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Un’esperienza comunitaria grande come una valle
ANCHE QUEST’ANNO, LONTANO DALLE ATTENZIONI DEI GRANDI MEDIA, IL FESTIVAL ALTA FELICITÀ HA ACCOLTO IN VAL SUSA MIGLIAIA DI GIOVANI, LA LORO VOGLIA DI COLLABORARE, DI FARE DOMANDE, DI BALLARE. IL LORO GRIDO DI VITA ROMPE IL DOMINIO DI VIOLENZA E DENARO -------------------------------------------------------------------------------- Alcune foto della marcia No Tav del 26 luglio 2025. Qui il servizio completo di Luca Perino, che ringraziamo. -------------------------------------------------------------------------------- Dove si trova la vita? Ok partiti alti. Eppure è stato il pensiero continuo avendo negli occhi interminabili file di ragazzi e ragazze, da settimane intercettati dal sole di luglio, gambe e braccia abbronzati. Vestiti di poco. In coda per colazioni, bagni, pastasciutte, panini, prelibatezze spadellate dai “Fornelli in lotta”. E perché no anche polente, panini e grigliate. Siamo in Valle di Susa, al Festival Alta Felicità. File senza fine, sempre rispettate. Non uno spintone, uno scazzo, una deriva. Scrive su Fb Viviana una mamma: “Ho filmato la marcia dei ragazzi No Tav perché almeno tramite social si conoscesse la verità. Non sono teppisti, estremisti, terroristi. Chiedono a noi adulti di essere onesti, di dire la verità, di raccontarla giusta. Io li ho visti, li ho sentiti parlare e ridere e stare insieme e anche piangere. E ho pensato che il campeggio No Tav è una tra le esperienze di vita comunitaria migliori che possano fare i ragazzi”. Arrivano da tutta Italia e anche dall’estero, arrivano in auto fino a Susa, in treno, in moto e poi usano le navette gratuite per raggiungere il piccolo comune montano (900 abitanti). Arrivano con zaini, borracce. Si chiamano “tende a strappo” sono leggere, circolari e in un attimo sono montate sul prato, una accanto all’altra a formare un’onda enorme di teli blu. Un’onda come il grido che risuona per tutta l’area da centinaia di ragazzi che scandiscono: “Siamo tutti antifascisti”. Il Comune di Venaus è diventato famoso dopo le giornate di lotta e sgombero dell’8 dicembre 2005 (a fine anno saranno vent’anni e sono trent’anni da quando l’opposizione alla grande opera è iniziata): qui le navette da una corsa all’altra continuano a sfornare centinaia di ragazzi, sotto il sole o sotto la pioggia, niente li ferma. Nove anni fa il primo Festival Ad Alta Felicità. Quanto siamo cambiati? Quanti non ci sono più? È abbastanza normale chiederselo, eppure questo senso di smarrimento si scioglie e riprende carica riflettendosi nei loro visi, nelle loro domande, nella disponibilità a lavorare fianco a fianco con i gruppi di “anziani” che garantiscono i vari stand mangerecci. Tagliano la frutta a pezzi per la sangria senza sottrarsi a raffiche di domande di chi diventa per due ore zia, nonna, curiosi di conoscere il loro futuro. Sotto un grande tendone gli incontri iniziano venerdì e portano la voce di Gaza con il libro di Betta Tusset e don Nandino Capovilla, da oltre vent’anni presente nella Striscia, ed Enzo Infantino dell’associazione Sabra&Chatila. Segue un incontro sull’intelligenza artificiale con Alberto Puliafito e Stefano Barale. Cambio palco: si parla di lavoro con la lotta delle fabbriche: Raffaele Cataldi racconta la sua esperienza all’Ilva di Taranto e il suo libro Malesangue; con lui c’è Dario Salvetti (ex GKN) autore di Questo lavoro non è vita. Si guarda avanti per inventarsi un futuro. Sul profilo Instagram del Collettivo di Fabbrica GKN si legge: “Tre cargobike saranno messe a disposizione come mezzo navetta da Susa a Venaus. Come tutti gli esperimenti, non sappiamo come andrà. Sappiamo che è giusto provare. Poi riprovare. E dopo riprovare. Se non per riuscire, almeno per fallire meglio. Tutte le info sul progetto https://insorgiamo.org/cargo-bike/”. Conclude la giornata di venerdì ancora un incontro sulla Palestina e un collegamento con di Antonio Mazzeo dalla nave Handala fermata dagli israeliani. Impossibile elencare tutti gli eventi organizzati anche dall’altro palco postazione “autogestita”. Impossibile elencare tutti i gruppi musicali, gratuiti, che hanno riempito le serate fino a tardi. Sabato la parola va ai “Tetrabondi”, tetraplegici e vagabondi, per superare il pietismo legato alla disabilità. In valle sono molte le esperienze positive che interpretano bene il titolo dell’incontro: “A volte la disabilità è l’ultimo dei miei problemi”. Nella stessa mattinata la cooperativa Il Sogno di una cosa, con un gruppo di ragazzi porta il proprio contributo sistemando l’area concerti. La domenica mattina viene aperta da Angelo Tartaglia, Lorini e Roberto Aprile con una riflessione sul nucleare e sulle confluenze sempre più necessarie. Segue un partecipatissimo incontro: “Guerra alla guerra. Assemblea nazionale, un appello per la costruzione di un percorso contro la guerra, il riarmo il genocidio della Palestina”: un appello a tutti coloro che vogliono mettersi in dialogo e che vogliono convergere per curvare un destino che sembra ineluttabile. Ilaria Salis e Patrik Zaki hanno chiuso la tre giorni di incontri e musica parlando della loro esperienza. I giornali non hanno riportato un rigo su tutto quello che c’è stato di positivo. Più facile tornare a parlare di “frange” violente che non di ragazzi che hanno percorso la manifestazione ballando e cantando. Sui social è partito il dibattito sulla valle pacificata o no. E quali strumenti sia più giusto usare. Pensando di pareggiare i conti è stato dato fuoco al presidio No Tav di San Didero. E la storia continua. Altre due foto di Luca Perino, scattate durante il concerto di Francamente (25 luglio) Anni fa un articolo su “Carmilla” aveva sintetizzato i giorni del festival, non molto diversi da quelli appena trascorsi. “Portafogli e zaini smarriti, subito ritrovati. Risse per ubriachi molesti, zero. Retorica, zero. Malori per sostanze varie, zero. Partiti e sindacati, zero. Spacciatori di droghe pesanti, zero. Polizia, zero. Star, musicisti, autori altezzosi, zero. Ecco, forse su questo vale ancora la pena di fermarsi per una riflessione. Non si erano mai visti tanti artisti, alcuni persino inattesi, insieme prendere posizione sul NoTav…”. Non si erano mai viste generazioni così diverse collaborare insieme dando vita a una gigantesca “foresta di Sherwood” che si batte contro dei nemici molto molto più cattivi, pericolosi, violenti e squallidi dello “sceriffo di Nottingham” al servizio di un unico dio, il denaro. Sui social il dibattito è vivace. Quali strumenti usare per far sentire le proprie ragioni? Intanto domenica sera alle ore 22 dall’arena concerti Borgata 8 dicembre è stato fatto rumore aderendo all’appello: ”Disertiamo il silenzio” pensando a Gaza. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche Volerelaluna.it -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Un’esperienza comunitaria grande come una valle proviene da Comune-info.
La guerra minaccia i semi
-------------------------------------------------------------------------------- Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nel 2025, in un mondo scosso da crisi geopolitiche, anche i semi diventano vittime della guerra. Da Khartoum a Charkiv, da Gaza ai monti dell’Afghanistan, le banche genetiche che custodiscono la biodiversità agricola mondiale subiscono attacchi, saccheggi, chiusure forzate. E con loro rischiano di scomparire le varietà tradizionali di cereali, legumi e ortaggi adattate nei secoli a climi estremi, suoli poveri e parassiti locali. Veri e propri tesori genetici oggi più che mai preziosi, in un mondo sempre più caldo e instabile. Per salvare questo patrimonio, gli scienziati si affidano a un luogo remoto e gelido. Da 2008 il Global Seed Vault alle isole Svalbard, scavato nel permafrost artico norvegese, conserva in condizioni sicure milioni di semi provenienti da ogni angolo del Pianeta. Una sorta di Arca di Noè vegetale pensata per resistere a guerre e disastri naturali. I semi minacciati dalla guerra in Sudan, Ucraina e Palestina Il caso più drammatico è forse quello del Sudan. Come racconta il giornalista Fred Pearce su Yale Environmental 360, a Wad Medani, lungo il Nilo Azzurro, la banca nazionale dei semi custodiva varietà ancestrali di sorgo e miglio perlato, coltivate da millenni e fondamentali per l’adattamento ai climi aridi. Ma nel dicembre 2023, all’inizio della guerra civile, le milizie paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf) hanno invaso il centro. Quando i ricercatori sono riusciti a tornare, tredici mesi dopo, hanno trovato congelatori svuotati e semi sparsi ovunque. Il direttore delle risorse genetiche, Ali Babiker, ha recuperato quel che restava da una stazione di ricerca a Elobeid e, nel febbraio scorso, ha spedito i semi alle Svalbard. Ma solo un quarto della collezione sudanese è stato finora messo in salvo. Simile la sorte dell’Ucraina. Prima della guerra, il Paese era tra i maggiori esportatori di grano al mondo grazie anche alla banca genetica di Charkiv, tra le dieci più grandi a livello globale. Nel 2022, però, un bombardamento russo ha colpito l’istituto. Parte della collezione è stata salvata e trasferita in un luogo segreto a ovest, ma molte varietà restano in territori occupati. Solo 2.780 campioni — su 154mila totali — sono oggi duplicati alle Svalbard. In Palestina, invece, la banca dei semi di Hebron — gestita dalla Union of Agricultural Work Committees (Uawc) — continua a operare nonostante le pressioni israeliane. Dal 2003 raccoglie varietà locali di ortaggi coltivati tra Cisgiordania e Gaza. Nonostante nel 2021 Israele abbia designato la Uawc come organizzazione terroristica, l’Unione europea e le Nazioni Unite continuano a collaborare con i suoi ricercatori. Nell’ottobre scorso i primi semi palestinesi sono arrivati al Global Seed Vault: un segnale di speranza in un contesto altamente instabile. Le banche dei semi a rischio: cause e territori coinvolti Molti dei centri di origine delle colture mondiali — luoghi dove i primi agricoltori hanno addomesticato grano, orzo, lenticchie — coincidono oggi con zone di conflitto. Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen. In questi territori i semi non sono solo cibo: sono memoria, cultura, resilienza. In Afghanistan, ad esempio, le banche genetiche sono state sistematicamente distrutte sin dagli anni ’70. Le collezioni sono state rubate, disperse, bruciate. Anche in Iraq la guerra ha fatto il suo corso, con la distruzione nel 2003 del centro di Abu Ghraib. Ma alcuni ricercatori, prevedendo che qualcosa di simile potesse accadere, avevano già inviato i campioni all’Icarda (International Center for Agricultural Research in the Dry Areas) di Aleppo, in Siria. Quei semi hanno poi attraversato nuove guerre e, poco prima dell’assalto dell’Isis, sono stati trasferiti in Libano, Marocco e alle isole Svalbard. Un viaggio travagliato che ha permesso di preservare varietà di grano, orzo e legumi antichissimi, ora usati per selezionare nuove piante resistenti alla siccità. Come se non bastasse la guerra, anche i cambiamenti climatici causati dall’uomo e i conseguenti eventi meteorologici estremi stanno minacciando la sopravvivenza dei semi a livello globale. Lo scorso anno, riporta Pearce, le isole Svalbard hanno prelevato semi duplicati dalla banca genetica nazionale filippina di Los Baños. Quest’ultima ha perso più di metà della sua collezione due volte, prima a causa di un tifone nel 2006 e poi a causa di un incendio nel 2012. Le banche dei semi minacciate anche dai tagli ai finanziamenti La rivoluzione verde degli anni ’60 ha permesso di sfamare miliardi di persone, introducendo – specie nei Paesi del Sud del mondo – sementi ad alta resa, fertilizzanti chimici e tecniche moderne di irrigazione. Ma ha anche ridotto drasticamente la varietà genetica delle colture. Oggi la maggior parte dei campi coltivati nel mondo si basa su poche varietà selezionate per produrre il massimo con l’uso intensivo di fertilizzanti e irrigazione. Senza la ricchezza genetica dei semi tradizionali, però, sarà impossibile affrontare le nuove sfide: parassiti, malattie, siccità, ondate di calore.  Era il 1921 quando il famoso agronomo Nikolai Vavilov fondò la prima banca dei semi al mondo, in Russia. Oggi la maggior parte delle nazioni dispone delle proprie strutture, supportate da 11 banche internazionali gestite nell’ambito di una partnership nota come Cgiar (Consultative Group on International Agricultural Research), finanziata in gran parte dai governi. Eppure, proprio oggi, questo sistema globale vacilla. Gli Stati Uniti, attraverso Usaid, erano tra i principali donatori della rete Cgiar. Ma, con i tagli alla cooperazione internazionale stabiliti dal presidente Donald Trump, molte banche dei semi che fanno parte di questa alleanza rischiano la chiusura. Il centro statunitense di Fort Collins ha subito licenziamenti, ad esempio, e il Regno Unito, attraverso il Millennium Seed Bank, denuncia un clima crescente di sfiducia. A proposito di sfiducia, persino la Norvegia, sede del “caveau dell’Apocalisse” (come è chiamato il centro di conservazione delle Svalbard), comincia a essere vista con sospetto dagli altri Stati. Lo storico interesse russo sulle isole Svalbard sta alimentando i timori: alcuni governi esitano a inviare i propri semi, temendo per la loro sovranità genetica. I semi come patrimonio da proteggere dalle guerre Conservare i semi del passato significa garantire cibo nel futuro. Significa poter selezionare piante più resilienti, più adatte ai cambiamenti climatici, meno dipendenti da input chimici. Significa difendere la biodiversità agricola, che è alla base della nostra sopravvivenza. Le guerre bruciano archivi genetici che hanno richiesto secoli per formarsi. Ma, ogni volta che un ricercatore riesce a salvare un campione e spedirlo alle Svalbard, quella memoria vegetale trova rifugio tra i ghiacci. Finché ci saranno semi da proteggere, ci sarà ancora una possibilità di riscrivere la storia. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Valori -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI DANIELA DI BARTOLO: > Salviamo i semi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra minaccia i semi proviene da Comune-info.
La via delle scelte disarmanti
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Mondeggi Bene Comune -------------------------------------------------------------------------------- Come ogni brava sentinella addetta a segnalare il pericolo, da cinquantaquattro anni l’istituto statunitense Global Footprint Network vigila per avvertirci quando oltrepassiamo il limite di sicurezza imposto dalla capacità biologica del pianeta. Quest’anno il nostro ingresso in zona insicura è scattato il 24 luglio, un record mai raggiunto prima. Più precisamente il 24 luglio segna la data in cui l’umanità ha esaurito tutto ciò che il sistema naturale è stato capace di fornire per il 2025 attraverso il meccanismo della rigenerazione biologica: nuovi raccolti agricoli, nuove piante da taglio, nuovi animali per alimentarci, nuovo sistema fogliare per sbarazzarci dell’anidride carbonica. Il Global Footprint Network chiama questo giorno “overshootday”, in inglese “giorno del sorpasso”, ad indicare la data in cui nostra voracità supera la capacità di rigenerazione della natura. E se ci pare che il problema non esista è perché finiamo l’anno a spese del capitale naturale, un po’ come quella famiglia che avendo finito la legna da ardere, continua a scaldarsi gettando nel cammino suppellettili o addirittura travicelli del tetto. Lì per lì sembra che tutto tenga, ma se l’operazione si ripete ogni anno, finisce che quella famiglia si ritrova senza legna e senza casa. L’umanità corre lo stesso rischio, precisando che la responsabilità dello squilibro non ricade su tutti nella stessa misura. Qualcuno, addirittura, non ha colpa alcuna. Il Global Footprint Network ci ricorda che per rimanere in equilibrio con la capacità rigenerativa del pianeta ognuno di noi dovrebbe avere un’impronta ecologica non superiore a 1,6. In altre parole dovremmo mantenere i nostri consumi annuali di cibo, legname, prodotti energetici, entro livelli compatibili con 1,6 ettari di terra fertile. In realtà gli abitanti del Lussemburgo hanno consumi che richiedono la disponibilità pro capite di 12,8 ettari, gli statunitensi di 7,9, gli italiani di 4,5 ettari. Solo tre paesi (Sudan, Senegal, Sud Sudan), per un totale di appena 80 milioni di abitanti, sono in linea con l’impronta sostenibile di 1,6. Ma poi ce ne sono altre decine con un’impronta inferiore. Schematicamente potremmo dividere l’umanità in tre gruppi: un terzo con un’impronta di molto superiore a quella sostenibile, un terzo di poco superiore, un terzo al di sotto. Il terzo con un’impronta di molto superiore è quella che conserva la responsabilità maggiore dello squilibrio planetario e quindi deve tagliare di più i propri consumi. La riduzione dei consumi richiama tre livelli: quello d’impresa, di famiglie e di collettività. A livello d’impresa la grande sfida è cambiare filosofia. Più che in termini di denaro, le imprese devono ragionare in termini di risorse, quelle concrete: minerali, acqua, energia, rifiuti. Oggi il loro obiettivo è spendere meno soldi possibile. Domani dovranno chiedersi come fare per ottenere prodotti col minor impiego di risorse e la minor produzione di rifiuti possibile. I loro bilanci non dovranno essere solo economici, ma soprattutto idrici, energetici, ambientali. Più che di ragionieri dovranno dotarsi di esperti che sappiano calcolare i consumi di risorse, le emissioni di veleni, non solo durante la fase produttiva di loro diretta pertinenza, ma durante l’intero arco di vita del prodotto. L’ufficio per l’eco-efficienza dovrà essere il comparto più sviluppato di ogni singola azienda, sapendo che le strategie della sostenibilità produttiva passano per quattro vie: il risparmio come capacità di ridurre al minimo la quantità di energia e di materiale impiegato; la rinnovabilità come capacità di ottenere energia e materie prime da fonti rinnovabili; il recupero come capacità di sfruttare al meglio ogni unità di energia, di acqua, di materiale, attraverso operazioni di sinergia e riciclo; il locale come capacità di privilegiare approvvigionamento, scambi e vendita a livello territoriale. Come famiglie, la sfida è cambiare stili di vita cominciando ad eliminare l’inutile e il superfluo. Nei nostri armadi accumuliamo troppi vestiti e ne diamo troppi allo straccivendolo. Sprechiamo l’acqua e usiamo l’automobile anche quando potremmo andare a piedi o in bicicletta. In concreto dobbiamo convertirci alla sobrietà che non significa vita di stenti, ma meno quantità più qualità, meno auto più bicicletta, meno mezzo privato più mezzo pubblico, meno carne più legumi, meno prodotti globalizzati più prodotti locali, meno cibi surgelati più prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata più acqua del rubinetto, meno cibi precotti più tempo in cucina, meno recipienti a perdere più prodotti alla spina. Significa anche capacità di diventare “prosumatori”, ossia produttori di ciò che consumiamo, come succede quando dotiamo le nostre case di pannelli solari o produciamo da soli la nostra insalata. Ci sono aspetti del modo di vivere che tutti possono cambiare senza difficoltà, anzi traendone benefici per il portafogli e la salute. Valga come esempio la riduzione del consumo di carne. Ma ci sono cambiamenti a volte impossibili a causa della propria condizione economica o del contesto in cui si vive. I più poveri, ad esempio, difficilmente potranno fare gli investimenti che servono per migliorare l’efficienza energetica della propria abitazione o convertirsi alle rinnovabili. Allo stesso modo risulterà difficile sbarazzarsi dell’auto se si vive in una periferia sprovvista di servizi e di trasporti pubblici. Per questo è importante chiamare in causa la collettività l’unico soggetto in grado di rimuovere gli ostacoli che impediscono anche ai più deboli di compiere scelte di tipo sostenibile. Una funzione che la collettività può svolgere garantendo ovunque buoni trasporti pubblici, una buona connessione internet, un forte sostegno agli investimenti di transizione energetica, ma soprattutto buoni servizi sanitari, sociali e scolastici. Si è a lungo parlato dell’esigenza di consumo critico e responsabile da parte delle famiglie. Ma ora dobbiamo chiedere anche alla sfera pubblica di adottare criteri di spesa critica e responsabile. Tanto più oggi che si parla insistentemente di aumento delle spese militari. La peggiore delle spese possibili non solo perché finalizzata alla morte, ma perché gravida di conseguenze negative anche da un punto di vista finanziario, sociale, ambientale. Il sistema militare si basa su un uso massiccio di combustibili fossili che lo pongono fra i maggiori produttori di gas a effetto serra. Secondo le organizzazioni Conflict and Environment Observatory (CEOBS) e Scientists for Global Responsibility (SGR), il sistema bellico contribuisce al 5.5% delle emissioni globali, tanto che se fosse una nazione sarebbe al quarto posto della graduatoria mondiale. Senza contare ciò che viene rilasciato durante le guerre. Un gruppo di esperti ha calcolato che durante i primi tre anni di guerra fra Russia e Ucraina sono state prodotte 230 milioni di tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di quante ne emettono in un anno Austria, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, messi insieme. L’Unione Europea ha lanciato un piano di riarmo europeo del valore di 800 miliardi di euro, che se venisse applicato farebbe aumentare considerevolmente le emissioni del settore, in aperto contrasto con l’Accordo di Parigi del 2015 e con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. I nostri governanti sostengono che bisogna armarsi per prevenire la possibile morte indotta da potenziali aggressioni. Ma ha senso esporsi a rischi certi per evitare rischi potenziali? O non sarebbe più intelligente seguire la via della pace disarmata e disarmante indicata da papa Leone? -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche ad Avvenire -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ALEX ZANOTELLI: > Disobbedienza civile contro il riarmo -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La via delle scelte disarmanti proviene da Comune-info.
C’è chi dice no
-------------------------------------------------------------------------------- Il 22 luglio, un presidio di protesta ha bloccato il porto di Syros, in Grecia (foto unsplash.com), per impedire ai ricchi passeggeri israeliani di sbarcare dalla nave da crociera Mano Maritime. Uno striscione con la scritta Stop the genocide ha accolto la nave che è stata costretta a cambiare rotta -------------------------------------------------------------------------------- Avevamo creduto che un altro mondo fosse possibile. Un mondo fondato sulla pace, sulla giustizia, sulla dignità di ogni essere umano. Oggi, mentre le bombe continuano a cadere su Gaza e i corpi dei bambini vengono estratti dalle macerie, sentiamo risuonare dentro di noi l’urlo del quadro di Munch, quell’urlo muto che dovrebbe squarciare l’indifferenza, perforare le coscienze addormentate, attraversare le stanze blindate del potere. Eppure il mondo tace. Vediamo le immagini, ascoltiamo i racconti, leggiamo i numeri che diventano nomi, i nomi che diventano volti, i volti che scompaiono. Dove sono finite le parole che fermano le mani assassine? Dove si nascondono gli uomini quando l’umanità viene calpestata? Sentiamo le parole di chi uccide senza pietà, di chi li sostiene, di chi se ne vanta sui social come di una partita di calcio. Ma io scelgo di non cedere alla tentazione dell’odio. Non augurerò il male, non risponderò con la stessa violenza linguistica. Perché non voglio diventare il mostro che combatto. Voglio spezzare questa catena maledetta di crudeltà, coltivare invece la capacità di comprendere, di comunicare oltre le barriere dell’odio. Che lo accettiamo o meno, siamo tutti interconnessi: quello che accade ai palestinesi accade anche a me, accade a tutti noi. La sofferenza di un bambino di Gaza ferisce l’umanità intera. Oggi risuonano più che mai le parole di Ingeborg Bachmann: “La guerra non è mai finita per chi la porta dentro”. Quella ferita continua a sanguinare, si tramanda di generazione in generazione, ci scava l’anima. E ci chiama alla responsabilità. Come possiamo credere a chi dice di difendere il popolo ucraino dall’invasione, se poi chiude gli occhi davanti al massacro del popolo palestinese? La giustizia non ammette eccezioni geografiche o religiose. O è universale, o è solo ipocrisia travestita da morale. Ci arrendiamo troppo facilmente al linguaggio della guerra, della forza bruta, della vendetta che genera altra vendetta. Ma la guerra uccide l’anima prima dei corpi, avvelena il futuro, insegna ai bambini che l’odio è l’unica risposta possibile. Non è questo l’eredità che vogliamo lasciare. Noi dobbiamo essere – e saremo – il linguaggio della pace. Della convivenza. Della giustizia senza compromessi. Dell’uguaglianza che non conosce confini. Se non riusciremo oggi, perché oggi prevale la logica della forza, faremo in modo che accada domani. Ma la pace rimarrà il nostro linguaggio. Sempre. Ogni giorno. In ogni confronto. Impareremo parole nuove. Sceglieremo ogni termine con cura. Ogni giorno. Ogni ora. E non ci fermeremo mai. C’è un segnale di speranza che illumina il buio: tra i riservisti israeliani la partecipazione al servizio militare è crollata. Si stima che oltre centomila persone abbiano rifiutato di rispondere alla chiamata alle armi. Non per viltà, ma per coraggio morale. Perché sanno che questa guerra ha oltrepassato ogni limite umano. C’è chi dice no, chi rifiuta di essere complice, chi sceglie la disobbedienza della coscienza. Non siamo soli nella scelta della pace. L’alternativa vive e cresce, anche nel cuore di chi dovrebbe impugnare le armi. La pace sarà il nostro linguaggio. Sempre. Ogni giorno. Ogni ora. Impareremo parole diverse. Le sceglieremo una per una, come chi cura un giardino. E non smetteremo mai. Urliamo, ma non ci arrendiamo alla disperazione. Piangiamo, ma non lasciamo che le lacrime spegnano la speranza. Parliamo, anche quando la voce si spezza per l’emozione. Perché il silenzio, ora, sarebbe complicità. E la complicità è la morte della coscienza. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI SILVIA RIBEIRO: > L’economia del genocidio e le aziende tecnologiche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo C’è chi dice no proviene da Comune-info.
Ritornare a fare il pane
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di M.M. -------------------------------------------------------------------------------- Restituire la dignità al pane, per ricreare quell’anima contadina che ha scandito la quotidianità e sfamato per millenni interi popoli, è il progetto della costituenda “Comunità del pane” a Olis. Alcuni anni fa quando scrissi il reading multimediale “C’era una volta il pane”, sottolineavo con una certa tristezza che aver confinato il pane tra gli scaffali di un supermercato e scisso fino a mutilare il legame con la terra e con le sue molteplici relazioni, era stato come se gli avessimo rubato l’anima. Il pane era vita, era cultura, era bellezza, ma con l’arrivo della moderna opulenza era diventato una merce! Penso che questa nefasta deriva sia anche il segno della decadenza di alcuni valori e dell’ascesa di altri in cui si magnificano le luccicanti apparenze e si trascurano le cose semplice ed essenziali. Prima che sia troppo tardi per non essere completamente fagocitati dalle sirene di una virtualità, sempre più frenetica e seducente, c’è bisogno di ritornare a vivere in sintonia con i tempi naturali della lentezza e della cura di sé. C’è bisogno di recuperare una sana manualità del fare affinché quei gesti che hanno accompagnato il tempo dei nostri avi possano restituirci il valore più profondo, ovvero la dignità della nostra umanità. È il tempo della condivisione e del piacere di fare le cose assieme. Mani che s’intrecciano e creano legami di intimità in una solidarietà concreta e operosa. Per queste ragioni, durante il periodo pandemico ho avvertito la necessità e l’urgenza di condividere quei saperi che la mia famiglia, in particolare mia madre Giuseppina, mi aveva trasmesso e che rischiavano di essere perduti. Per mia fortuna quel legame con le mie radici non si è mai interrotto del tutto e come un fiume carsico è riemerso in tutto il suo vigore. L’interesse per il pane mi ha portato negli anni a scoprire i grani antichi, a conoscere e apprezzare la passione e la fatica di alcuni contadini e di vecchi e giovani mugnai. Poi la riscoperta del lievito madre, un grumo di farina e acqua che cresce sotto i nostri occhi e diventa per incanto lievito! Prima il mio Pasqualino nato nel giorno di Pasqua e successivamente, grazie al dono dell’amica Stefania, di Matusalemme il lievito madre centenario, mi hanno arricchito di bellezza e di soddisfazioni. Un’esperienza magica, direi emozionante! E così grazie a due amici, Amerigo e Leonardo, è stato costruito un forno a legna nel giardino di Olis. Ad onor del vero la mia piccola pagnottina l’ho sempre sfornata, ma il valore della condivisione è impagabile. Saperi e sapori antichi che s’intrecciano e danno senso e sapore alla vita. La bellezza di queste sane consuetudini e di questi gesti sta soprattutto nella semplicità senza dimenticare la gratitudine verso la terra che dovremmo custodire e non distruggere e verso tutte quelle persone che, non senza fatica e umiltà, si prendono cura del nostro benessere. -------------------------------------------------------------------------------- Tratto dal libro Elogio della sobrietà (Ed. Mondo Nuovo) -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CHIARA SPADARO: > La pasta madre, le domande chiave -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ritornare a fare il pane proviene da Comune-info.
Cammino del sol
LA RIBOLLENTE SOCIETÀ CIVILE SARDA, COI SUOI COMITATI, CON LE SUE MANIFESTAZIONI, ANCHE CON LE SUE DIVISIONI, HA IL MERITO DI AVERE APERTO UN DIBATTITO ALTROVE ANCORA ASSENTE, MA NECESSARIO, PERCHÉ CIÒ CHE I COMITATI CHIAMANO “SPECULAZIONE ENERGETICA” E GLI ALTRI SEMPLICEMENTE “TRANSIZIONE ENERGETICA” È IN CORSO IN TUTTA ITALIA. ALCUNI APPUNTI LORENZO GUADAGNUCCI DAL “CAMMINO DEL SOLE E DEL VENTO” CON REPUBBLICA NOMADE “Paesaggio – mondo interiore, binomio indissolubile”: il messaggio, inciso nel muro, accompagna il disegno di bassorilievo che Lello Porru, autore di singolarissime opere su pareti, ha realizzato accanto al cancello che porta alla sede di Su entu nostu, il comitato di Sanluri che da oltre un decennio si batte per la tutela del territorio. È un messaggio – un motto – da tenere bene a mente quando si parla della Sardegna e delle lotte popolari in corso in difesa del paesaggio e dell’integrità ambientale. C’è qualcosa di specificatamente sardo in questa lotta ecologista, nella sua profondità; è qualcosa che riguarda la particolare storia e gli speciali valori ambientali dell’isola, l’una e gli altri così diversi rispetto al resto d’Italia. L’opera di Porru potrebbe illustrare il “Cammino del sole e del vento” di Repubblica nomade, l’associazione fondata da Antonio Moresco per compiere viaggi a piedi “politico-poetici”, viaggi di conoscenza, di sostegno, di intervento. Quest’anno il Cammino in Sardegna – dal polo industriale di Portoscuso al sito archeologico di Tharros, attraverso il Sulcis-Iglesiente e il Campidano, lambendo Oristano – è stato un’esplorazione di un uno stato d’animo, oltre che di un controverso caso politico e sociale, ossia l’insediamento nell’isola di importanti progetti industriali per le energie rinnovabili, nell’ambito della cosiddetta transizione energetica nazionale, con il progressivo – ma in verità incerto – superamento delle fonti fossili. Sono progetti che stanno suscitando forti proteste nella popolazione, accese controversie fra gli enti locali sardi e lo stato nazionale, numerose azioni giudiziarie, e anche importanti divisioni fra gli attivisti ambientalisti ed ecologisti e nell’opinione pubblica locale e nazionale. La vicenda è nota, ma forse non troppo compresa. Si tratta, detto a grandi linee, degli obiettivi fissati dal decreto Draghi sulle energie rinnovabili (2021) e dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima: la Sardegna dovrebbe arrivare a produrre entro il 2030 circa 6,2 GW di energia dal vento e dal sole, in parte per il proprio fabbisogno, in parte da convogliare nella rete elettrica nazionale. Il decreto Draghi – entrato in vigore senza i previsti decreti attuativi, quelli che avrebbero dovuto fissare, fra le altre cose, precise norme di tutela del territorio – ha spinto l’industria delle rinnovabili a concentrare l’attenzione sull’isola, che è grande, poco popolata, molto soleggiata e molto battuta dal vento. Sono arrivati – dati del marzo 2025 – ben 729 progetti, per una produzione potenziale di 54,5 GW (36% dal sole, 34% da impianti eolici offshore, 30% da impianti eolici a terra), circa 25 volte la produzione attuale sarda di energia rinnovabile (2,2 GW), circa nove volte l’obiettivo indicato dal Piano energetico nazionale. A fronte di questa messe di progetti, mentre nascevano sul territorio malumori, discussioni e movimenti contro quella che è stata chiamata (dai comitati popolari) “speculazione energetica”, la Regione Sardegna, all’indomani dell’insediamento della nuova giunta di centrosinistra guidata da Alessandra Todde, ha prima approvato – luglio 2024 – una legge di moratoria di 18 mesi (poi giudicata illegittima dalla Corte costituzionale) al fine di bloccare i progetti in attesa di un piano regionale complessivo per le rinnovabili, poi una legge sulle aree idonee e non idonee (la numero 20 del dicembre 2024) che ha vincolato per ragioni ambientali, culturali, paesaggistiche circa il 98% del territorio. La legge 20 è stata impugnata dal governo, secondo il quale contiene vincoli troppo stringenti e comunque esorbita dalle competenze regionali: ne è nato un contenzioso che sarà sciolto dalla Corte costituzionale, chiamata a giudicare il caso nel prossimo autunno. Nel frattempo, il Tar del Lazio (maggio 2025) ha bocciato, in alcune sue parti, anche il decreto sulle aree idonee (a livello nazionale) del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che dovrà quindi essere riscritto. È un quadro a dir poco complesso, se non caotico, che ha creato un clima di generale incertezza, ma non ha bloccato i progetti, il cui esame prosegue negli uffici del ministero dell’Ambiente e impegna enti locali e comitati popolari in affannose corse contro il tempo per presentare osservazioni e ricorsi. A complicare ulteriormente il quadro ci sono i progetti per la costruzione di una dorsale del gas, con relativa rete di distribuzione, in una regione che non ha mai avuto una metanizzazione a tappeto, come avvenuto invece nel resto d’Italia. In questo contesto, dunque, abbiamo deciso con Repubblica nomade di “camminare domandando”, fedeli a un desiderio di ricerca e anche di “protezione del futuro” che ha animato l’associazione lungo tutta la sua storia, e specialmente negli ultimi anni, quando l’attenzione si è concentrata sui pericoli che corriamo come persone, come comunità e anche come specie in un mondo travolto da una crisi climatica senza precedenti. È difficile dare conto di tutti gli incontri fatti durante un Cammino durato due settimane, delle cose viste e ascoltate, delle esperienze compiute, ma è possibile, dal mio punto di vista di singolo camminatore, senza pretesa di parlare per altri, riportare i principali appunti che ho preso, le cose che mi pare di avere compreso, o almeno di avere messo a fuoco: sono scoperte, persuasioni, ma anche dubbi e frustrazioni, da prendere per quello che sono: appunti. Chi programma? Addentrarsi nei meandri delle leggi nazionali e regionali, dei regolamenti, dei decreti, delle sentenze di Tar e Corte costituzionale, è un’esperienza straniante, ma fa capire una prima cosa, e cioè che la “transizione energetica” e il conseguente impianto di siti industriali per le energie rinnovabili sta avvenendo – non solo in Sardegna – senza una reale programmazione. C’è un obiettivo da raggiungere entro il 2030 – nel caso sardo i 6,2 GW di produzione energetica da fonti rinnovabili – manca tutto il resto: un’analisi del contesto sociale e territoriale in cui intervenire, un confronto preventivo con le popolazioni e gli enti locali, un progetto di transizione energetica collegato a una trasformazione ecologica dell’economia, alla luce della crisi climatica globale (questo piano sembra del tutto assente). I veri protagonisti di questa delicata e importante partita sembrano così gli industriali delle rinnovabili, pronti a realizzare investimenti per molte decine di milioni e a incassare profitti conseguenti e sicuri (legati anche agli inventivi pubblici), mentre a tutti gli altri toccano ruoli di contorno. E forse è anche per questo che c’è tanta agitazione. I timori dei comitati La prima cosa che ti dicono gli attivisti dei vari comitati (quelli di Sant’Antioco, Carloforte, Nuraxi Figus, Iglesias, Fluminimaggiore, Sanluri) è che sono favorevoli agli impianti eolici e solari e alla “decarbonizzazione” dell’isola: è una risposta preventiva rispetto all’etichetta che si sono trovati addosso, cioè d’essere pregiudizialmente contrari alle pale e ai pannelli, di essere quelli del no, d’essere affetti dalla sindrome Nimby (non nel mio giardino). Niente di nuovo: tutti i comitati “contro le grandi opere inutili”, come a un certo punto hanno cominciato a definirsi, sono passati attraverso quest’operazione di discredito, si pensi al movimento No Tav in Val di Susa; il tempo in verità è stato galantuomo, e oggi sarebbe grottesco attribuire a movimenti che hanno dimostrato di avere competenze, visioni e proposte d’ordine generale di battersi solo per proteggere il proprio giardino. Fatta questa premessa, i comitati sardi sostengono di battersi per la tutela del proprio territorio da un vasto progetto di “speculazione energetica”, cioè un assalto alle risorse dell’isola da parte di società e multinazionali esterne che ancora una volta sfrutterebbero i sardi e la Sardegna a fini di profitto, lasciando sul posto ferite indelebili e poche briciole come “compensazione”. La critica ai progetti è serrata e dettagliata, frutto di studi e competenze acquisite sul campo e apportate da professionisti esperti. I punti d’attacco sono numerosi. C’è il tema del consumo di suolo, trascurato, a dire dei comitati, quando si pensa agli impianti eolici, che non sono innocui “parchi ecologici” ma siti industriali a tutti gli effetti, per gli enormi plinti che devono essere interrati per sorreggere torri alte oltre 200 metri, per le strade di servizio che devono essere costruite, per il complicato smaltimento a fine ciclo degli impianti (circa 25 anni). C’è consumo di suolo, ancora, con gli impianti fotovoltaici, e c’è un impatto tutto da valutare sugli ecosistemi marini per gli imponenti impianti offshore progettati: quello di fronte all’isola di San Pietro, a oltre 12 miglia dalla costa, prevede per esempio oltre quaranta grandi turbine galleggianti ancorate al fondale, su un’estensione di mare lunga trenta chilometri, larga dieci. C’è poi la questione del paesaggio che muta, e muta per sempre, in una regione che ha mantenuto in larga misura la sua integrità ambientale: e qui vale il discorso fatto all’inizio, sulla relazione particolarmente stretta fra il profilo del paesaggio e il mondo interiore dei sardi. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > L’assalto dell’eolico in Sardegna -------------------------------------------------------------------------------- I comitati dicono che siamo di fronte a una speculazione che rischia di mancare perfino l’obiettivo della decarbonizzazione, perché il rinnovabile si sommerà al fossile senza nemmeno sostituirlo; un’operazione che non dice nulla sul futuro dell’isola e della sua economia, sul nuovo “modello di sviluppo” da immaginare al tempo della crisi ecologica. Dove sono, dicono, i progetti per una nuova agricoltura adatta al clima che cambia? I progetti per un’economia ecologica, per la difesa del territorio e delle popolazioni dagli eventi estremi, per la riduzione controllata dei consumi energetici? Marco Pau del comitato “Su entu nostu” ha dato un’immagine di come sarebbe la Sardegna se la “speculazione energetica” si realizzasse davvero: “Dovremmo immaginare l’isola come un puntaspilli, quindi una piattaforma con tanti spilli conficcati, ma anche tanti laghi neri, e il tutto circondato in mare da una corona di altri spilli”. Gli spilli, naturalmente, sono le torri dell’eolico, i laghi neri gli impianti fotovoltaici. Un’immagine, quella di Pau, che inquieta. Ma qual è la proposta alternativa dei comitati, visto che nessuno pensa di poter proseguire a produrre energia con le centrali a carbone e gli oli combustibili? L’alternativa, spiegano, è nei pannelli solari, che dovrebbero essere installati sulle superfici già coperte, quindi senza nuovo consumo di suolo (i tetti di case, capannoni, stazioni, supermercati, parcheggi, edifici pubblici e così via): i comitati citano studi condotti dall’Enea e dall’Ispra, secondo i quali a livello nazionale si potrebbe arrivare in questo modo a produrre da 78 a 92 GW di potenza fotovoltaica. Fatto questo, aggiungono, si tratterebbe di valutare – in Sardegna come nel resto d’Italia – quanto manca a coprire il fabbisogno e agire di conseguenza, con impianti eolici e fotovoltaici di dimensioni a quel punto ridotte e da collocare in “aree idonee” concordate con le popolazioni e gli enti locali. È senz’altro la proposta più ecologica e più prudente che si possa fare, ma non viene presa in considerazione, né in Sardegna né altrove, per le ragioni che dicevamo prima: non c’è programmazione, l’iniziativa è rimessa alle industrie e i poteri pubblici hanno già deciso di svolgere un ruolo di mero supporto politico e normativo; e l’industria ovviamente preferisce progetti a campo aperto, piuttosto che interventi mirati su tetti e aree urbane. Ma l’interesse pubblico e i beni comuni, in questo modo, che fine fanno? Ambientalismi Il dibattito sulle rinnovabili in Sardegna, ma anche altrove, è complicato e alle volte impedito dalla frattura che si è consumata nel mondo ambientalista ed ecologista, da intendere nel senso più lato, includendo quindi comitati e gruppi informali. Una frattura, come spesso accade, vissuta con disagio e malanimo, mentre andrebbe forse accettata per quello che è, e affrontata nel dialogo, sapendo che un’evoluzione delle posizioni è sempre possibile, anzi probabile, di fronte all’incalzare e al mutare dei fatti. Le maggiori associazioni ambientaliste – in Sardegna le più attive sono Legambiente e Greenpeace – non appoggiamo i comitati locali, sostenendo che le loro preoccupazioni per il consumo di suolo e per il mutamento del paesaggio sono eccessive, e comunque non giustificate di fronte all’urgenza di far avanzare il più rapidamente possibile la transizione energetica, vista la drammatica crisi climatica in corso. Non tutti i 729 progetti ricevuti da Terna, fanno poi notare, andranno in porto, visto che dovranno superare delle analisi sugli impatti ambientali, e dunque è sbagliato parlare di assalto alla Sardegna o di speculazione energetica. Queste associazioni chiedono alla Regione di non frenare lo sviluppo dei progetti e anzi di accelerare i tempi della transizione, che potrebbe portare la Sardegna a essere la prima regione 100% rinnovabile, cioè del tutto decarbonizzata. A questo ambientalismo pragmatico, orientato dalla soluzione tecnica, potremmo anche definirlo riformista, un ambientalismo che preme sull’acceleratore della decarbonizzazione e considera accettabili i prezzi ambientali da pagare (dopo averli ovviamente minimizzati attraverso le previste leggi di tutela), si contrappone un ecologismo più politico, più vicino alla “conversione ecologica” di Alex Langer e alla “ecologia integrale” dell’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco. È la posizione di chi vuole lottare per un cambiamento più profondo dell’economia, quindi delle produzioni e dei consumi, nella consapevolezza che una “semplice” transizione energetica, con la sostituzione progressiva delle fonti fossili con quelle rinnovabili, se anche avvenisse, non risolverebbe i problemi dell’economia globale e del surriscaldamento climatico, visto che la corsa verso la crescita, verso l’estrazione di terre rare e altre risorse scarse non si fermerebbe, e richiederebbe un crescente, inarrestabile aumento della produzione di energia, più o meno rinnovabile, in un ciclo senza fine. La lotta, secondo questo filone di impegno, deve dunque svelare il bluff in atto, la “transizione energetica” che non è “conversione ecologica”, e proteggere il territorio da interventi che ne muterebbero per sempre l’aspetto e le vocazioni senza nemmeno avviare un reale cambiamento del “sistema”. Ci sono quindi due modi quasi paralleli d’intendere l’impegno ecologista, e questo pone un dilemma per gli attivisti del nostro tempo: per quale causa vale la pena impegnarsi? La decarbonizzazione La Sardegna ha un indubitabile fardello: due centrali a carbone ancora attive (Portoscuso e Porto Torres), per le quali viene continuamente posticipata la data di dismissione. L’urgenza di procedere con l’insediamento di nuovi impianti di energia rinnovabile è quindi reale, anche se resta il dubbio se vi sarà davvero un automatico spegnimento delle centrali a carbone una volta che sarà aumentata la produzione di energia rinnovabile. Il fatto è che la generale crescita del fabbisogno di energia non sembra destinata a fermarsi e nemmeno a rallentare – tutt’altro, se pensiamo ai programmi di sviluppo dell’intelligenza artificiale, comparto altamente energivoro, così come l’industria bellica, anch’essa destinata a prosperare secondo i nuovi programmi europei – e quindi il dubbio è legittimo: prima di fermare le centrali a carbone (e di chiudere i rubinetti del fossile nel resto d’Italia) riducendo di fatto la produzione energetica complessiva, ci sarà sempre la tentazione della proroga, visto che la “vocazione ecologica” del sistema industriale sembra piuttosto debole, se non inesistente. Dà da pensare, in Sardegna, la persistenza di un grande progetto infrastrutturale per il gas, tutt’altro che abbandonato e anzi sostenuto da potenti e ben visibili interessi. La stessa Legge Montebello di iniziativa popolare, sottoscritta da oltre duecentomila cittadini, e proposta come strumento per fermare la speculazione sulle rinnovabili, è stata vista da molti – provocando anche una frattura fra i comitati – come un cavallo di Troia del progetto-metano, anche perché fra i promotori figuravano noti esponenti della destra sarda, sostenitori storici di questa nuova infrastruttura. Tirando il ballo il gas, ovviamente, non si parla più di decarbonizzazione. La stessa presidente Todde in alcune interviste ha “aperto” all’opzione metano, sia pure come fonte “transitoria”, da sfruttare in attesa di un passaggio completo alle rinnovabili, ma al prezzo, ovviamente, di ospitare navi rigassificatrici vicino alle coste e di costruire reti di trasporto del gas, sia pure meno estese di quelle previste dal progetto della dorsale di distribuzione in tutta l’isola. I due ambientalismi di cui dicevamo, su questo punto concordano: sarebbe assurdo portare il gas in Sardegna, mentre dovrà essere dismesso in tutta Italia secondo i piani, o almeno le dichiarazioni, di futura decarbonizzazione. Per il momento sembra che le fonti di produzione energetica siano destinate a sommarsi: carbone, più rinnovabili, più gas, e non solo in Sardegna, bensì in tutta Italia, anche perché nelle intenzioni e nelle previsioni non c’è una riduzione, bensì un incremento dei consumi energetici, e semmai l’esigenza di garantirsi approvvigionamenti politicamente sicuri, cioè forniture di gas e petrolio da paesi “amici”. Sono i progetti del governo, dell’Eni, un po’ di tutti i poteri che contano. La storia La nozione di “speculazione energetica” ha una forte efficacia comunicativa, in quanto evoca un sistema industriale proiettato alla massimizzazione del profitto, approccio peraltro rivendicato, nonché legittimato socialmente e politicamente. In Sardegna, poi, la sua forza è moltiplicata da una consapevolezza storica: la lunga, ininterrotta azione di “estrattivismo” che l’isola ha subito. Camminando, si ha il tempo e il modo di osservare tutti i segni lasciati nel territorio dalle più recenti ma anche dalle più antiche “estrazioni”: è una storia che si incontra di continuo. A Portoscuso, per dire, il Comune ha messo nel suo simbolo, accanto all’antica tonnara (ora minacciata da un impianto eolico offshore) e una torre altrettanto antica, anche una fabbrica con due ciminiere sbuffanti fumo. Una simbologia insolita, ma che restituisce bene la sorte toccata a certi luoghi dell’isola: scelti, in qualche modo sacrificati, per insediarvi dall’alto industrie pesanti, a forte impatto ambientale e con rischi sanitari per le popolazioni a dir poco sottovalutati. A Portoscuso, un piccolo centro affacciato sul mare davanti all’isola di San Pietro, il decollo industriale coincise con la progressiva dismissione delle miniere: si pensò, in questo modo, di compensare la perdita di posti di lavoro. Nacquero grandi industrie per la lavorazione dei metalli, con la produzione di laminati in alluminio, di zinco e piombo e altro ancora; poco distante dalla centrale a carbone si impiantò anche una fabbrica per la lavorazione della bauxite, con la materia prima importata nientemeno che dall’Australia (è la fabbrica che ha lasciato una discarica di fanghi rossi inquinanti di venti ettari). Il sindaco di Portoscuso, Ignazio Atzori, che ha un passato da medico condotto e ufficiale sanitario della cittadina, parlando con Repubblica nomade ha ricordato la “scoperta”, ormai quarant’anni fa, dei danni alla salute degli abitanti causati dal piombo: si arrivò a proibire il consumo di latte e ortaggi prodotti sul posto. A Portoscuso, in aree industriali dimesse e ormai inutilizzabili in altro modo, sono state collocate – senza particolari conflitti – numerose pale eoliche, ma ora il Comune è solidale con i comitati che si battono contro l’eolico offshore, considerato una minaccia non solo per il paesaggio ma anche per gli ecosistemi marini e le stesse abitudini dei tonni, la cui pesca è un’attività del luogo ancora importante. E camminando verso Iglesias, passando poi per Masua e Arbus, si incontrano i resti delle vecchie miniere, tutte ormai dismesse, ruderi di una civiltà del lavoro – in realtà di una forma di sfruttamento ai limiti dello schiavismo – arrivata al tramonto già da alcuni decenni. Alcune parti delle miniere sono state “recuperate” e inserite, come luoghi di memoria, nel Cammino minerario di Santa Barbara, una proposta di turismo lento e dolce sulla quale gli abitanti del luogo, ma anche gli enti locali, hanno investito tempo e attenzione. Ma restano profondissime le ferite nel paesaggio. Pierluigi Carta, ex sindaco di Iglesias, ha accompagnato per un tratto Repubblica nomade e ha mostrato, nei pressi della grande miniera di Monteponi, alle porte di Iglesias – una città nella città -, la collina formata nei decenni con gli scarti dei materiali di miniera: una collina rossastra, ora terrazzata, che rilascia polveri di arsenico e altre sostanze a ogni folata di vento. Ebbene, ha raccontato Carta, al tempo del suo mandato da sindaco (2005-2010) fu compiuto uno studio di fattibilità e si capì che facendo lavorare 150 camion al giorno per 15 anni (!), portando i materiali a Portovesme dove uno stabilimento ad hoc avrebbe potuto trattarli e almeno abbattere le sostanze più pericolose, si sarebbe riusciti a smaltire appena la metà della montagna di detriti (e altri detriti, naturalmente, sarebbero rimasti a Portovesme dopo il trattamento, riproponendo il problema dello smaltimento). Ci sono poi in Sardegna – mai dimenticarlo – vaste porzioni di territorio sotto servitù militare, utilizzate per esercitazioni belliche e come poligoni di tiro, con importanti conseguenze anche sulla salute pubblica. Insomma, ci sono ferite che non sono sanabili, e infatti nel paesaggio sardo si è sedimentata la travagliata storia dell’isola. Repubblica nomade lungo il suo percorso, nel caldissimo Medio Campidano, ha lambito Villacidro, cittadina natale di Giuseppe Dessì, autore di un romanzo memorabile, Paese d’ombre, premio Strega nel 1972. È il racconto, a cavallo fra Otto e Novecento, attraverso la vicenda del protagonista Angelo Uras, dello sfruttamento di quest’area sud-occidentale della Sardegna, che al tempo dei Savoia fu letteralmente disboscata per alimentare le fonderie e per il commercio del legname. Paese d’ombre è un grande romanzo storico, che ricorda, fra le altre cose, il famoso sciopero dei minatori di Buggerru nel 1904, sedato nel sangue dai carabinieri, e all’origine del primo sciopero generale nazionale della storia d’Italia (11 settembre 1904). Oggi Buggerru è un centro semi spopolato – circa mille abitanti – che cerca di sostenersi con il turismo lento dei cammini e con il turismo del vento (è un piccolo paradiso per surfisti, grazie al maestrale), ma il ricordo della spoliazione non è cancellato e anzi fa parte, come una spina ancora dolorosa, del rapporto speciale che lega la popolazione sarda al “suo” paesaggio. Le comunità energetiche Se la via prescelta per la “transizione energetica” è quella dei grandi progetti, calati per lo più dall’alto, e con il volante dell’ideale vettura del cambiamento “green” saldamente in mano alle tecnocrazie pubblico-private, il modello delle Comunità energetiche (Cer) dovrebbe rappresentarne l’alternativa speculare: costruite dal basso, modellate sulle esigenze locali, con la partecipazione diretta dei cittadini, delle imprese del posto e delle amministrazioni pubbliche. In un mondo ideale, le Cer sarebbero le protagoniste della “conversione ecologica”, che partirebbe dal basso, dai bisogni locali, e poi si allargherebbe alla solidarietà fra territori, in una logica di riduzione controllata dei consumi globali e di minimo impatto ambientale e paesaggistico, in un contesto generale di trasformazione dell’economia. Ma non è questo lo scenario presente, tutt’altro. I Comuni di Villanovaforru e Ussaramanna – meno di 1.500 abitanti in tutto – sono stati i pionieri delle comunità energetiche sarde, e i due sindaci – Maurizio Onnis e Marco Sideri – raccontano volentieri, sotto un porticato in collina, l’esperienza compiuta, ma sgombrano anche il campo da ogni illusione: le comunità energetiche non sono una reale alternativa, perché non ci sono risorse adeguate per avviarle su larga scala, perché le procedure sono complicate e l’unica loro reale funzione è di fare da “foglie di fico” della politica e delle sue pochezze: “Quello che noi produciamo si aggiunge all’energia prodotta col fossile, non viene chiuso nulla, e i consumi intanto aumentano”. Sia Onnis che Sideri non rinnegano l’esperienza fatta, ma dicono che è servita soprattutto a stimolare la partecipazione dei cittadini, che sono stati coinvolti, su iniziativa dei Comuni, nella realizzazione del progetto e poi nella gestione della Cer. I Comuni non hanno fondi, dice Onnis, creare una Cer è faticoso e poco vantaggioso. Le Comunità energetiche di Villanovaforru e Ussaramanna sono state create installando pannelli fotovoltaici su edifici pubblici, con la consulenza della cooperativa èNostra, ma è mancato in entrambi i casi un impegno diretto delle imprese locali, che in teoria potrebbero essere promotrici, a loro volta, di comunità energetiche per i il proprio fabbisogno. È quel che accade, del resto, anche nel resto d’Italia. Le Cer, insomma, sono citate nelle leggi e nei decreti, ma sono destinate a restare ai margini della scena, dei piccoli puntini, quasi invisibili, in mezzo alle torri e ai pannelli dell’industria delle rinnovabili. In Sardegna qualcosa potrebbe cambiare, aggiunge tuttavia Onnis, se venisse confermata, dopo il vaglio della Consulta, quella parte della legge regionale sulle aree idonee che stanzia 685 milioni di euro per le comunità energetiche; con quei soldi potrebbero nascere molte nuove Cer, ma il quadro normativo d’insieme è troppo incerto per immaginare in che modo potrebbero interagire con i progetti industriali. Prime conclusioni La ribollente società civile sarda, coi suoi comitati, con le sue manifestazioni, anche con le sue divisioni, ha il merito di avere aperto un dibattito altrove ancora assente, ma necessario, perché ciò che i comitati chiamano “speculazione energetica” e gli altri semplicemente “transizione energetica” è in corso in tutta Italia, seppure con volumi di investimenti diversi e distribuiti in modo non omogeneo: più ingenti ed estesi al Sud e in Sardegna, meno vistosi in altre parti del paese (ma le recenti vicende del Mugello in Toscana, con il sabotaggio da parte di attivisti mascherati di macchinari di un’impresa impegnata nell’installazione di pale eoliche sul crinale appenninico, fanno capire che le linee di tensione non riguardano solo il Mezzogiorno). La strada scelta dall’Italia, in linea con le direttive europee, è la via di una transizione energetica guidata dall’alto, con una forte spinta alla semplificazione delle procedure, in modo che l’industria delle rinnovabili possa centrare gli obiettivi indicati per il 2030. Il compito affidato a governi ed enti locali è la definizione di un quadro normativo complessivo, anche sul piano della tutela ambientale, ed è qui che si gioca il braccio di ferro fra governo nazionale e Regioni, nella precisazione delle rispettive competenze, rimessa a questo punto alla Consulta e ai tribunali. È particolarmente delicato il caso della Regione Sardegna, una delle cinque a statuto speciale, e quindi più gelosa, e più teoricamente garantita, delle proprie prerogative; in aggiunta, la giunta sarda ha già mostrato d’essere propensa a dettare regole più stringenti di quelle volute dal governo nazionale, per quanto Todde non abbia voluto mettersi alla testa dei movimenti contro la “speculazione energetica”, come i comitati avevano forse sperato. Leggi e sentenze pregresse, al momento, fanno pensare che alla fine la spunterà il governo e che quindi i progetti industriali sulle rinnovabili avanzeranno in Sardegna senza eccessivi vincoli, in modi che saranno valutati caso per caso. Ma niente è sicuro: la Consulta potrebbe dare ragione alla Regione Sardegna, e quest’ultima, anche se battuta in giudizio, potrebbe intraprendere azioni politiche al momento nemmeno immaginabili. E poi, naturalmente, c’è la variabile comitati: in che modo, con quali obiettivi, con quale forza e capacità di mobilitazione vorranno agire, qualunque sia il quadro normativo futuro? Nessuno può dirlo oggi, ma la Sardegna ribolle, e almeno un messaggio già lo manda a tutti gli italiani: sulla produzione di energia si sta giocando una partita decisiva per il futuro economico e sociale del paese, ma non ne stiamo davvero discutendo, non nel modo e con la profondità e il respiro democratico e partecipativo che sarebbero necessari. Ci sarebbe ancora molto cammino da fare insieme, e non solo in Sardegna. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cammino del sol proviene da Comune-info.
Boicottare le multinazionali Usa
C’È IL MOVIMENTO A GUIDA PALESTINESE PER IL BOICOTTAGGIO DI ISRAELE CHE STA ATTIRANDO SEMPRE PIÙ ATTENZIONI, CI SONO STORICHE INIZIATIVE DI PROTESTA COME BUY NOTHING DAY E OGGI PERFINO APP PER IL CONSUMO CRITICO. FORSE PER RISPONDERE DAL BASSO ALLA TRACOTANZA DI TRUMP E DEI MERCATI SI POTREBBE FAR NASCERE UNA CAMPAGNA PER NON ACQUISTARE I PRODOTTI USA. DEL RESTO, SCRIVE MARCO AIME, IL BOICOTTAGGIO DI TESLA HA LASCIATO IL SEGNO. “GANDHI RIUSCÌ A PIEGARE IL COLONIALISMO BRITANNICO CON IL BOICOTTAGGIO DEI PRODOTTI PROVENIENTI DALL’INGHILTERRA…” Di fronte all’arroganza, alla tracotanza e al disprezzo di Donald Trump, che impone dazi assurdi e, violando ogni diritto internazionale, non ammette ritorsioni; di fronte alle pavide reazioni delle autorità europee, una risposta popolare è necessaria. Abbiamo accettato tutti supinamente il sistema di mercato, allora invece di subirlo passivamente, proviamo a girarlo a nostro favore. Tale sistema ha fatto di noi dei “consumatori”, è vero, ma possiamo scegliere cosa consumare. Riprendo allora una vecchia idea di Umberto Eco, sviluppata in un contesto tutto italiano: prendiamo nota dei prodotti che importiamo dagli Usa, facciamo circolare le informazioni, condividiamole e iniziamo a non acquistare quei prodotti. Visto che l’unica lingua che il magnate statunitense sembra parlare è quella del denaro, proviamo a rispondergli nel suo idioma. Non è facile, me ne rendo conto, ma quale alternativa abbiamo se le nostre autorità sono pronte a inchinarsi a ogni sfuriata del presidente Usa, se non quasi a ringraziarlo. Sembra di essere tornati ai film western degli anni Quaranta-Cinquanta, dove i cattivi erano gli indiani e Custer un eroe. Oggi i cattivi sono i cinesi, il buono è lui. Il boicottaggio della Tesla, dopo le prime sparate demenziali del suo inventore ha lasciato il segno. Perché non continuare? Lo so, occorre informarsi, prendere coscienza, non cadere nelle trappole delle fake news, ma è l’unica strada possibile. Il Mahatma Gandhi riuscì a piegare il colonialismo britannico con il boicottaggio dei prodotti provenienti dall’Inghilterra. Per carità, nessuno di noi, credo, voglia e possa paragonarsi a Gandhi, ma nel nostro piccolo… Narra una leggenda, che un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà. Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l’incendio stava per arrivare anche lì. Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento. Il colibrì, però, non si perse d’animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d’acqua che lasciava cadere sulle fiamme. Vedendolo, il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Cerco di spegnere l’incendio!“. “Non ci riuscirai mai!” “Forse, ma intanto faccio la mia parte”. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Marco Aime Confini. Realtà e invenzioni (scritto con Davide Papotti per EGA), di cui è possibile leggere qui l’introduzione: Il bisogno di sconfinare. Pubblicato anche su un blog del fattoquotidiano.it e qui con l’autorizzazione dell’autore. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Boicotta, disinvesti e sanziona -------------------------------------------------------------------------------- > Equa, l’app per il consumo critico -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Boicottare le multinazionali Usa proviene da Comune-info.
Creare comunità nella catastrofe
IL FARE COMUNE COME AZIONE COLLETTIVA APERTA ALL’INCONTRO, COME MODO DI PARTECIPARE CAPACE DI INSINUARSI NEGLI INTERSTIZI TRA PUBBLICO E PRIVATO, MA SOPRATTUTTO COME PROCESSO CHE IMPLICA RELAZIONI DI FIDUCIA. A CASA BETTOLA, REGGIO EMILIA, PENSANO CHE IN BASSO SIA POSSIBILE PERFINO CREARE DIRITTO, COME AZIONE CHE APRE NUOVE POSSIBILITÀ A CHI È MENO PRIVILEGIATO. PRENDENDO SPUNTO DALL’ESPERIENZA MATURATA INTORNO A DIVERSI SPAZI SOCIALI DI NAPOLI, DOVE HANNO TRASCINATO ANCHE L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE, QUELLI DI CASA BETTOLA VOGLIONO MOSTRARE CHE È POSSIBILE CREARE E GESTIRE I BENI COMUNI IN MODO COLLETTIVO. “PER QUESTO CHIEDIAMO CHE ANCHE IL COMUNE DI REGGIO EMILIA RICONOSCA CASA BETTOLA COME BENE COMUNE, DOTANDOSI DI UN REGOLAMENTO CHE RENDA POSSIBILE LA GESTIONE COMUNE DI SPAZI RIGENERATI DAL BASSO, PARTENDO DALL’ESEMPIO DEGLI USI CIVICI COLLETTIVI URBANI…”. IL LORO TESTO CREARE COMUNITÀ NELLA CATASTROFE. DALLA DIFESA DEL PUBBLICO ALLA COSTRUZIONE DEL COMUNE È GIÀ UN’AZIONE COLLETTIVA CHE VA OLTRE REGGIO EMILIA, È GIÀ UN MODO PER COMINCIARE DA “NOI”, È GIÀ UNA STRADA CON CUI RIFIUTARE LA PAURA CHE ACCOMPAGNA QUESTI TEMPI. PER SPINGERCI FUORI DALLA CATASTROFE Dopo dieci anni di occupazione, nel 2019 Casa Bettola ha formalizzato la propria relazione con il proprietario dell’immobile, la Provincia di Reggio Emilia, attraverso una convenzione che ne ha riconosciuto l’uso della casa cantoniera. Questa convenzione, della durata di cinque anni, ormai è scaduta da oltre un anno e oggi siamo di fronte alla sfida di ripensare la nostra relazione con le istituzioni del territorio con un approccio istituente, alla ricerca di una forma più vicina a quello che siamo e, soprattutto, quello che vorremmo diventare. Un percorso che guarda a un orizzonte condiviso: quello di riconoscere e consolidare esperienze come la nostra, che attraverso la pratica desiderano diventare fonte di diritto, contribuendo a creare norme capaci di tutelare le realtà esistenti e aprire la strada a quelle che ancora devono nascere sul territorio, nel Paese e oltre. Come diceva Eduardo Galeano, l’utopia è come l’orizzonte: si sposta man mano che andiamo avanti, e a cosa serve dunque se non continuare a camminare. È proprio questo continuo avanzare verso l’orizzonte che ci spinge a immaginare e costruire mondi nuovi, passo dopo passo. A questo proposito, il 7 giugno ci siamo ritrovatɜ a Casa Bettola in un’assemblea pubblica per intrecciare nuovamente teoria e pratica intorno al concetto di beni comuni e al fare comune. Un momento di confronto in cui, attraverso il racconto di esperienze concrete e riflessioni collettive, abbiamo provato a costruire insieme un pensiero che nasce dall’agire, e un agire che si lascia orientare dal pensiero, perché crediamo che teoria e pratica si generano reciprocamente, nella trasformazione continua dei contesti che viviamo. Al dibattito hanno contribuito Massimo de Angelis, docente universitario e autore di Omnia Sunt Communia, Maria Francesca de Tullio, costituzionalista e attivista de L’Asilo (Napoli), Ana Sofía Acosta Alvarado, ricercatrice e attivista dei Beni Comuni (Parigi), Nicola Capone, filosofo, docente, attivista e autore di Lo spazio e la norma.  In questo testo vogliamo mettere in evidenza le idee e le proposte più significative emerse dall’incontro con il desiderio di trasformarle di nuovo in pratica. Dal sostantivo al verbo: dai beni comuni al fare comune Possiamo parlare di fare comune, in inglese commoning, piuttosto che di bene comune, spostando il baricentro dal sostantivo al verbo. Il fare comune cambia la socialità, trasforma i modi di pensare e sentire, è aperto all’incontro, non già come atto individuale ma come processo collettivo. Oggi si dice che la partecipazione è in crisi: eppure basta guardare le folle ai concerti, nei centri commerciali, nei centri storici diventati mangiatoie per turisti; partecipiamo tutte e tutti, allacciati ai processi economici. La questione dunque non è la partecipazione, ma come si partecipa. Partecipare significa mettersi in relazione, nel pubblico partecipiamo votando, approvando le leggi o contestandole, mentre nel privato partecipiamo consumando e spesso in competizione con gli altri a loro discapito. Nel bene comune, la partecipazione si manifesta in altro modo: come forma di reciprocità tra collettività e singolarità in cerca di risonanza. Si trasforma il contesto di vita, sé stessi e si riflette su queste trasformazioni. È un processo di riflessione continua, in cui tutto è sempre aggiustabile, se si riscontrano dei limiti o delle criticità. Le esperienze come Casa Bettola introducono un altro modo di partecipare, che è generativo, crea sempre cose nuove. Le grandi crisi contemporanee, le disparità di ricchezza e redditi, il regime di guerra, non nascono dall’apatia, ma dal fatto che alcune forme di cooperazione sono egemoni, dominanti. Il nostro agire sociale nella quotidianità e nell’economia è racchiuso nella dicotomia pubblico/privato, che agisce come principio generale in quella che è la cooperazione sociale. Questa dicotomia separa ciò che è intrecciato, come vediamo nell’economia, che è un intreccio di relazioni tra esseri umani e altri umani, e umani e ambiente; in conseguenza a questa separazione forzata, le nostre vite sono continuamente esposte a crisi economiche, sociali e ambientali. Qui entra in gioco il commoning come altro modo di partecipare, negli interstizi tra pubblico e privato: non abolisce nessuna delle due sfere, ma si propone come forma alternativa, che inquina entrambe, e riarticola l’intreccio della cooperazione sociale oltre le soglie imposte da pubblico e privato. È un processo in continuo divenire, non è un modello fisso: implica coltivare fiducia, reciprocità e appartenenza, costruisce mondi e non si limita a (ri)-distribuire ricchezza.  Come ogni operazione, il commoning ha bisogno di risorse, che sono principalmente due: spazi e condizioni favorevoli perché esso si sviluppi. Consideriamo solo che in italia ci sono circa 7.000 edifici scolastici abbandonati, 5 milioni di case sfitte e una rete sempre più ampia di negozi vuoti, oltre a 2 milioni di ettari di aree agricole abbandonate, che potrebbero essere lasciate alla cooperazione sociale, per restituirle all’uso. Qui entrano in gioco le public-commons partnerships, che rappresentano un dispositivo istituzionale emergente per creare relazioni strutturate tra pubblico e comunità attive, in un regime di commoning. I beni comuni, per esistere, devono essere infatti gestiti da comunità, sempre. Le public-commons partnerships non vanno pensate come forma di delega, ma come campo negoziale trasformativo, che rompe l’automatismo binario tra pubblico e privato, generando circuiti relazionali che ridanno forma all’intreccio del sociale. Sono diametralmente opposte alle private-public partnerships: introdotte da Blair negli anni Novanta come modello di modernizzazione neoliberale per attrarre capitale privato per la gestione dei servizi pubblici, hanno però finito col comprimere i diritti. Nelle public-commons partnerships si tutela l’autonomia del commoning, senza subordinarlo a logiche di efficienza, mettendo in comune risorse pubbliche inutilizzate e riducendo l’asimmetria tra potere istituzionale e sociale.  Il mantra non è “non importa chi fornisce il servizio, purché funzioni”; la domanda è “chi partecipa alla creazione di valore sociale? Chi garantisce che rimanga comune?”. In Europa ci sono diversi esempi di public-commons partnerships in diversi ambiti: a Liegi c’è una notevole rete agroalimentare che, anche grazie al Comune, ha trasformato le modalità di produzione di cibo; a Londra e a Bologna abbiamo altri esempi virtuosi. Per farle funzionare ci sono due questioni cui prestare attenzione. La prima sono i parametri di valutazione: il settore pubblico è sempre chiamato a giustificare le proprie azioni, ma nei confronti del commoning non può utilizzare criteri aziendali, perché in esso i valori sono relazionali, qualitativi e non quantitativi; non possiamo usare metriche monetarie sul valore creato socialmente.  L’altra problematica è il riconoscimento della comunità che agisce nel bene comune. Essa non è organizzata come un’associazione, in cui c’è una gerarchia: nel commoning, la responsabilità e il potere decisionale sono del comitato, dell’assemblea partecipata orizzontalmente.  Viviamo in un tempo segnato da crisi multiple e con un enorme senso di impotenza nel creare possibili soluzioni. Citando Paolo Virno: l’impotente è colui che rimane paralizzato davanti alla coesistenza degli opposti, e ne è ipnotizzato. Essere ipnotizzati dallo spettacolo degli opposti vuol dire non sapere come agire, e riprodurre il sistema binario.  Come detto precedentemente, il problema non è la mancanza di partecipazione, ma la sua cattura all’interno del dispositivo neoliberale, che ci rende impotenti. Bisogna quindi infilarsi nelle fratture, e da lì pensare a nuove possibilità. Usi civici urbani collettivi: fare comune nelle città  Cosa sono dunque i beni comuni? Secondo Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, costituiscono uno spazio con accesso a risorse naturali con regole condivise, che servono per la sostenibilità della risorsa. Oggi il tema della sostenibilità è importante soprattutto per la questione della crisi climatica. Questi gli elementi portanti: la risorsa, la comunità, le regole che ci diamo per viverla insieme. Ma questo non basta e abbiamo bisogno anche di altro, per differenziare il bene comune da una qualunque cooperativa. I paletti ulteriori devono quindi essere: la giustizia sociale e l’ecologia.  Infatti il capitale egemone si appropria continuamente delle parole “comune” e “comunità”. Sta a noi riprenderci questi termini, curarli e proteggerli. Vorremmo qui riportare l’esperienza napoletana come esempio riuscito di questa regolamentazione. Dopo otto anni di lotta di difesa del territorio, una lotta ecologica contro il traffico dei rifiuti tossici. Ci sono state esperienze di assemblea in discarica, nei blocchi stradali, durante le quali è nata la pratica di messa in comune che ha poi dato i suoi frutti in città nel 2011, quando c’è stato il referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali. Quel movimento lottò con forza per preservare le risorse sociali ed ecologiche. Mentre si stava scrutinando per il referendum, una parte di lavoratrici e lavoratori della cultura occupò il teatro Valle, a Roma. Anche da lì partì una stagione sui beni comuni, che è poi esplosa in tutto il paese. La difesa dei beni comuni riguardava i beni naturali, perché questa esigenza di occupare uno spazio culturale dunque? Il movimento precarizzato pensò che anche qui mancasse una tutela, quella di un luogo di produzione culturale. Quando pensiamo alla cultura pensiamo di solito solamente agli esiti: pubblicazioni, spettacoli, ecc. Senza spazi fisici però la cultura non si può fare, e a quel movimento servivano proprio gli spazi per potersi riunire e creare. Di teorico c’era il fatto di darsi delle definizioni, e di pratico il luogo in cui discutere. Nel 2011, appunto, il primo atto della nuova giunta De Magistris, rotto l’accordo tra centro destra e sinistra, viene inserito nello statuto comunale, all’art 3, la definizione di beni comuni, che veniva a sua volta dalla commissione Rodotà del 2007-8, dopo un intenso ciclo di lotte. In quella commissione viene data una definizione: i beni comuni sono quelle cose materiali e immateriali i cui usi sono utili per l’esercizio dei diritti fondamentali. Perché un Comune si dovrebbe dare questo strumento? Principalmente, per uscire dalla dicotomia pubblico/privato. Nel nostro paese, lo schema proprietario privato tiene in pugno sia il pubblico che il privato. I comuni si sentono i proprietari dei beni che appartengono a tutte e tutti, e da garante della collettività, come dovrebbe essere, finisce per sentirsi proprietario ed escludere la comunità dall’uso di quel bene. Col bene comune cambia tutto: non si è più passivi nell’interazione coi beni; nell’uso dei beni si esercita un diritto in modo attivo. Così facendo, possiamo funzionalizzare i beni ai diritti fondamentali non partendo dalla proprietà, ma interrogandoci sullo scopo di quel bene, al bisogno che soddisfa. Il bene comune interviene a garantire quella fruizione, restituendo il bene alla collettività. La legge non tiene dentro tutto, non sempre essa coincide col diritto, il quale nasce anche dalle pratiche, dagli usi, dalle consuetudini. Non si è né passivi né competitivi quando si è civici, al contrario si è collettivi e cooperativi. Per mettere in pratica tutto questo occorre però modificare lo statuto comunale, che permetta di riconoscere il bene e i soggetti che lo hanno reso fruibile. Il bene e il suo valore esistono già, dobbiamo solo renderli forma.  Il soggetto pubblico deve essere il primo a liberare spazi oltre il consumo per esercitare i diritti. A Napoli, quando le norme sui tagli della spesa pubblica dicevano di vendere beni pubblici, il comune ha deciso anzi di acquisire beni immobili per metterli a disposizione della comunità.  Una cosa simile è successa a Reggio Emilia: quando Casa Bettola ha stipulato la convenzione con la Provincia, essa non era una convenzione classica poiché non prevedeva un uso esclusivo, ma una dichiarazione di responsabilità, ritenendo importante, come a Napoli, creare diritto. Il diritto non serve a chi è già forte, ma a innovare il sistema per chi è meno privilegiato: Napoli ha creato proprio questo, una forma nuova di diritto da adottare in altri contesti. Sempre nel capoluogo campano, è stata riconosciuta la possibilità di autonormazione della comunità tramite assemblee aperte, in cui si redige un documento basato su alcuni principi imprescindibili: antifascismo, antisessismo e antirazzismo. Nessuno può appropriarsi degli spazi: lo spazio dell’ex Asilo Filangieri di Napoli ad esempio non ha avuto alcun bando, nessuna competizione per “ottenerlo”. Le regole di autogoverno sono state scritte dalla sola comunità con il metodo del consenso e recepite dall’amministrazione comunale in quanto espressione di partecipazione democratica. Fondamentale è includere la redditività civica del bene: la comunità ha rigenerato il bene, ha creato una comunità attiva e vivace laddove c’era un bene sottoutilizzato. Nel contesto partenopeo, in virtù di questa redditività civica, il Comune ha deciso di prendersi in carico gli oneri straordinari e le utenze, per eliminare barriere economiche di accesso.  Conclusioni. Per un nuovo inizio La storia di Casa Bettola inizia con un gesto che formalmente ha varcato la linea della legge per dare sostanza a un diritto. In questo momento non ci vogliamo porre al di fuori della legge ma rivendichiamo di essere parte attiva nella sua trasformazione, come comunità che genera diritto attraverso pratiche vive, usi e consuetudini radicati nel mutualismo, nella solidarietà, nella costruzione di legami sociali come fonte legittima di giurisprudenza, in quanto risponde a bisogni collettivi. Vogliamo poter creare e gestire i beni comuni in modo collettivo – non solo intesi come spazi e risorse -, ma relazioni, servizi e pratiche che ci permettono di soddisfare insieme i nostri bisogni, per costruire comunità, per vivere meglio insieme. Per questo chiediamo che anche il Comune di Reggio Emilia riconosca Casa Bettola come bene comune, dotandosi di un Regolamento che renda possibile la gestione comune di spazi rigenerati dal basso, partendo dall’esempio degli usi civici collettivi urbani. Una proposta concreta che rivendica il diritto delle comunità ad autogovernarsi per soddisfare i propri bisogni fondamentali. Non come sostituzione del pubblico, ma per liberare le potenzialità del comune come forza costruttiva, come energia viva capace di innovare il diritto e restituire centralità alle persone e alle relazioni che tengono insieme la comunità. Per fare questo abbiamo avviato un percorso con il Comune, con la consapevolezza che ci possiamo avvicinare agli obiettivi avanzando per gradi e che sarà possibile raggiungerli solo se siamo in tante e tanti che si organizzano insieme, approfondendo la democrazia ed estendendo il diritto. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > Fare in comune -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Creare comunità nella catastrofe proviene da Comune-info.
Una ragnatela di librerie pronte a manifestarsi
-------------------------------------------------------------------------------- Una nuova riunione dei librai che aderiscono al coordinamento del manifesto. Un programma di iniziative e scadenze concrete Pubblicato su il manifesto del 2 luglio 1994. La ragnatelaDownload -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Una ragnatela di librerie pronte a manifestarsi proviene da Comune-info.
Quando il teatro è trasformazione sociale
NATO ALL’INTERNO DEL TEATRO DELL’OPPRESSO PER METTERE IN SCENA PROBLEMI CONCRETI DELLE COMUNITÀ LOCALI E LASCIARE CHE IL PUBBLICO PROPONGA SOLUZIONI, IL TEATRO-LEGISLATIVO HA IMPARATO AD ANDARE OLTRE ALLE PROPOSTE DI LEGGE. NEL TEMPO SI È ADATTATO A CONTESTI DIVERSI, SPESSO SENZA LA PRESENZA DELLE ISTITUZIONI, DIMOSTRANDO DI ESSERE UN POTENTE STRUMENTO DI TRASFORMAZIONE SOCIALE. IL COLLETTIVO GIOLLI HA RACCOLTO ESPERIENZE E INTERVISTE TRA EUROPA E STATI UNITI CHE MOSTRANO COME IL TEATRO-LEGISLATIVO SI POSSA APPLICARE NELLE SCUOLE, NEI QUARTIERI, NEI COMUNI, CON ASSOCIAZIONI O MOVIMENTI MA ANCHE CON PERSONE INIZIALMENTE DISGREGATE, DA UNIRE ATTORNO A UN TEMA COMUNE. ALFABETI PER UNA NUOVA CULTURA POLITICA Foto tratte dalla pag. fb Giolli Cooperativa Sociale  -------------------------------------------------------------------------------- A prima vista, l’accoppiata teatro e legge può sembrare improbabile. Del resto, il mondo del teatro raramente si intreccia con quello, più rigido e formale, delle istituzioni. Eppure, tra il 1993 e il 1996, a Rio de Janeiro, accadde qualcosa di sorprendente: Augusto Boal, uomo di teatro, ideatore del Teatro dell’Oppresso, venne inaspettatamente eletto Vereador (consigliere comunale). Di fronte a questa nuova responsabilità, Boal avrebbe potuto scegliere: lasciare da parte la politica per continuare con il suo metodo teatrale, oppure accantonare la scena per dedicarsi alla carriera istituzionale. Ma fece qualcosa di diverso: provò a fondere i due mondi. Nacque così il Teatro- Legislativo, un esperimento unico che portava il teatro dentro le istituzioni e le istituzioni dentro la vita reale. In estrema sintesi, si trattava di un percorso bidirezionale: dalla società alle istituzioni e ritorno. Con il teatro come mediatore, la voce degli oppressi — abitanti delle favelas, persone con disabilità, studenti neri, persone LGBTQIA+ — trovava ascolto e potere. I gruppi creavano spettacoli a partire da bisogni reali, cercavano possibili soluzioni attraverso il Teatro-Forum, poi Boal raccoglieva queste idee, le elaborava con una piccola equipe chiamata “cellulametabolica” e le trasformava in proposte di legge da presentare al Consiglio Comunale. Il risultato? Oltre 40 proposte presentate, di cui 13 approvate, nonostante Boal fosse all’opposizione. Ma il processo non si fermava lì: ogni proposta discussa o votata tornava alle comunità attraverso un evento chiamato “Camera in Piazza”, in cui veniva raccontato e condiviso ciò che accadeva in aula. Un vero e proprio circuito democratico che andava dal basso verso l’alto e viceversa. Da allora, il Teatro-Legislativo è diventato un riferimento per chi vuole coniugare arte, cittadinanza attiva e politica dal basso. L’idea si è diffusa nel movimento mondiale del Teatro dell’Oppresso, anche al di fuori di contesti istituzionali. Con il progetto europeo COFA – Community Organising for All, il collettivo Giolli ha raccolto esperienze e interviste a dieci attivisti e teatranti tra Europa e Stati Uniti che hanno sperimentato, in vari modi, questa forma di teatro trasformativo. Come si concretizza un percorso di Teatro-Legislativo? Uno dei percorsi più ricorrenti, raccontato in molte esperienze raccolte dal progetto COFA – Community Organising for All, segue una struttura ben precisa. Ecco le tappe. 1. Dalle storie alla scena. Tutto comincia da un gruppo di comunità: un collettivo omogeneo, spesso composto da persone che condividono una condizione di marginalizzazione o oppressione (ad esempio giovani disoccupati, migranti, persone con disabilità, studenti neri). Si raccolgono storie reali, esperienze vissute, e da queste si costruisce un Teatro-Forum — una forma teatrale interattiva dove il pubblico può intervenire per cercare soluzioni ai problemi messi in scena. 2. Teatro-Forum aperto alla comunità. Lo spettacolo viene rappresentato davanti alla comunità locale. Se dal dibattito emerge che il problema ha una dimensione politica o normativa, si decide di avviare una sessione di Teatro-Legislativo. A volte, invece, si parte direttamente da un tema già in discussione a livello istituzionale, così da inserirsi in un dibattito esistente. 3. Arrivano i “Policy Rangers”. Tra gli invitati ci sono i cosiddetti “policy rangers” (come li definisce l’attivista americana Katy Rubin): non solo politici e funzionari pubblici, ma anche attivisti, operatori sociali, educatori, tecnici — chiunque abbia potere o influenza sul tema trattato. 4. Analisi collettiva e immaginazione politica. Dopo un riscaldamento partecipativo, si rivede lo spettacolo con l’intento di andare oltre i personaggi: il pubblico è guidato ad analizzare il contesto strutturale della storia. Il facilitatore (chiamato Jolly) pone domande come: Quali problemi riconoscete nella scena? Sono reali nella vostra esperienza? Quali leggi, norme, regolamenti o strutture contribuiscono a crearli? Che nuove regole o pratiche vorreste vedere? Il pubblico interviene, gli attori reagiscono e il Jolly facilita il dialogo, mentre un secondo facilitatore annota in tempo reale su uno schermo tutto ciò che emerge.. 5. Scrittura delle proposte. I partecipanti, divisi in piccoli gruppi, scrivono proposte di legge o di policy. Non è necessario che siano tecnicamente perfette: l’importante è esprimere bisogni e visioni concrete. 6. Selezione partecipata. I “policy rangers” leggono le proposte davanti a tutti, le raggruppano per temi e ne selezionano 2 o 3 che appaiono più generali, efficaci e applicabili. 7. Emendamenti dal vivo. Le proposte vengono mostrate su un grande schermo. Il pubblico può suggerire modifiche o emendamenti, che vengono discussi e integrati in tempo reale. 8. Voto e priorità. Si passa poi a un voto pubblico, per stabilire quali idee sono considerate più urgenti o trasformative. È il momento in cui la collettività si esprime su ciò che ha più potenziale per generare cambiamento. 9. L’impegno dei decisori. I “policy rangers” si assumono un impegno concreto, davanti a tutti: dichiarano pubblicamente quali azioni porteranno avanti nelle successive otto settimane. 10. Il follow-up. Due mesi dopo, il gruppo promotore verifica cosa è stato fatto. Si redige un rapporto pubblico, che viene condiviso con la comunità per dare trasparenza al processo e stimolare ulteriori azioni. Questo tipo di percorso non è solo uno strumento teatrale, ma un vero esercizio di democrazia partecipata, dove la creatività collettiva si traduce in azione politica concreta. E se Boal diceva che “tutti possono fare teatro, anche i legislatori”, oggi sappiamo che tutti possono anche contribuire a scrivere le regole del gioco. A partire da una scena. Perché il Teatro-Legislativo favorisce la partecipazione Il Teatro-Legislativo stimola la ricerca di soluzioni concrete a partire dall’esperienza diretta di chi vive il problema. Il punto di partenza non è l’astrazione tecnica, ma la voce di chi subisce l’ingiustizia. Questo rende il processo fortemente partecipativo: chi normalmente resta ai margini prende la parola, elabora collettivamente il proprio punto di vista e contribuisce attivamente a progettare un cambiamento reale e attuabile. In questo modo, il Teatro-Legislativo non solo abbatte le barriere tra cittadini e istituzioni, ma si configura come uno strumento concreto di democrazia dal basso, capace di unire riflessione critica, creatività e azione politica. Un nuovo modo di fare politica dal basso? Il Teatro-Legislativo nasce da una convinzione forte: le proposte che emergono dalla base, se discusse e approfondite in modo collettivo, possono trasformarsi in strumenti reali di cambiamento e contribuire alla soluzione concreta dei problemi di una comunità. Il Teatro-Legislativo si fonda su sei pilastri ideologici e metodologici: 1. Schieramento politico dalla parte degli oppressi. Il Teatro-Legislativo parte da un posizionamento chiaro: si mette al fianco delle persone socialmente e politicamente più deboli, riconoscendo le disuguaglianze strutturali e cercando di combatterle attraverso l’azione collettiva. 2. Pedagogia della coscientizzazione. I facilitatori, chiamati Jolly, non impongono soluzioni né trasmettono verità preconfezionate, non usano la propaganda o la manipolazione. Seguendo il pensiero di Paulo Freire, il loro compito è aiutare i gruppi a interrogarsi sul presente, a problematizzare le proprie condizioni e a immaginare alternative. 3. Visione olistica dell’essere umano. Il Teatro-Legislativo coinvolge mente, corpo ed emozione. La parola non è l’unico strumento di conoscenza: anche il gesto, il suono, l’immaginazione sensoriale e l’azione scenica diventano strumenti per comprendere e trasformare la realtà. 4. Orientamento al futuro e al cambiamento. Il presente viene analizzato attraverso la scena, ma con uno sguardo rivolto alla trasformazione: ciò che accade sul palco serve a progettare un futuro più giusto e condiviso. 5. Fiducia nei soggetti oppressi. Il Teatro-Legislativo rifiuta la delega agli esperti. Crede nella capacità delle persone direttamente coinvolte nei problemi, di elaborare le proprie soluzioni e di essere protagoniste della trasformazione. 6. Sperimentazione continua. Non esiste un unico “format” di Teatro-Legislativo. Ogni percorso si adatta al contesto, si costruisce insieme ai partecipanti, evolve nel tempo. È un processo vivo, che cresce insieme ai gruppi con cui si lavora. Tutto questo basta a definirlo una nuova forma di politica dal basso? Forse sì. O almeno, una pratica radicalmente diversa da quella tradizionale, in cui la cittadinanza attiva si esprime attraverso l’arte e la co-decisione. Esperienze: dal Brasile all’Europa Il Teatro-Legislativo non è rimasto confinato alla sua esperienza originaria, quella in cui Boal fu eletto consigliere comunale a Rio de Janeiro e condusse per quattro anni un progetto ufficialmente sostenuto dal Comune. Al contrario, si è adattato a contesti diversi, spesso anche senza la presenza diretta delle istituzioni o in collaborazione con esse in forme nuove. Alcuni esempi? A Graz, in Austria, persone senza dimora hanno preso parte a un percorso di Teatro-Legislativo per elaborare un regolamento più umano dei centri di accoglienza: le proposte sono arrivate fino al consiglio comunale. In Portogallo, il Teatro-Legislativo è stato utilizzato per creare proposte di riforma del sistema di borsedistudiouniversitarie, e anche per contribuire alla riscrittura della legge sulla gioventù, coinvolgendo direttamente studenti e giovani attivisti. Nel Tirolo austriaco, una ministra regionale ha promosso un percorso di Teatro- Legislativo per riformare la legge sulla disabilità: Il processo ha coinvolto centinaia di persone con disabilità e le loro associazioni. Negli Usa, a New York, il collettivo TONYC ha lavorato con il Comune per introdurre una carta d’identità valida con nome elettivo per persone transgender, emersa da un percorso di Teatro-Legislativo. E ancora: nel Regno Unito, l’organizzazione Active Inquiry ha co-condotto un processo di TL sul tema dell’assistenza sanitaria, coinvolgendo gruppi di cittadini e riuscendo a far dialogare i risultati con parlamentari locali. Dove e come applicare il Teatro-Legislativo? I contesti in cui il Teatro-Legislativo può essere sperimentato sono molteplici. Ogni volta che si tratta di proporre, cambiare o far rispettare una norma o un regolamento, il Teatro-Legislativo può entrare in gioco. Si può applicare: a livello locale, ad esempio in una scuola, un quartiere o un Comune; su scala più ampia, fino a raggiungere province, regioni o parlamenti; con gruppi già organizzati (associazioni, movimenti), ma anche con persone inizialmente disgregate, da unire attorno a un tema comune. Il Teatro-Legislativo può servire per proporre nuove leggi o regolamenti; rendere effettive norme già esistenti; rafforzare e unificare movimenti frammentati; creare consapevolezza e senso di appartenenza intorno a una causa comune. Come ricorda José Soeiro, sociologo e attivista portoghese: “Non fissiamoci solo sulla produzione di nuove leggi: il Teatro-Legislativo può agire in diverse aree di trasformazione sociale”. L’importante è che sia un processo vivo, condiviso e concreto, capace di rendere visibile l’invisibile e trasformare l’indignazione in azione collettiva. -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Mazzini, GiolliCoop -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quando il teatro è trasformazione sociale proviene da Comune-info.