Il nodo della vita quotidiana
LE LOTTE DEI MOVIMENTI DEI DECENNI PASSATI OGGI HANNO BISOGNO DI ESSERE
RIPENSATE IN PROFONDITÀ PER RADICARSI IN MODI NUOVI A COMINCIARE DAL LOCALE,
DALLA CREAZIONE DI FORME COMUNITARIE PIÙ O MENO AUTONOME, MA PRIMA DI TUTTA
DALLA CAPACITÀ DI PRENDERSI CURA DELLA VITA DI OGNI GIORNO. È IN QUESTO SCENARIO
CHE OGNI SERA DAL NULLA NEL CUORE DI TRIESTE NASCE UNA PIAZZA APERTA AL MONDO
PER INCONTRARE I MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA
A partire dalla lettura del testo Né verticale né orizzontale. Una teoria
dell’organizzazione politica (ed. Alegre) di Rodrigo Nunes, professore di teoria
politica in Inghilterra e in Brasile, che ha fatto recentemente una serie di
incontri in Italia, mi viene da ripensare che la nascita di Linea d’Ombra a
Trieste è avvenuta per una richiesta di aiuto immediato e necessario, a partire
da una situazione drammatica di sofferenza umana ma dotata di una particolare
valenza storico-politica. Il tentativo consiste nel trasformare in una
narrazione politica coerente il minuscolo tuffo etico-esistenziale (fatta di
emozioni, esigenze, comportamenti spontanei e tentativi di organizzazione) in
cui si riflette l’attuale situazione sociopolitica del nostro paese nel rimando
a una dinamica storica fondamentale, letteralmente incarnata da corpi migranti
(che oggi si pone a tutti noi come una domanda radicale esistenziale e politica,
veramente politica perché esistenziale e veramente esistenziale perché
politica).
Per uno come me, la riflessione sull’oggi politico rimanda sempre agli anni
Sessanta-Settanta: che cosa è mancato allora che ha spinto alla dissoluzione di
quel periodo di lotte, aggregazioni, tentativi di cambiamento? Accanto alla
capacità di lottare, probabilmente è mancata la capacità di costruire. Che vuol
dire “costruire”? Come aiuta a chiarire l’analisi di Nunes, “costruire”
significa radicarsi in un contesto localizzato in grado di autoriprodursi per
durare, in grado di resistere e di arricchirsi, coinvolgendo sempre di più
singoli e gruppi. Ma a una condizione essenziale: l’autoriproduzione deve poter
partire da o coinvolgere anche i bisogni fondamentali del vivere quotidiano, ciò
che con termine più astratto si chiama autoriproduzione della vita quotidiana.
Ciò accade in varia misura, ad esempio, in alcune situazioni sudamericane,
soprattutto con il movimento zapatista, e nel Rojava di Siria. Da qui
un’ulteriore riflessione: il radicamento nel locale non significa chiusura ma il
contrario: apertura, sia perché nei fatti ogni locale è fortemente dominato del
mondiale, come un ramo di coralli nel mare che si scalda, sia perché solo
un’esperienza, che necessariamente deve partire dal locale, può permettere di
capire e affrontare il mondiale, che altrimenti rimane un cupo fondale lontano.
In Occidente l’autoriproduzione della vita quotidiana è molto difficile per via
dei radicali processi di individualizzazione in società intrinsecamente composte
da individui in concorrenza reciproca, affogati nell’economia di mercato. Come
diceva Margareth Thatcher: esistono solo individui e famiglie, non esiste la
società. La forza del capitale risiede proprio nel controllo coinvolgente
dell’autoriproduzione sociale. Quello che Marx notava a livello del lavoro
salariato si è oggi esteso all’intera vita sociale e naturale: il capitalismo si
sta mangiando il mondo: a livello generale, con il dominio della finanza
elettronica ma che ricade nel livello locale, ad esempio con gli effetti di un
governo come quello in atto.
La valenza politica della cura
Nel nostro piccolo, a Trieste, con i migranti della cosiddetta rotta balcanica,
noi ci siamo imbattuti nella dimensione vitale e antropologica della cura,
radicata nell’energia che costituisce la vita, per tentare di farne il terreno
in cui radicare la politica. Cura è una parola poco considerata nell’ambito di
ciò che correntemente si chiama “sinistra radicale” più propensa alla dimensione
conflittuale. Ma la cura è alla base della produzione e riproduzione di
soggettività. Anche la lotta produce soggettività ma soggettività definita solo
da un “contro”, non da un per, soggettività che nega l’esistente piuttosto che
produrne uno alternativo. Per cogliere bene l’importanza del bisogno di cura, è
opportuno partire dall’infanzia in cui appare nella sua pienezza o anche in
situazioni radicali come nelle situazioni di lager di cui narra Primo Levi; ma
si possono trovare, per fare un esempio dall’attualità lancinante, anche in
Palestina nella cura della terra in contrasto con la sua gestione strumentale
israeliana e nella cura reciproca in situazioni come Gaza, laddove Israele
appare la negazione radicale della cura.
La piazza del Mondo messa ogni su ogni giorno da Linea d’ombra, nel suo piccolo,
tenta di riscoprire e lanciare la cura come base dell’azione politica.
La cura reciproca anche fra gli “attivisti” può essere la base di un gruppo
politico ben oltre il legame spesso autoritario di un’ideologia? Per nominare
l’insieme politico, oggi non userei più il termine “collettivo” che rimanda a
una collectio su base ideologica. Invece, dovrebbe darsi una comunanza fondata
nella cura da cui fa emergere un pensiero concreto a partire da questa
dimensione veramente radicale nel significato letterale perché attiene alle
radici della vita e non a un’utopia.
Il passaggio di base di questo ragionamento riguarda la necessità di impiantare
l’azione politica sul bisogno di cura essenziale in quanto dato antropologico e
biologico costitutivo di ciò che chiamiamo vita (a livello antropologico
primariamente, ma non solo). Far leva su questa dimensione mi appare come
l’unico modo oggi di affrontare la questione “politica”: la questione della
polis, dell’essere insieme, del fare comunità, del comunismo, se vogliamo ancora
usare, come desidera la mia vita, questa parola storicamente così densa, anche
troppo densa, cercando di cambiare dal basso la direzione suicida che ha preso
la storia, perché l’”alto” ha assunto definitivamente le sembianze di Dracula.
Dal pubblico al comune
In tal senso considero importante la proposta dei compagni dell’ex GKN di
avviare un modo di produzione alternativo: priva di proprietà privata, cioè di
un padrone diretto o indiretto, come si usa oggi nella forma di fondo
d’investimento, ma produttrice in proprio di beni utili e non consumistici.
Oggi le lotte tendono a spostarsi su terreno della riproduzione (pensioni,
sanità, scuola…), ma sono pur sempre lotte rivolte contro. Come è possibile
agire positivamente, costruttivamente, creativamente, sul terreno della
riproduzione creando forme comunitarie di vita (più o meno, tendenzialmente)
autonome, immaginando di sostituire il pubblico con il comune?
A me pare che dobbiamo cercar di entrare – seminalmente – in questa visione…
Nunes si riferisce a una politica che chiama politica della piattaforma come
punto di partenza costitutivo da cui lanciare concreti inviti specifici a
partecipare a una determinata situazione (nel nostro caso, legato al fenomeno
migratorio). Ragionare in termini di logica della piattaforma porta a ritenere
che una volontà comune può nascere nel rispondere a una iniziativa concreta
portata avanti senza un precedente mandato collettivo, ma il cui mandato sorge
dal basso radicato in una situazione sociale essenziale che Nunes chiama di
ecologia politica per indicare che coinvolge sempre una globalità del vivere che
l’azione politica “tradizionale” tende a trascurare o a non cogliere e la
necessità di radicarsi, anche nella vita quotidiana, a una problematica
essenziale, vitale, ma localmente concreta.
Il concetto di ecologia politica sostituisce, dall’interno di una concreta
situazione sociale, il concetto o la nozione di “movimento” di cui, piuttosto, è
la decantazione, il precipitato: una situazione di ecologia politica è meno di
un’organizzazione politica perché non ha un principio organizzatore unificante,
ma è più di un’organizzazione perché non è meramente intenzionale: è l’effetto
emergente di condizioni, azioni e sforzi diversi a partire da una situazione o
da situazioni sociali concrete di cui si cerca di cogliere l’elemento comune. È
“un’ordine spontaneo che racchiude degli ordini realizzati intenzionalmente”, in
cui ”la funzione di leader circola”, non si irrigidisce in un singolo o in un
gruppo e qui si tocca un passaggio centrale: “la possiamo chiamare leadership
distribuita”, indicando la direzione di un cammino. La leadership, quindi, ha
una funzione dirigente, apre un cammino, ma non occupa stabilmente un posto, è
una funzione e non una posizione. Da qui la differenza fra leadership come
rappresentanza e leadership come spinta iniziale, come iniziativa:
“Un’iniziativa non è una direttiva ma piuttosto una domanda che costringe le
persone ad assumere una posizione soggettiva in relazione al loro desiderio e a
capire come può essere messo in pratica”. Mi sembra interessante questa
definizione della figura tradizionale del leader. La leadership svolge una
funzione ineliminabile dalla politica: dare l’impulso iniziale a un
comportamento collettivo, ma non deve diventare un potere sul collettivo: questo
è finora fallito, più o meno.
Nunes, riferendosi al sociologo statunitense Eric Olin Wright, distingue fra tre
tipi di strategie: strategie di rottura (prendere o distruggere lo Stato);
strategie interstiziali (costruire alternative al di fuori del mercato e dello
Stato); strategie simbiotiche (usare il mercato e/o lo Stato). Si tratterebbe di
giocare fra queste diverse strategie. L’alternativa è, per me, ovviamente da
privilegiare, ma anche la strategia simbiotica può essere parzialmente usata e
non è da escludere nemmeno la strategia di rottura.
Passaggio fondamentale è la necessità di radicare un’ecologia politica nella
vita quotidiana. “La mancanza di questo radicamento è la migliore spiegazione
della rapidità con cui i movimenti degli ultimi decenni sono esplosi e sembrano
poi essersi spenti”. Io aggiungerei degli ultimi sessant’anni… Questo è un punto
essenziale: la forza più grande del potere sta nella chiusura della soggettività
nella forma dell’individuo (de)privato.
È anche il punto più difficile: quello che unisce vita quotidiana e vita
collettiva, sulla cui divisione il Capitale ha finora trionfalmente puntato.
Senza il superamento di questa scissione non sarà possibile quel cambiamento
radicale che è ormai vitalmente necessario.
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