L’Ecuador non è in rivolta. È in uno stato di difesa ancestrale

Pressenza - Wednesday, November 19, 2025

“Quando lo Stato reprime la vita, resistere smette di essere una protesta e diventa un imperativo”.

In Ecuador non c’è un conflitto per i sussidi. C’è lo scoppio di una storia che l’America Latina conosce a memoria. In Ecuador, le popolazioni indigene non stanno reclamando benefici. Stanno difendendo il diritto di esistere di fronte a un governo che ha deciso di militarizzare la fame, blindare l’estrattivismo e criminalizzare la memoria.

Questa non è una protesta. È un’autodifesa storica contro uno Stato che non ascolta più e che risponde alla povertà con i fucili.

Non solo Noboa, ma tutto un modello

Il presidente Daniel Noboa ha eliminato il sussidio sul diesel sapendo che avrebbe colpito prima di tutto i più poveri del Paese. Nelle zone rurali, dove la povertà raggiunge il 41% della popolazione, un litro di carburante può significare mangiare o non mangiare. Noboa non ha corretto una distorsione. Ha attuato una decisione ideologica, secondo cui la vita rurale non è indispensabile e il mercato deve decidere chi respira.

Lo ha fatto ripetendo la ricetta già applicata in Perù, Cile e Colombia. Il manuale è chiaro:

. Si aumenta il costo della sopravvivenza.
. Si invia l’esercito prima del dialogo.
. Chi resiste viene accusato di terrorismo.
. Si promette ordine per i mercati mentre si normalizza la paura.

Niente di più moderno della violenza amministrata.

Il governo crede di poter controllare la crisi con discorsi di stabilità macroeconomica e il sostegno degli organismi multilaterali. Ma l’economia che difende non misura vite, misura investimenti. È questa logica di cifre senza volti che sta nuovamente infiammando il continente.

I popoli indigeni non manifestano, si ribellano

La CONAIE (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) non ha indetto una protesta simbolica. Ha dichiarato una difesa territoriale. Sono state chiuse le strade e bloccati i passaggi logistici strategici. Non come gesto simbolico, ma come barricata. Quando i popoli indigeni agiscono, non lo fanno per ideologia, ma per sopravvivere.

La risposta del governo è stata immediata e brutale. Migliaia di poliziotti e militari schierati. Minaccia televisiva di Noboa e apertura di tutte le strade a qualsiasi costo. Come se un Paese fosse un’autostrada e non una nazione con una memoria. Come se permettere al popolo di parlare fosse un atto di debolezza.

Le cifre non sono più voci. Tre morti, centinaia di feriti e duecento arrestati. Intere comunità assediate dalle forze armate, eppure la resistenza non si è spezzata. Si è ritirata per riorganizzarsi. Questa non è una sconfitta, è una strategia.

Oggi i leader indigeni parlano dalla selva e dalla collina, collegati da radio e telefoni comunitari, ricostruendo l’unità dalla precarietà. Quello che il governo chiama “ritirata” è, in realtà, un seme di resistenza.

L’Ecuador non è solo, il continente osserva il proprio riflesso

Quello che sta succedendo in Ecuador fa parte della stessa frattura. Lo viviamo in Bolivia, in Cile e in Perù con morti che continuano a non avere giustizia. Governi che parlano di progresso mentre assediano territori ancestrali, che chiamano modernizzazione la spogliazione di fiumi, montagne, lingue e che amministrano la repressione prima della dignità.

I popoli indigeni non sono un attore sociale. Sono l’ultima frontiera tra la vita e lo spoglio. Per questo vogliono che siano smobilitati e per questo li chiamano problema. Perché se si fermano, l’Amazzonia viene liquidata, il litio viene regalato e il rame viene privatizzato per sempre. Nella logica del potere, non possono esistere, ma nella logica del pianeta, non possono scomparire.

Il silenzio internazionale fa parte dello stesso patto. I governi del nord del pianeta applaudono la “stabilità” mentre acquistano le risorse che nascono dalla violenza e le élite locali, comode nelle loro capitali. Preferiscono chiamare disordini ciò che è difesa.

Ciò che chi governa dall’alto non capisce mai

Noboa crede di poter vincere con la repressione, crede che aprire con la forza una barricata significhi spaccare una cultura, crede che sottomettere alla paura spenga la storia e commette l’errore classico di tutti i governi che vedono i popoli come una minaccia.

Non capiscono che queste lotte non sono tattiche, sono spirituali e che il corpo indigeno può cadere, ma ciò che lotta non è il corpo, è la memoria e quella non si negozia con i proiettili. I popoli possono essere impoveriti, sfollati o messi a tacere, ma non sconfitti. Perché la loro lotta non si misura nei sondaggi o nei cicli elettorali, ma in secoli di resistenza. Per questo, ogni volta che lo Stato reprime, risveglia ciò che credeva addormentato e che è la radice del popolo.

L’Ecuador non sta andando a fuoco. Si sta risvegliando

E quando un popolo si alza in piedi non per rivendicare, ma per difendere ciò che è sacro, i governi dovrebbero smettere di chiedersi come fermarlo e iniziare a porsi l’unica domanda che conta: quale legittimità ha un potere che ha bisogno dei fucili per sostenersi?

Perché se la risposta è nessuna, allora ciò che è in crisi non è l’ordine, ma il diritto dello Stato di continuare a definirsi democratico.

Oggi il Paese sembra vivere tra coprifuoco e trasmissioni televisive a rete unificate, tra discorsi di unità e gas lacrimogeni. Ma nelle comunità, dove i bambini continuano ad andare a scuola tra le barricate, c’è una certezza che nessun decreto può cancellare, e cioè che la vita non si negozia, si difende.

L’eco del continente

Quello che sta succedendo oggi in Ecuador non è un’eccezione, è un linguaggio comune nella regione. Dalle Ande alla Patagonia, i governi rispondono al malcontento con scudi e decreti, mentre i popoli tornano a parlare a partire della terra, non del potere.

La resistenza ecuadoriana non è un‘esplosione isolata, ma è un’ulteriore pagina della stessa storia che attraversa Perù, Cile e Bolivia. L’America Latina non sta bruciando, sta ricordando chi è. E quando un continente ricorda, il potere trema…

Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid.

Mauricio Herrera Kahn