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La cucina meticcia dell’Esquilino
-------------------------------------------------------------------------------- POLO CIVICO ESQUILINO E REDAZIONE DI COMUNE presentano a Roma nell’ambito del progetto “PARTIRE DALLA SPERANZA E NON DALLA PAURA” PROMOSSO DALL’ASS. PERSONE COMUNI / EDITORE DI COMUNE Qui il programma completo che include 4 iniziative in diversi quartieri di Roma, tra giugno e novembre 2025 SABATO 20 SETTEMBRE PIAZZA PEPE (Esquilino) Ingresso libero ORE 19 PEDAGOGIA DEL CONFINE Il corpo come luogo culturale, la danza come condivisione Spettacolo di Danza-movimento-terapia Fernando Battista ORE 20 LA CUCINA METICCIA DELL’ESQUILINO Il mondo non è uno scontro di culture, ma un incontro di fritture Cena e concerto/perfomance multimediale donpasta -------------------------------------------------------------------------------- Daniele De Michele da oltre vent’anni, con lo pseudonimo donpasta, utilizza la scrittura e gli spettacoli per indagare e proteggere la cucina popolare. Sabato 20 settembre lo farà incontrando la comunità meticcia dell’Esquilino per una festa di piazza: una grande tavolata, cuochi dal mondo intero, una consolle e un sound system. Cucinare per parlare di tradizioni che si contaminano, di vite in bilico, di resistenze e accoglienze. Saranno raccontate alcune delle tante ricette italiane che hanno origine da ibridazioni secolari come i carciofi alla giudia, il cacciucco livornese, il cous cous di pesce trapanese. E saranno raccontati anche il presente e il futuro prossimo di una cucina sempre più aperta alle contaminazioni. Con le sue tagliatelle, assieme ai cuochi di origine migrante, donpasta immaginerà piatti che prendano spunto da tradizioni diverse. Per questo sul palco ci saranno musica e pentole contemporaneamente, mixer e mini-pimer, una consolle e un piano da cucina, fornelli e cuffie, e tanta farina tenera e di grano duro per l’insostituibile “Imperia” a manovella che sforna tagliatelle. Tutti i sensi saranno chiamati in causa. Naturalmente anche il dj set sarà speziato di sonorità del mondo intero, tra il funk, il reggae, il Sud America e la Londra meticcia… La serata si aprirà con uno spettacolo di Danza-movimento-terapia di Fernando Battista. La danza, presente in ogni tempo, luogo e in tutte le strutturazioni sociali, si rivela uno straordinario mezzo interculturale di condivisione dei vissuti e una modalità partecipata di pensare il fare collettivo. -------------------------------------------------------------------------------- L’iniziativa fa parte del ciclo di appuntamenti “Partire dalla speranza e non dalla paura” realizzato dall’Ass. Persone comuni. Il progetto, promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum – 2025, finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 – Investimento 4.3 – Caput Mundi”. -------------------------------------------------------------------------------- Daniele De Michele Don Pasta (www.donpasta.it). Daniele De Michele è autore del film Naviganti, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia nel 2021 e I Villani prodotto da Rai Cinema e presentato a Venezia 2018. Eonomista, con un Master in “Economia e sviluppo Economico” all’Istituto Nazionale delle ricerche Agronomiche in Francia, Daniele De Michele dal 2001, con lo pseudonimo donpasta, utilizza la scrittura, le performance, gli spettacoli, le istallazioni, il giornalismo per sviluppare un progetto culturale e artistico sul tema dell’alimentazione. In televisione collabora assiduamente con Geo And Geo (RAI3), La Prova del Cuoco (Rai 1), la rete LaEffe. In radio è spesso invitato a Fahreneith (Radio3), Caterpillar (Radio 2), Decanter (Radio 2) e Capital in The World (Radio Capital). Per Treccani e Corriere della Sera ha curato la serie web-tv “Le nonne d’Italia in cucina”, viaggio nelle venti regioni incontrando nonne in cucina. Collabora Nel 2014 ha pubblicato Artusi Remix (Mondadori), frutto di un lavoro condiviso con il Comitato Scientifico di Casartusi. Ha pubblicato inoltre: Food sound system (2006) e Wine Sound System (2009) per Kowalski-Feltrinelli; La Parmigiana e la Rivoluzione (2011) e La Ballata di Circe (2017) per Stampa Alternativa; Kitchen Social Club (2016) per Altreconomia. Nel giornalismo scrive assiduamente con: Repubblica, Corriere della Sera, Left e Manifesto e Comune. Lo spettacolo Food Sound System gira il mondo dal 2001 (Usa, Vietnam, Zimbabwe, Mozambico, Algeria, Finlandia, Libano, Turchia, Francia, Germania, Spagna) e partecipa ai più importanti festival nazionali (Mittlefest in Friuli; Festival di Ravello; Capodanno di Roma e di Firenze; Arezzo Wave, etc). -------------------------------------------------------------------------------- Fernando Battista, coreografo e performer, porta avanti con l’Università Roma 3 una ricerca sui temi della Danza-movimento-terapia (DMT) in ambito educativo e nei processi migratori. Docente presso diverse scuole di formazione in DMT, Counseling, Psicomotricità e ArteTerapia. partecipa da tempo a progetti internazionali e attività di formazione per docenti e operatori del sociale. Il suo ultimo libro è Pedagogia del Confine (ed. Junior). Corpisensibili è il suo blog. Corpisensibili.com -------------------------------------------------------------------------------- Mezzi pubblici per raggiungere Piazza Pepe metropolitana (fermata Termini) e bus 71 Informazioni: Whatsapp +39 335 5769531 -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La cucina meticcia dell’Esquilino proviene da Comune-info.
Sentirsi parte di una narrazione a più voci
TRA MILLE DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI IL MONDO CONTADINO RACCOGLIE OGGI SEMPRE PIÙ ESPERIENZE DIVERSE DI RITORNO ALLA TERRA E DI CREAZIONE DI COMUNITÀ LEGATE ALL’AGRICOLTURA CONTADINA, COME PRATICHE CARICHE DI SENSO, RICCHE DI NUOVE E VECCHIE DOMANDE. QUESTO UNIVERSO È GIÀ IN GRADO DI INDICARE STRADE DI DISOBBEDIENZA, OFFRIRE SAPERI, ROMPERE L’INDIVIDUALISMO DELLA SOCIETÀ ATOMIZZATA. SI TRATTA PERÒ DI NON DIMENTICARE MAI CHE I CAMBIAMENTI CULTURALI NON AVVENGONO IN MESI O ANNI MA IN DECENNI E PER QUESTO QUALSIASI ECOSISTEMA DEVE RESTARE APERTO, MA SI TRATTA ANCHE DI NON DELEGITTIMARE, SCREDITARE, ISOLARE ESPERIENZE DIVERSE DALLA PROPRIA. ALCUNE RIFLESSIONI DALLA TRE GIORNI “STORIE E RESISTENZE CONTADINE” IN VAL PELLICE Raccolte d’autunno: Ortica per il pasto, Prugnolo-Sambuco&Biancospino per la composta. Foto di Daniela Di Bartolo -------------------------------------------------------------------------------- In giugno ho partecipato per un giorno e una notte all’incontro “Storie e resistenze contadine” in Val Pellice. Un luogo incantevole, una cornice bella e accogliente, fra uno spazio per le tende, un prato al centro che ospita un grande cerchio, un bellissimo torrente d’acqua fresca e cristallina che attraversa lo spazio comunitario quasi a rigenerarlo e a ricordare che nulla è fermo. E ancora: una cucina aperta e un operoso collettivo che sforna ottimo cibo, una spina di birra artigianale e un box di ottimo barbera a offerta libera stanno a ricordare che la fiducia è una pratica e un esercizio politico essenziale. Una comunità biodiversa si pone delle domande nella creazione di esperienze e pratiche di contadinanza a partire da una critica radicale al modello dominante che considera la città come il grande parassita, il mostro che tutto colonizza, tutto sussume, tutto mercifica, tutto intossica e abbruttisce fuori e dentro di noi. La critica alla città come fonte ed emblema del problema, contesto mortifico da lasciarsi alle spalle per dare vita ad altre forme di economia e di autonomia, a partire dalla cura della terra come cura di noi stessi e noi stesse e dall’autoproduzione di cibo, come primo passo di autosussistenza e autodeterminazione. Città come epicentro dell’inutile e del fittizio, che non risponde ad alcun bisgno se non a quello della sopravvivenza e delle perpetuazione del capitalismo. La città irradia modelli e gerarchie come fossero assiomi assoluti e immodificabili ed espande la dipendenza dal denaro e la cupidigia dell’accumulo come unica prospettiva che avviluppa tutto, a partire dal pensiero. Nella convivialità dell’incontro colpisce la presenza giovanile, che costituisce la maggioranza delle e dei presenti e l’eterogeneità dei partecipanti, tra chi da tempo lavora con la terra, chi si sta avvicinando, chi ne è affascinato e sta pensando a come lasciare la città, chi si muove in funzione di raccolte e lavori temporanei senza avere riferimenti fissi. C’è chi conduce piccole aziende agricole che di fatto sono piccole imprese, chi non ne vuole saperne di burocrazia e compromessi e si dedica a sviluppare progetti di sussistenza nell’informalità, chi in modo comunitario, chi in forma collettiva. Diverso anche il rapporto col denaro tra chi riceve contributi pubblici per portare avanti il proprio progetto e chi li rifiuta, chi ha contratto dei debiti per avere accesso a trattore e altre forme di tecnologia e vive fatiche e ansie legate a mole di lavoro, costi e debiti che allontanano dalle speranze originarie di una vita armonica e serena in natura e chi ha deciso di proseguire secondo un approccio rigorosamente low tech, vivendo diverse forme di fatiche. Una ragazza racconta il timore di lasciare la città e un lavoretto che le garantisce delle entrate certe anche solo per mantenersi una macchina e qualche minima tutela e certezza. Nella pluralità delle visioni e nell’apertura del confronto, un contadino della Val Pellice contesta il carattere antispecistico dato alla tre giorni e al relativo menu. La dimensione del rapporto con le bestie anche crudele ma non industriale fa parte dell’agricoltura, delle pratiche ancestrali e della storia dell’uomo (leggi anche ). Tra diversi racconti ed esperienze che esprimono soprattutto spinte embrionali e recenti tentativi di avvicinarsi alla terra, spiccano esperienze più solide, durature e con le idee chiare. Atelier Paysan con il suo articolatissimo lavoro “Liberare la terra dalle macchine” approfondisce nella storia i meccanismi politici, economici e culturali di espropriazione che hanno relegato il settore primario ai margini delle civiltà europee e denuncia le minacce e i pericoli di controproduttività insiti nell’agricoltura 4.0, dominata dall’alta tecnologia e dalla dipendenza da grandi capitali, dalla proprietà delle sementi e dai nuovi ogm. A fronte delle concrete minacce rivolte alla sovranità alimentare di tutti e tutte, Atelier Paysan propone la sfida di un ritorno diretto alla terra per un milione di contadini e del recupero delle pratiche, dei metodi e dei contenuti dell’educazione popolare per un cambiamento più profondo e integrale. Per la rivoluzione sociale sono necessarie alleanze e strategie con vari settori della popolazione, per cambiare i rapporti di forza a partire dal legame con la terra. Servono ecosistemi aperti e dinamici, non esistono isole felici: la comunità chiuse alla lunga implodono… Il livello e la portata della discussione si alza molto. A comprenderlo e reggerlo ci sono diversi contadini storici. Nonostante il Italia le realtà agricole, controllate da grandi organizzazioni di secondo livello molto colluse col sistema, stentino a dar vita a movimenti politici di massa, è rimasta viva dall’inizio del terzo millennio una rete di agricoltori che era riuscita nel 2013 a fare approvare una legge nazionale che definiva il concetto di “Contadinanza”, a protezione dalle politiche, dalle leggi e dalle normative che privilegiano le grandi imprese. L’impegno, seppur frastagliato, era quello di dar vita a cooperative territoriali integrali, che possano garantire sicurezza alimentare e sociale sui territori, con l’idea di uscire da una dimensione di minoritarietà e marginalità, per fondere i movimenti per i diritti politici e sindacali con quelli contadini, in nome della sovranità territoriale locale. Un tentativo che con molta fatica ha coinvolto circa 250 realtà agricole solo in Piemonte… A fronte di tante esperienze diverse e di nuove e vecchie domande quello che accomuna è vedere nel ritorno alla terra e nella creazione di comunità radicate nella terra una possibile via per resistere al dominio, e praticare sentieri generativi e in qualche modo carichi di senso, maggiore libertà e felicità mentre il futuro si fa sempre più tetro e il disastro intorno incombe. Accomuna il rifiuto di un mercato che penetra ogni ambito della vita in una escalation che porta inevitabilmente alla guerra, di un paesaggio dentro e fuori di noi che si uniforma, di un sistema normativo inibente e senza senso che atrofizza gusto e sensi, rende asettiche pratiche e relazioni e insapore il cibo, di un sistema di controllo che si articola in vari apparati e disegni concorrendo in modo coordinato alla devastazione. Espropriazione dell’acqua, della terra e della possibilità di coltivare e produrre cibo sono la prima forma di attacco e annichilimento, materiale e spirituale. In questo senso un pensiero non può che andare alla Palestina. In questo senso un movimento verso un ritorno reale alla terra pare l’unica forma di irriducibilità e resistenza. Nell’incontro emerge dunque la visione di un sistema totalitario e totalizzante che fa della mercificazione, dell’estrattivismo, del controllo e della paura le principali forme di dominio, dall’altra una molteplicità di esperienze e percorsi di lotta ed emancipazione a partire dal ritorno alla terra. In realtà quello che percepisco e che vorrei mettere in luce in questo testo è che il problema è non solo esterno ma anche interno al movimento. Il problema siamo anche noi. Mi riferisco, di fondo, a una mancanza di rispetto ai percorsi personali e collettivi. Quella biodiversità delle esperienze che sopra descrivevo, anziché essere un punto di forza diventa un terreno di conflitti, denigrazioni, screditamenti, diffamazioni, diaspore. Si erigono feudi per mettere in campo espressioni di narcisismo, edonismo, nichilismo per espiare drammi, fallimenti, frustrazioni, ambizioni e incapacità personali. Continuiamo a guardare, denunciare, colpevolizzare il nemico fuori senza riconoscere i limiti e blocchi che abbiamo dentro. “La mia o la nostra esperienza è sempre la più giusta, la più rivoluzionaria e radicale…”. Manca di fondo un’etica e una pratica fondata sul rispetto e il supporto ai percorsi altri. Uno dei principali ostacoli alla creazione di un movimento più allargato e al dipanarsi di alternative credibili è la tendenza interna ai movimenti di giudicare, delegittimare, screditare, isolare esperienze diverse dalla propria che rappresentano invece percorsi che ciascuno, secondo propri equilibri e sensibilità, intraprende per provare a vivere nel modo più libero e coerente possibile gestendo le proprie contraddizioni in una cornice oppressiva e in un momento storico deprimente ma proprio per questo colmo di domande e di possibili scelte radicali. In permacultura il concetto di omeostasi si riferisce alla capacità della natura di rafforzarsi e far fronte ai pericoli grazie alla capacita di creare relazioni tanto più solide quanto più agite da soggetti biodiversi. Noi facciamo esattamente il contrario e in questo modo ci indeboliamo. Si tratta invece di accogliere i precari equilibri e gli ecosistemi personali che ogni persona e realtà sta costruendo e di inventare forme creative di mutuo aiuto, fuori dal sistema e dal pensiero dominante. Evitare il reduzionismo che porta a vedere il mondo e le prospettive di cambiamento da un solo tema e angolatura, visto che tutto è collegato. Ciascuno di noi contiene moltitudine e si tratta di accettare che ognuno sceglie e riesce a gestire ambiti di antagonismo e radicalità e ambiti di negoziazione e convergenza perché non ne ha le forze o sente anche di impazzire e implodere nel combattere contro tutto e tutti. In qualche caso riesce ad agire senza denaro e secondo le pratiche che sente proprie dedicando tempo, energie e amore, in altri deve scendere a patti. Chi decide di occupare e chi ritiene aver più margine di azione tenendo aperto un circolo ARCI, chi decide di comprare la terra e chi valuta che la terra non può essere comprata, chi ritiene imprescindibile il rifiuto verso ogni pratica burocratica e chi decide di aprire una piccola impresa o cooperativa agricola per avere risorse per partire e riconoscersi un reddito, chi sceglie per la certificazione biologica e chi no… si tratta di porsi in una posizione di ascolto e apprendimento senza la pretesa di sentirsi più rivoluzionario e più radicale degli altri. Per essere più esplicito: si tratta di imparare a non romperci i coglioni e di perderci in quisquiglie e rivalità personali e di utilizzare tutte le energie a supportarci, a creare un ecosistema basato su rispetto e fiducia e una cornice versatile in cui tutti e tutte in diversi momenti possano trovare spazio e dare supporto, secondo una disciplina e delle pratiche condivise. Stefania Consigliere ci ricorda il valore della molteplicità. Siamo cresciuti nel dualismo dell’o/o, pro o contro, con me o contro di me invece dobbiamo imparare a ragionare con la categoria dell’e/e…. Più esperienze, più relazioni, più percorsi, più forme di intreccio, più esiti, più collaborazione. Di fondo più rispetto e supporto riconoscendo che non ci siano gerarchie ma nemmeno uniche certezze e verità o modelli validi per tutti. Servono disobbedienza, opposizione, massa critica, esperienze concrete che possano essere di riferimento. Servono saperi che rischiano di essere persi e depredati. Saperi tecnici legati alla natura e all’agricoltura ma anche saperi di base. Anche cooperare, come ci ricorda sempre Stefania Consigliere, è un sapere, una parte di noi da riprendere e coltivare in una società atomizzata che ha fatto dell’individualismo l’unica forma di sacralità fino a farci sentire tutti soli e divisi… Si tratta di interrogarsi sul lavoro: ripensare forme di lavoro basate sull’economia di sussistenza e centrate sul valore d’uso del nostro impegno e delle nostre relazioni di scambio e/o difendere i diritti conquistati dai nostri padri e nonni all’interno dei rapporti di lavoro salariato? Per quale approccio tendere considerando che ciascuno dei due approcci è portatore di un diverso modo di intendere il tempo, le relazioni, la proprietà? Si tratta di calibrare sforzi e fatiche legate al lavoro, stabilire un equilibrio nella gestione del tempo, mettendo al centro e calibrando il valore del limite e della misura che per ciascuno è soggettivo e diverso. Si tratta di provare a star bene ricostruendo un tessuto di relazioni resistenti, nella convivialità, secondo l’accezione di Ivan Illich, equiparando il più possibile mezzi e fini: liberarsi liberandosi! I cammini si tracciano camminando, caminando se hace il camino… Ma ci vuole tempo… Sempre Stefania Consigliere ci ricorda che i cambiamenti culturali non avvengono in mesi o anni ma in decenni. L’importante è che gli ecosistemi siano aperti nello sviluppo e nelle relazioni e che dibattito e confronto siano ricchi, generativi e trasformativi. Il potere si gongola della nostre divisioni, deride i nostri numeri, si beffa delle nostre fatiche ma non dorme sonni tranquilli quando sappiamo organizzarci, radicare delle pratiche e delle esperienze credibili che sappiano contaminare e avvicinare altri giovani (non a caso si discuteva a Monza come a Venaus come oggi i più giovani siano le principali vittime delle più severe repressioni, quasi in una logica preventiva e intimidatoria). Uno dei più grandi apprendimenti che possiamo acquisire oggi è l’importanza della centratura personale. La dimensione delle emozioni e dello spirito che aiutano nelle scelte. Forse non è tanto l’appartenenza alla classe, non sono gli slogan e le parole d’ordine di un movimento o di un’ideologia che ci portano a scelte e percorso coraggiosi ma è un profondo sentire personale, una connessione con se stessi, col pianeta, con la vita, col genius loci dei territori che abitiamo, le relazioni e le forme di armonia invisibili che ci legano agli altri, umani e non. Forse è questa parte del sentire, a volte estromessa dai movimenti più orientati a sensi di appartenenza basati su altre categorie e dimensioni, quella che può dare autenticità e profondità alle scelte e favorire tante contaminazioni liberatrici. Rassegnazione, disincanto, senso di inutilità sono tra le principali armi del potere per infondere passività, assuefazione e sottomissione. Come ci suggerisce Marco Deriu la rabbia non può essere l’unica emozione che ci muove. La rivolta passa dal reincanto del mondo, dal ritrovare meraviglia, gioia, magia, dal riappropriarsi della consapevolezza di sé, coltivando l’immaginazione del possibile. Sentirsi parte di una narrazione a più voci, che faccia del valore e della pratica della biodiversità il proprio paradigma, senza dover aderire a un modello monolitico o a delle certezze definitive e incontrovertibili da difendere, ci può aiutare a trovare lo spirito e il coraggio per affrontare sotto mille forme e prospettive l’attacco all’umano e al pianeta da cui insieme dobbiamo difenderci contrattaccando. La chiave della biodiversità ci può anche aiutare a vedere intorno a noi tanti e sempre nuovi possibili amici e alleati e a trovare nuove chiavi per interpretare incontri generativi ed esperienze significative come quelle vissute in Val Pellice. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sentirsi parte di una narrazione a più voci proviene da Comune-info.
La guerra, la forza dei numeri e il gioco giusto
LA GUERRA È ORMAI OVUNQUE SDOGANATA A CIELO APERTO, SENZA PIÙ ALCUNA ESITAZIONE O PUDORE. TRUMP HA DECISO ANCHE CHE CAMBIERÀ IL NOME DEL DIPARTIMENTO DELLA DIFESA IN DIPARTIMENTO DELLA GUERRA. COSA POSSIAMO FARE? DOVREMMO USCIRE DI CASA, CONFRONTARCI, ORGANIZZARCI? COS’È CHE ANCORA NON ABBIAMO FATTO? COSA CI MANCA PER TIRAR FUORI LA CONSAPEVOLEZZA E LA FORZA CHE NASCONO DAL PENSARE CHE COLORO CHE STANNO CONDUCENDO IL TRENO DELL’UMANITÀ VERSO IL PRECIPIZIO RESTANO UNA PARADOSSALE MINORANZA? Napoli, agosto 2025. Foto di Bruno Santoro -------------------------------------------------------------------------------- Rieccomi a bordo, più agguerrito che mai. Anzi, no, ma che dico? Tutto il contrario, altrimenti sarei davvero incoerente e questa spero sia una delle novità che mi mancava. A proposito di coerenza, leggo che Trump cambierà il nome del dipartimento della Difesa in dipartimento della Guerra. Questo dimostra ciò che penso da un bel po’: quelli, gli altri, hanno una strada più semplice davanti. I capitalisti e i guerrafondai hanno concetti facili in testa, tra tutti: occupare, conquistare, massacrare e rubare tutto ciò che possono, oppure non farlo, il che non è previsto. In un’era dove l’informatica ormai condiziona l’evoluzione del mondo con la sua natura binaria, costoro dimezzano le possibilità agevolandosi ulteriormente il compito. La variabile è una sola e se ci pensate è sempre stata la stessa, quella sopra citata. A parte il nostro governo con tutti gli storici servilismi e giravolte semantiche per restare sempre dalla parte del bullo più bullo nel cortile – il problema è quando ce n’è più di uno, ma nei decenni siamo diventati campioni del mondo nell’arte di barcamenarci tra controverse e antitetiche alleanze in tempo reale -, la guerra, giammai la difesa che era ed è ancora oggi alla base degli accordi delle nascenti Nazioni Unite nel secolo scorso, è al centro dell’orizzonte dei leader del mondo. Russia e Cina mostrano i muscoli al pianeta con un’inquietante parata militare, mentre i “volenterosi” – non ho ancora capito cosa voglia dire davvero questa parola – si riuniscono puntualmente per pianificare il Risiko che ci aspetta. Leggi pure come il gioco della guerra, ormai sdoganato a cielo aperto senza più alcuna esitazione o pudore. Questa è un’altra novità, a mio modesto parere, e la suddetta denominazione dipartimentale ne è prova conclamata. Al contempo, vi è un’altra guerra in corso: quella tra la Terra e coloro che vi abitano. O forse, visto che siamo in tema di onestà semantica, mi riferisco alla reazione di un pianeta da un enorme Stato canaglia multinazionale e si ribella in modo caotico e spietato contro chi gli capiti a tiro nei modi che ha a disposizione. Non che mi auguri che un cataclisma colpisca qualcuno in particolare, ma non posso che restare amareggiato notando che la natura infierisce spesso sugli ultimi del mondo, vedi il terzo terremoto che ha colpito l’Afghanistan, dove il bilancio delle vittime sale a 2.200 – a proposito sembra che questa tragedia non interessi a nessuno – e il mezzo milione di persone che sono in fuga dalle loro case nel Punjab pakistano a causa delle inondazioni. Nel mentre l’iceberg più grande del mondo si è rotto definitivamente e anche questo è un atto di guerra, ovvero difesa, che non abbiamo compreso. Aggressione, difesa, guerra, pace, e allora come tanti – parola cruciale – finisco puntualmente ad arenarmi sulla solita domanda: ma noi, singoli cittadini, cosa possiamo fare? È una strada che conosco ormai a menadito e mentre un tempo occorreva uscire di casa, parlare e confrontarsi con anime affini – e dovremmo farlo ancora a prescindere – oggi è sufficiente digitare la fatidica domanda nella casella del motore di ricerca e di risposte autorevoli da persone che da tempo si impegnano quotidianamente ne trovi a iosa. Non so voi, ma a me fa bene al cuore sapere che là fuori c’è tanta gente che non si arrende, che resiste all’apatia o la rassegnazione, oltre che dinanzi all’oppressione, e che si industria per fare qualcosa, qualsiasi cosa che risulti anche minimamente utile. Nondimeno, credo che l’espressione chiave sia “tanta gente”, adesso ci arrivo. Prima di ciò, sempre come molti cerco di rinfrescarmi la memoria su cosa possiamo, ovvero dovremmo smettere di fare e pure per questo la rete è stracolma di guide e consigli saggi e comprovati. Il fatto è che… diciamola tutta, okay? Vado per i sessanta e faccio e non faccio come detto la maggior parte delle azioni quotidiane suggerite. E allora perché ho l’impressione che il mondo stia comunque addirittura accelerando verso il baratro? Vi capita anche a voi? Chi ho ascoltato in queste settimane mi ha confermato qualcosa di molto simile, ma dal canto mio mi trovo in un punto in cui sono assillato da una frase. Una di quelle che per chi come il sottoscritto lavora da decenni con la salute mentale nei luoghi di cura è una sorta di pietra angolare: follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi. Viene attribuita a Einstein, invece è di Rita Mae Brown nel suo libro Sudden Death, 1983. Tipico errore della nostra specie quello di dar merito a un uomo, per quanto illustre, di ciò che invece aveva fatto una donna… A ogni modo, la domanda che segue è questa: cos’è che ancora non abbiamo fatto? Cos’è che non c’è in alcuna guida saggia o autorevole manuale di vita vissuta che ci sfugge? Voglio impegnarmi in questa ricerca da ora in poi. Certo, qualcuno potrebbe obiettare affermando che non c’è, punto, abbiamo già provato tutto, ma non sono d’accordo, perché ho premesso che l’espressione chiave è a mio umile avviso “tanta gente”. Nel mio piccolo, credo che ancora oggi sia questo l’elemento straordinario che non siamo riusciti a sfruttare appieno: la forza dei numeri. Questi individui che nei fatti stanno stoltamente conducendo il treno dell’umanità verso il precipizio sono una paradossale minoranza. Mentre tra chi si fa condizionare o manipolare, chi resta indifferente, chi subisce senza potersi difendere e chi cerca di opporsi vi è la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. In altre parole, pochissimi da un lato e miliardi dall’altro. Forse quello che ci manca è un modo per far valere tale eccezionale differenza a vantaggio della collettività. Ci vuole il gioco giusto con cui confrontarsi, pacifico ma decisivo. Come, il dondolo, l’altalena basculante o a bilico con cui ci si divertiva una volta… -------------------------------------------------------------------------------- Iscriviti per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- Alessandro Ghebreigziabiher, drammaturgo, attore, scrittore, è autore di oltre venti libri, tra cui fiabe per bambini. Ha studiato presso il Living Theatre di New York. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (ed. Bette). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra, la forza dei numeri e il gioco giusto proviene da Comune-info.
Noi ci siamo organizzate e organizzati
RICORDATE? I PRIMI MESI DEL 2025 GRANDI MEDIA E POLITICA ISTITUZIONALE HANNO DEDICATO A UN PEZZO DI ROMA, QUARTICCIOLO, MILLE ATTENZIONI, NATURALMENTE SENZA FARE ESERCIZIO DI ASCOLTO. POI IL SILENZIO… UNA STORIA CHE SI RIPETE. EPPURE IN QUELLA BORGATA, CHE PIÙ DI ALTRE DEVE FARE I CONTI LE PIAZZE DI CRACK, C’È CHI NON HA SMESSO DI PRENDERSI CURA IN MOLTI MODI DIVERSI DEL TERRITORIO E DI CHI LO VIVE OGNI GIORNO, HA INAUGURATO UN PARCO, HA RIPORTATO IL MERCATO IN BORGATA E PURE ESPOSTO ALLA BIENNALE DI VENEZIA IL PIANO NATO DAL BASSO PER TRASFORMARE QUARTICCIOLO… LA DUE GIORNI DI “DIBATTITI, READING, MERCATO, MUSICA E LOTTA” DEL 26 E 27 SETTEMBRE “ALZA LA VOCE, ALZA LA TESTA!” SARÀ UNA STRAORDINARIA OCCASIONE PER RAGIONARE INSIEME DI QUARTICCIOLO E DI MONDO. HA SCRITTO QUALCHE ANNO FA, RAÚL ZIBECHI IN “TERRITORI IN RESISTENZA” (NOVA DELPHI): “È DAL CUORE DEI QUARTIERI POVERI DELLA PERIFERIA CHE NEGLI ULTIMI ANNI SONO VENUTE LE PRINCIPALI SFIDE AL SISTEMA DOMINANTE…” Quarticciolo (Roma), corteo. Marzo 2025 (foto di A. Luparelli) -------------------------------------------------------------------------------- Mesi su tutti i giornali, giorni su tutte le tv. All’inizio del 2025 Quarticciolo sembrava essere il centro del mondo, non solo per noi che ci abitiamo. Il governo nazionale che scrive un decreto d’emergenza, le commissioni parlamentari che parlano della piscina di via Trani, gli anchorman che denunciano l’insostenibilità della situazione. Sembrava che tutto dovesse cambiare da un momento all’altro, sembrava che la borgata sarebbe stata trasformata nel Canton Ticino, con le aiuole curate e i prati sintetici degli impianti sportivi gestiti dalle forze armate. Noi ci siamo organizzate e organizzati, abbiamo ricordato di avere un piano preciso per trasformare la borgata, abbiamo coinvolto gli altri abitanti e abbiamo chiesto di convergere da ogni parte del paese. Abbiamo ottenuto che gli interventi previsti non fossero una vendetta contro chi abita il quartiere. Abbiamo inaugurato un parco, strutturato un polo civico, riportato il mercato in borgata, il piano di quartiere è finito esposto alla biennale di Venezia (foto di seguito). Poi il silenzio. Assordante come i titoli urlati. L’attesa in cui tutto è sospeso: gli sfratti non vengono fatti ma non si trova una soluzione per le duecento famiglie che ne aspettano uno, l’ex questura non viene sgomberata ma non si procede con il recupero dell’immobile, la piscina va a bando ma il bando va deserto, alle scuole viene rifatto il tetto ma i bambini e le bambine non si iscrivono perché manca la segreteria e la presidenza. Ad ogni tavolo un nuovo interlocutore, una nuova carica, una nuova urgenza che non è mai l’urgenza di affrontare finalmente i problemi. Dal più piccolo degli interventi al percorso complessivo: tattiche dilatorie, interviste a cui non seguono impegni, dichiarazioni su dichiarazioni, nomine ad hoc, il commissario del governo che ammette candidamente che non esiste la bacchetta magica e che Caivano non è un modello, intanto in borgata tutto rimane in sospeso. Intanto ad agosto ennesimo revival delle inchieste per racket contro i movimenti di lotta per la casa. Ancora una volta provano a far passare le collette per le pulizie degli spazi comuni per estorsioni. “Vogliono costringerci ad aspettare”, scrivevamo dopo il primo marzo. Hanno gli orologi e possono farli funzionare come cronometri. Fermare tutto, far andare avanti a singhiozzi le cose, fermarle ancora. Loro hanno gli orologi ma noi abbiamo il tempo, ed è il vostro tempo che chiediamo. Ancora una volta. Vi chiediamo di convergere, di venire in borgata, di portarci più gente possibile. Vi chiediamo di starci a fianco anche in questo tornante per alzare la voce e pretendere che il piano di quartiere sia finalmente attuato, per chiedere che siano sanate le famiglie che aspettano una casa popolare da decenni e che l’ex questura sia recuperata. Vi chiediamo di essere con noi mentre Quarticciolo torna ad essere lo sfondo di una serie tv crime: ancora l’uso strumentale della violenza sulle donne, ancora troupe televisive all’arrembaggio, ancora l’eterno ritorno della violenza della piazza di spaccio e della denuncia dell’ovvio di personaggi in cerca d’autore. Ancora una volta chi abita in quartiere scompare, torniamo ad essere l’ambientazione per una storia scritta male. Contano solo le nostre paure, le paure di chi è costretto a convivere con la piazza di crack. Quello che pensiamo e quello che vogliamo torna a non contare nulla. Ma non è solo questo, vi chiediamo di convergere perché abbiamo bisogno di ragionare insieme, vogliamo mettere all’ordine del giorno un’urgenza che ci tiene svegli la notte: come si fa ad alzare la voce? Come si fa a farsi sentire? Che sia una fabbrica da recuperare o l’intero settore della produzione culturale da organizzare. Che sia la voce di chi nasce in un quartiere di serie b o quella di chi lavora nella ricerca e all’università. Che sia fermare il genocidio in corso in Palestina o la brutta china che sta prendendo questo paese. Che sia la guerra ad ogni latitudine. Abbiamo bisogno che la nostra voce valga qualcosa, che le nostre vite valgano. Dicono a GKN che abbiamo bisogno di vincere, dicono in val di Susa che è questo che fa la storia. Noi proviamo a fare la nostra parte, con momo edizioni che da anni ci cammina a fianco e vive la stessa nostra urgenza di costruire spazi in cui alzare la voce, con due giorni di festival che viviamo come un momento di lotta (26/27 settembre – Alza la voce, alza la testa! Due giorni di festival per un cambiamento radicale). Saremo al parco modesto di Veglia come siamo stati sui tetti il 1 marzo, speriamo con meno pioggia. Saranno due giorni di dibattiti, reading, mercato, musica e lotta. Sabato alle 17 torneremo per le strade della borgata con un corteo popolare per tornare ad alzare la voce insieme, per cambiare davvero Quarticciolo. Hanno già confermato la partecipazione a diversi momenti del festival Elodie, Zerocalcare, Michele Riondino e Valerio Mastandrea. Nei prossimi giorni sarà pubblico il programma. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Noi ci siamo organizzate e organizzati proviene da Comune-info.
La potenza di un movimento internazionale
-------------------------------------------------------------------------------- Manifestazione di domenica 31 agosto al Molosiglio di Napoli in sostegno alla Global Sumud Flotilla. Foto di Bruno Santoro -------------------------------------------------------------------------------- In questi giorni stiamo vedendo cos’è la potenza di un movimento internazionale, che muovendo dai territori unisce il potere (come poter fare) di chi lavora con la lotta anticoloniale e la solidarietà tra i popoli. Non riesco a non pensare che tutto ciò lo dobbiamo alla lunga resistenza dei palestinesi e delle palestinesi, alla loro tenacia che ha dato coraggio e domandato dignità a moltə di noi. Dobbiamo sperare che la causa palestinese trovi finalmente il riconoscimento e la pace che necessita, dobbiamo sperare anche che questo movimento non si fermi, ma che continueremo a creare ponti tra le lotte, a rompere i confini, sabotare le politiche coloniali e le logiche della guerra, unendo i fili tra oppressione e sfruttamento, non per un’ideale e ipotetica società a venire, ma per riprenderci qui e ora la terra e le possibilità di averne cura. Marx diceva che è la storia a darci le condizioni per raggiungere il cambiamento a cui si aspira e in questo momento la risposta a quelle condizioni sono queste, non ne vediamo altre. -------------------------------------------------------------------------------- Maura Benegiamo è ricercatrice in sociologia economica e del lavoro presso l’Università di Pisa -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI STEFANO ROTA: > Il vento di Genova -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La potenza di un movimento internazionale proviene da Comune-info.
L’autocritica zapatista
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Red de Apoyo Iztapalapa Sexta -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo osservato in diverse occasioni che l’autocritica sta scomparendo dalla sinistra mondiale, persino da coloro che si definiscono rivoluzionari o radicali. L’assenza di una pratica politica centrale tra coloro che vogliono cambiare il mondo è parte del collasso della sinistra e dei movimenti antisistemici. Durante la prima settimana di agosto, abbiamo assistito a uno sviluppo completamente nuovo tra i movimenti che lottano per cambiare il mondo. È accaduto al Semenzaio di Morelia, durante l’incontro “Algunas partes del todo“. Per diversi giorni, hanno messo in scena spettacoli che spaziavano da un’assemblea di morti (coloro che sono caduti nella lotta), insegnando agli zapatisti a non ripetere i vecchi errori, a un dialogo tra persone ancora da nascere (interpretato da cento spermatozoi e ovuli), a cui hanno trasmesso le loro riflessioni. Migliaia di persone hanno potuto vedere e ascoltare gli spettacoli, dai partecipanti nazionali e internazionali alle basi di supporto e ai membri delle milizie. L’aspetto più impressionante è stato il modo in cui sono stati messi in scena gli errori commessi dalle Giunte di Buon Governo e dai comuni autonomi, le varie forme di corruzione, come il furto di fondi collettivi, e gli abusi e le negligenze da parte delle autorità. Un primo punto degno di nota è che centinaia di zapatisti hanno messo in scena gli spettacoli, tutti molto giovani, con un numero uguale di ragazzi e ragazze. Il modo nel quale hanno spiegato e si sono comportati sull’enorme palcoscenico al centro dell’asilo nido (delle dimensioni di un campo da calcio) rivela mesi di prove tra basi di diverse comunità e caracoles, dimostrando un enorme coordinamento tra regioni, scrittura di sceneggiature e prove per un lungo periodo di tempo. Ciò che non si vede mi sembra importante quanto ciò che sentiamo. Ma la domanda che mi sembra quasi incredibile, perché non era mai successo prima e non avevo mai potuto assistervi in oltre 55 anni di attivismo, è come, dove e per chi. L’autocritica è stata resa pubblica, davanti alle basi di sostegno e ai partecipanti messicani e internazionali, così come a coloro che hanno partecipato tramite i social media. È stata condotta da gente comune, giovani zapatisti che hanno messo in discussione i metodi delle proprie autorità. L’hanno drammatizzata con una buona dose di umorismo, il che non significa che non fossero critiche rigorose e profonde, rivelando uno stato d’animo sereno e riflessivo. Nella cultura politica in cui ci siamo formati durante la rivoluzione mondiale del 1968 (come la chiamava Wallerstein), l’autocritica era importante, ma col tempo è diventata quasi inesistente e tutti i mali hanno iniziato a essere attribuiti al nemico. Forse è per questo che il Subcomandante Moisés, che ha parlato più volte durante l’incontro, ha sottolineato che “non tutti i problemi derivano dal capitalismo” (cito a memoria). In genere, se c’è autocritica, questa proviene dalla leadership, mai (ma mai) dalla base. Erano i leader a decidere cosa fosse giusto o sbagliato, e il resto dell’organizzazione seguiva la loro guida. “Ogni base di sostegno dovrebbe essere in grado di criticare il proprio governo”, si diceva in una delle performance. Nello zapatismo, si assiste a una clamorosa inversione di questa pratica gerarchica. L’autocritica non è solo pubblica e aperta, ma anche condotta dal basso. Sarebbe stato molto diverso se fosse stata riassunta in un comunicato. Il fatto che siano stati gli zapatisti di base a farlo dimostra due aspetti chiave: la loro fermezza e coerenza etica, implacabili e ostinate; e la decisione politica che le comunità organizzate debbano stabilire la direzione del movimento. Ciò non significa che il Capitano Marcos, il Subcomandante Moisés o il CCRI (Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno) non abbiano alcun ruolo, ma piuttosto che abbiano preso la decisione etico-politica di comandare obbedendo, non come slogan ma come pratica concreta e reale, come guida per le loro azioni. Da lì al rovesciamento della piramide c’è stato solo un passo, compiuto anch’esso collettivamente, dal basso verso l’alto. In precedenza hanno ricordato gli aspetti positivi delle Giunte di Buon governo e dei comuni autonomi, perché non sono stati tutti dei problemi, ma sono stati anche una scuola di autonomia. A questo punto, come i partecipanti con cui ho avuto modo di condividere, credo che dobbiamo inchinarci all’EZLN e alle sue basi di appoggio, per la loro coerenza, per essere ciò che sono e per averci mostrato percorsi mai seguiti prima da nessun movimento, in nessuna parte del mondo, nel corso della storia. Il movimento zapatista è una vera rivoluzione, che non gioca con le parole, ma dimostra pratiche di profondo cambiamento, non capitaliste, non patriarcali. Mi sono formato durante gli anni della Rivoluzione Culturale Cinese, a cui ho aderito con entusiasmo perché credevo che fosse la continuazione delle lotte dopo la conquista del potere, a differenza di quanto era accaduto in Unione Sovietica, dove ogni critica dal basso veniva schiacciata. In seguito abbiamo appreso che la mobilitazione di massa era guidata dai leader del partito per risolvere le controversie tra élite, usando le masse, come sempre. Questo è orribile perché il sangue è stato versato dal basso per rafforzare la piramide. In questi tempi di oscurità globale, di genocidio e massacri dall’alto, lo zapatismo è l’unica speranza. Intatto, immacolato, con errori ma senza orrori. È l’eccezione nel piccolo mondo globale antisistemico, e dobbiamo riconoscerlo come tale. Ci sono riusciti senza arrendersi, senza svendersi, senza cedere… e senza deporre le armi. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su Desinformemonos: La autocrítica zapatista -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’autocritica zapatista proviene da Comune-info.
Il vento di Genova
QUELLO CHE STA ACCADENDO A GENOVA, NEGLI ULTIMI MESI MA, ANCOR PIÙ, IN QUESTI GIORNI DI FINE AGOSTO, NESSUNO LO AVEVA PREVISTO. IL COLLETTIVO AUTONOMO LAVORATORI PORTUALI (CALP) NON HA MAI SMESSO LA SUA INTENSA CAMPAGNA DI LOTTA CONTRO IL TRAFFICO DELLE ARMI NEL PORTO DI GENOVA, IN COLLABORAZIONE CON I PORTUALI DI ALTRE CITTÀ. CALP E MUSIC FOR PEACE, CHE DA TEMPO INVIA BENI DI PRIMA NECESSITÀ IN PALESTINA, HANNO AVVIATO UNA RACCOLTA DI 40 TONNELLATE DI CIBO, CHE PARTIRÀ A BORDO DELLE BARCHE CHE DA GENOVA SI UNIRANNO ALLA GLOBAL SUMUD FLOTILLA, DIRETTA A GAZA. LA COSA STRABILIANTE È CHE QUESTA RACCOLTA È DURATA SOLO CINQUE GIORNI: ASSOCIAZIONI DI OGNI TIPO HANNO MESSO IN PIEDI PUNTI DI RACCOLTA NEI QUARTIERI E IN ALTRE LOCALITÀ. UNA MOBILITAZIONE POPOLARE, CON QUESTE CARATTERISTICHE, MAI VISTA PRIMA A GENOVA (MA SITUAZIONI SIMILI SI REGISTRANO ANCHE IN ALTRE CITTÀ), IN CUI EMERGE PRIMA DI TUTTO L’ORGOGLIO DI ESSERE PARTECIPE, CON UN GESTO SOLIDALE, PRATICO, A UNA CAMPAGNA IMPORTANTE E CHE RIMARRÀ NELLA MEMORIA DELLA CITTÀ. NON È VERO CHE NEL BUIO NON ACCADE NULLA… Foto Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) -------------------------------------------------------------------------------- Alcuni mesi fa, in tre o quattro persone abbiamo iniziato a discutere di un termine poco presente nel dizionario ristretto a cui facciamo ricorso quando analizziamo le macerie del nostro presente e, di conseguenza, a cosa si può ancora fare ricorso per cercare un punto di ripartenza. Il termine in questione è orgoglio. Lo stimolo è venuto dalle manifestazioni oceaniche che – in quel periodo di ogni anno – attraversano tante città del mondo: i pride del movimento LGBTQI. Ci siamo chiesti cosa ci sia dentro quel lemma che connota gli eventi di piazza più frequentati degli ultimi anni, forse venti, o giù di lì. C’è sicuramente la volontà di rivendicare, orgogliosamente, un elemento identitario (termine di per sé scivoloso, ma al momento utile) che, in molti casi, viene stigmatizzato, o, negli ambienti più oscurantisti, associato a una malattia. Quell’orgoglio identitario viene riconosciuto e fatto proprio da centinaia di migliaia di persone, a prescindere da orientamento e autodefinizione sessuale. È questa condivisione di massa che più interessa in ciò che si intende discutere qui. Cercando di andare oltre la specificità di quel movimento, siamo arrivati a definire l’orgoglio nei seguenti termini. L’orgoglio è una forza relazionata alle tensioni positive che animano l’agire secondo coscienza, in senso ampio. È un’agentività che muove dall’interno del soggetto, dove l’orgoglio risiede, dotandosi di visibilità relazionale ed emotiva, tramite molteplici stati: soddisfazione, piacere, gratificazione, godimento, così come frustrazione, rabbia, paura. L’orgoglio produce quegli stati, ma non vi coincide completamente. Si potrebbe dire che si situa a un livello più profondo, in un substrato del nostro essere agenti, dove riesce a mantenersi vivo anche nelle condizioni più avverse. Lì è dove l’orgoglio incontra e alimenta la passione, da cui, a sua volta, viene alimentato. Potremmo dire che orgoglio e passione viaggiano sempre insieme. L’orgoglio, se vogliamo stabilire un altro parallelo, ha una diretta risonanza con l’etica. Non un’etica astratta, trascendentale, inafferrabile: la nostra etica personale, che si sveglia ogni giorno con ognuno di noi e che ci chiede di agire in modo da farci sentire orgogliosi di noi stessi/stesse. Cosa di per sé sempre più difficile – almeno per chi si colloca in posizione oppositiva allo stato di cose presenti -, ma non impossibile. L’orgoglio, in sintesi, si colloca su un piano di interiorità politica, da cui muove l’agire spinto dalla passione etica. Non si tratta di un’interiorità chiusa, autoreferenziale e originaria. Al contrario, è uno spazio sempre in trasformazione che vive nella sua costante relazione con l’esterno. La definizione di interiorità serve in questo caso a dare l’idea del rapporto che il soggetto ha con se stesso, di un’affezione che attua su di sé. Quello che sta accadendo a Genova, negli ultimi mesi ma, ancor più, in questi giorni di fine agosto, ha a che vedere con tutto questo. Due organizzazioni, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) e Music For Peace (MFP), hanno deciso di dare un’accelerata al lavoro che, ciascuna secondo le proprie prerogative, svolgono ormai da tempo. Il CALP, dal 2019, ha avviato una intensa campagna di lotta contro il traffico delle armi nel porto di Genova, in collaborazione con i portuali di altre città europee e/o mediterranee. MFP, dal canto suo, invia beni di prima necessità a Gaza – e non solo – da molto tempo. Invii che si sono bloccati con la guerra genocida in corso. Hanno deciso, insieme, di avviare una raccolta di 40 tonnellate di cibo, che partirà domenica 31 agosto a bordo delle barche che da Genova si uniranno alla numerosissima Global Sumud Flotilla, diretta a Gaza. La cosa strabiliante è che questa raccolta è durata solo cinque giorni. Una coda infinita di persone davanti all’ingresso di MFP ha consegnato, al quinto giorno, circa duecento tonnellate di prodotti rigorosamente definiti dall’organizzazione. Associazioni di ogni tipo hanno messo in piedi punti di raccolta nei quartieri e in altre località. Una mobilitazione popolare, con queste caratteristiche, mai vista prima. La città, la sua parte migliore, ha risposto in massa a questo appello, così come aveva già fatto in occasione delle manifestazioni organizzate dal CALP per il blocco delle navi in porto, anche se con numeri più ridotti. Probabilmente, un ruolo lo ha avuto anche la posizione assunta dalla giunta Salis, con il riconoscimento, sia pur simbolico, dello stato di Palestina, avvenuto in concomitanza con l’ultimo blocco di una nave nel porto di Genova da parte del CALP. Quello su cui si vuole porre l’accento è ciò che questa mobilitazione mostra, tenendo a mente quanto detto in apertura. Bastava sostare una mezz’ora da MFP e ci si rendeva conto di come a muovere le migliaia di persone accorse a portare cibo fosse qualcosa di almeno parzialmente diverso dalla disponibilità a mobilitarsi in senso più tradizionale. Considerati i numeri, è molto probabile che una parte significativa di chi ha portato cibo non sia mai scesa in piazza con il CALP per il blocco delle navi, o in solidarietà verso il popolo palestinese, dove la partecipazione è stata sempre molto inferiore. Sempre in quella mezz’ora di sosta fuori la struttura era possibile notare anche la diversa la composizione sociale della moltitudine popolare che vi è accorsa, rispetto sia a quella dei manifestanti, sia ai frequentatori abituali delle attività organizzate da MFP. Si può sostenere che, in questo caso, si tratti di un coinvolgimento meno forte, più facile da attivare da parte di coloro che non si sentono disponibili ad altre forme di solidarietà attiva, o attivista. Del resto, si va a comprare (a proposito, la Coop più vicina alla sede di MFP mercoledì sera aveva gli scaffali vuoti), si arriva, si consegna ai volontari, e si va via. Questa è senz’altro una ragione dello scarto quantitativo e qualitativo che separa questa manifestazione da altre. L’aspetto, forse, più interessante è però un altro. Così come in occasione dei pride, quello che ha mosso migliaia di persone sembra essere ascrivibile alla volontà di essere partecipi di un evento che mette al centro un diritto civile, il primo, il diritto alla vita. La partecipazione a momenti di questa natura richiama alla superficie un sentimento che, capovolgendo uno dei più famosi hashtag frase che circola sui social, si potrebbe sintetizzare con “anche in mio nome”. Non è una delega ad altri, è una manifestazione di quell’agentività di cui si è detto, che mette in primo piano l’orgoglio di essere partecipe, con un gesto solidale, pratico, a una campagna che rimarrà nella memoria di questa città. Ci troviamo dinnanzi a un processo che forse nessuno tra coloro che si muovono da anni, o decenni, negli ambienti della solidarietà militante si sarebbe aspettato così imponente. Da qui a lasciarsi trasportare dall’ottimismo di chi vi vede l’inizio di un nuovo corso, il passo è un po’ lungo, e non tiene debitamente in conto il contesto generale in cui si inserisce. Ce lo ricorda Ece Temelkuran, una scrittrice turca molto attiva politicamente, che ha scritto in un articolo pubblicato anche da Internazionale parole molto amare, cariche di profondo realismo. “Quando la gente è ignorata nonostante tutti i suoi sforzi e il concetto di cittadinanza diventa politicamente superato, le persone tendono a fare scelte politiche che mettono in discussione la nostra immagine idealistica di esseri umani amanti della libertà, della dignità e dell’azione politica”. “Dopo un po’, nessun livello di immoralità, nessun atto politico vergognoso commesso dal potere susciterà l’indignazione o la ribellione a cui eravamo abituati”. È tutto vero, quelli sono i tratti distintivi del nostro presente. Forse è per questa ragione che, come si è detto all’inizio, si è cercato di ragionare su un termine inusuale all’interno delle analisi che siamo soliti fare su soggetti, potere, forme di lotta. “C’è bisogno di nuovi nomi”, come recita il titolo di un bel romanzo di NoViolet Bulawayo, per orientarci nel buio che ci circonda. All’inizio si è detto che la discussione sul termine orgoglio ha coinvolto tre o quattro persone. È parzialmente vero, perché, in realtà, subito dopo le prime riflessioni, è stata condotta una piccola indagine, senza nessuna pretesa di essere statisticamente rappresentativa, neppure di una parte ridottissima della popolazione. Le si può forse attribuire – a voler essere generosi – una rappresentatività sociologica: ognuno dei partecipanti racchiude in sé una o più caratteristiche sociali, culturali, anagrafiche, che si è scelto di collocare alla base di questo piccolo lavoro. Nessuno di loro, inoltre, ha una marcata storia di “militanza” nel senso più tradizionale del termine. È stato inviato un messaggio via WhatsApp a oltre trenta persone, tutte under 40. Il messaggio conteneva una domanda che invitava a descrivere dove e come il proprio agire consente di percepire una sensazione di orgoglio per ciò che si fa, in relazione alle proprie caratteristiche personali. Di queste, hanno risposto in diciassette. Tra di loro vi sono lavoratori e lavoratrici della logistica e dei magazzini, operatori e operatrici nel sociale, una ricercatrice universitaria, una danzatrice, una psicologa che opera nei servizi per il lavoro, un ferroviere, due collaboratrici dei servizi per il lavoro, una volontaria, un operatore della pulizia dei siti per conto delle Big Tech (il pesce spazzino dell’acquario, come si definisce lui stesso), un addetto ai servizi di ristorazione, un sindacalista. Due di questi, inoltre, non sono di origine italiana. Le risposte ottenute sono molto interessanti e meriterebbero una lettura integrale, cosa non possibile all’interno di questo articolo. Vale comunque la pena fare una sintetica descrizione di alcuni degli ambiti in cui viene percepito il proprio agire con orgoglio, riportando alcune parole inviate nelle risposte. Sicuramente c’è la dimensione lavorativa, al cui interno agire con coraggio e determinazione (“il mio essere una combattente”, dice Simonetta). Oppure, sempre nel lavoro, instaurare “rapporti solidali, di vicinanza, di reciproco sostegno” (Simone). C’è, molto presente, l’impegno nel volontariato, che si traduce per Piera “nella capacità di stabilire relazioni di riconoscimento e cura degli altri”, o, per Filippo, l’impegno che lo porta a fare un laboratorio di musica in carcere. “Trovo che quelle quattro ore dentro siano quasi un momento sacro, sicuramente carico d’importanza. E questo ha un impatto su di me, perché è la cosa che mi fa dare (ogni tanto) pacca sulla spalla la mattina quando mi guardo allo specchio ed è anche l’esperienza più formativa che abbia fatto negli ultimi anni”. Vi è poi, per i due rispondenti non di origine italiana, il legame tra orgoglio e cultura d’origine e, di conseguenza, la relazione che si instaura con il contesto attuale. “Mi sento molto orgoglioso di essere riuscito a mantenere la mia cultura qui, in questo mi ha anche aiutato il rispetto che ho per i miei genitori. Per me è una vittoria”, dice Touré. Daouda indica due cose: la prima è, anche per lui, la propria cultura d’origine, soprattutto in ambito religioso. “La seconda è il modo in cui ho affrontato la mia nuova vita qui, l’impegno che ho messo nell’imparare la lingua, nello studio, nel lavoro e con le nuove amicizie che mi sono fatto”. Simonetta, Simone, Piera, Filippo, Touré, Daouda e tutti gli altri che hanno contribuito a questa indagine sono dei con-ricercatori, anche se sono stati definiti frettolosamente rispondenti. I loro contributi si inseriscono in un obiettivo di lavoro di più lungo periodo, più ampio, e anche ambizioso. Ha a che vedere con la definizione e la costruzione di una città etica, in cui attivisticamente e orgogliosamente vivere. Una “cartografia delle potenze” in grado di sperimentare e produrre forme di vita orientate a una salubrità sociale, politica, economica e culturale che interessi una comunità urbana e ognuno dei suoi componenti. Il CALP e MFP hanno tracciato un percorso che va in questa direzione, e non solo in questo magico fine agosto, da molto prima. Non sono gli unici, certo; la galassia dell’azione secondo coscienza è molto più ampia e in minima misura se ne è data visibilità qui. La condivisione di principi, metodologie applicative, obiettivi da raggiungere (per poterli subito dopo superare) dovrebbe essere la linea da seguire. Se si vuole parlare di rete, questa deve essere vista, come scrisse Bruno Latour, non tanto come network (il lavoro delle reti), ma come worknet (la rete dei lavori), dando centralità al produrre che genera e amplia le reti, piuttosto che alle reti che generano lavori. È un impegno che dovremmo prenderci, per provare a contrastare lo scenario che ha descritto Temelkuran, con la consapevolezza che si tratti di un percorso molto lungo. Come per la Global Sumud Flotilla, che un buon vento ci gonfi le vele. -------------------------------------------------------------------------------- * Stefano Rota è un ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. La sua più recente pubblicazione collettiva è La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online di lingua italiana e portoghese. -------------------------------------------------------------------------------- APPUNTAMENTI: ROMA, 8 SETTEMBRE Evento fb -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il vento di Genova proviene da Comune-info.
Dai nostri corpi esausti e spezzati…
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Red de Apoyo Iztapalapa Sexta, che ringraziamo -------------------------------------------------------------------------------- “La nostra professione è la speranza… dai nostri corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” con queste parole, trascritte da John Berger, il subcomandante Marcos, ci consegna una delle visioni più profonde e rivoluzionarie della lotta politica contemporanea. Non si tratta di un manifesto ideologico, ma di una dichiarazione esistenziale che ridefinisce il senso stesso della resistenza. Berger ci ricorda che gli zapatisti non hanno un programma politico da imporre. La loro forza non risiede in un’agenda dettagliata di riforme o in una strategia di conquista del potere, ma in qualcosa di più sottile e potente: una coscienza politica che si propone come esempio. È questa la loro vera innovazione – trasformare la politica da imposizione a ispirazione, da conquista a contagio. La loro convinzione è quella di rappresentare i morti, “tutti i morti maltrattati…”: la lotta zapatista si fa carico non solo delle ingiustizie presenti, ma di una genealogia di sofferenza che attraversa le generazioni. “Amor y dolore” – amore e dolore – “due parole che non solo fanno rima, ma che si uniscono e marciano insieme”. In questa sintesi poetica si nasconde una verità profonda: i morti non sono vittime passive da commemorare, ma compagni attivi di un cammino che continua. La loro sofferenza, intrisa d’amore per la giustizia e per la propria gente, diventa eredità trasformativa. I morti zapatisti non reclamano risarcimenti o punizioni – chiedono che la loro sofferenza non sia stata vana. Il loro dolore si trasforma in energia costruttiva, in forza propulsiva verso un mondo che ancora non esiste ma che deve nascere. È una logica generativa. In questa visione, il tempo non è una linea che separa nettamente passato, presente e futuro, ma una spirale dove le generazioni si intrecciano. I morti camminano con i vivi, e i vivi preparano la strada per chi non è ancora nato. Ogni gesto di resistenza, ogni atto di cura, ogni momento di dolore vissuto con dignità diventa parte di un patrimonio collettivo che si trasmette e si moltiplica. Non si tratta di portare sulle spalle il peso del passato, ma di riconoscere di essere parte di un movimento che attraversa le generazioni e che dà senso anche ai gesti più piccoli e quotidiani. “La nostra professione è la speranza” – Così dice Marcos. Non si combatte solo contro qualcosa, ma per qualcosa che ancora non esiste. La speranza diventa pratica quotidiana, disciplina rigorosa, mestiere che si apprende e si perfeziona. Dai “corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” – non attraverso la vittoria nel senso tradizionale, ma attraverso una nascita che richiede tutto: vite, corpi, anime. Il sacrificio non è fine a se stesso ma generativo. Gli zapatisti hanno intuito qualcosa di fondamentale: nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione istantanea, l’esempio può essere più potente della conquista. Una comunità che riesce a vivere diversamente, che dimostra che altri rapporti sociali sono possibili, che pratica la giustizia invece di limitarsi a rivendicarla, diventa un faro per chiunque nel mondo cerchi alternative. Non si tratta di esportare un modello, ma di mostrare che la trasformazione è possibile. Ogni comunità troverà le sue forme, i suoi ritmi, le sue modalità – ma l’esempio zapatista dimostra che si può vivere la politica come atto d’amore, la resistenza come creazione di futuro, la lotta come professione di speranza. In fondo, continuare la lotta è già una forma di vittoria. Significa che non sono riusciti a spezzare lo spirito, a interrompere la trasmissione di valori, a cancellare la speranza. La continuità stessa diventa atto di resistenza. I morti zapatisti vivono come semi che germogliano, come energie che si trasformano, come voci che continuano a parlare attraverso i gesti quotidiani di chi porta avanti la loro eredità. In un mondo che sembra aver perso la capacità di immaginare alternative, gli zapatisti ci ricordano che la rivoluzione più profonda potrebbe essere quella di ritrovare il senso del sacro nella lotta politica, non il sacro come dogma immutabile, ma come rispetto profondo per la vita, per i morti che ci hanno preceduto e per i non ancora nati che verranno dopo di noi. La loro professione è la speranza. E forse, in questi tempi difficili, non c’è mestiere più urgente da imparare. Mentre il mondo del 2025 si dibatte tra polarizzazioni crescenti, guerre che sembrano non avere fine e la tentazione sempre più forte di rispondere alla violenza con altra violenza, la lezione zapatista risuona con particolare urgenza. Come scriveva ancora Marcos: “Il nostro compito non è quello di vincere, ma di costruire. Non è quello di distruggere l’altro, ma di costruire noi stessi”. In un’epoca che chiede scelte radicali, forse la vera radicalità sta proprio qui: scegliere di essere semi invece che macerie, di professare speranza invece che seminare disperazione. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Ascoltare i morti -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dai nostri corpi esausti e spezzati… proviene da Comune-info.
Aprire una biblioteca dal basso
ANTONELLA AGNOLI DICE CHE SE UNA BIBLIOTECA VIENE VISSUTA COME UN BENE COMUNE, DOVE INSIEME ALLA CONSULTAZIONE DI LIBRI C’È SEMPRE QUALCOSA DA FARE, ALLORA DIVENTA “UNO SPAZIO PUBBLICO SORPRENDENTE CAPACE DI SUSCITARE MERAVIGLIA E STIMOLARE L’IMMAGINAZIONE E LA CREATIVITÀ”. IL COMITATO CITTÀ VIVA DI CASERTA, GERMOGLIATO INTORNO ALL’ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE EX CANAPIFICIO, INSIEME AI FAMILIARI DI TONINO CASOLARO, STORICO CITTADINO DEL QUARTIERE ACQUAVIVA, SI PREPARANO, PER IL SECONDO ANNO, A RIALZARE OGNI GIORNO LE SERRANDE DELLA BIBLIOTECA TONINO CASOLARO (ISCRITTA NEL SISTEMA NAZIONALE DELLE BIBLIOTECHE ITALIANE) ACCOGLIENDO NUMEROSE INIZIATIVE PROMOSSE DA COLLETTIVI CHE SI OCCUPANO DI ARTE, ANTIFASCISMO, SPORT COME BENE COMUNE MA ANCHE APPUNTAMENTI DI MUSICA DAL VIVO, PROIEZIONI, IL GRUPPO DI LETTURA SEGNALIBRO, LA SCUOLA DI ITALIANO PER MIGRANTI E LO SPORTELLO AL REDDITO. CHE TUTTO QUESTO SIA NATO DAL BASSO DIMOSTRA CHE È SEMPRE POSSIBILE ORGANIZZARE LA SPERANZA Ce lo diciamo spesso: la decisione di aprire la Biblioteca Tonino Casolaro al Rione Volturno, nel cuore del Quartiere Acquaviva di Caserta, è stata forse la cosa più bella degli ultimi tempi. Il sostegno degli amici di Tonino, una marea di compagni e compagne che da ogni parte stanno supportando questo spazio, insieme alle nuove persone conosciute in questo primo anno di apertura, è una carica di bellezza e speranza in tempi difficili. La biblioteca è una biblioteca vera e propria, iscritta nel Sistema nazionale delle Biblioteche italiane OPAC SBN, con migliaia di libri da poter consultare o prendere in prestito (storia, politica, saggi, narrativa e la sezione per l’infanzia). Insieme a tutto questo, è diventata polo sociale e culturale della città. Grazie a questo spazio è stato possibile organizzare tantissime iniziative, molte delle quali assolutamente inaspettate al momento dell’apertura. Persone giovanissime, studenti e studentesse, vivono questo spazio e qui sono nati alcuni collettivi che raccontano una storia di creatività e partecipazione: gli Artisti di Quartiere, con un laboratorio musicale settimanale diventato in poco tempo punto di riferimento per ragazzi e ragazze di diversi paesi, creando un ambiente di scambio e apprendimento attraverso la musica; il Kask, Kollettivo Antiantifascista studentesco casertano, che ha messo al centro l’impegno politico e la mobilitazione; ma anche il Villarno Fc, la squadra di calcetto della Villetta di via Arno bene comune. La Biblioteca Tonino Casolaro è stata aperta quasi ogni giorno, con le serate di “Biblioteca Chill” che hanno animato i lunedì sera tra di set, Musica dal vivo e Proiezioni, il Gruppo di lettura Segnalibro che raduna decine di persone ogni giovedì, la Scuola di italiano per migranti e lo Sportello al reddito, oltre ad assemblee pubbliche, feste e aperitivi dal mondo, in un quartiere che è un arcobaleno di culture. Portiamo Tonino nel cuore e in quello che facciamo ogni volta che alziamo le serrande di questo spazio in via Volturno 30, cosi come ogni volta che costruiamo solidarietà e cura contro egoismo e abbandono. Ci rivediamo presto, per continuare a vivere insieme questo spazio. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ANTONELLA AGNOLI: > Città e biblioteche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Aprire una biblioteca dal basso proviene da Comune-info.
Se vuoi la pace, pedala
QUALCHE GIORNO FA UN PICCOLO GRUPPO DI PERSONE SI È DATO APPUNTAMENTO A SCAMPIA, PERIFERIA NORD DI NAPOLI, ALLE ORE 11:02 (SÌ, 02) DI UNA MATTINA IMPORTANTE, ACCANTO A UN ALBERO PARTICOLARE DI UN GIARDINO SPECIALE… ECCO, QUANDO SENTIAMO IL BISOGNO DI UNA NUOVA CULTURA POLITICA, DOVE L’IDEA DI CAMBIAMENTO IN PROFONDITÀ È ANNODATA CON LA VITA DI OGNI GIORNO DELLE PERSONE COMUNI, CON L’IDEA DI CURA E CON LA CAPACITÀ DI DISERTARE IN MOLTI MODI DIVERSI LA GUERRA, DOVREMMO LEGGERE CON ATTENZIONE QUESTO ARTICOLO DI MARTINA PIGNATARO DEL GRIDAS Sulle magliette preparate per il “Kaki Bike Tour” di quest’anno, ho amato subito questa frase-slogan: “Se vuoi la pace… pedala!” così come adoro i “Paciclisti”, nati in seno all’associazione Nagasaki-Brescia Kaki Tree for Europe che da alcuni anni, a cavallo degli anniversari dei bombardamenti atomici su Hiroshima (6 agosto 1945) e Nagasaki (9 agosto 1945) in sella alle biciclette organizzano un tour di Pace, che tocca luoghi in cui crescono o cresceranno dei Kaki Tree. Seguo e amo questa rete, che si arricchisce sempre di più di nuove realtà e di maggiore “conoscenza” reciproca tra queste realtà, da quando anche a Scampia, periferia nord di Napoli, è approdata una piantina di Kaki Tree, il 2 ottobre 2022, Giornata Mondiale della nonviolenza e 153° Compleanno di Ghandi. I Kaki Tree sono piante di Kaki nate, grazie alle cure dell’associazione bresciana che si è presa il compito di diffonderle, da semi di una pianta di Kaki che è sopravvissuta alla bomba atomica sganciata dagli statunitensi sulla città di Nagasaki, tre giorni dopo aver raso al suolo, allo stesso modo, la città di Hiroshima, per “porre fine” alla seconda guerra mondiale. Il Giappone si “arrese” e ripudiò la guerra e le armi atomiche, altre nazioni, invece, continuano a “sbandierarne” il possesso come “deterrente” alla guerra, o agli attacchi altrui. Guerra che altro non è se non la “legge del più forte”: vince (se di “vittoria” si può parlare) non chi ha più ragione, ma chi ha armi più sofisticate, maggior consenso (più o meno meritato e/o pilotato), più “voce” data alle proprie “ragioni” (giuste o sbagliate che siano). Il Kaki che è sopravvissuto alla devastazione atomica a Nagasaki, al pari di un Gingko Biloba sopravvissuto alla devastazione di Hiroshima, simboli di altre piante che al pari sono ancora “in vita”, ci testimoniano la resistenza alla violenza, la possibilità di rinascita dopo la più violenta atrocità, la possibilità che ciò avvenga grazie alla cura. Cura di botanici che si sono dedicati a queste piante, come Masayuki Ebinuma per il Kaki di Nagasaki, cura di persone che si adoperano affinché i semi raggiungano l’Italia, affinché, accudite, germoglino, diano nuove piante da affidare con cura, alle cure di altre persone che se ne prendano cura affinché crescano e ramifichino diramando messaggi di pace nel tempo e nello spazio, curando a loro volta anche gli animi di chi se ne prende cura. Volutamente ho ripetuto più volte la parola “cura”. A Scampia sappiamo bene quanto sia importante prendersi cura dei luoghi e di chi li abita, per contrastare la violenza e l’incuria di una periferia colpevolmente, da decenni, abbandonata a sé stessa da chi doveva amministrarne la sorte. Persone, che non sono i “numeri” a più zeri dei vari censimenti periodici che contrastano costantemente tra loro a seconda di chi li fa e di cosa e dove “contano”, persone che per noi “contano”, nel senso che “valgono”, tutte allo stesso modo, con pari dignità e pari diritto a una vita dignitosa su questa terra che ci accoglie tutti, ma di cui dobbiamo anche a nostra volta prenderci cura. Il Kaki Tree che arrivò a Scampia, grazie a una scuola che ne “scovò” il progetto, per il tramite di Aldo che ne lesse in un trafiletto sul bimestrale nonviolento “QUALEVITA”, dopo varie vicissitudini burocratiche, dopo la pandemia che ha tenute segregate scuole e relazioni con il territorio, decidemmo di collocarlo al “Giardino dei cinque continenti e della nonviolenza”, un giardino, ora rigoglioso, che sorge in un’area che era una sorta di discarica: uno scavo errato per un ennesimo palazzone, irrealizzabile, poi abbandonato e riempito alla meno peggio con materiali di risulta, al pari dell’adiacente campo sportivo. Stadio che dopo un decennio è stato dedicato ad Antonio Landieri, vittima innocente di camorra, dopo una lunga trafila e un logorante lavoro di “cura della memoria” e della corretta narrazione di un territorio vittima, prima di tutto, degli stereotipi, cui si sono aggregate nel tempo più realtà a far da scudo e abbraccio caloroso alla famiglia Landieri, parte attiva della nostra rete dal basso. Stadio trasformato e reso utilizzabile grazie alle cure dell’ARCI Scampia, una delle colonne portanti della storia di Scampia e della nostra bella rete di Pace. Il giardino, realizzato in un’area di circa 4000 metri quadrati bonificata a mano nel tempo, in autogestione con un lavoro di sinergia tra associazioni, cittadini attivi e scuole del territorio, coinvolte, seppur con alti e bassi, in ogni fascia di età, dagli istituti comprensivi agli istituti superiori, sorge comunque in un’area pubblica, volutamente non recintata e accessibile a chi voglia godere dei frutti del lavoro fatto o, magari, dare una mano innaffiando o accudendo in autonomia qualche pianta più sensibile o estirpando la Cuscuta, parassita vegetale che periodicamente riappare, o raccogliendo rifiuti puntualmente lasciati nelle aiuole, sebbene dopo lunga trafila siamo riusciti ad ottenere dei cestini, malandati, ma “utilizzabili” per chi impara a prendersi cura degli spazi comuni. “Frutti” l’ho usato in senso metaforico, ma talvolta assaggiamo anche qualche frutto dalle piante che ce li restituiscono, con qualche remora poiché le “aiuole” sorgono su rifiuti interrati, sono state create a zappate, inserendo piante a picconate e innaffiate con il sudore di molte fronti, fino a quando il Comune ci concesse l’allaccio idrico (non senza aver dovuto scomodare il “nostro” San Ghetto Martire!), ma anche dopo dato che l’area è vasta e le piante messe a dimora negli anni (quasi un decennio!) sono parecchie. Frutti (reali e metaforici) li sta dando quest’anno, per nostra grande gioia, anche il “nostro” Kaki Tree. È posizionato accuratamente nell’aiuola Asia di questo luogo emblematico caratterizzato da sei aiuole dedicate ciascuna a un continente e, la sesta, al Mediterraneo con l’auspicio che torni ad essere “culla di civiltà” anziché il cimitero di migranti degli ultimi tempi. Aiuole in cui sono accuratamente piantate essenze del rispettivo continente e dedicate a persone, testimoni di nonviolenza, che ci accompagnano in un cammino collettivo, condividendone insegnamenti e messaggi, continuando a far camminare sulle nostre gambe chi non è più tra noi, ma anche testimoni viventi di quella che abbiamo preso a chiamare Comunità Pangea, dal progetto iniziale incentrato su quell’area e che poi, anch’esso, si è diramato e ramificato, che chiamammo “Pangea” dal continente primordiale da cui tutti veniamo e cui ancora ci sentiamo di appartenere. Pangea, tradotto in napoletano in “Simm’ tutt’uno” (siamo un tutt’uno), che è anche un verso della canzone “Salvammo ‘o munno” di Enzo Avitabile, autore dell’area nord di Napoli, anche lui “devoto” di San Ghetto Martire. Il “Giardino dei cinque continenti e della nonviolenza” è corredato anche da bellissime installazioni artistiche posizionate nelle aiuole e legate ai rispettivi continenti e alle relative favole, su cui hanno modo di lavorare i più piccoli, tramandandole anche a noi adulti, realizzate nel tempo dal “Gruppo Zoone” del Centro Diurno di Riabilitazione “Gatta Blu”, negli incroci tra i viali vi sono poi due installazioni a piramide realizzate più recentemente dal gruppo di artisti “Volart”. Un approccio alla salute mentale anche qui di Cura, non a caso il “Gatta Blu” è autore di una bellissima mappa relazionale di Scampia che mostra il quartiere dal punto di vista delle relazioni e delle connessioni legate alle sensazioni e alle sensibilità di chi ha collaborato a crearla. Un approccio, quello della “cura”, che richiede più impegno, più consapevolezza, più partecipazione collettiva rispetto al semplice “medicare” le ferite, vale per le ferite di guerra come per quelle dell’anima. Il centro “GattaBlu”, una risorsa per il nostro quartiere, è a rischio smantellamento, è attiva una petizione di chi, indignato da questa scelta, non ci sta e non vuole restare in silenzio a guardare. Anche i Paciclisti del “Kaki Bike Tour”, quando approdarono al giardino per il tour del 2023, presero parte, con convinzione, alla mobilitazione #GiùlemanidalGattaBlu perché piantare un Kaki Tree, lo dicevo all’inizio, è entrare in una rete, bellissima, fatta di persone e realtà impegnate nel quotidiano a costruire la pace, dal basso, anche con fatica e sudore, come una pedalata che giova a tutti, anche a chi è sul bordo e assiste al passaggio di una decina di bici colorate, gioiose, determinate e viene “investito” da una folata di Pace. Nell’agosto del 2023 abbiamo “seguito” i Paciclisti, ne raccontavo in un articolo l’anno successivo, perché le relazioni instaurate sono andate oltre, sicché qui riporto la “tappa successiva”. Quest’anno sono “subentrata” a Aldo come “referente” della rete Pangea di Scampia per la rete del Kaki Tree Project, una rete di Pace che seguo con piacere, perché è una folata di bellezza in un mondo in guerra, una chat tra le realtà che hanno o avranno un Kaki Tree in “affido” di cui prendersi cura e che si confrontano e scambiano notizie sul “proprio” percorso e esperienze di costruzione della pace, idee e pratiche condivise che possono ispirare altri, che possono essere segnalati a realtà affini o vicine per allargare la rete e, perché no, se si è in zona, partecipare e conoscere dal vivo persone attive sullo stesso cammino. Forse anche per onorare questo mio nuovo “incarico”, dato che il tour dei Paciclisti era troppo “lontano” dalla mia portata, quest’anno ho dato appuntamento a Scampia, accanto al Kaki Tree, alle 11:02 del 9 agosto, ora in cui, 80 anni fa, fu sganciata la seconda bomba atomica della storia. Non sapevo chi fosse a Scampia il 9 agosto 2025, io stessa ci sono approdata apposta per questo appuntamento con mia figlia cresciuta nel/col giardino. Aldo era già sul posto di buon ora, seguito da Anna, Lino e RosaMaria, Guido “Paciclista nostrano” ci ha raggiunti in bicicletta da Materdei, il “Commendatore” Carlo, sempre attivo e presente e Andrea del blog “Dimmi di Scampia” con me e Alessandra hanno formato un allegro gruppetto accanto al Kaki. Abbiamo condiviso qualche “anello” che a qualcuno mancava di come quella pianta importante e speciale sia arrivata in quel luogo di Scampia, abbiamo mostrato e “seguito idealmente” il tour di quest’anno dei Paciclisti e innaffiato il Kaki Tree, sincerandoci che non ci fossero lumache e ammirando la crescita dei suoi primi frutti. Quest’anno il Kaki Bike Tour prevedeva tappe “da Verona a Albagnano (VB) per fiumi e laghi di Pace”, affidando anche all’acqua, oltre che alle persone incontrate lungo la pedalata, messaggi costruttivi di pace. Il 9 agosto era anche la giornata di mobilitazione mondiale per la Palestina, abbiamo declinato sul posto anche questa ulteriore voce che chiede urgentemente di fermare il genocidio in atto. La rete Pangea sostiene da sempre la resistenza nonviolenta palestinese, quella di cui non si parla mai. La nostra piccola aiuola “striscia di Gaza”, davanti al mural dedicato a “Handala Felice” è pronta per accogliere e “salvare” qualcosa della cultura e della biodiversità vegetale che pure si stanno perdendo inesorabilmente. Una ripercussione sulla nostra Pangea di ogni guerra: oltre allo strazio per le vite umane perdute e per le storie “personali” distrutte, vanno in rovina patrimoni ambientali, artistici, culturali e tutto un ecosistema che ha impiegato anni a “costruirsi”, un equilibrio naturale devastato. È un altro aspetto, devastante, di ogni guerra. Un motivo in più per evitare la guerra, sempre e comunque, costruendo la pace, con impegno, dal basso. Anche, sicuramente, a pedalate: andare in bici è un mezzo ecosostenibile, non inquinante, non necessita di “carburante” (e quante guerre si fanno e si sono fatte per l’accaparramento di fonti energetiche che iniziano a scarseggiare!) e in più consente di godere meglio del paesaggio, delle relazioni, di incontrare persone lungo il percorso e ammirare l’ambiente che si attraversa, che sia urbanizzato o meno. Una prospettiva e un approccio differenti che, cambiando punto di vista, ci mostrano un altro aspetto della nostra Pangea e delle relazioni umane. A Scampia, dopo decenni di attesa, è in costruzione “finalmente” la fantomatica pista ciclabile. Speriamo di vedere sempre più bici in città più Felici, a riappropriarsi di spazi e delle proprie vite, speriamo che le auto imparino a rispettare i ciclisti, perché non basta un cordolo di cemento intermittente a creare una città a misura di ciclisti. Tra i testimoni di nonviolenza “napoletani” del nostro giardino c’è Marco Mascagna, un pediatra ambientalista che si è molto battuto per il verde pubblico in una città, già trent’anni fa, affogata dal cemento e dagli spazi contesi dalle auto. Accanto a lui abbiamo da poco “aggiunto” un omaggio a Pio Russo Krauss, nostro compagno di viaggio e presidente dell’associazione “Marco Mascagna”, che ha proseguito e prosegue il cammino dell’amico Marco. Marco andava in bici, morì investito da un’auto. Lo “ricordo” perché mio padre, Felice Pignataro, dedicò “a Marco” l’ultimo vagone del “treno dei guai” del mural anti-G7 realizzato nel luglio 1994 per il controvertice che si tenne a Napoli. I murales realizzati per quel fermento di proposte concrete che fu il controvertice dei piccoli della terra, ‘e pappeci, erano 7, come i 7 “chiavici”. Uno, quello al Parco Verde di Caivano, “L’albero delle scelte”, lo riproposi quando si sono accesi i riflettori mediatici e la propaganda dei politici di turno su Caivano e Francesco Foletti, presidente del Kaki Tree Project mi chiese un contatto “dal basso” con il Parco Verde di Caivano intuendo che ci fosse un’altra realtà, viva e fertile, da mettere in rete. Quando i tempi sono stati maturi, anche lì, fuori dai riflettori mediatici, nell’ottobre 2024 è stato piantato un Kaki Tree. Quest’anno, il 25 Aprile, con mia figlia, in rappresentanza della rete di Scampia, siamo state a Cassino (FR) agli Horti di Porta Paldi, dove l’associazione Eqo accudisce un Kaki Tree e cura lo spazio circostante ridandogli vitalità e dignità e restituendolo alla collettività. C’erano Francesco Foletti e un gruppo di ortolani della Masseria “Antonio Esposito Ferraioli” di Afragola (NA) che ha piantato un Kaki Tree il 2 ottobre del 2023. Ne ho raccontato nella precedente “tappa” del Kaki Bike Tour. Il giorno successivo, sabato 26 aprile, per l’appuntamento mensile di cura collettiva del “Giardino dei cinque continenti e della nonviolenza” (ultimo sabato del mese) ci ha raggiunti Francesco, con gli ortolani e il dirigente scolastico del rione Salicelle di Afragola e gli amici del Parco Verde di Caivano perché ne abbiamo approfittato per fare un incontro e scambiarci opinioni e idee su come proseguire il “percorso” e la rete del Kaki Tree Project. Ma Francesco era venuto soprattutto a donarci tre piante “speciali” perché, conoscendoci e frequentandoci nel tempo, ha scelto il giardino e la rete Pangea per affidarci tre piante ancestrali di Malus provenienti dal Kirghizistan che “esistevano da prima della Pangea e andavano collocate proprio in quel giardino”. Le ha dedicate a Aldo Bifulco e a Mirella La Magna e una terza a papa Francesco che è morto mentre ci preparavamo per la piantumazione. Anche quella giornata la abbinammo alla Palestina, raccogliendo 100 euro per la campagna 100x100Gaza, tutt’ora attiva a sostegno concreto della popolazione civile di Gaza. Anche di queste piante, sabato 9 agosto, abbiamo raccontato la storia, come “ramificazione inaspettata” di quella pianta di Kaki Tree che coccoliamo nel giardino condiviso di Scampia. Tra auto date alle fiamme, panchine che si sgretolano, sporcizia e incuria di chi abbandona lembi di città, noi rispondiamo, da sempre e con costanza, piantando e accudendo bellezza, che sia contagiosa e si dirami facendosi spazio dalla nostra periferia in collegamento con le altre periferie della città e del mondo. La violenza chiama violenza e non si può aspettare che vinca il più forte, annientando l’altro, né scegliere arbitrariamente chi “deve” vincere un conflitto concorrendo ad armarlo fino all’inverosimile. In ogni conflitto c’è la terza via: fermare i massacri e lavorare per la pace. Ci vuole molta “pacienza” a coltivare la pace, come ci insegna l’Associazione “Claudio Miccoli”, altra bella e colorita realtà della rete Pangea ispirata a Claudio, altro “napoletano” testimone di nonviolenza, ucciso a sprangate da un gruppo di fascisti nel 1978 perché “voleva solo parlare”, capire le loro ragioni, i motivi della loro aggressione. La pace si costruisce con pacienza, termine napoletano, ma anche siciliano, ma che per noi è sintesi di “Pace” e “nonviolenza”, ma è altresì l’attesa, la pazienza nell’ascoltare le ragioni altrui per trovare insieme una soluzione nonviolenta per risolvere i conflitti, qualunque essi siano, avendo la volontà, effettiva, di evitare la guerra che no, non è “inevitabile”. Parlare, anche con i fascisti, direi soprattutto con loro, perché non siamo noi a alzare muri o spranghe, né c’è il rischio di contaminarsi, mentre la bellezza, quella sì, è contagiosa e fa vivere tutti meglio. Io, nonviolenta in un paese che vive in un contesto di “pace” (almeno entro i “confini”), ammiro oltremisura chi persevera nella resistenza nonviolenta in Palestina, come altrove, chi diserta la guerra, chi si oppone a leggi o ordini ingiusti, chi prova a salvare semi vegetali o fa giocare e studiare i bambini (per quanto possibile) o prosegue nelle attività che altrove sono “normali” come giocare a calcio, fare teatro, andare sullo skateboard, informare. Non cito cose “a caso”, ma sono anni che al cineforum gratuito promosso dal GRIDAS proiettiamo film sulla Palestina, su esperienze di resistenza nonviolenta in Palestina, il più recente, mentre a Scampia si preparava la tappa napoletana del Mediterraneo Antirazzista Napoli, è il film, del 2019, “FOOTBALLIZZATION” di Francesco Agostini e Francesco Furiassi in visione gratuita sulla piattaforma indipendente OpenDDB che distribuisce film autoprodotti. Recentemente tra le vittime del genocidio in atto in Palestina, che non sono solo numeri, è stato ucciso un calciatore palestinese, “il Pelè palestinese”. La UEFA ha espresso “cordoglio” per la sua morte e un collega egiziano ha chiesto a gran voce di “specificare” le circostanze: chi abbia ucciso, come e perché Suleiman al-Obeid. Mentre scrivevo queste riflessioni, sono stati uccisi, di proposito, sei giornalisti palestinesi che si aggiungono alla lunga lista di giornalisti uccisi, di proposito, tacciati di essere “terroristi” e così infamati, calando un velo di ambiguità sulla loro morte per chi ha sempre meno modo di approfondire, mentre si spengono le voci che ci raccontano la verità dei fatti. Ridiamo dignità alle persone, alle vittime di genocidio, ricomponiamo la corretta narrazione dei fatti, dei misfatti e dei luoghi. Collaboriamo tutti per costruire un mondo di pace. Facciamo memoria della devastazione delle guerre di ottant’anni fa come di quelle in corso, affinché davvero si scelga, tutti, la via della costruzione della pace, una via sicuramente più impegnativa, che richiede cura e il sudore di molte fronti, ma che sicuramente farà vivere meglio e più a lungo tutte le creature che abitano la nostra Pangea. -------------------------------------------------------------------------------- Per approfondire: Qui l’articolo precedente sui Paciclisti: > Una rete di pedalate di pace Qui il sito del Kaki Tree Project: > Front Page Qui il video di Enzo Di Falco della piantumazione dei tre Malus a Scampia: Qui tutti i materiali condivisi del “Progetto Pangea – Scampia”. Qui la petizione per salvare le opere e la storia del CDR Gatta Blu di Scampia. Qui la mappa relazionale “MappaBlu”. Qui il film “Footballization” in visione gratuita: > Footballization Qui la campagna di sostegno 100x100Gaza. Qui i murales anti-G7 del luglio 1994 a Napoli. Qui il blog “Dimmi di Scampia”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Se vuoi la pace, pedala proviene da Comune-info.