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Siamo ancora qui
LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA “PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA” LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE. QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non solo. A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza elevatissima di studenti e giovani. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni. In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000 persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute nei movimenti globali per la Palestina libera. Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive – se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro. Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa “pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico, che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece: teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia. Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque, come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario (così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle piattaforme. Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha sottolineato tale centralità. Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali. “Articolare tra” è diverso da “convergere verso”. Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati. Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze, licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti. Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon Watch e di altre organizzazioni di volontariato. La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che si renda necessario. La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a frequentare fin da ora. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di), Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Siamo ancora qui proviene da Comune-info.
Un omaggio alla resistenza palestinese nel cuore verde d’Italia
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Perugia, capoluogo del “cuore verde” d’Italia, su iniziativa dell’associazione “Umbria della pace”, ha accolto un simbolo vivo della resistenza palestinese e lo ha ospitato in uno dei suoi luoghi non solo più belli ma più emblematici: il giardino dei Giusti del Mondo all’interno dell’antico complesso monumentale San Matteo degli Armeni, dove si trova anche la biblioteca personale appartenuta ad Aldo Capitini che proprio da lì, nel lontano 1961, lanciò la marcia per la pace Perugia-Assisi. Essendo passati più di sessant’anni ed essendo divenuta la marcia Perugia-Assisi più rituale che sostanziale, forse molti si stupirebbero nel leggere le parole del  filosofo della nonviolenza e scoprire che il suo obiettivo era alimentare “idee e iniziative contrarie al capitalismo, al colonialismo, all’imperialismo”, o che “la lotta per la pace deve essere severa contro i mascheramenti dei vari imperialismi, contro le crociate verso un popolo o un altro” come scritto in uno dei suoi editoriali nel periodico “Il potere è di tutti” da lui fondato nel 1964 e consultabile nella sua biblioteca. Luogo migliore per piantare l’olivo della resistenza palestinese, un piccolo olivo scampato alla furia devastatrice israeliana, forse non ce n’era. La targa spiega perché quest’alberello non è dedicato a una singola persona, come tutti gli altri, ma alla difesa di un diritto che si trasforma in azione. Il diritto all’autodeterminazione di un popolo e alla Libertà, quella per cui ogni epoca della storia ha avuto i suoi martiri, tutti, in vario modo, combattenti per la resistenza all’oppressore. Oggi più che mai l’iniziativa dell’Umbria della Pace, accolta e condivisa  dall’amministrazione comunale, risulta importante e insieme coraggiosa. Importante perché consentirà a chiunque andrà a visitare il complesso di San Matteo degli Armeni di vedere che Perugia riconosce il diritto di un popolo oppresso a resistere. Coraggiosa perché la longa manus dell’entità sionista poteva “sporcare” l’iniziativa con la strumentale accusa di antisemitismo, come avvenuto in molteplici altre occasioni. Quindi, veder omaggiare la bandiera palestinese dai numerosi presenti, tra cui l’assessore Croce in rappresentanza del Comune, ha aggiunto senso all’iniziativa e, come si è ricordato durante la cerimonia, la piantumazione di quel piccolo figlio verde della martoriata Palestina, uscito rocambolescamente dalla Striscia di Gaza, non vuole essere solo simbolica testimonianza di solidarietà, ma invito ad agire, ognuno come sa e come può affinché venga fermato il genocidio tuttora in corso e venga stroncato il criminale progetto sionista che avanza da quasi ottant’anni stritolando, nel suo avanzare impunito, anche il diritto internazionale. Cos’avrebbe detto Capitini davanti all’ultimo scempio delle Nazioni Unite dal cui Consiglio di Sicurezza dieci giorni fa è uscita la vergognosa Risoluzione 2803 in piena violazione dei principi della stessa Carta dell’ONU? Siamo certi che avrebbe denunciato la corruzione servile alla legge del più forte e che il suo invito di tanti anni fa “a creare una permanente mobilitazione per controllare la politica estera, la politica militare, la politica scolastica e denunciare errori, colpe, storture, alleanze dei conservatori, degli imperialisti, dei capitalisti…“ si sarebbe fatto ancora più forte ed avrebbe chiamato all’azione, perché c’è una pratica della nonviolenza attiva che può a ben diritto chiamarsi resistenza e non è il chiacchiericcio da salotto. È vero che Aldo Capitini pensava di cambiare il mondo opponendo ai potenti, cioè ai criminali della storia, la forza della nonviolenza come lui la stava costruendo prendendo le mosse dalla resistenza gandhiana,  ma Capitini era anche il cattolico nonviolento che non aveva temuto le rappresaglie fasciste quando nel 1929 aveva definito i Patti Lateranensi  una “merce di scambio” tra Pio XI e il fascismo, e che non aveva accettato il ricatto di Giovanni Gentile di iscriversi al fascismo per non essere licenziato . Tutto questo ci porta a credere, al pari di Gabriele De Veris, il bibliotecario che ci ha mostrato le sue opere, degli organizzatori dell’evento e di tutti gli intervenuti, che il fondatore della marcia Perugia-Assisi avrebbe sostenuto la resistenza palestinese e che il piccolo olivo scampato ai criminali con la stella di David lo avrebbe accolto come simbolo di resistenza e invito a non cedere ai ricatti di una falsa promessa di pace il cui vero volto, ripulito dalle maschere mediatiche, mostra di essere non pace ma pacificazione imposta col ricatto dal colonialismo sionista sostenuto dal suprematismo  occidentale, servile con i potenti e liberticida con chi reclama la libertà. E così, accanto ad alberi piantati in memoria e in omaggio di figure come Maria Montessori, Carlo Urbani, Danilo Dolci, Anna Frank, Gino Strada, Pietro Terracina e tanti altri, compresi artisti che hanno sempre testimoniato il loro impegno per il rispetto dei diritti umani, l’olivetto di Gaza e la sua esplicita targa saranno in ottima compagnia. Il fatto che sia stato casualmente piantato proprio in prossimità della giornata mondiale degli alberi e della giornata che l’Unesco ha dedicato alla tutela dell’olivo come simbolo di resilienza, di identità culturale e come millenaria fonte di nutrimento del genere umano, richiama l’attenzione sulla continua violenza che subisce da sempre anche l’ambiente rurale palestinese dove la distruzione di frutteti e oliveti, l’espianto e il furto degli olivi secolari e l’abbattimento degli olivi più giovani in tutta la Palestina illegalmente occupata, è uno dei reati pressoché quotidiani che il mondo dei potenti, il mondo complice dell’entità sionista, lascia compiere senza vergognarsi della sua connivenza. Ma, come è stato ricordato da uno dei relatori, l’olivo è capace di rigenerarsi, anche dalle proprie ceneri, e neanche il gelo può ucciderne il ceppo che ne è la “madre”, che è il cuore della resistenza dell’olivo, quella che produce i polloni, la vera e propria rinascita che tramanda il DNA dal ceppo madre ai suoi germogli. Il piccolo olivo uscito di contrabbando da Gaza, e forse proveniente dal ceppo dei millenari olivi dei Getsemani, è quindi simbolo di rigenerazione ed è lì a dire che “la resistenza non verrà schiacciata neanche dai carrarmati”. Una delle relatrici ha ricordato la frase scritta su un muro di Nusseirat, ora distrutto dalla furia israeliana, che riportava questo verso di un poeta greco: “Hanno provato a seppellirci. Non sapevano che eravamo semi” e questo lo si può leggere anche nei polloni che germogliano dai ceppi degli olivi palestinesi bruciati o abbattuti. Non serve molto altro per spiegare che l’olivo rappresenta la capacità di resistere al male e, in ultima analisi, il percorso verso la pace – non la pacificazione imposta dall’oppressore – che è segnato dalla bussola della resistenza. Mentre chiudiamo quest’articolo ci arriva il comunicato di un’altra realtà umbra, la Fondazione Perugi-Assisi la quale invita a partecipare alla manifestazione del 29 novembre, giornata internazionale di solidarietà col popolo palestinese e definisce l’ignobile Risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “un nuovo attentato alla pace e ai diritti umani…” e “un piano di guerra e non di pace” dandone ampia e indiscutibile documentazione. Dal “cuore verde” d’Italia per il momento è tutto. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Pressenza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Un omaggio alla resistenza palestinese nel cuore verde d’Italia proviene da Comune-info.
Atlante della restanza
DOCUMENTARE E ANALIZZARE LE ESPERIENZE DI RESTANZA, RITORNO, CAMMINI E NUOVE FORME DI ABITARE NELLE CITTÀ, NEI PICCOLI PAESI E NELLE AREE INTERNE. UNA INDAGINE DI STRAORDINARIO INTERESSE, PROMOSSA DA UN GRUPPO DI PERSONE VICINE A VITO TETI, RACCOGLIE INFORMAZIONI SU ASSOCIAZIONI, COMUNITÀ, PROGETTI E INIZIATIVE SULLE PRATICHE CONTEMPORANEE DI CURA DEI LUOGHI. ECCO COME PARTECIPARE Notte verde 2024 a Castiglione d’Otranto. Foto di Casa delle Agriculture -------------------------------------------------------------------------------- È ufficialmente avviata la fase di mappatura partecipata dell’Atlante della Restanza, un progetto nazionale volto a documentare e analizzare le esperienze di restanza, ritorno, cammini e nuove forme di abitare sostenibile nelle città, nei piccoli paesi e nelle aree interne italiane. L’indagine intende raccogliere informazioni su associazioni, comunità, persone, progetti e iniziative che generano impatto culturale, sociale ed economico nei territori, contribuendo alla costruzione di un archivio scientifico e narrativo sulle pratiche contemporanee di cura dei luoghi. La compilazione del questionario richiede pochi minuti ed è aperta a: • cittadini attivi e comunità locali • associazioni e comitati • ricercatori, scuole, musei e università • amministrazioni, enti, biblioteche e reti territoriali • osservatori, studiosi, artisti e attivatori culturali Ogni segnalazione entrerà nel database nazionale dell’Atlante della Restanza e contribuirà alla definizione del primo Atlante Nazionale della Restanza delle comunità che resistono e camminano. Il link al modulo per segnalare realtà e territori è questo: https://forms.gle/uShJ3bYTRiyARAzRA. Per eventuali approfondimenti o collaborazioni scientifiche è possibile scrivere a: atlantedellarestanza@gmail.com Costruire l’Atlante della Restanza significa rendere visibile l’Italia che custodisce, innova e genera futuro. Grazie a chi vorrà contribuire. [Pag. fb Atlante della Restanza] -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI VITO TETI: > Restare per sovvertire lo stato delle cose -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Atlante della restanza proviene da Comune-info.
Cosa si può ancora fare?
IN QUESTI GIORNI RIMBALZANO LE IMMAGINI DELL’ESPROPRIO DI UNA CASA CHE VERRÀ ABBATTUTA PER FARE POSTO AL CANTIERE DELLA GRANDE OPERA. UNA DONNA ANZIANA NASCONDE IL VISO IN UN FAZZOLETTO, SENZA RABBIA, QUASI PROVANDO VERGOGNA PER QUEL SUO DOLORE GRANDE. ERA CASA SUA DAL 1959. EPPURE IN VAL SUSA NON SMETTONO UN GIORNO DI CHIEDERSI: “ABBIAMO FATTO ABBASTANZA?”, “COSA SI PUÒ ANCORA FARE”? Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo fatto abbastanza? È una domanda che si infila nella memoria in un giorno di metà settimana, metà mese, mercoledì di novembre, mentre sui social girano le immagini dell’esproprio di una casa che verrà abbattuta per fare posto al cantiere della grande opera. Telt il 19 novembre 2025 ha preso ufficialmente possesso delle case della frazione di San Giuliano (Susa). Ad essere abbattute saranno tre per far posto al cantiere della stazione internazionale del Tav. Poco distante lo scatto di un fotografo ritrae una donna anziana che nasconde il viso in un fazzoletto, senza rabbia, quasi provando vergogna per quel suo dolore grande. Era casa sua dal 1959. Il fotografo di un giornale locale sente il bisogno di intitolare la foto: “Progresso?”. Abbiamo fatto abbastanza? Per opporci a questa devastazione? Mettendo a disposizione i nostri corpi, le azioni i pensieri gli scritti? Mettendo a disposizione una buona parte della nostra vita in questi trent’anni di lotta? Chilometri di passi fatti in centinaia di manifestazioni. Incontri, convegni, presidi sotto grandi nevicate o con la pelle bruciata dal sole. Viaggi per tutta Italia per incontrare e farci conoscere. Denunce, processi. Da qualche giorno in calendario le iniziative per ricordare i giorni vissuti per la “Liberazione di Venaus” era il 2005, vent’anni fa. Tuttavia quella grande partecipazione popolare che aveva permesso di correre in migliaia sui prati, rompere i sigilli e perfino riuscire a far arretrare le truppe di occupazione era stato possibile perché alle spalle il movimento aveva già altri dieci anni (totale trent’anni), dove si era costruito piano piano una grande partecipazione popolare. Gli strumenti usati erano stati diversificati: dalle solite assemblee in ogni comune alla partecipazione ai carnevali con maschere di cartone che ricordavano il mostro tav che avanzava… Il rumore del Tgv registrato a Macon in Francia e poi sparato a tutto voluto al cinema. La partecipazione a una gara di lese (slitte) che dalla Sacra di San Michele scendevano a una velocità abbastanza pericolosa fino a Sant’Ambrogio. La “lesa è la tradizione, il Tav la distruzione”. Testi teatrali portati in scena, canti, presidi, ecc. Anni Novanta: le riunioni a Condove con il comitato Habitat e a Bussoleno con il comitato NoTav. Si era appena conclusa la lotta (per una volta vinta) sul mega elettrodotto Grand’Ile Piossasco ma non c’è stato il tempo di festeggiare perché si apriva un altro fronte. Era il 1986 quando sui giornali apparivano notizie sulla grande opera. Si può dire che c’è stato divertimento, allegria, anche nel fare politica. Si può dire che sembra impossibile ora trasmettere quel carico di storie, di incontri, amicizie, amori, costruzione di una vera comunità. Restano ricordi forti, preziosi. Abbiamo fatto abbastanza? Cosa si può ancora fare? Nel tempo, per fortuna, è in atto un passaggio di consegne mentre uno dopo l’altro i protagonisti di allora se ne vanno. Molti dei ragazzi che ora stanno raccogliendo il testimone e portando avanti l’opposizione non erano nati. I ragazzi e le ragazza che stanno organizzando il ventennale di Venaus, allora avevano dieci-undici anni. Pochi conoscono i nomi delle persone che allora avevano messo le basi: i tecnici, i primi amministratori, il presidente dell’Unione montana, il primo avvocato ad occuparsi del tav. Sono fasi diverse e forse è inutile guardare indietro ma andare avanti con nuove idee. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIANLUCA CARMOSINO: > No tav e mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Volerelaluna.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cosa si può ancora fare? proviene da Comune-info.
Quando l’arte fa l’impossibile
IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DI CINEMA DELLE DONNE A GAZA: UN ESEMPIO DI RESISTENZA CIVILE, UNA STORIA DA RACCONTARE Gaza. Palestinesi si avviano a presentare il festival (foto da Ezzeldeen Shalah) Non potremo che ricordare questo evento come un’ “utopia realizzata”, tra il 26 e il 31 ottobre 2025, a Deir el Balah nella striscia di Gaza. Anche chi, come me, stentava un anno fa a credere che questo progetto avrebbe preso corpo nel corso di un genocidio, nella distruzione di Gaza, sotto i continui crimini dell’esercito israeliano, con la paura delle bombe, le condizioni di sofferenza, di fame, di mancanza di tutto della popolazione, ha dovuto ricredersi. Sembrava una sfida impossibile, di fronte alle difficoltà materiali, enormi, ma anche al sentire delle persone, forse distanti da questa utopia, nel momento della sofferenza e dei bisogni fondamentali: un festival di cinema non era un lusso insostenibile? Credo che mi abbia convinto a sostenerlo, come ha convinto tutti coloro che hanno aderito attivamente al progetto, la determinazione del suo ideatore Ezzeldeen Shalah, critico e regista, di cui abbiamo più volte ascoltato da Gaza, nelle conversazioni online dei mesi di preparazione, la voce ferma, le parole convinte e irremovibili che dicevano di andare avanti, comprese quelle dette in uno dei momenti più terribili degli attacchi dell’esercito israeliano, l’invasione di terra unita a incessanti bombardamenti, di Gaza City: “se io non ci sarò più, continuate questo lavoro…”. Parole che ci hanno stretto il cuore, ma anche rafforzati nella convinzione di sostenere la realizzazione del progetto, in tutti i modi possibili. E’ stato presentato, raccogliendo fondi, in varie iniziative in Italia, e in molti paesi delle associazioni e festival di cinema che compongono l’ampia rete internazionale: è arrivato a Cannes, a Venezia, a Firenze gemellandosi con il Festival di cinema delle donne e poi al Festival dei Popoli dove il suo fondatore ha meritatamente ricevuto il premio SUMUD, parola che appartiene storicamente alla cultura palestinese: la perseveranza, la resistenza civile. Ezzeldeen Shalah Ancora una volta la cultura ha mostrato di essere non lusso, ma risposta a esigenze fondamentali: la speranza in un futuro possibile, la sua capacità di essere vita contro la morte, una forma alta di resistenza. E a chi gli domanda se ha senso parlare di cultura in tempi di genocidio e di fame, Ezzeldeen risponde: “Sì, ed è fondamentale. Il cinema è vita, è una presenza ostinata contro il nulla. Realizzare un festival tra le macerie significa dire che siamo ancora qui, che resistiamo e che c’è speranza. È il nostro modo di sfidare la morte con la vita. Vogliamo trasmettere al pubblico una carica di fiducia: la speranza, in questi tempi, è già una forma di resistenza”. (fonte: https://pungolorosso.com/2025/08/17/gaza-il-cinema-che-resiste/) Dunque a dispetto di tutti gli ostacoli e le difficoltà, il festival si è fatto, il tappeto rosso è stato steso, le persone che potevano hanno partecipato numerose e attente. E’ iniziato, come previsto, il 26 ottobre, data scelta per ricordare la Giornata delle donne palestinesi e la prima Conferenza delle donne palestinesi tenutasi a Gerusalemme nel 1929. S i è aperto con la proiezione del film vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia: “La voce di Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania, tunisina, Leone d’Argento a Venezia. Sconvolgente racconto dell’attesa e poi dell’uccisione sotto decine di colpi israeliani, di una bambina in un’auto con i familiari. Terribile e straordinariamente commovente, realizzato con grande capacità tecnica, fa rivivere quei dolorosi momenti in mezzo al genocidio di Gaza. I 79 film in programma, tra documentari, cortometraggi e lungometraggi di finzione provengono da 28 paesi. Tutti raccontano le vite, le voci e le lotte delle donne. Il Festival è stato poi sospeso per i nuovi bombardamenti nel corso della cosiddetta “tregua” (!) e si è concluso il 31 ottobre con le premiazioni. Qui trovate conclusioni e assegnazione dei premi. La realizzazione di questa edizione del Festival incoraggia a lavorare ad una seconda edizione, come assicura il suo fondatore : “Desideriamo assicurarvi che, a partire da domani, inizieremo i preparativi per la seconda edizione” dichiara davanti al pubblico Ezzaldeen Shalah, presidente e animatore instancabile del festival che, dal cuore di Gaza, a Deir al-Balah, dove il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha offerto la sua sede, ha parlato al cuore del mondo. > “Gaza International Women’s Cinema”. Chiusa la prima edizione si lavora già > alla seconda Continuiamo a sostenerlo https://gofund.me/d28029779 “Il cinema è la nostra voce quando il mondo non ci ascolta. E’ la luce che rimane accesa, anche sotto le macerie” NOTE LE GIURIE: Presidente onoraria del Festival è Monica Maurer , regista e ricercatrice da decenni lavora sulla memoria visiva palestinese. Si sono espresse due giurie: una per i film di finzione e una per i documentari. La giuria per la finzione è stata presieduta dalla sceneggiatrice e regista francese Céline Sciamma , affiancata dal regista marocchino Mohamed El Younsi , dall’attrice italiana Jasmine Trinca , dalla scrittrice e regista palestinese Fajr Yacoub e dall’attrice e regista teatrale algerina Moni Boualam . Annemarie Jacir , regista del film Palestine 36 , candidato agli Oscar, ha presieduto la giuria del documentario, insieme al produttore del Bahrein Bassim Al Thawadi , alla produttrice italiana Graziella Bildesheim (presidente dell’European Women’s Audiovisual Network ), al regista kuwaitiano Abdulaziz Al-Sayegh e alla montatrice cubana Maricet Sancristobal . LA RETE INTERNAZIONALE DI SOSTEGNO: Patrocinio del Palestinian Ministry of Culture, e la collaborazione di 100autori – Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva, ABP – Association belgo palestinienne, AFIC – Associazione Festival Italiani di Cinema, All for One, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), Associazione Cultura è Libertà, una Campagna per la Palestina, Associazione Spazio Libero, Astràgali Teatro, Bookciak Magazine, Carmel Sweden Foundation – chaired by Mohammed Al-Sahli, Casa Internazionale delle Donne, Cinema senza diritti, Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños – Cuba, EWA – European Women’s Audiovisual Network, International Federation of Arab Film Festivals – 25 festivals, chaired by Ezzaldeen Shalah, Jerusalem International Festival of Gaza, Leeds Palestinian Film Festival, NAZRA – Palestine Short Film Festival, Palestine Cultural Platform, Palestine Film Institute, Palestine Museum US, Resistance Culture Foundation – chaired by Brazilian filmmaker Yara Lee, Rete Ricerca e Università per la Palestina – RUP, Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese, Sumer Ad and Art Production, Visionarie – Donne tra Cinema, Tv e Racconto, Women’s International Democratic Federation – WIDF – FDIM, 46th Florence International Women’s Film Festival, Dar Al Thaqafa Academy – Libano).  I PAESI DA CUI PROVENGONO I FILM IN CONCORSO Italia, Francia, Iraq, Egitto, Marocco, Siria, Libano, Algeria, Tunisia, Oman, Kuwait, Qatar, Canada, Svezia, Emirati Arabi Uniti, Argentina, Iran, Australia, Belgio, Giordania, Sudan, Kenya, Yemen, Arabia Saudita, Australia, Germania, Finlandia, Danimarca. v. anche https://palestinaculturaliberta.org/2025/10/24/gaza-international-festival-for-womens-cinema-si-fara-nella-striscia-con-quello-che-resta/ L'articolo Quando l’arte fa l’impossibile proviene da Comune-info.
Quando la fede taglia i ponti con il fossile
MENTRE A BELÉM, IN BRASILE, LA COP30 INCIAMPA NEI SOLITI VETI INCROCIATI SUL PHASE-OUT DEI COMBUSTIBILI FOSSILI, LONTANO DAI RIFLETTORI POLITICI ARRIVA UN SEGNALE FORTE DALLE CHIESE CATTOLICHE E PROTESTANTI : 62 ISTITUZIONI RELIGIOSE – SCELGONO DI DISINVESTIRE DAL FOSSILE. UN GESTO DI DISOBBEDIENZA MORALE CHE NASCE NEI TERRITORI DOVE CRISI CLIMATICA E FRAGILITÀ SOCIALE CAMMINANO ORMAI INSIEME Il 18 novembre, mentre governi e grandi compagnie trattano il futuro come fosse merce di scambio, parrocchie, diocesi, ordini religiosi, reti protestanti e istituti finanziari ecclesiali hanno fatto un passo semplice e radicale: tagliare i legami economici con il petrolio, il gas e il carbone. È uno dei più grandi annunci collettivi di disinvestimento mai realizzati dalle comunità di fede. Ci sono diocesi cattoliche italiane (Siena, Montepulciano, Lucca, Cremona…), istituzioni canadesi, ordini religiosi europei, reti protestanti come l’Arbeitskreis Kirchlicher Investoren (AKI) che riunisce 42 investitori istituzionali della Chiesa tedesca. Un mosaico che dimostra come la conversione ecologica evocata da anni non sia solo un richiamo spirituale, ma si giochi nel concreto della finanza, della gestione delle risorse, dei progetti comunitari. L’Italia che brucia e che si allaga: la scelta delle diocesi In un paese dove ogni giorno si misurano i danni prodotti dalla crisi climatica , città sommerse e colline franate , il disinvestimento non suona come gesto ideologico, ma come atto di sopravvivenza comunitaria. Il cardinale Augusto Paolo Lojudice, tra Siena e Montepulciano, lega con chiarezza combustibili fossili e conflitti globali, ricordando che la crisi climatica non è una distrazione ecologica ma una questione di pace: “La decarbonizzazione è un atto di giustizia… esprime solidarietà con coloro che subiscono le conseguenze di conflitti alimentati dalla dipendenza dal fossile.” > Il Vescovo di Lucca, Paolo Giulietti, mette insieme finanza etica e comunità > energetiche rinnovabili (CER), mostrando una strada forse più politica che > religiosa: > “La sostenibilità è rispetto per il creato e amore per il Creatore. Alle CER > si aggiunge il nostro impegno negli investimenti fossil-free.” Ancora più esplicita la Diocesi di Cremona, dove il disinvestimento cammina di pari passo con la costruzione di sei – presto sette – Comunità Energetiche Rinnovabili in 27 Comuni: un lavoro nascosto e tenace, fatto di incontri tra parrocchie, amministrazioni, enti del terzo settore, fondazioni e cittadini. Cremona ricorda che la transizione non si fa nei convegni, ma negli oratori, nei tetti delle scuole, nelle assemblee di quartiere. Foto Rosa Jijon Quando la crisi climatica si chiama “migrazione” Tra le voci che compongono questa scelta collettiva c’è anche quella di chi conosce ogni giorno le ferite della mobilità forzata. Emanuele Selleri, dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, non usa mezzi termini: > “Il cambiamento climatico è una delle cause più tragiche delle migrazioni > forzate. Non possiamo voltarci dall’altra parte.” Per chi vive a fianco di chi fugge, la connessione tra il fossile e il dolore ha nomi, volti, biografie. È un’eco che a Comune-info conosciamo bene: i luoghi in cui si soffre l’ingiustizia ambientale sono spesso gli stessi in cui si soffre l’ingiustizia sociale. Dall’Europa al Sud del mondo: una pressione che sale Non è solo l’Italia a parlare. Le comunità protestanti tedesche – tra le più avanzate nella finanza etica – ribadiscono criteri chiari: fuori tutte le aziende che fanno più del 5% del fatturato da carbone e petrolio/gas non convenzionali. I gesuiti dell’Europa centrale annunciano il disinvestimento totale, ricordando che a pagare il prezzo più alto sono le popolazioni povere del Sud globale. E nei mesi scorsi i vescovi cattolici di Africa, Asia e America Latina hanno lanciato un appello netto: il fossile va abbandonato non solo per il clima, ma per riparare un debito ecologico e morale. Parole che spostano il discorso: non è più solo una questione di obiettivi climatici, ma di giustizia storica. La contraddizione che nessuno può più ignorare Fuori dai cammini comunitari, invece, il mondo del fossile accelera. La compagnia francese TotalEnergies è stata condannata per greenwashing mentre continua a spingere oleodotti devastanti come l’EACOP in Africa orientale e a riaprire progetti di GNL in Mozambico. Un nuovo rapporto Urgewald mostra che l’industria globale pianifica un’espansione del 33% rispetto al 2021: altro che transizione, siamo davanti a un rilancio. In questa contraddizione il disinvestimento delle istituzioni religiose diventa contro-narrazione e azione concreta. È un atto di verità: non si può dire “salviamo il creato” e finanziare chi lo distrugge. Quando la politica non decide, decidono i popoli Papa Leone XIV parla di “azione coordinata e coraggiosa per il clima”, ma soprattutto richiama le comunità a fare pressione sui governi. E in un passaggio che vale come titolo di questo tempo: > “Non possiamo essere complici, nemmeno involontariamente, delle cause > dell’emergenza climatica.” Se gli Stati esitano sugli NDC (i Contributi Determinati a Livello Nazionale), i movimenti di fede rispondono con i PDC – People’s Determined Contributions: impegni concreti presi dai cittadini e dalle comunità. Un cambio di paradigma: la transizione non è delegabile. La posta in gioco: denaro, democrazia, vita Le istituzioni religiose muovono complessivamente 3.000 miliardi di dollari di investimenti e oltre 600 di esse hanno già scelto di disinvestire. Non è un gesto simbolico: è un segnale che può condizionare banche, governi, istituzioni. Ma c’è dell’altro. Qui si parla di comunità che rimettono le mani sulla propria autonomia energetica, sulla capacità di decidere come usare il denaro, sulla possibilità di costruire alternative reali. È la dimensione che raccontiamo da anni: la transizione non è una questione tecnica, ma un processo di riappropriazione del futuro. Una speranza ostinata La climatologa cristiana Katharine Hayhoe ricorda che il grande masso dell’azione climatica non è ai piedi di una montagna impossibile: è già in movimento, e milioni di mani lo spingono nella direzione giusta. Disinvestire dal fossile è una di quelle mani. Non l’unica, certo. Non sufficiente, forse. Ma necessaria. Perché le comunità che dicono no al fossile e sì alla cura della terra mostrano una verità elementare: il cambiamento non arriva dai vertici, ma da chi abita i territori, da chi si prende cura, da chi decide di non essere più complice. E questa, sì, è una buona notizia. Anche mentre la COP30 fatica a decidere. L'articolo Quando la fede taglia i ponti con il fossile proviene da Comune-info.
Resistere e disertare
-------------------------------------------------------------------------------- Cucina popolare di Deir al Balah, sostenuta dalla campagna SOS Gaza -------------------------------------------------------------------------------- Nelle numerose occasioni di discussione pubblica che hanno accompagnato la presentazione dei miei due libri recenti (Disertate, del 2023 e Pensare dopo Gaza del 2025), qualcuno mi ha rivolto una domanda: che rapporto c’è tra resistenza e diserzione? È una questione che ho aggirato in varie maniere, cui non ho mai veramente risposto. Ma ero del tutto consapevole del fatto che prima o poi dovevo giungere al cuore della questione. Ora ci siamo: durante il genocidio ho dovuto chiedermi mille volte: come si può suggerire ai palestinesi di disertare, visto che l’aggressione israeliana consiste in un accerchiamento che dura da decenni? I palestinesi resistono, non accettano di disertare, e comunque non possono. Si può consigliare la diserzione a una persona, a una famiglia, a un popolo che da decenni è rinchiuso in un campo di concentramento? Avrei potuto rivolgere l’invito a disertare a una persona rinchiusa dietro i cancelli di Auschwitz? Sappiamo che Gaza è una riproduzione di Auschwitz in cui le tecniche dello sterminio e della tortura sono state dosate in un tempo più lungo. Nessuno poteva né può entrare nella striscia di Gaza, nessuno può né poteva uscirne. Che significa allora in quel caso disertare? Niente. D’altra parte da molti decenni i palestinesi hanno fatto della resistenza la speranza di riscatto, la condizione per mantenere dignità e per riaffermare la propria esistenza come popolo. Quando pubblicai quel libro non intendevo la parola Disertate come una consegna, come un suggerimento politico. La intendevo piuttosto come riconoscimento di un comportamento che molti praticano in modo individuale o collettivo. Intendevo riconoscere che, venuta meno ogni possibilità di alternativa di lungo periodo, la resistenza è perdente, e se si può è opportuno o disertare. Ma in quel libro ho dimenticato di dire che disertare è un privilegio. Chi ha la possibilità di disertare si trova in una condizione di privilegio rispetto a chi non può fare altro che resistere. O soccombere. Non intendo affatto contrapporre la diserzione alla resistenza, perché nella realtà di milioni di donne e di uomini questi due comportamenti, pur essendo molto diversi, non sono i due corni di un’alternativa, non sono le due possibilità tra le quali scegliere. Chi può scegliere di disertare lo faccia. Ma chi non può allontanarsi dal luogo e dalla condizione di violenza in cui è intrappolato, cosa può fare se non resistere, nell’attesa che il mostro si disintegri? -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Resistere e disertare proviene da Comune-info.
Soffia forte il vento propizio alla navigazione
-------------------------------------------------------------------------------- Reggio Emilia, 3 ottobre 2025 -------------------------------------------------------------------------------- Giovedì 6 novembre a Roma, ESC Atelier ha ospitato la seconda assemblea aperta di quell’alta marea, imprevista ma cercata, che ha spinto la Sumud Flotilla fino alla costa di Gaza e che ha segnato la nascita di “qualcosa” di bello, importante e generativo nel mondo, in Europa e in Italia contro guerra, genocidio e distruzione della terra. Qualcosa che ha fatto scendere in piazza il 3 e 4 ottobre una popolazione estesa, consapevole della follia criminale in cui è stato gettato il mondo. Di questa situazione globale, delle proteste transnazionali e delle pratiche da adottare per rendere permanente lo stato di agitazione, per rivendicare giustizia climatica il 15 novembre, lottare contro la violenza suprematista esercitata in varie forme contro i viventi il 22 trasfemminista, e per fermare riarmo ed estrazione di vita, risorse e ricchezze comuni con lo sciopero generale il 28 novembre, l’assemblea si è incaricata costituendo tre gruppi tematici: comunicazione, economia di guerra, navigazione verso la Palestina globale che contrasta il genocidio e la menzogna della finta pace. Sul piano della comunicazione è stato anzitutto sancito il nome della cosa: “Equipaggi di mare e di terra”, che fa eco al manga “One Piece” ed evoca lo spazio ampio, inclusivo ed esteso che in questi giorni è spazio di cura di singoli e soggettività. La voce “mettersi a disposizione” è stata riconosciuta come il claim interno di un’autonomia sociale e politica da mantenere, il che significa fiducia tra le persone e le reti, non proprietà di questo spazio grande, e adozione di una temporalità flessibile rispetto a scadenze, vertenze e pratiche nel percorso intrapreso in direzione dello sciopero. La struttura in piccoli gruppi per permettere a tutti e tutte la presa di parola da restituire nell’assemblea plenaria è l’elemento essenziale per garantire un’orizzontalità non sempre scontata. Questa istanza non può non supporre momenti di convivialità, stare insieme, fare comune, per risentire ciò che da tempo è stato sottratto a ogni desiderio: costruire comunità insorgenti. Sul piano dell’iniziativa transnazionale c’è stato il riconoscimento di una linea di conflitto permanente tra le politiche suprematiste dell’“Israele globale” e le resistenze di una “Palestina globale” che oppone alla distruzione del diritto internazionale la costruzione di uno diritto “locale”, nei diversi territori, dando rilievo alla giornata internazionale per la Palestina del 29 novembre e verso una giornata di mobilitazione internazionale a Bruxelles. Oltre a ciò è stata proposta una carovana in Cisgiordania a cui si aggiungerà in primavera un’altra flottiglia e una raccolta fondi per la ricostruzione, con festival, happening, spettacoli. Come si riescono a tradurre nello sciopero generale del 28 le mobilitazioni e la partecipazione di questi giorni? Le concrete realtà in cui si attua il riarmo offrono l’arco tematico che scandisce il percorso verso la generalizzazione dello sciopero: la riconversione di attività manifatturiere in industrie belliche, l’impiego di vettori della logistica (porti, aeroporti) per l’invio e il traffico di armi, la micidiale conversione del welfare in warfare, con tagli ai servizi pubblici e ai salari come è attestato qui in Italia dalla manovra finanziaria e in Europa dai circa 7000 miliardi di euro del cosiddetto piano SAFE. Si tratta dunque di territorializzare la mobilitazione e continuare a provare connessioni per estendere sempre più la partecipazione. Questo orientamento ha bisogno di tempi più lunghi delle scadenze che continuano ad essere cruciali. Per questo è emersa l’ottima proposta di creare gruppi di studio e spazi di informazione e formazione sull’insieme delle tematiche del diritto, del riarmo e del regime di guerra planetaria, in modo da far soffiare forte il vento propizio alla navigazione. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Brezza di terra e flussi di marea -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Soffia forte il vento propizio alla navigazione proviene da Comune-info.
Oltre i rapporti sociali capitalistici
SE PER UN MOMENTO ABBANDONASSIMO IL VUOTO DELLA CULTURA POLITICA DOMINANTE E ABBASSASSIMO IL NOSTRO SGUARDO, POTREMMO ACCORGERCI CHE LE PIÙ IMPORTANTI STORIE DI CAMBIAMENTO IN PROFONDITÀ DEGLI ULTIMI TRENT’ANNI, DALLE COMUNITÀ ZAPATISTE A QUELLE DEL ROJAVA PASSANDO PER LE RIVOLTE IN ARGENTINA (2001) E GRECIA (2008), NON SOLO HANNO MESSO IN DISCUSSIONE LO STATO E I PARTITI COME MEZZI DI LOTTA, MA LI HANNO CONSIDERATI ANCHE PARTE DEL PROBLEMA. PERTANTO, IL TIPO DI ORGANIZZAZIONE CHE, TRA INEVITABILI LIMITI, HANNO ADOTTANO, DICE ALEJANDRO OLMO, È ASSEMBLEARE E AUTODETERMINATO, FAVORENDO COSÌ PROCESSI DECISIONALI COLLETTIVI E DIRETTI Foto di Desinformémonos (che ringraziamo) -------------------------------------------------------------------------------- Come punto di partenza per affrontare la questione dell’identità e dell’anti-identità nella lotta di classe, mi interessa riflettere sui cambiamenti che si sono manifestati nelle lotte anticapitaliste negli ultimi decenni. Molte di queste ribellioni, rivolte o movimenti di resistenza hanno cominciato a segnare alcune importanti differenze rispetto alle lotte precedenti, soprattutto a partire dall’emergere dello zapatismo nel 1994, ma anche con la rivolta del Rojava del 2011/2 e le rivolte in Argentina del 2001, ad Atene del 2008 e in Cile del 2019 (tra molte altre). In linea di principio, queste esperienze non solo mettono fortemente in discussione lo Stato e i partiti politici come mezzo di ribellione, ma li considerano anche parte del problema. Pertanto, il tipo di organizzazione che adottano è assembleare e autodeterminato, favorendo il processo decisionale collettivo e diretto. Ciò crea un’eccedenza della forma statale; la forma di lotta incentrata sullo Stato stesso viene sopraffatta, generando una rottura con il carattere identitario predominante della lotta di classe. Le forme del capitale La forma-stato è generata dal rapporto sociale capitalista attraverso l’alienazione dell’attività umana in lavoro astratto e produzione di valore. Come parte della logica di questo processo di alienazione, esistono altre forme indicate da Marx, come la forma-valore, la forma-lavoro e la forma-denaro. Queste forme non esistono come qualcosa di statico, ma sono processi o “forme-processo”, come le chiama John Holloway nel suo libro La speranza. In un tempo senza speranza. Quindi, le forme, in quanto processi, sono processi di astrazione, alienazione e contenimento dell’attività vitale umana all’interno dei rapporti sociali capitalistici. Il lavoro astratto, dunque, è il processo di alienazione del lavoro utile (o attività umana liberamente determinata); il valore o valore di scambio è il processo di alienazione del valore d’uso; e la merce, il processo di alienazione della nostra ricchezza (o come dice Marx nei Grundrisse: … l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui). Ogni forma è un processo identitario che ci limita e ci contiene, ma questo contenimento è un processo antagonistico. Ciò che è contenuto è in conflitto con la forma; c’è una resistenza anti-identitaria che spinge a traboccare dalla forma. Ciò che è contenuto è in antagonismo con la forma che lo contiene; la lotta di classe è antagonistica. Classe traboccante L’identificazione con la classe, e quindi con il lavoro, è forse l’identificazione più forte, la più naturalizzata e “invisibile”, e quindi quella che costituisce il maggiore ostacolo alla rottura con i rapporti sociali capitalistici. Anche la classe è una forma, un processo identitario che ci definisce come lavoratori, come classe operaia. Pertanto, per affrontare il capitale, dobbiamo traboccare dalla classe; dobbiamo abolire la classe operaia per abolire il capitale. Al contrario, se rimaniamo entro i limiti della classe, possiamo solo aspirare a lottare contro il capitale per ottenere migliori condizioni nella vendita della nostra forza lavoro in cambio di denaro. In altre parole, se lottiamo contro il capitale come lavoratori, cioè già identificati come tali, accettiamo l’alienazione della nostra attività vitale nel lavoro astratto e, pertanto, la lotta sarà per migliorare quella transazione che prima accettavamo come qualcosa di “naturale”. D’altra parte, assumere questa classificazione senza rivelarci e senza tentare di superarla implica rafforzare la stessa relazione sociale che ci racchiude e ci contiene all’interno della classe. Se non superiamo la forma di classe, rimaniamo intrappolati in una lotta di classe basata sull’identità, poiché l’identità di classe si genera dalla conversione della nostra attività in lavoro astratto. L’attività vitale umana è contenuta, negata, all’interno del “processo-forma” di classe, ma come abbiamo detto prima, questo è un processo antagonistico in cui ciò che è contenuto è sempre la resistenza anti-identitaria alla forma. Quindi, mentre è necessario combattere “dalla” classe, dobbiamo anche, e soprattutto, combattere “contro” la classe e superarla. La lotta di classe è anti-identità finché include la ribellione contro la propria classe, contro il processo di classificazione che ci identifica come classe produttrice di valore. Se la lotta di classe è antagonistica, allora non possiamo partire da nessun altro punto se non da quell’antagonismo, cioè da una posizione contraddittoria tra identitario e anti-identitario. Ma da questa tensione generata dall’antagonismo, è importante visualizzare la spinta anti-identitaria che esiste, sebbene negata, come una forza potenzialmente schiacciante contro quella negazione. Su quest’ultimo punto, mi interessa citare qualcosa che John Holloway scrive nel suo libro La speranza. In un tempo senza speranza: Per pensarla come l’apertura della speranza rivoluzionaria, dobbiamo vedere la classe operaia come anti-lavoro e anti-classe, come una dislocazione, un’eccedenza, qualcosa di incontenibile, qualcosa di inconquistato. Per rompere le forme del capitale, dobbiamo creare un’altra relazione sociale. Tornando al punto di partenza sui cambiamenti nelle lotte anticapitaliste, si potrebbe dire che una tendenza anti-identitaria nella lotta di classe sta iniziando a emergere, almeno in via embrionale. In modi diversi, la forma di classe viene sopraffatta in questi processi. Con questo non intendiamo affermare che questa tendenza sia predominante, ma piuttosto che il tipo di organizzazione che emerge in queste nuove lotte prefigura relazioni sociali autodeterminate e genera rotture che mettono in discussione la natura identitaria finora predominante. L’attuale crisi del capitalismo è la crisi delle sue forme, comprese quelle di lotta basate sull’identità. Da questa prospettiva, la caduta dell’URSS può essere vista come parte della crisi di queste forme, ed è probabile che, in seguito al crollo della “speranza” del socialismo reale, si sia creata un’apertura che ha reso possibili i cambiamenti nella lotta di classe in atto. Penso alle rotture con le forme del capitale come a un processo, o meglio, a un controprocesso che crea altre relazioni sociali, “contro e oltre” la relazione capitalista, una comunizzazione che mira a liberare capacità e ricchezza umane. In questo controprocesso, l’assemblea è fondamentale come politica dell’eccesso, come relazione autodeterminata che rompe con l’identità, sostituendo la relazione gerarchica dei partiti politici e delle istituzioni statali. Da questo tipo di auto-organizzazione, è necessario promuovere una nuova associazione tra le persone, una libera associazione che, anziché limitare il potenziale dell’attività umana, consenta, al contrario, il dispiegamento di quelle capacità e forze. In questo processo, si genererebbero rotture con il lavoro astratto (la forma lavoro), che è il nucleo delle relazioni sociali capitaliste e attraverso il quale alieniamo la nostra ricchezza in merci. L’auto-organizzazione in assemblee o comuni è ciò che osserviamo in diverse forme nei governi autonomi locali zapatisti (GAL) o nei cantoni del Confederalismo Democratico in Rojava. È presente anche, seppur in modo più rudimentale e fugace, in molti degli attuali movimenti di resistenza in tutto il mondo, o in recenti rivolte come quelle menzionate all’inizio di questo articolo. Molti di questi processi subiscono battute d’arresto negli eccessi che avevano generato o si dissolvono senza mai emergere in una relazione diversa, riproducendo rapidamente le logiche identitarie contro cui si stavano originariamente battendo. Il grosso problema è che in molti casi combattiamo contro qualcosa in particolare, come l’estrattivismo, il patriarcato o la discriminazione razziale, senza collegare l’oggetto di quella particolare lotta al nucleo che la genera, ovvero il capitale. Estrattivismo, patriarcato o discriminazione razziale non esistono al di fuori del rapporto sociale capitalista. La stessa relazione che cerca costantemente di alienare la nostra attività nella produzione di valore è ciò che genera, ad esempio, l’estrattivismo. Pertanto, se affrontiamo l’estrattivismo senza riconoscere questa connessione, ovvero senza prendere di mira il capitale, allora quella lotta rimane intrappolata nella logica identitaria che il rapporto capitalista impone. Per usare l’eccellente metafora zapatista, non si può combattere nessuna delle teste dell’idra capitalista in particolare senza ignorare il cuore stesso dell’idra. Dobbiamo vedere questa relazione e prendere di mira il cuore dell’idra; altrimenti, le teste dell’idra continueranno a riprodursi. Se siamo contro lo Stato (per fare l’esempio più comune), dobbiamo capire che lo Stato dipende dal capitale. Non possiamo liberarci dallo Stato se non ci liberiamo dal rapporto sociale capitalista, dall’alienazione del lavoro astratto. Quindi, per rompere con le forme identitarie del capitale, è necessario andare contro il nucleo stesso che le genera. Non a caso gli zapatisti usano la metafora dell’idra. Camminano, tra progressi e battute d’arresto, alla ricerca di un altro rapporto sociale, che chiamano “Beni Comuni”. Ciò che cerchiamo qui è di offrire una prospettiva critica e autocritica sulle esperienze di lotta anticapitalista, tenendo conto delle tendenze antagoniste identitarie e anti-identitarie esistenti. Tuttavia, allo stesso tempo, questa prospettiva critica deve permetterci di visualizzare i “risultati” conseguiti, siano essi duraturi nel tempo o fugaci. L’obiettivo è aprire percorsi che permettano di generare relazioni sociali diverse e di creare spazi di autodeterminazione, assembleari e anti-identitari. Liberare la nostra ricchezza dalla forma merce implica simultaneamente la creazione collettiva di altre relazioni sociali, di un altro mondo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato sul numero 4 della Revista Crítica Anticapitalista (dove è apparso con il titolo La classe operaia trabocca) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Lotta di classe identitaria e non identitaria -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre i rapporti sociali capitalistici proviene da Comune-info.
Ribellarsi facendo, qui e ora
GAZA, UN GENOCIDIO DAVANTI AGLI OCCHI DEL MONDO, METTE IN CRISI LA CULTURA POLITICA NON SOLO DI CHI DOMINA. SIAMO ALL’INIZIO DI UN TEMPO NUOVO. ABBIAMO BISOGNO DI ESPERIENZE PER RE-IMPARARE A NAVIGARE, ESPERIENZE AD ESEMPIO DI CURA, COME QUELLA CHE VIVONO OGNI GIORNO LE PERSONE CHE SI INCONTRANO NELLA “PIAZZA DEL MONDO” DI TRIESTE, CROCEVIA DEI MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA. “FARE ESPERIENZA OGGI È UN PRIVILEGIO, COME AVERE UNA BUSSOLA PER CHI È SPERDUTO IN MEZZO AL MARE… – SCRIVE GIAN ANDREA FRANCHI – STA A NOI MOSTRARE SE LA FLOTILLA E SOPRATTUTTO LE MANIFESTAZIONI IN EUROPA E IN VARIE PARTI DEL MONDO POSSONO ESSERE L’INIZIO DI ESPERIENZA E QUINDI DI POLITICA… ANCHE SE FARE MANIFESTAZIONI È MOLTO PIÙ FACILE DI UN AGIRE COSTRUTTIVO QUOTIDIANO E LOCALE: QUI STA IL PUNTO. DOBBIAMO COSTRUIRE LA NOSTRA SELVA LACANDONA…” Molti che vengono a trovarci, qui a Trieste, dove ogni giorno con Linea d’ombra incontriamo i migranti che arrivano dalla cosiddetta rotta Balcanica, e spesso ci dicono che nella piazza del Mondo di Trieste si fa esperienza. Ma che cosa vuol dire questa parola comune e quindi dal significato sfuggente? Per definire il concetto di esperienza possiamo fare riferimento a Walter Benjamin. Da quasi un secolo, Benjamin ci offre una meditazione pregnante sulla possibilità e quindi sulla capacità di fare esperienza, partendo dalle ricadute sociali degli effetti della Prima guerra mondiale. Fra queste ricadute, fondamentale è stata, appunto, l’incapacità di fare esperienza: “… l’arte di narrare si avvia al tramonto […] È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa, la più sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”. “Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? […] Una generazione che era ancora andata a scuola con il tram a cavalli, si trovava sotto il cielo aperto, in un paesaggio di cui nulla era rimasto immutato, tranne le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”1. Oggi l’incapacità di fare esperienza ha raggiunto un culmine mai toccato prima nei confronti di ciò che è letteralmente inesperibile, indicibile: la distruzione quotidiana di una popolazione inerme di fronte a tutto il mondo, offerta o imposta ogni giorno e ogni notte dall’invasiva potenza elettronica della produzione di immagini su dispositivi di uso quotidiano, come i cellulari, ormai capillarmente diffusi. E questo accade in un contesto già gravemente segnato da un altro dato fondamentale di lunga durata, meno visibile forse ma anche più grave, se possibile: l’alterazione, che ormai appare inarrestabile, dell’equilibrio ambientale della vita sulla terra, dovuta all’attività umana, anzi per essere doverosamente più preciso: di una parte minoritaria degli umani. Se “storia” implica narrazione – lo stabilirsi di un nesso comunicativo fra le generazioni che si succedono nel corso del tempo, fra chi viene al mondo e chi se ne va, fra chi nasce e chi muore -, questi due passaggi epocali confluenti ci mettono di fronte a una frattura storica mai avvenuta prima. In tale contesto, in cui ci troviamo tuffati come in un mare senza sponde, come è possibile fare esperienza? Io credevo di aver avuto questo privilegio. Mi era stato offerto in un gesto comunicativo originario e radicale, che agisce alla base della vita: il gesto di cura per mano di donna che, scalzando un piede ferito da un lungo cammino, ha cominciato, di fronte a una lingua sconosciuta, a curarlo, entrando quindi con lui in un radicale rapporto. Questo gesto si è inserito, peraltro, in un contesto culturale di pensiero femminista, che mi era noto. Ma un conto è la conoscenza intellettuale, un altro – appunto – l’esperienza. Fare esperienza oggi è un privilegio, come avere una bussola per chi è sperduto in mezzo al mare. Salvo illusioni, di cui bisogna sempre tener conto come orizzonte di riserva per un pensiero critico attivo che ha conosciuto la potenza delle illusioni. La potenza dell’illusione, infatti, nasconde spesso l’incapacità di fare esperienza, nutrendosi di emozioni rivestite di immagini e di parole, non di pensieri: oggi più che mai prima, con l’in-flusso soffocante dell’informazione elettronica. Nella piazza del Mondo di Trieste si fa dunque esperienza. Si fa anche esperienza di un altro confine, oltre a quello che scatta contro i migranti, che meglio si chiamerebbe frontiera. Si fa esperienza del confine fra loro e noi che è stato chiamato da un sociologo e attivista la “differenza abissale” e che, per rimanere in tema, possiamo chiamare il confine abissale: il confine non facilmente superabile fra “culture” molto diverse e condizioni di vita radicalmente diverse dalla nostra, come sono quelle di chi viene da paesi in cui sopravvivere è difficile, rischiando molte volte la vita per arrivare dove noi lo incontriamo, tentando di accoglierlo. Ma si fa esperienza anche di un altro confine, in apparenza molto meno drammatico, in realtà molto legato al dramma, anzi alla tragedia, di cui sopra, che riguarda noi stessi direttamente, anzi intimamente. Intendo dire che facciamo esperienza del confine tra umanitarismo e politica. Si tratta di una differenza fondamentale nell’agire sociale che deriva dal confine tra due forme di vita che chiamerò vita privata (privata dunque di qualcosa…) e vita comunitaria. Con “vita privata” intendo la vita normale (ovvero che risponde a norme) nelle nostre società rette dalla cultura dell’economia di mercato in cui l’essere umano si rappresenta nella figura dell’individuo, separato e contrapposto agli altri, sulla base di un’ontologia sociale della concorrenza e della proprietà, in cui rientra la cerchia insulare degli “affetti”. Con “vita comunitaria” intendo il fine intrinseco della politica, pensata esclusivamente come impegno nel cuore della società volto a rompere l’individualismo nel tentativo, appunto, di costruire comunità: una vita sociale composta di relazioni basate sul dato ontologico che la soggettività nasce dalla relazione e non la precede; nasce dal riconoscimento reciproco fra singoli, non fra individui che non si possono riconoscere ma soltanto contrapporsi o comunque relazionarsi estrinsecamente. “Singolo” è la parola con cui indico il carattere strutturalmente relazionale della soggettività: non c’è un “io” prima dell’”altro”; il gioco essenziale fra “io” e “sé” nasce dal riconoscimento dell’altro che poi diventa reciproco. Ciò accade sulla base della cura, altra nozione essenziale per un pensiero politico, il cui evento originario è l’esser accolti alla nascita. Generalmente con “politica” si intende soprattutto il livello istituzionale: lo Stato, con annessi e connessi, che è gestione del potere in una società e in stretto necessario legame con il soprastante potere detto “economico”. Dovremmo invece imparare a riservare il termine politica solo all’impegno dentro la società, fra la gente, in cui il privato e il pubblico, almeno tendenzialmente, si dissolvono. In tale contesto non deve esserci potere che può esser agito solo in situazioni circoscritte e su precisa delega collettiva sempre temporanea. Con “umanitarismo” intendo, invece, un impegno nel disagio e nella sofferenza sociali che resta al di fuori della soglia politica perché non risale alle cause di quel disagio e di quella sofferenza nel tentativo di superarle. In tal modo se ne rende complice. In qualunque società infatti una certa quantità e qualità di cura reciproca è necessaria affinché la società stessa non si disgreghi. Vi sono innumerevoli forme a tutti i livelli di presenza della cura nelle società. Nel cosiddetto Occidente, il potere ha imparato che senza una certa quantità e qualità di cura la società stessa tende a disgregarsi. In Occidente e soprattutto in Europa negli anni Sessanta-Settanta c’è stato un notevole aumento della cura pubblica, anche e soprattutto per effetto di movimenti sociali. Da qualche decennio è evidente che la cura pubblica sta diminuendo fortemente. In molti paesi del mondo la cura è al livello minimo. In altri è al disotto del livello minimo: sono paesi in disgregazione – penso, ad esempio, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, ad alcuni paesi africani e del Sud Asia orientale, ma ce ne sono molti. Oltre alla cura pubblica, cioè di matrice statale, c’è anche una cura da parte di gruppi sociali che però non si pongono il problema delle cause della sofferenza, ma si limitano a curare le conseguenze: è appunto la cura umanitaria, essenziale per sostenere la società, soprattutto oggi che la cura è in diminuzione ovunque e inoltre viene “privatizzata” nel senso che diventa una produzione economica per generare valore di scambio. Tradizionalmente la Chiesa cattolica è la più importante produttrice di cura umanitaria nel nostro paese. Oggi, però, ricollegandomi all’incipit di questo scritto, siamo all’inizio di un tempo storico assolutamente nuovo che cambia tutte le carte in tavola. Credo, infatti, che quel che avviene a partire dal 7 ottobre del 2023 in Gaza, ovviamente ricaduto anche in Cisgiordania e su tutto il popolo palestinese, tutt’altro che concluso con l’esibizione della finta pax americana – ovvero un genocidio davanti agli occhi del mondo intero – sia la dichiarazione pubblica fattuale che è possibile anzi “desiderabile” una società senza cura: una società retta dal nudo potere del valore di scambio, di cui la diffusione di una cultura mercantile della guerra è la conseguenza. Questo avvenimento pubblico è tale da produrre una rottura radicale nella continuità storica del tramandamento e quindi nella nostra capacità di fare esperienza. Noi non siamo – non siamo ancora, forse – in grado di fare esperienza di quel che accade a Gaza. Ma quel che accade a Gaza reagisce su tutto ciò che facciamo, anche nella piazza del Mondo di Trieste, che rischia continuamente di venir riassorbita, quindi, nell’umanitario, sul cui confine oscilliamo sempre. Peraltro fra questo recente fenomeno migratorio e quel che accade a Gaza c’è un nesso significativo nel nome del disprezzo razziale della vita, antica e fondamentale tradizione europea. Questo nesso è la politica di morte dell’Unione europea che di morti ha riempito il Mediterraneo e in minor misura anche la rotta che giunge ai Balcani. Una politica di morte che l’Europa, e in particolare l’Italia, agisce con Libia e Tunisia: anche noi quindi, cittadini europei e italiani, siamo direttamente coinvolti… Sta a noi mostrare se la Sumud flottiglia e soprattutto le manifestazioni in Europa e in varie parti del mondo possono essere, forse, un primo impulso a un inizio di esperienza e quindi di politica… anche se fare manifestazioni è molto più facile di un agire costruttivo quotidiano e locale: qui sta il punto. Dobbiamo costruire la nostra Selva Lacandona: le nostre piccole selve da unire nella grande… (e qui non posso far punto ma solo puntini…). -------------------------------------------------------------------------------- 1 Walter Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Traduzione e cura di Renato Solmi, Einaudi Torino, seconda edizione 1982, pp. 248 e 247 -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ribellarsi facendo, qui e ora proviene da Comune-info.