Siamo ancora qui
LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E
NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA
“PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA”
LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA
QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI
INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD
ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO
PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE.
QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È
DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE
Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione
Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le
manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e
ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della
mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con
altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non
solo.
A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato
dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più
di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza
elevatissima di studenti e giovani.
Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale
hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre
organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza
giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della
moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni.
In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella
che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000
persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari
israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal
porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che
ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i
suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo
malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute
nei movimenti globali per la Palestina libera.
Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento
che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni
di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive
– se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro.
Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto
era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa
“pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è
stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni
a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni
protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due
mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace
proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento
secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste
stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di
molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è
direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo
caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico,
che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle
università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una
forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo
proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene
subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i
social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo
punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il
mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici
di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece:
teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia.
Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono
entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione
globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel
genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che
riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque,
come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni
globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che
costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato
definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge
chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui
riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia
di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano
le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con
grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante
ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai
propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più
conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte
compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario
(così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei
peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria
dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e
quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non
lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade
negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia
tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le
famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini
alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per
mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a
quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi
anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle
piattaforme.
Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo
elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi
modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra
e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza
logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei
flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la
logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto
tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un
ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli
anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni
tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in
una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La
logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto
marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria
bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i
prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di
componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena
una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella
linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente
finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La
privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle
operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha
sottolineato tale centralità.
Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano
il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri
soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali.
“Articolare tra” è diverso da “convergere verso”.
Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia
sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa
misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola
d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di
guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati.
Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente
prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno
influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo
rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di
ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e
internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso
la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di
approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe
fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che
stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini
delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze,
licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti.
Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che
arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon
Watch e di altre organizzazioni di volontariato.
La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i
propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che
si renda necessario.
La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di
valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è
sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi
popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò
avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e
nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno
disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a
frequentare fin da ora.
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*Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue
più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva
1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di),
Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente
con riviste online italiane e lusofone.
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