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Il nodo della vita quotidiana
LE LOTTE DEI MOVIMENTI DEI DECENNI PASSATI OGGI HANNO BISOGNO DI ESSERE RIPENSATE IN PROFONDITÀ PER RADICARSI IN MODI NUOVI A COMINCIARE DAL LOCALE, DALLA CREAZIONE DI FORME COMUNITARIE PIÙ O MENO AUTONOME, MA PRIMA DI TUTTA DALLA CAPACITÀ DI PRENDERSI CURA DELLA VITA DI OGNI GIORNO. È IN QUESTO SCENARIO CHE OGNI SERA DAL NULLA NEL CUORE DI TRIESTE NASCE UNA PIAZZA APERTA AL MONDO PER INCONTRARE I MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA A partire dalla lettura del testo Né verticale né orizzontale. Una teoria dell’organizzazione politica (ed. Alegre) di Rodrigo Nunes, professore di teoria politica in Inghilterra e in Brasile, che ha fatto recentemente una serie di incontri in Italia, mi viene da ripensare che la nascita di Linea d’Ombra a Trieste è avvenuta per una richiesta di aiuto immediato e necessario, a partire da una situazione drammatica di sofferenza umana ma dotata di una particolare valenza storico-politica. Il tentativo consiste nel trasformare in una narrazione politica coerente il minuscolo tuffo etico-esistenziale (fatta di emozioni, esigenze, comportamenti spontanei e tentativi di organizzazione) in cui si riflette l’attuale situazione sociopolitica del nostro paese nel rimando a una dinamica storica fondamentale, letteralmente incarnata da corpi migranti (che oggi si pone a tutti noi come una domanda radicale esistenziale e politica, veramente politica perché esistenziale e veramente esistenziale perché politica). Per uno come me, la riflessione sull’oggi politico rimanda sempre agli anni Sessanta-Settanta: che cosa è mancato allora che ha spinto alla dissoluzione di quel periodo di lotte, aggregazioni, tentativi di cambiamento? Accanto alla capacità di lottare, probabilmente è mancata la capacità di costruire. Che vuol dire “costruire”? Come aiuta a chiarire l’analisi di Nunes, “costruire” significa radicarsi in un contesto localizzato in grado di autoriprodursi per durare, in grado di resistere e di arricchirsi, coinvolgendo sempre di più singoli e gruppi. Ma a una condizione essenziale: l’autoriproduzione deve poter partire da o coinvolgere anche i bisogni fondamentali del vivere quotidiano, ciò che con termine più astratto si chiama autoriproduzione della vita quotidiana. Ciò accade in varia misura, ad esempio, in alcune situazioni sudamericane, soprattutto con il movimento zapatista, e nel Rojava di Siria. Da qui un’ulteriore riflessione: il radicamento nel locale non significa chiusura ma il contrario: apertura, sia perché nei fatti ogni locale è fortemente dominato del mondiale, come un ramo di coralli nel mare che si scalda, sia perché solo un’esperienza, che necessariamente deve partire dal locale, può permettere di capire e affrontare il mondiale, che altrimenti rimane un cupo fondale lontano. In Occidente l’autoriproduzione della vita quotidiana è molto difficile per via dei radicali processi di individualizzazione in società intrinsecamente composte da individui in concorrenza reciproca, affogati nell’economia di mercato. Come diceva Margareth Thatcher: esistono solo individui e famiglie, non esiste la società. La forza del capitale risiede proprio nel controllo coinvolgente dell’autoriproduzione sociale. Quello che Marx notava a livello del lavoro salariato si è oggi esteso all’intera vita sociale e naturale: il capitalismo si sta mangiando il mondo: a livello generale, con il dominio della finanza elettronica ma che ricade nel livello locale, ad esempio con gli effetti di un governo come quello in atto. La valenza politica della cura Nel nostro piccolo, a Trieste, con i migranti della cosiddetta rotta balcanica, noi ci siamo imbattuti nella dimensione vitale e antropologica della cura, radicata nell’energia che costituisce la vita, per tentare di farne il terreno in cui radicare la politica. Cura è una parola poco considerata nell’ambito di ciò che correntemente si chiama “sinistra radicale” più propensa alla dimensione conflittuale. Ma la cura è alla base della produzione e riproduzione di soggettività. Anche la lotta produce soggettività ma soggettività definita solo da un “contro”, non da un per, soggettività che nega l’esistente piuttosto che produrne uno alternativo. Per cogliere bene l’importanza del bisogno di cura, è opportuno partire dall’infanzia in cui appare nella sua pienezza o anche in situazioni radicali come nelle situazioni di lager di cui narra Primo Levi; ma si possono trovare, per fare un esempio dall’attualità lancinante, anche in Palestina nella cura della terra in contrasto con la sua gestione strumentale israeliana e nella cura reciproca in situazioni come Gaza, laddove Israele appare la negazione radicale della cura. La piazza del Mondo messa ogni su ogni giorno da Linea d’ombra, nel suo piccolo, tenta di riscoprire e lanciare la cura come base dell’azione politica. La cura reciproca anche fra gli “attivisti” può essere la base di un gruppo politico ben oltre il legame spesso autoritario di un’ideologia? Per nominare l’insieme politico, oggi non userei più il termine “collettivo” che rimanda a una collectio su base ideologica. Invece, dovrebbe darsi una comunanza fondata nella cura da cui fa emergere un pensiero concreto a partire da questa dimensione veramente radicale nel significato letterale perché attiene alle radici della vita e non a un’utopia. Il passaggio di base di questo ragionamento riguarda la necessità di impiantare l’azione politica sul bisogno di cura essenziale in quanto dato antropologico e biologico costitutivo di ciò che chiamiamo vita (a livello antropologico primariamente, ma non solo). Far leva su questa dimensione mi appare come l’unico modo oggi di affrontare la questione “politica”: la questione della polis, dell’essere insieme, del fare comunità, del comunismo, se vogliamo ancora usare, come desidera la mia vita, questa parola storicamente così densa, anche troppo densa, cercando di cambiare dal basso la direzione suicida che ha preso la storia, perché l’”alto” ha assunto definitivamente le sembianze di Dracula. Dal pubblico al comune In tal senso considero importante la proposta dei compagni dell’ex GKN di avviare un modo di produzione alternativo: priva di proprietà privata, cioè di un padrone diretto o indiretto, come si usa oggi nella forma di fondo d’investimento, ma produttrice in proprio di beni utili e non consumistici. Oggi le lotte tendono a spostarsi su terreno della riproduzione (pensioni, sanità, scuola…), ma sono pur sempre lotte rivolte contro. Come è possibile agire positivamente, costruttivamente, creativamente, sul terreno della riproduzione creando forme comunitarie di vita (più o meno, tendenzialmente) autonome, immaginando di sostituire il pubblico con il comune? A me pare che dobbiamo cercar di entrare – seminalmente – in questa visione… Nunes si riferisce a una politica che chiama politica della piattaforma come punto di partenza costitutivo da cui lanciare concreti inviti specifici a partecipare a una determinata situazione (nel nostro caso, legato al fenomeno migratorio). Ragionare in termini di logica della piattaforma porta a ritenere che una volontà comune può nascere nel rispondere a una iniziativa concreta portata avanti senza un precedente mandato collettivo, ma il cui mandato sorge dal basso radicato in una situazione sociale essenziale che Nunes chiama di ecologia politica per indicare che coinvolge sempre una globalità del vivere che l’azione politica “tradizionale” tende a trascurare o a non cogliere e la necessità di radicarsi, anche nella vita quotidiana, a una problematica essenziale, vitale, ma localmente concreta. Il concetto di ecologia politica sostituisce, dall’interno di una concreta situazione sociale, il concetto o la nozione di “movimento” di cui, piuttosto, è la decantazione, il precipitato: una situazione di ecologia politica è meno di un’organizzazione politica perché non ha un principio organizzatore unificante, ma è più di un’organizzazione perché non è meramente intenzionale: è l’effetto emergente di condizioni, azioni e sforzi diversi a partire da una situazione o da situazioni sociali concrete di cui si cerca di cogliere l’elemento comune. È “un’ordine spontaneo che racchiude degli ordini realizzati intenzionalmente”, in cui ”la funzione di leader circola”, non si irrigidisce in un singolo o in un gruppo e qui si tocca un passaggio centrale: “la possiamo chiamare leadership distribuita”, indicando la direzione di un cammino. La leadership, quindi, ha una funzione dirigente, apre un cammino, ma non occupa stabilmente un posto, è una funzione e non una posizione. Da qui la differenza fra leadership come rappresentanza e leadership come spinta iniziale, come iniziativa: “Un’iniziativa non è una direttiva ma piuttosto una domanda che costringe le persone ad assumere una posizione soggettiva in relazione al loro desiderio e a capire come può essere messo in pratica”. Mi sembra interessante questa definizione della figura tradizionale del leader. La leadership svolge una funzione ineliminabile dalla politica: dare l’impulso iniziale a un comportamento collettivo, ma non deve diventare un potere sul collettivo: questo è finora fallito, più o meno. Nunes, riferendosi al sociologo statunitense Eric Olin Wright, distingue fra tre tipi di strategie: strategie di rottura (prendere o distruggere lo Stato); strategie interstiziali (costruire alternative al di fuori del mercato e dello Stato); strategie simbiotiche (usare il mercato e/o lo Stato). Si tratterebbe di giocare fra queste diverse strategie. L’alternativa è, per me, ovviamente da privilegiare, ma anche la strategia simbiotica può essere parzialmente usata e non è da escludere nemmeno la strategia di rottura. Passaggio fondamentale è la necessità di radicare un’ecologia politica nella vita quotidiana. “La mancanza di questo radicamento è la migliore spiegazione della rapidità con cui i movimenti degli ultimi decenni sono esplosi e sembrano poi essersi spenti”. Io aggiungerei degli ultimi sessant’anni… Questo è un punto essenziale: la forza più grande del potere sta nella chiusura della soggettività nella forma dell’individuo (de)privato. È anche il punto più difficile: quello che unisce vita quotidiana e vita collettiva, sulla cui divisione il Capitale ha finora trionfalmente puntato. Senza il superamento di questa scissione non sarà possibile quel cambiamento radicale che è ormai vitalmente necessario. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Create due, tre, molte arche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il nodo della vita quotidiana proviene da Comune-info.
Ribellarsi facendo, qui e ora
GAZA, UN GENOCIDIO DAVANTI AGLI OCCHI DEL MONDO, METTE IN CRISI LA CULTURA POLITICA NON SOLO DI CHI DOMINA. SIAMO ALL’INIZIO DI UN TEMPO NUOVO. ABBIAMO BISOGNO DI ESPERIENZE PER RE-IMPARARE A NAVIGARE, ESPERIENZE AD ESEMPIO DI CURA, COME QUELLA CHE VIVONO OGNI GIORNO LE PERSONE CHE SI INCONTRANO NELLA “PIAZZA DEL MONDO” DI TRIESTE, CROCEVIA DEI MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA. “FARE ESPERIENZA OGGI È UN PRIVILEGIO, COME AVERE UNA BUSSOLA PER CHI È SPERDUTO IN MEZZO AL MARE… – SCRIVE GIAN ANDREA FRANCHI – STA A NOI MOSTRARE SE LA FLOTILLA E SOPRATTUTTO LE MANIFESTAZIONI IN EUROPA E IN VARIE PARTI DEL MONDO POSSONO ESSERE L’INIZIO DI ESPERIENZA E QUINDI DI POLITICA… ANCHE SE FARE MANIFESTAZIONI È MOLTO PIÙ FACILE DI UN AGIRE COSTRUTTIVO QUOTIDIANO E LOCALE: QUI STA IL PUNTO. DOBBIAMO COSTRUIRE LA NOSTRA SELVA LACANDONA…” Molti che vengono a trovarci, qui a Trieste, dove ogni giorno con Linea d’ombra incontriamo i migranti che arrivano dalla cosiddetta rotta Balcanica, e spesso ci dicono che nella piazza del Mondo di Trieste si fa esperienza. Ma che cosa vuol dire questa parola comune e quindi dal significato sfuggente? Per definire il concetto di esperienza possiamo fare riferimento a Walter Benjamin. Da quasi un secolo, Benjamin ci offre una meditazione pregnante sulla possibilità e quindi sulla capacità di fare esperienza, partendo dalle ricadute sociali degli effetti della Prima guerra mondiale. Fra queste ricadute, fondamentale è stata, appunto, l’incapacità di fare esperienza: “… l’arte di narrare si avvia al tramonto […] È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa, la più sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”. “Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? […] Una generazione che era ancora andata a scuola con il tram a cavalli, si trovava sotto il cielo aperto, in un paesaggio di cui nulla era rimasto immutato, tranne le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”1. Oggi l’incapacità di fare esperienza ha raggiunto un culmine mai toccato prima nei confronti di ciò che è letteralmente inesperibile, indicibile: la distruzione quotidiana di una popolazione inerme di fronte a tutto il mondo, offerta o imposta ogni giorno e ogni notte dall’invasiva potenza elettronica della produzione di immagini su dispositivi di uso quotidiano, come i cellulari, ormai capillarmente diffusi. E questo accade in un contesto già gravemente segnato da un altro dato fondamentale di lunga durata, meno visibile forse ma anche più grave, se possibile: l’alterazione, che ormai appare inarrestabile, dell’equilibrio ambientale della vita sulla terra, dovuta all’attività umana, anzi per essere doverosamente più preciso: di una parte minoritaria degli umani. Se “storia” implica narrazione – lo stabilirsi di un nesso comunicativo fra le generazioni che si succedono nel corso del tempo, fra chi viene al mondo e chi se ne va, fra chi nasce e chi muore -, questi due passaggi epocali confluenti ci mettono di fronte a una frattura storica mai avvenuta prima. In tale contesto, in cui ci troviamo tuffati come in un mare senza sponde, come è possibile fare esperienza? Io credevo di aver avuto questo privilegio. Mi era stato offerto in un gesto comunicativo originario e radicale, che agisce alla base della vita: il gesto di cura per mano di donna che, scalzando un piede ferito da un lungo cammino, ha cominciato, di fronte a una lingua sconosciuta, a curarlo, entrando quindi con lui in un radicale rapporto. Questo gesto si è inserito, peraltro, in un contesto culturale di pensiero femminista, che mi era noto. Ma un conto è la conoscenza intellettuale, un altro – appunto – l’esperienza. Fare esperienza oggi è un privilegio, come avere una bussola per chi è sperduto in mezzo al mare. Salvo illusioni, di cui bisogna sempre tener conto come orizzonte di riserva per un pensiero critico attivo che ha conosciuto la potenza delle illusioni. La potenza dell’illusione, infatti, nasconde spesso l’incapacità di fare esperienza, nutrendosi di emozioni rivestite di immagini e di parole, non di pensieri: oggi più che mai prima, con l’in-flusso soffocante dell’informazione elettronica. Nella piazza del Mondo di Trieste si fa dunque esperienza. Si fa anche esperienza di un altro confine, oltre a quello che scatta contro i migranti, che meglio si chiamerebbe frontiera. Si fa esperienza del confine fra loro e noi che è stato chiamato da un sociologo e attivista la “differenza abissale” e che, per rimanere in tema, possiamo chiamare il confine abissale: il confine non facilmente superabile fra “culture” molto diverse e condizioni di vita radicalmente diverse dalla nostra, come sono quelle di chi viene da paesi in cui sopravvivere è difficile, rischiando molte volte la vita per arrivare dove noi lo incontriamo, tentando di accoglierlo. Ma si fa esperienza anche di un altro confine, in apparenza molto meno drammatico, in realtà molto legato al dramma, anzi alla tragedia, di cui sopra, che riguarda noi stessi direttamente, anzi intimamente. Intendo dire che facciamo esperienza del confine tra umanitarismo e politica. Si tratta di una differenza fondamentale nell’agire sociale che deriva dal confine tra due forme di vita che chiamerò vita privata (privata dunque di qualcosa…) e vita comunitaria. Con “vita privata” intendo la vita normale (ovvero che risponde a norme) nelle nostre società rette dalla cultura dell’economia di mercato in cui l’essere umano si rappresenta nella figura dell’individuo, separato e contrapposto agli altri, sulla base di un’ontologia sociale della concorrenza e della proprietà, in cui rientra la cerchia insulare degli “affetti”. Con “vita comunitaria” intendo il fine intrinseco della politica, pensata esclusivamente come impegno nel cuore della società volto a rompere l’individualismo nel tentativo, appunto, di costruire comunità: una vita sociale composta di relazioni basate sul dato ontologico che la soggettività nasce dalla relazione e non la precede; nasce dal riconoscimento reciproco fra singoli, non fra individui che non si possono riconoscere ma soltanto contrapporsi o comunque relazionarsi estrinsecamente. “Singolo” è la parola con cui indico il carattere strutturalmente relazionale della soggettività: non c’è un “io” prima dell’”altro”; il gioco essenziale fra “io” e “sé” nasce dal riconoscimento dell’altro che poi diventa reciproco. Ciò accade sulla base della cura, altra nozione essenziale per un pensiero politico, il cui evento originario è l’esser accolti alla nascita. Generalmente con “politica” si intende soprattutto il livello istituzionale: lo Stato, con annessi e connessi, che è gestione del potere in una società e in stretto necessario legame con il soprastante potere detto “economico”. Dovremmo invece imparare a riservare il termine politica solo all’impegno dentro la società, fra la gente, in cui il privato e il pubblico, almeno tendenzialmente, si dissolvono. In tale contesto non deve esserci potere che può esser agito solo in situazioni circoscritte e su precisa delega collettiva sempre temporanea. Con “umanitarismo” intendo, invece, un impegno nel disagio e nella sofferenza sociali che resta al di fuori della soglia politica perché non risale alle cause di quel disagio e di quella sofferenza nel tentativo di superarle. In tal modo se ne rende complice. In qualunque società infatti una certa quantità e qualità di cura reciproca è necessaria affinché la società stessa non si disgreghi. Vi sono innumerevoli forme a tutti i livelli di presenza della cura nelle società. Nel cosiddetto Occidente, il potere ha imparato che senza una certa quantità e qualità di cura la società stessa tende a disgregarsi. In Occidente e soprattutto in Europa negli anni Sessanta-Settanta c’è stato un notevole aumento della cura pubblica, anche e soprattutto per effetto di movimenti sociali. Da qualche decennio è evidente che la cura pubblica sta diminuendo fortemente. In molti paesi del mondo la cura è al livello minimo. In altri è al disotto del livello minimo: sono paesi in disgregazione – penso, ad esempio, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, ad alcuni paesi africani e del Sud Asia orientale, ma ce ne sono molti. Oltre alla cura pubblica, cioè di matrice statale, c’è anche una cura da parte di gruppi sociali che però non si pongono il problema delle cause della sofferenza, ma si limitano a curare le conseguenze: è appunto la cura umanitaria, essenziale per sostenere la società, soprattutto oggi che la cura è in diminuzione ovunque e inoltre viene “privatizzata” nel senso che diventa una produzione economica per generare valore di scambio. Tradizionalmente la Chiesa cattolica è la più importante produttrice di cura umanitaria nel nostro paese. Oggi, però, ricollegandomi all’incipit di questo scritto, siamo all’inizio di un tempo storico assolutamente nuovo che cambia tutte le carte in tavola. Credo, infatti, che quel che avviene a partire dal 7 ottobre del 2023 in Gaza, ovviamente ricaduto anche in Cisgiordania e su tutto il popolo palestinese, tutt’altro che concluso con l’esibizione della finta pax americana – ovvero un genocidio davanti agli occhi del mondo intero – sia la dichiarazione pubblica fattuale che è possibile anzi “desiderabile” una società senza cura: una società retta dal nudo potere del valore di scambio, di cui la diffusione di una cultura mercantile della guerra è la conseguenza. Questo avvenimento pubblico è tale da produrre una rottura radicale nella continuità storica del tramandamento e quindi nella nostra capacità di fare esperienza. Noi non siamo – non siamo ancora, forse – in grado di fare esperienza di quel che accade a Gaza. Ma quel che accade a Gaza reagisce su tutto ciò che facciamo, anche nella piazza del Mondo di Trieste, che rischia continuamente di venir riassorbita, quindi, nell’umanitario, sul cui confine oscilliamo sempre. Peraltro fra questo recente fenomeno migratorio e quel che accade a Gaza c’è un nesso significativo nel nome del disprezzo razziale della vita, antica e fondamentale tradizione europea. Questo nesso è la politica di morte dell’Unione europea che di morti ha riempito il Mediterraneo e in minor misura anche la rotta che giunge ai Balcani. Una politica di morte che l’Europa, e in particolare l’Italia, agisce con Libia e Tunisia: anche noi quindi, cittadini europei e italiani, siamo direttamente coinvolti… Sta a noi mostrare se la Sumud flottiglia e soprattutto le manifestazioni in Europa e in varie parti del mondo possono essere, forse, un primo impulso a un inizio di esperienza e quindi di politica… anche se fare manifestazioni è molto più facile di un agire costruttivo quotidiano e locale: qui sta il punto. Dobbiamo costruire la nostra Selva Lacandona: le nostre piccole selve da unire nella grande… (e qui non posso far punto ma solo puntini…). -------------------------------------------------------------------------------- 1 Walter Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Traduzione e cura di Renato Solmi, Einaudi Torino, seconda edizione 1982, pp. 248 e 247 -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ribellarsi facendo, qui e ora proviene da Comune-info.
In un mondo che brucia
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Donne in Nero – Reggio Emilia (maggio 2025) -------------------------------------------------------------------------------- Un susseguirsi infinito di notizie, notifiche che non si fermano mai, algoritmi che amplificano rabbia e divisione. Nel 2025 viviamo connessi a tutto e disconnessi da noi stessi. Guerre in tempo reale sui nostri schermi, crisi climatica che avanza, disuguaglianze che si allargano come crepe nel cemento delle nostre città. C’è chi chiude gli occhi, chi si rifugia nell’indifferenza, chi grida più forte per coprire il silenzio che fa paura. Ma c’è un’altra strada. Ce la indica una giovane donna di Amsterdam che ottant’anni fa, nel cuore dell’orrore nazista, scelse di non spegnere la propria luce interiore. Etty Hillesum aveva ventisette anni quando morì ad Auschwitz, ma i suoi diari e le sue lettere parlano ancora oggi a chiunque si chieda come restare umani quando il mondo sembra impazzito. Non era una santa né una filosofa. Era una giovane donna che amava, dubitava, si arrabbiava, cercava se stessa tra libri e relazioni complicate. Quando arrivarono le leggi razziali, quando iniziarono le deportazioni, quando si trovò prima nel campo di transito di Westerbork e poi sul treno per Auschwitz, Etty fece una scelta rivoluzionaria: continuò a coltivare la sua vita interiore come se fosse l’ultima cosa che le rimaneva. E forse lo era davvero. “C’è in me un pozzo molto profondo. E in quel pozzo c’è Dio. A volte riesco a raggiungerlo, più spesso pietre e detriti ne ostruiscono la strada, e Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo”. Oggi, nel nostro pozzo, non ci sono solo pietre e detriti. Ci sono le notifiche del telefono, l’ansia per il futuro, la stanchezza di chi si sente sempre in ritardo, sempre inadeguato. Ci sono le polarizzazioni social che trasformano ogni conversazione in battaglia, la velocità che non ci lascia mai il tempo di fermarci davvero. Ma il principio rimane lo stesso: in ognuno di noi c’è un pozzo profondo che merita di essere dissotterrato. Non per fuggire dal mondo, ma per tornarci con gli strumenti giusti. Etty lo chiamava Dio, noi possiamo chiamarlo come vogliamo: umanità, bellezza, amore, senso. Il nome non importa. Importa riconoscere che esiste e che va protetto. Nel 2025 questo significa, ad esempio, spegnere il telefono per ascoltare il silenzio. Significa scegliere cosa leggere invece di farsi trascinare dall’algoritmo. Significa guardare negli occhi chi abbiamo vicino invece di perdere tempo in discussioni sterili online. Significa scrivere a mano, camminare senza meta, cucinare con calma, abbracciare senza fretta… “Quello che mi importa non è sopravvivere a ogni costo, ma il modo in cui sopravvivo”. Etty non sopravvisse fisicamente, ma le sue parole attraversano il tempo e arrivano fino a noi intatte, luminose. Il suo modo di sopravvivere era già una forma di resistenza. Oggi anche noi possiamo scegliere il nostro modo: non solo di sopravvivere alle crisi del presente, ma di attraversarle rimanendo interi, umani, capaci di bellezza. Non è ottimismo ingenuo né fuga dalla realtà. È il contrario: è guardare il mondo esattamente per quello che è – spesso brutale, ingiusto, difficile – e scegliere comunque di non smettere di essere chi siamo nel profondo. È riconoscere che ogni gesto di cura verso noi stessi è già un gesto di cura verso il mondo, perché persone più intere sanno amare meglio, ascoltare di più, costruire invece di distruggere. In un’epoca di accelerazione permanente, la lezione di Etty è radicale: rallenta, scendi nel pozzo, dissotterra quello che è essenziale. Il mondo ha bisogno di persone che sanno ancora accedere alla propria profondità, che non si lasciano travolgere dall’urgenza di tutto e dal senso di niente. Alla fine, forse resistere oggi significa esattamente questo: proteggere spazi di silenzio in un mondo rumoroso, coltivare relazioni vere in un mondo virtuale, scegliere la lentezza in un mondo veloce. Non per nostalgia del passato, ma per costruire un futuro dove l’umano non vada perduto. Etty lo sapeva bene: “La pace deve nascere in noi prima di poter regnare nel mondo”. Nel caos di Westerbork, circondata dalla violenza e dall’odio, continuava a credere che ogni persona che trova la pace dentro di sé diventa un seme di pace per tutti gli altri. Non pace come assenza di conflitto, ma come presenza di equilibrio interiore che si irradia verso l’esterno. Oggi, quando le guerre si moltiplicano e le divisioni sembrano insanabili, questa intuizione di Etty diventa ancora più preziosa. La pace nel mondo comincia da noi: da come parliamo a chi non la pensa come noi, da come trattiamo chi è diverso, da come scegliamo di reagire alla paura e all’incertezza. Ogni volta che scegliamo di non alimentare l’odio, di non cedere alla vendetta, di costruire ponti invece di muri, stiamo già costruendo pace. Il pozzo di cui parlava Etty è ancora lì, in ognuno di noi. E dal fondo di quel pozzo può nascere la pace di cui il mondo ha disperatamente bisogno. Basta avere il coraggio di scendere a cercarlo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo In un mondo che brucia proviene da Comune-info.