locale è fortemente dominato del mondiale, come un ramo di coralli nel mare che si scalda, sia perché solo un’esperienza, che necessariamente deve partire dal locale, può permettere di capire e affrontare il mondiale, che altrimenti rimane un cupo fondale lontano.
In Occidente l’autoriproduzione della vita quotidiana è molto difficile per via dei radicali processi di individualizzazione in società intrinsecamente composte da individui in concorrenza reciproca, affogati nell’economia di mercato. Come diceva Margareth Thatcher: esistono solo individui e famiglie, non esiste la società. La forza del capitale risiede proprio nel controllo coinvolgente dell’autoriproduzione sociale. Quello che Marx notava a livello del lavoro salariato si è oggi esteso all’intera vita sociale e naturale: il capitalismo si sta mangiando il mondo: a livello generale, con il dominio della finanza elettronica ma che ricade nel livello locale, ad esempio con gli effetti di un governo come quello in atto.
La valenza politica della cura
Nel nostro piccolo, a Trieste, con i migranti della cosiddetta rotta balcanica, noi ci siamo imbattuti nella dimensione vitale e antropologica della cura, radicata nell’energia che costituisce la vita, per tentare di farne il terreno in cui radicare la politica. Cura è una parola poco considerata nell’ambito di ciò che correntemente si chiama “sinistra radicale” più propensa alla dimensione conflittuale. Ma la cura è alla base della produzione e riproduzione di soggettività. Anche la lotta produce soggettività ma soggettività definita solo da un “contro”, non da un per, soggettività che nega l’esistente piuttosto che produrne uno alternativo. Per cogliere bene l’importanza del bisogno di cura, è opportuno partire dall’infanzia in cui appare nella sua pienezza o anche in situazioni radicali come nelle situazioni di lager di cui narra Primo Levi; ma si possono trovare, per fare un esempio dall’attualità lancinante, anche in Palestina nella cura della terra in contrasto con la sua gestione strumentale israeliana e nella cura reciproca in situazioni come Gaza, laddove Israele appare la negazione radicale della cura.
La piazza del Mondo messa ogni su ogni giorno da Linea d’ombra, nel suo piccolo, tenta di riscoprire e lanciare la cura come base dell’azione politica.
La cura reciproca anche fra gli “attivisti” può essere la base di un gruppo politico ben oltre il legame spesso autoritario di un’ideologia? Per nominare l’insieme politico, oggi non userei più il termine “collettivo” che rimanda a una collectio su base ideologica. Invece, dovrebbe darsi una comunanza fondata nella cura da cui fa emergere un pensiero concreto a partire da questa dimensione veramente radicale nel significato letterale perché attiene alle radici della vita e non a un’utopia.
Il passaggio di base di questo ragionamento riguarda la necessità di impiantare l’azione politica sul bisogno di cura essenziale in quanto dato antropologico e biologico costitutivo di ciò che chiamiamo vita (a livello antropologico primariamente, ma non solo). Far leva su questa dimensione mi appare come l’unico modo oggi di affrontare la questione “politica”: la questione della polis, dell’essere insieme, del fare comunità, del comunismo, se vogliamo ancora usare, come desidera la mia vita, questa parola storicamente così densa, anche troppo densa, cercando di cambiare dal basso la direzione suicida che ha preso la storia, perché l’”alto” ha assunto definitivamente le sembianze di Dracula.
Dal pubblico al comune
In tal senso considero importante la proposta dei compagni dell’ex GKN di avviare un modo di produzione alternativo: priva di proprietà privata, cioè di un padrone diretto o indiretto, come si usa oggi nella forma di fondo d’investimento, ma produttrice in proprio di beni utili e non consumistici.
Oggi le lotte tendono a spostarsi su terreno della riproduzione (pensioni, sanità, scuola…), ma sono pur sempre lotte rivolte contro. Come è possibile agire positivamente, costruttivamente, creativamente, sul terreno della riproduzione creando forme comunitarie di vita (più o meno, tendenzialmente) autonome, immaginando di sostituire il pubblico con il comune?
A me pare che dobbiamo cercar di entrare – seminalmente – in questa visione… Nunes si riferisce a una politica che chiama politica della piattaforma come punto di partenza costitutivo da cui lanciare concreti inviti specifici a partecipare a una determinata situazione (nel nostro caso, legato al fenomeno migratorio). Ragionare in termini di logica della piattaforma porta a ritenere che una volontà comune può nascere nel rispondere a una iniziativa concreta portata avanti senza un precedente mandato collettivo, ma il cui mandato sorge dal basso radicato in una situazione sociale essenziale che Nunes chiama di ecologia politica per indicare che coinvolge sempre una globalità del vivere che l’azione politica “tradizionale” tende a trascurare o a non cogliere e la necessità di radicarsi, anche nella vita quotidiana, a una problematica essenziale, vitale, ma localmente concreta.
Il concetto di ecologia politica sostituisce, dall’interno di una concreta situazione sociale, il concetto o la nozione di “movimento” di cui, piuttosto, è la decantazione, il precipitato: una situazione di ecologia politica è meno di un’organizzazione politica perché non ha un principio organizzatore unificante, ma è più di un’organizzazione perché non è meramente intenzionale: è l’effetto emergente di condizioni, azioni e sforzi diversi a partire da una situazione o da situazioni sociali concrete di cui si cerca di cogliere l’elemento comune. È “un’ordine spontaneo che racchiude degli ordini realizzati intenzionalmente”, in cui ”la funzione di leader circola”, non si irrigidisce in un singolo o in un gruppo e qui si tocca un passaggio centrale: “la possiamo chiamare leadership distribuita”, indicando la direzione di un cammino. La leadership, quindi, ha una funzione dirigente, apre un cammino, ma non occupa stabilmente un posto, è una funzione e non una posizione. Da qui la differenza fra leadership come rappresentanza e leadership come spinta iniziale, come iniziativa: “Un’iniziativa non è una direttiva ma piuttosto una domanda che costringe le persone ad assumere una posizione soggettiva in relazione al loro desiderio e a capire come può essere messo in pratica”. Mi sembra interessante questa definizione della figura tradizionale del leader. La leadership svolge una funzione ineliminabile dalla politica: dare l’impulso iniziale a un comportamento collettivo, ma non deve diventare un potere sul collettivo: questo è finora fallito, più o meno.
Nunes, riferendosi al sociologo statunitense Eric Olin Wright, distingue fra tre tipi di strategie: strategie di rottura (prendere o distruggere lo Stato); strategie interstiziali (costruire alternative al di fuori del mercato e dello Stato); strategie simbiotiche (usare il mercato e/o lo Stato). Si tratterebbe di giocare fra queste diverse strategie. L’alternativa è, per me, ovviamente da privilegiare, ma anche la strategia simbiotica può essere parzialmente usata e non è da escludere nemmeno la strategia di rottura.
Passaggio fondamentale è la necessità di radicare un’ecologia politica nella vita quotidiana. “La mancanza di questo radicamento è la migliore spiegazione della rapidità con cui i movimenti degli ultimi decenni sono esplosi e sembrano poi essersi spenti”. Io aggiungerei degli ultimi sessant’anni… Questo è un punto essenziale: la forza più grande del potere sta nella chiusura della soggettività nella forma dell’individuo (de)privato.
È anche il punto più difficile: quello che unisce vita quotidiana e vita collettiva, sulla cui divisione il Capitale ha finora trionfalmente puntato. Senza il superamento di questa scissione non sarà possibile quel cambiamento radicale che è ormai vitalmente necessario.
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