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Tre aspetti del Latinamerica: Caracas, Belem, Quito
Non potevamo non tornare in Sudamerica questa settimana, dedicando al continente latino l’intera puntata. Innanzitutto cercando di dare un altro punto di vista sull’aggressione coloniale contro il Venezuela e, seguendo nel ragionamento Geraldina Colotti, un approccio così imperialista non molto tempo fa avrebbe scatenato un’indignazione globale, ci è piaciuto respirare ancora un afflato assembleare con la diretta da una Caracas che non intende farsi condizionare dalle minacce pretestuose di Trump, pur preparandosi; e poi tornando al Cop30 a distanza di una settimana – sull’ultima suggestione inviata da Geraldina –, sia in ambito istituzionale di nuovo con Alfredo Somoza (perché aveva seguito di persona già i primi incontri e ne conosce i gangli), sia soprattutto nella “Cupula dos Povos” con Renato di Nicola, abbiamo voluto raccontare l’ennesimo flop dell’appuntamento con il disastro della lotta ambientalista, accompagnando gli incontri di Belem tappa per tappa, quando abbiamo raccolto le loro testimonianze non erano ancora scaturiti improvvisi incendi e i sauditi non avevano ancora frapposto il veto dei loro pozzi di petrolio al superamento delle energie derivanti dal fossile. Ma il Latinamerica ospita innumerevoli storie centrali in quest’ultimo scorcio epocale, perché incrocio di interessi diversi tra potenze globali, e così non possiamo evitare di spingerci a Quito con Davide Matrone che ci illustra alcune conseguenze delle lotte che hanno percorso l’Ecuador negli ultimi mesi: la prima grande sconfitta di Noboa da che è riuscito a farsi eleggere come campione del latifondo e dei gringos. A fronte delle pretestuose minacce dei gringos in appoggio alla golpista loro camerata Machado, a cui hanno procurato un Nobel in grado di fungere da cavallo di Troia, la repubblica bolivariana del Venezuela predispone alcune misure di “difesa integrale”, che vedono – come in ogni aspetto della vita comunitaria dei cittadini venezuelani di una “democrazia partecipata e protagonista” – la mobilitazione dell’intero organismo sociale chiamato a prendere iniziative assemblearmente per affrontare l’aggressione dell’ingombrante vicino. Abbiamo chiesto a Geraldina Colotti di testimoniare questo sviluppo di una nazione dove il socialismo è andato al potere per via elettorale; questo è ciò che vede anche Trump, facendolo infuriare. Il capitalismo non può permettere che sopravviva un’esperienza di corresponsabilità fondata sulla Costituzione più avanzata del Sur nel patio trasero e in piena dottrina Monroe 2.0, si rischia che la propaganda satanizzante non riesca nell’intento. Geraldina va oltre le 5000 comuni e l’autorganizzazione di classe, mettendo insieme il monopolio economico con quello mediatico; facendo così un quadro nitido di come l’informazione sia una merce generata dalle agenzie occidentali e diffusa dai social e ora pure dall’AI, confondendo finzione e realtà, dove gli omicidi mirati di presunti narcos-pescatori ripresi dal satellite o dal drone che si abbatte su barche il cui carico non è distinguibile: operazioni militari feroci costate 80 vite – presumibilmente – in cui si stenta a trovare traccia di una qualunque “verità”, ammannite a merce simbolica come siamo ormai assoggettati a tutte le simbologie del capitale. Geraldina è tra le animatrici di un canale YouTube (Abrebrecha) che risponde al criterio della più militante controinformazione su imperialismo e tecniche di resistenza popolare e in questa intervista ce ne ha dato un esempio incentrato sul Venezuela, che mantiene la propria radicalità seppure sia nel mirino del trumpismo senza freni. La COP30 si sta arenando sulla questione dei combustibili fossili e la loro eliminazione futura, dimostrando l’influenza delle multinazionali del fossile sui delegati presenti a Belèm . La definizione di una tabella di marcia per la graduale eliminazione dei combustibili fossili diventa la cartina di tornasole delle divisioni trai vari delegati, è un obiettivo sostenuto da decine di paesi, soprattutto in Europa, Africa e America Latina, ma alcuni stati hanno minacciato di bloccare il documento conclusivo della conferenza se non dovesse includerla. Allo stesso tempo, un gruppo influente di stati che producono o dipendono dal petrolio e dal gas naturale sta facendo un’opposizione molto serrata, le trattative verranno probabilmente allungate al fine settimana. Fra gli obiettivi prefissati c’è quello di contenere l’aumento delle temperature sotto gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, e non superare i 2 gradi (obiettivo che, per la maggior parte degli scienziati, è attualmente lontano dall’essere raggiunto). La comunità scientifica è ampiamente concorde sul fatto che il modo migliore per farlo sia eliminare i combustibili fossili, che sono la causa principale delle emissioni inquinanti e del riscaldamento globale. Lula si è speso molto per includere la tabella di marcia sull’eliminazione dei conbustibili fossili e gli attivisti che sono stati molto presenti durante i giorni della Cop 30 considerano un fallimento la mancata definizione dei tempi per la fuoriuscita dal fossile. I movimenti che si sono riuniti nella “Cupula dos povos” hanno dovuto però fare i conti con le contraddizioni politiche e le ambiguità del governo brasiliano, da un lato l’impegno per la Cop, il sostegno alle politiche climatiche e la promozione dei diritti umani; dall’altro, il difficile compromesso con l’agenda economica che continua a fare i conti con i grandi interessi industriali e agricoli del paese. I movimenti indigeni per esempio  si trovano a fronteggiare un governo che non può fare a meno delle pressioni delle oligarchie, che si sostanzia nel sostegno a progetti di sfruttamento delle risorse naturali e petrolifere in Amazzonia. Un altra parte dei movimenti che si  riconoscono negli “atingidos” ,coloro che sono colpiti dalla crisi climatica ,definiscono la COP 30 come un grande palcoscenico per il governo e le multinazionali, marcata dalla forte presenza di lobbisti del petrolio e del settore minerario. Riflette una disputa interna alla borghesia globale: da un lato chi vuole mantenere l’economia dei combustibili fossili, dall’altro chi promuove la transizione energetica basata sull’estrazione di terre rare e sulla finanziarizzazione della natura, come il mercato del carbonio.  Ne parliamo con Renato di Nicola della campagna nazionale “Per il clima fuori dal fossile ” e del forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica. Una sconfitta sonora, per certi aspetti sorprendente. Oltre sei elettori su dieci hanno detto no al presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, confermato solo da pochi mesi alla guida del Paese, bocciando nel referendum la sua proposta di dare vita a un’Assemblea costituente. Vittoria dei “No” anche per gli altri quesiti, che chiedevano l’abrogazione della legge che vieta la costruzione di basi militari straniere e prevedevano l’eliminazione dei finanziamenti ai partiti e la riduzione del numero dei parlamentari. Nonostante la sconfitta Noboa per conto del conglomerato d’interessi dell’oligarchia che rappresenta persevererà nel suo intento di disarticolare la costituzione di Montecristi ed imporre le riforme neoliberali ,stavolta senza consultare il popolo. La crisi di legittimità, già manifestatasi con la rivolta popolare contro la legge che tagliava i sussidi al diesel ,seguita all’esito del voto referendario ha costretto Noboa ad un rimpasto di governo. Inoltre dopo essersi fatto fotografare con esponenti  dell’amministrazione Trump davanti alle basi di Manta e Soles promesse ai nordamericani è dovuto  correre a dare spiegazioni negli Stati Uniti dopo il chiaro rifiuto espresso nel referendum da parte del popolo ecuatoriano di cedere la sovranità territoriale . Le promesse mancate sulla sicurezza ,il fallimento nella lotta al narcotraffico ,l’acuirsi della crisi economica ,la pesante repressione delle proteste popolari hanno in breve tempo sgonfiato la bolla elettorale del rampollo della famiglia Noboa ,ed a poco è servita la criminalizzazione del correismo per guadagnare consenso. Ne parliamo con Davide Matrone docente  e ricercatore presso l’università di Quito.      
Ecuador: Il trionfo di un popolo che non rinuncia alla sua sovranità
Nel referendum del 16 novembre il popolo ecuadoriano ha detto NO alle quattro domande: permettere l’installazione di basi militari straniere, eliminare l’obbligo dello stato di assegnare risorse del Bilancio alle organizzazioni politiche, ridurre il numero dei parlamentari, convocare un’Assemblea Costituente per elaborare una nuova costituzione. Ibsen X Hernández Il popolo ecuadoriano ha parlato da ogni […]
L’Ecuador non è in rivolta. È in uno stato di difesa ancestrale
> “Quando lo Stato reprime la vita, resistere smette di essere una protesta e > diventa un imperativo”. In Ecuador non c’è un conflitto per i sussidi. C’è lo scoppio di una storia che l’America Latina conosce a memoria. In Ecuador, le popolazioni indigene non stanno reclamando benefici. Stanno difendendo il diritto di esistere di fronte a un governo che ha deciso di militarizzare la fame, blindare l’estrattivismo e criminalizzare la memoria. Questa non è una protesta. È un’autodifesa storica contro uno Stato che non ascolta più e che risponde alla povertà con i fucili. NON SOLO NOBOA, MA TUTTO UN MODELLO Il presidente Daniel Noboa ha eliminato il sussidio sul diesel sapendo che avrebbe colpito prima di tutto i più poveri del Paese. Nelle zone rurali, dove la povertà raggiunge il 41% della popolazione, un litro di carburante può significare mangiare o non mangiare. Noboa non ha corretto una distorsione. Ha attuato una decisione ideologica, secondo cui la vita rurale non è indispensabile e il mercato deve decidere chi respira. Lo ha fatto ripetendo la ricetta già applicata in Perù, Cile e Colombia. Il manuale è chiaro: . Si aumenta il costo della sopravvivenza. . Si invia l’esercito prima del dialogo. . Chi resiste viene accusato di terrorismo. . Si promette ordine per i mercati mentre si normalizza la paura. Niente di più moderno della violenza amministrata. Il governo crede di poter controllare la crisi con discorsi di stabilità macroeconomica e il sostegno degli organismi multilaterali. Ma l’economia che difende non misura vite, misura investimenti. È questa logica di cifre senza volti che sta nuovamente infiammando il continente. I POPOLI INDIGENI NON MANIFESTANO, SI RIBELLANO La CONAIE (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) non ha indetto una protesta simbolica. Ha dichiarato una difesa territoriale. Sono state chiuse le strade e bloccati i passaggi logistici strategici. Non come gesto simbolico, ma come barricata. Quando i popoli indigeni agiscono, non lo fanno per ideologia, ma per sopravvivere. La risposta del governo è stata immediata e brutale. Migliaia di poliziotti e militari schierati. Minaccia televisiva di Noboa e apertura di tutte le strade a qualsiasi costo. Come se un Paese fosse un’autostrada e non una nazione con una memoria. Come se permettere al popolo di parlare fosse un atto di debolezza. Le cifre non sono più voci. Tre morti, centinaia di feriti e duecento arrestati. Intere comunità assediate dalle forze armate, eppure la resistenza non si è spezzata. Si è ritirata per riorganizzarsi. Questa non è una sconfitta, è una strategia. Oggi i leader indigeni parlano dalla selva e dalla collina, collegati da radio e telefoni comunitari, ricostruendo l’unità dalla precarietà. Quello che il governo chiama “ritirata” è, in realtà, un seme di resistenza. L’ECUADOR NON È SOLO, IL CONTINENTE OSSERVA IL PROPRIO RIFLESSO Quello che sta succedendo in Ecuador fa parte della stessa frattura. Lo viviamo in Bolivia, in Cile e in Perù con morti che continuano a non avere giustizia. Governi che parlano di progresso mentre assediano territori ancestrali, che chiamano modernizzazione la spogliazione di fiumi, montagne, lingue e che amministrano la repressione prima della dignità. I popoli indigeni non sono un attore sociale. Sono l’ultima frontiera tra la vita e lo spoglio. Per questo vogliono che siano smobilitati e per questo li chiamano problema. Perché se si fermano, l’Amazzonia viene liquidata, il litio viene regalato e il rame viene privatizzato per sempre. Nella logica del potere, non possono esistere, ma nella logica del pianeta, non possono scomparire. Il silenzio internazionale fa parte dello stesso patto. I governi del nord del pianeta applaudono la “stabilità” mentre acquistano le risorse che nascono dalla violenza e le élite locali, comode nelle loro capitali. Preferiscono chiamare disordini ciò che è difesa. CIÒ CHE CHI GOVERNA DALL’ALTO NON CAPISCE MAI Noboa crede di poter vincere con la repressione, crede che aprire con la forza una barricata significhi spaccare una cultura, crede che sottomettere alla paura spenga la storia e commette l’errore classico di tutti i governi che vedono i popoli come una minaccia. Non capiscono che queste lotte non sono tattiche, sono spirituali e che il corpo indigeno può cadere, ma ciò che lotta non è il corpo, è la memoria e quella non si negozia con i proiettili. I popoli possono essere impoveriti, sfollati o messi a tacere, ma non sconfitti. Perché la loro lotta non si misura nei sondaggi o nei cicli elettorali, ma in secoli di resistenza. Per questo, ogni volta che lo Stato reprime, risveglia ciò che credeva addormentato e che è la radice del popolo. L’ECUADOR NON STA ANDANDO A FUOCO. SI STA RISVEGLIANDO E quando un popolo si alza in piedi non per rivendicare, ma per difendere ciò che è sacro, i governi dovrebbero smettere di chiedersi come fermarlo e iniziare a porsi l’unica domanda che conta: quale legittimità ha un potere che ha bisogno dei fucili per sostenersi? Perché se la risposta è nessuna, allora ciò che è in crisi non è l’ordine, ma il diritto dello Stato di continuare a definirsi democratico. Oggi il Paese sembra vivere tra coprifuoco e trasmissioni televisive a rete unificate, tra discorsi di unità e gas lacrimogeni. Ma nelle comunità, dove i bambini continuano ad andare a scuola tra le barricate, c’è una certezza che nessun decreto può cancellare, e cioè che la vita non si negozia, si difende. L’ECO DEL CONTINENTE Quello che sta succedendo oggi in Ecuador non è un’eccezione, è un linguaggio comune nella regione. Dalle Ande alla Patagonia, i governi rispondono al malcontento con scudi e decreti, mentre i popoli tornano a parlare a partire della terra, non del potere. La resistenza ecuadoriana non è un‘esplosione isolata, ma è un’ulteriore pagina della stessa storia che attraversa Perù, Cile e Bolivia. L’America Latina non sta bruciando, sta ricordando chi è. E quando un continente ricorda, il potere trema… -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mauricio Herrera Kahn
ECUADOR: il NO al referendum e l’impatto sulle politiche neoliberiste di NOBOA@0
Domenica scorsa oltre 13 milioni di ecuadoriani si sono recati alle urne per esprimersi su tre domande referendarie ed una di carattere consultiva. La vittoria schiacciante del NO può ritenersi sorprendete, se si considerano i successi elettorali del presidente Noboa degli ultimi anni. Le proposte di riforma costituzionale miravano * ad eliminare il divieto di installare basi militari straniere sul territorio ecuadoriano (sancito oggi nell’articolo 5 della Costituzione del 2008), * impedire l’accesso ai fondi pubblici per i partiti politici (articoli 108 e 115) * ridurre il numero di deputati (fissato nell’articolo 118). * Il quesito consultivo, infine, chiedeva all’elettorato ecuadoriano di esprimersi sulla convocazione di un’assemblea Costituente allo scopo di redigere una nuova Carta Costituzionale per l’Ecuador. l’intento di Noboa e dell’attuale classe politica con questo quesito era quello di riscrivere una Carta costituzionale con una chiara matrice neoliberista e rivolta alle privatizzazioni. Il referendum arriva in un momento di forti tensioni in America Latina, legate sia alla presenza di navi da guerra statunitensi nel mar dei Caraibi e nell’oceano Pacifico, contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti, sia a seguito di 30 giorni di sciopero generale contro la sospensione del sussidio sul diesel in vigore dal 1974, misura che ha fatto impennare il prezzo del carburante da 1,80 a 2,80 dollari al gallone e ha innescato un focolaio di conflitto sociale dalle grandi città alle province rurali. Abbiamo posto alcune domande a Davide Matrone , docente e ricercatore di analisi politica all’Università Politecnica Salesiana di Quito, capitale dell’Ecuador, che ci ha risposto attraverso un’intervista audio divisa punto per punto. Possiamo considerare questo referendum come un banco di prova per le riforme neoliberali e soprattutto per i rapporti con gli USA, che segna una battuta d’arresto ai successi elettorali di Noboa del 2023 e 2025? Quanto possiamo considerare che abbiano impattato le proteste contro l’abolizione del sussidio sul diesel che hanno portato allo sciopero generale? Possiamo considerare lo sciopero generale come un’occasione per “compattare” un fronte ampio di opposizione democratica oppure il paese è attraversato da una radicalizzazione di soggettività oppresse che determina un’allontanamento dalle logiche democratiche verso un orizzonte più rivoluzionario?
ECUADOR: il NO al referendum e l’impatto sulle politiche neoliberiste di NOBOA@1
Domenica scorsa oltre 13 milioni di ecuadoriani si sono recati alle urne per esprimersi su tre domande referendarie ed una di carattere consultiva. La vittoria schiacciante del NO può ritenersi sorprendete, se si considerano i successi elettorali del presidente Noboa degli ultimi anni. Le proposte di riforma costituzionale miravano * ad eliminare il divieto di installare basi militari straniere sul territorio ecuadoriano (sancito oggi nell’articolo 5 della Costituzione del 2008), * impedire l’accesso ai fondi pubblici per i partiti politici (articoli 108 e 115) * ridurre il numero di deputati (fissato nell’articolo 118). * Il quesito consultivo, infine, chiedeva all’elettorato ecuadoriano di esprimersi sulla convocazione di un’assemblea Costituente allo scopo di redigere una nuova Carta Costituzionale per l’Ecuador. l’intento di Noboa e dell’attuale classe politica con questo quesito era quello di riscrivere una Carta costituzionale con una chiara matrice neoliberista e rivolta alle privatizzazioni. Il referendum arriva in un momento di forti tensioni in America Latina, legate sia alla presenza di navi da guerra statunitensi nel mar dei Caraibi e nell’oceano Pacifico, contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti, sia a seguito di 30 giorni di sciopero generale contro la sospensione del sussidio sul diesel in vigore dal 1974, misura che ha fatto impennare il prezzo del carburante da 1,80 a 2,80 dollari al gallone e ha innescato un focolaio di conflitto sociale dalle grandi città alle province rurali. Abbiamo posto alcune domande a Davide Matrone , docente e ricercatore di analisi politica all’Università Politecnica Salesiana di Quito, capitale dell’Ecuador, che ci ha risposto attraverso un’intervista audio divisa punto per punto. Possiamo considerare questo referendum come un banco di prova per le riforme neoliberali e soprattutto per i rapporti con gli USA, che segna una battuta d’arresto ai successi elettorali di Noboa del 2023 e 2025? Quanto possiamo considerare che abbiano impattato le proteste contro l’abolizione del sussidio sul diesel che hanno portato allo sciopero generale? Possiamo considerare lo sciopero generale come un’occasione per “compattare” un fronte ampio di opposizione democratica oppure il paese è attraversato da una radicalizzazione di soggettività oppresse che determina un’allontanamento dalle logiche democratiche verso un orizzonte più rivoluzionario?
ECUADOR: il NO al referendum e l’impatto sulle politiche neoliberiste di NOBOA@2
Domenica scorsa oltre 13 milioni di ecuadoriani si sono recati alle urne per esprimersi su tre domande referendarie ed una di carattere consultiva. La vittoria schiacciante del NO può ritenersi sorprendete, se si considerano i successi elettorali del presidente Noboa degli ultimi anni. Le proposte di riforma costituzionale miravano * ad eliminare il divieto di installare basi militari straniere sul territorio ecuadoriano (sancito oggi nell’articolo 5 della Costituzione del 2008), * impedire l’accesso ai fondi pubblici per i partiti politici (articoli 108 e 115) * ridurre il numero di deputati (fissato nell’articolo 118). * Il quesito consultivo, infine, chiedeva all’elettorato ecuadoriano di esprimersi sulla convocazione di un’assemblea Costituente allo scopo di redigere una nuova Carta Costituzionale per l’Ecuador. l’intento di Noboa e dell’attuale classe politica con questo quesito era quello di riscrivere una Carta costituzionale con una chiara matrice neoliberista e rivolta alle privatizzazioni. Il referendum arriva in un momento di forti tensioni in America Latina, legate sia alla presenza di navi da guerra statunitensi nel mar dei Caraibi e nell’oceano Pacifico, contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti, sia a seguito di 30 giorni di sciopero generale contro la sospensione del sussidio sul diesel in vigore dal 1974, misura che ha fatto impennare il prezzo del carburante da 1,80 a 2,80 dollari al gallone e ha innescato un focolaio di conflitto sociale dalle grandi città alle province rurali. Abbiamo posto alcune domande a Davide Matrone , docente e ricercatore di analisi politica all’Università Politecnica Salesiana di Quito, capitale dell’Ecuador, che ci ha risposto attraverso un’intervista audio divisa punto per punto. Possiamo considerare questo referendum come un banco di prova per le riforme neoliberali e soprattutto per i rapporti con gli USA, che segna una battuta d’arresto ai successi elettorali di Noboa del 2023 e 2025? Quanto possiamo considerare che abbiano impattato le proteste contro l’abolizione del sussidio sul diesel che hanno portato allo sciopero generale? Possiamo considerare lo sciopero generale come un’occasione per “compattare” un fronte ampio di opposizione democratica oppure il paese è attraversato da una radicalizzazione di soggettività oppresse che determina un’allontanamento dalle logiche democratiche verso un orizzonte più rivoluzionario?
Che succede in Perù ed Ecuador?
In comunicazione telefonica con Lizete, del Collettivo Blocco Decoloniale, abbiamo parlato della serata di giovedì 20 novembre al CSOA Strike per sapere che succede in Perù ed Ecuador e sensibilizzare sulla situazione di repressione che si vive in Sudamerica.
Referendum in Ecuador, popolo dice NO alla modifica della Costituzione volta ad introdurre basi militari USA
Domenica scorsa, 16 novembre, in Ecuador si è tenuto un referendum in cui i cittadini erano chiamati a votare su quattro quesiti: proibizione delle basi straniere, riduzione del numero dei parlamentari, abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti e sulla possibilità di convocare un’Assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. La popolazione ha votato contro le proposte referendarie. Con circa il 95% delle schede scrutinate, il “no” ha prevalso in tutti e quattro i quesiti. In particolare, la proposta di convocare un’Assemblea costituente è stata respinta da oltre il 60% degli elettori, mentre quella sul ritorno di basi militari straniere USA ha visto più dei due terzi dei votanti contrari. Il risultato frena il tentativo di superare l’architettura istituzionale dell’era di Rafael Correa. Il «no» rappresenta un duro colpo per il presidente conservatore Daniel Noboa, che aveva legato il referendum alla propria figura politica. Noboa ha fatto una grande campagna per cancellare il divieto di ospitare sul territorio nazionale basi militari di paesi stranieri: per farlo sarebbe stato necessario modificare la Costituzione in vigore dal 2008, in cui era stato introdotto il divieto. Quest’ultimo punto avrebbe consentito a Noboa, vicino alle posizioni del presidente statunitense Donald Trump, di imprimere un orientamento più neoliberista allo Stato, rompendo con le politiche sociali dei governi progressisti di Rafael Correa. Ma anche questa proposta è stata bocciata, insieme alle riforme su Parlamento e partiti. Noboa, che è presidente dell’Ecuador dal 2023 e fa parte del partito Azione Democratica Nazionale, è un alleato del presidente Donald Trump e l’obiettivo del referendum era aumentare la collaborazione in materia di difesa con gli Stati Uniti. Non a caso negli scorsi mesi il governo ecuadoriano aveva espresso l’interesse per l’apertura di una base statunitense, e a marzo Noboa e Trump si erano incontrati per discuterne. Il nodo politicamente più delicato riguardava la possibilità di autorizzare nuovamente la presenza militare Usa nelle basi di Manta e Salinas, un tempo fulcro delle operazioni antidroga di Washington. Secondo Noboa, la presenza di forze militari straniere – cioè di militari americani – avrebbe aiutato a contrastare le bande criminali locali e a ridurre la crescente violenza tra la popolazione. In Ecuador sono attive molte bande criminali che commerciano e smistano droghe illegali, tra cui la cocaina, che viene prodotta soprattutto in Colombia e Perù, due paesi confinanti. Secondo Noboa, circa il 70%  della cocaina prodotta al mondo passa per l’Ecuador. I risultati dei referendum in Ecuador, diffusi ieri, mostrano che domenica scorsa gli elettori ecuadoriani hanno respinto il ritorno delle basi militari straniere nel Paese, vietate dal 2008. Il presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, ha riconosciuto la sconfitta nel referendum da lui promosso, in cui l’elettorato era chiamato a esprimersi anche sul ritorno di basi militari statunitensi e sull’avvio di un processo costituente. In un messaggio sui social ha affermato di rispettare “la volontà del popolo ecuadoriano”, assicurando che, nonostante la bocciatura, il suo “impegno con il Paese si rafforza”. La sconfitta pesa sull’agenda di Noboa, che ha legato parte della sua strategia di sicurezza alla cooperazione con gli Stati Uniti, in un contesto segnato anche dai recenti raid ordinati dalla Casa Bianca contro presunte imbarcazioni di narcotrafficanti nei Caraibi e nel Pacifico. Dal governo non è arrivata ancora alcuna indicazione sul futuro degli accordi preliminari già siglati con Washington, dopo la visita nel Paese della segretaria alla Sicurezza nazionale Usa, Kristi Noem. Per Noboa si tratta della prima significativa battuta d’arresto dalla sua elezione nel 2023 e dalla riconferma in aprile.   Ulteriori informazioni: https://ilmanifesto.it/referendum-in-ecuador-no-alle-basi-militari https://www.ilpost.it/2025/11/17/ecuador-referendum-basi-militari-straniere/ https://www.swissinfo.ch/ita/l%27ecuador-al-referendum-dice-no-al-ritorno-delle-basi-usa/90347687 Lorenzo Poli
Non passano i referendum in Ecuador: una sconfitta per Noboa… e per Trump
In Ecuador sono naufragati i quattro quesiti referendari che il presidente Daniel Noboa aveva proposto. Votazioni su quesiti che avevano una doppia natura reazionaria: da una parte avrebbero permesso di riscrivere le regole del gioco democratico del paese, dall’altro avrebbero aperto le porte alla presenza militare statunitense. Noboa, con la […] L'articolo Non passano i referendum in Ecuador: una sconfitta per Noboa… e per Trump su Contropiano.
Referendum in Ecuador: un NO categorico al governo di Noboa
Con il 60% dei voti a favore del NO, secondo i dati più recenti del Consiglio Nazionale Elettorale, il popolo ecuadoriano ha respinto le proposte che il governo di Daniel Noboa aveva sottoposto a consultazione popolare e referendum. Nella scheda elettorale sono state poste quattro domande chiave con profonde implicazioni costituzionali: i cittadini dovevano pronunciarsi sull’installazione di basi militari straniere in Ecuador, l’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti politici, la riduzione del numero dei membri dell’Assemblea e la convocazione di un’Assemblea costituente per redigere una nuova Costituzione. Gli ultimi risultati ufficiali hanno indicato una chiara vittoria del “No” su tutte e quattro le domande. Con oltre il 60% delle schede scrutinate, il 60,21% ha rifiutato di consentire l’installazione di basi militari straniere, mentre la convocazione di un’Assemblea costituente ha ottenuto il 61% di voti contrari. Diversi settori sociali – movimenti indigeni, sindacali, ambientalisti e di sinistra – hanno accolto con sollievo e soddisfazione i risultati del 16 novembre. Organizzazioni come la CONAIE hanno guidato la campagna per il “No”, sostenendo che le riforme proposte da Noboa, in particolare la convocazione di un’Assemblea costituente e l’apertura alle basi militari straniere, mettevano a rischio la sovranità nazionale e i diritti delle comunità. Anche sindacati come il Fronte Unitario dei Lavoratori (FUT) e l’Unione Nazionale degli Educatori (UNE) si sono mobilitati nelle settimane precedenti, denunciando che le riforme costituzionali avrebbero potuto minare i diritti sociali e quelli del lavoro. I leader della sinistra, come quelli del Partito Socialista dell’Ecuador, interpretano la sconfitta delle proposte come un “richiamo all’ordine” per l’esecutivo, sottolineando che il governo è stato troppo autoritario e ha trascurato questioni cruciali come l’istruzione, la sanità e la sicurezza. La schiacciante vittoria del “No” evidenzia il lavoro organizzativo nei territori urbani e rurali, che hanno lavorato a una campagna di base che ha coinvolto i settori più diversi della popolazione. Si tratta, ovviamente, di una grave battuta d’arresto per il presidente Daniel Noboa, che perde la capacità di portare avanti il suo programma di riforme strutturali. Gli analisti ritengono che il suo impulso a riscrivere la Costituzione e a ridurre i meccanismi di controllo sia stato chiaramente respinto, il che indebolisce immediatamente la sua tabella di marcia. Inoltre, questo risultato potrebbe rafforzare l’opposizione politica e sociale, poiché dimostra che una parte importante dell’elettorato non appoggia la sua strategia di cooperazione militare internazionale né i suoi piani di concentrazione del potere. D’altra parte, Noboa ha affermato che rispetterà la volontà popolare e continuerà a lavorare “con gli strumenti a sua disposizione”, il che implica un possibile riorientamento politico verso riforme più moderate o negoziate. Il popolo ecuadoriano, duramente represso durante l’ultimo sciopero, ha espresso la sua volontà alle urne. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo   Redacción Ecuador