Ancora Taranto. Per un programma di ecologia popolare e partecipataStretti in una morsa, forza, diamo fine a questa farsa
Forse ci meritiamo una fine diversa
Kid Yugi, Fido Guido, Ilva (Fume scure rmx)
La storia di quello che è successo il 28 luglio 2025 – e sta seguendo in questi
giorni – merita di essere raccontata con la dignità politica che le corrisponde,
e merita di essere inserita nell’archivio di resistenza della comunità
tarantina. È stata una grande giornata di lotta, e di questo bisogna prendersi i
meriti. Nonostante i principali giornali locali e nazionali abbiano ridotto
l’evento a un caso di “tensione” e “minacce” verso il sindaco, ignorando le
ragioni profonde della contestazione, la realtà è che quella piazza ha
rappresentato un rifiuto deciso della violenza strutturale conservata dalle
istituzioni.
Ancora una volta, la stampa di stato ha dimostrato la sua incapacità nel pensare
il conflitto politico: questo non si dà esclusivamente nelle forme e nei costumi
dettati dalla classe politica dirigente, cosa che lo ridurrebbe alla difficile
digestione di un boccone amaro. Mobilitazione significa frizione, e dobbiamo
tornare a riconoscerlo. Normalizziamo genocidio, razzismo, sessismo, classismo e
chiamiamo “violenta” la forza che libera da queste catene. Accettiamo come
neutrale l’esercizio delle funzioni istituzionali, mentre ignoriamo che la
violenza può essere distillata lentamente, firma dopo firma, come l’inquinamento
che ci ammala poco a poco.
> Quella giornata – e quella piazza – vanno ricordate perché testimoniano la
> forza di una comunità capace di unirsi sotto una stessa lotta: quella della
> liberazione dalla condanna ad una morte prematura, contro la subalternità
> politica per l’autoderminazione del proprio futuro. Liberazione e
> autodeterminazione: la Palestina ci insegna e ci mostra la via.
La piazza del 28 luglio non era solo un “no” all’ex-Ilva. C’erano i comitati per
il fiume Tara, minacciato dal dissalatore; l3 cittadin3 di Paolo VI contro la
nuova discarica e quell3 di Statte contro la precedente; le mamme e i genitori
del quartiere Tamburi contro l’avvelenamento e l’abbandono; l3 emigrat3 tornati
a casa per sostenere la lotta; le collettive femministe e queer a rivendicare
l’autodeterminazione sui propri corpi e sul proprio territorio, oltre il ricatto
salute-lavoro.
Mamme, bambin3, operai, casalinghe, disoccupati, persone queer, giovani e
anziane, ammalat3, “disabil3”, “pazz3”: una comunità che resiste, oltre le
frontiere fisiche e immaginarie, perché la questione Taranto non è
esclusivamente operaia, non è esclusivamente climatica. Taranto fa scuola perché
il problema è complesso, e la resistenza è instancabile, di generazione in
generazione. Tramandiamo questa storia di lotta, non lasciamo che trovi posto
nell’androne di una scala, raccontata di fretta, per passaparola. Celebriamola.
ANNI ’60-’20: UNA STORIA DI LOTTA E DI RESISTENZA
È ormai noto che la fabbrica, costruita negli anni ’60 a seguito dell’espianto
di centinaia di ulivi, abbia inquinato, ammalato e ucciso l’ecosistema e la
società tarantina. Dopo le crisi dell’acciaio degli anni ’70-’80, negli anni ’90
viene venduta alla famiglia Riva: così si inaugura non solo un periodo di
aggravamento dell’inquinamento, ma in generale delle condizioni di morte
prematura dell’ecosistema tarantino.
È stato inquinato il suolo, l’aria, gli alimenti, gli animali, e le persone, con
danni sulla salute dell’ecosistema e dei quartieri: l’aumento di malattie,
tumori ha significato un aumento e un peggioramento delle condizioni del lavoro
di cura non retribuito di donne, madri, badanti, figli e famiglie che hanno
preso in carico questa situazione a fronte dell’assenza di adeguate
infrastrutture sanitarie. Non solo, con la privatizzazione Riva, è stata
legittimata la stagione della pesante repressione del dissenso operaio, del
mobbing, dell’interruzione degli scioperi e della creazione di quelli falsi,
della complicità dei sindacati confederati, dell’insabbiamento delle morti sul
lavoro. La comunità tarantina non si è mai arresa, e ha dimostrato
un’incredibile capacità di resistenza.
È del 2012 la storica sentenza della magistratura per il sequestro di sei
impianti della fabbrica: la proprietà dei Riva viene imputata di disastro
ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, e omissione dolosa di cautele
sui luoghi di lavoro. Per questo, i Riva vengono condannati, e la gestione della
fabbrica finisce prima allo stato – per amministrazione straordinaria – e poi
torna ai privati, questa volta partener internazionali (la società
franco-indiana ArcelorMittal). Del 2022, invece, è la dichiarazione ONU di
Taranto come zona di sacrificio dei diritti umani.
Nonostante ciò, la fabbrica continuerà a produrre – sotto sequestro con facoltà
d’uso – grazie ad una gestione emergenziale del suo regime produttivo: 18
decreti cosiddetti “salva ILVA” saranno votati dalle maggioranze di qualsiasi
colore, del cui l’ultimo è del 9 giugno 2025. Questa gestione emergenziale
dell’economia e dei problemi sociali è tipica della storia dei nostri territori
meridionali e insulari, integrati a forza dentro un regime produttivo
capitalistico e coloniale proprio grazie a soluzioni eccezionali calate
dall’alto.
2025: L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, I REQUISITI PER LA VENDITA
La nostra storia comincia nel febbraio 2025, quando la fabbrica torna in
amministrazione straordinaria da parte dello stato. Come mai? A seguito
dell’insostenibilità finanziaria della produzione di acciaio – il regime
produttivo della fabbrica è infatti calato con solo 1 altoforno su 5 in attività
– lo stato ha iniziato a cercare un nuovo partner commerciale internazionale che
possa acquistare la fabbrica. Le trattative al momento sono con l’azienda azera
Baku Steel, ma la fabbrica ha diversi problemi: l’inquinamento è il primo, ma
anche l’obsolescenza degli altoforni, e i conseguenti costi di messa a norma che
l’acquirente dovrà sostenere; la quantità di lavoratori (8.000) decisamente in
esubero rispetto alle esigenze produttive, il che significherà licenziamenti e
conflitti interni; la restituzione del credito promesso ai lavoratori
dell’indotto a causa dell’amministrazione straordinaria.
Ma il problema più consistente è quello relativo alle autorizzazioni di
produzione, nello specifico l’Autorizzazione Integrata Ambientale, che autorizza
il funzionamento degli impianti industriali. A Taranto è scaduta nel 2023, ma la
fabbrica ha continuato a produrre indisturbata sino al 2025, quando – qualche
giorno fa – è stata rinnovata. Ad annunciarlo è stato il Ministro Urso nella
sede della CISL.Tuttavia, l’AIA approvata non recepisce quanto stabilito dalla
Corte di Giustizia UE in fase di consultazione da parte del tribunale di Milano,
a cui si erano rivolti alcuni genitori tarantini: ossia che non si può
autorizzare un impianto potenzialmente dannoso per la salute senza una
preventiva valutazione del danno sanitario, che non si possono omettere sostanze
dalla valutazione delle emissioni ambientali, e che non è lecito differire
l’adeguamento dell’AIA.
L’AIA emessa impone di presentare in sede di riesame da parte dell’acquirente
una valutazione di impatto sanitario basata su danni inerenti ai cicli
produttivi successivi, e non precedenti: in altre parole, su dati presunti e non
reali. Che libertà stiamo lasciando al futuro gestore della fabbrica? A quali
condizioni si continuerà a produrre?
LA “DECARBONIZZAZIONE”: IL GAS, L’ENERGIA, LA COLONIALITÀ
Qui si apre un capitolo che riguarda non solo il rispetto della salute ecologica
ma anche il piano energetico di produzione: la cosiddetta “decarbonizzazione”,
ossia la transizione ad un modello produttivo sostenibile. Un discorso non
semplice, ma non dobbiamo lasciarci intimorire; la responsabilità di una
adeguata formazione climatica non ricade solo sulle nostre spalle, ma
soprattutto su quelle di chi ha il potere di fornircela e non lo fa.
> Dobbiamo smontare l’idea di una tecnicità della scienza climatica e chiedere
> saperi popolari ecologisti: uno dei limiti del movimento ambientalista bianco,
> in Europa e negli USA – e quindi una delle sue debolezze – è stata la sua
> ricerca di legittimità attraverso il costante riferimento alla scienza
> accademica e liberale.
Ciò ha significato classismo, esclusione e infantilizzazione di coloro che non
avessero il privilegio di accedere alle stesse risorse formative, nonché
svalutazione dei saperi popolari . Affrontiamo quindi il problema della
decarbonizzazione con scrupolosità.
La proposta del presidente della Regione Puglia, Emiliano, e del suo partito, il
PD, avvallata dai sindacati confederati – CGIL, CISL, UIL, storicamente collusi
con il progetto di una fabbrica inquinante – è quella di decarbonizzare
l’impianto. Questo significa una trasformazione della qualità energetica delle
fonti produttive, ossia di passare dal carbone al gas, e dal gas all’elettrico.
In altre parole, la fabbrica, dichiarata di interesse strategico per la nazione,
non può essere semplicemente chiusa: le sue fonti vanno trasformate in fonti
elettriche, passando per il gas. I problemi però sono tanti, e non di natura
leggera. Il primo è che i tempi sono molto lunghi per arrivare all’elettrico. Il
secondo, è che un processo chiamato “decarbonizzazione” che preveda un ritorno
ad un regime produttivo maggiore dell’attuale, con la riapertura degli
altiforni, e che si basi proprio sul carbone, è una contraddizione in termini, o
meglio una forma di greenwashing, cioè di presa per il culo.
Il terzo è che il gas non è affatto una fonte energetica migliore del carbone, e
ha effetti inquinanti analoghi.Inoltre, attingere al gas significherebbe o
ricorrere al TAP – storico sito di contestazione pugliese – e potenziare il
gasdotto, ma questo richiederebbe troppo tempo; oppure far arrivare una nave
rigassificatrice nel porto di Taranto, ma ciò contrasta – secondo il sindaco di
Taranto – con la “vocazione turistica e commerciale del porto di Taranto”. Una
impasse bella e buona. Ma anche se fosse possibile far arrivare il gas a
Taranto, da dove proverrebbe questo gas? La cosa che possiamo sperare è che non
venga dai progetti di approvvigionamento del gas che il governo Meloni ha messo
in piedi con il Piano Mattei: uno di questi, il cosiddetto Corridoio Sud
dell’Idrogeno, un gasdotto lungo 3.300km, dovrebbe portare il gas prodotto in
Tunisia verso l’Italia sino alla Germania.
Se il gas che arriva a Taranto dovesse arrivare grazie ad uno di questi progetti
la produzione tarantina diverrebbe complice di un flusso di beni di natura
estrattiva e neocoloniale, di cui SNAM, principale promotrice del piano, sarebbe
pienamente responsabile. D’altronde, né il governo italiano né ENI sembrano
prendere sul serio le proprie responsabilità coloniali, continuando in pieno
genocidio palestinese con l’esplorazione di giacimenti di gas nelle acque
gazawi, e stringendo accordi con Ithaca Energy, società inglese partecipata
all’89% – e quindi, di fatto, di proprietà – dalla israeliana Delek Group,
denunciata dall’ONU per le operazioni nei Territori Occupati palestinesi e ora
complice del genocidio. Rimane quindi in gioco la questione di come effettuare
questa transizione senza macchiarsi le mani di sangue.
VERSO UN COINVOLGIMENTO ECOLOGISTA POPOLARE
Torniamo così al nostro 28 luglio. Il 28 luglio 2025 la comunità tarantina si
riunisce sotto il palazzo del Comune. Il motivo è un confronto tra
l’amministrazione comunale e i movimenti, le associazioni, l3 cittadin3 in
generale rispetto al cosiddetto accordo di programma, ossia il documento che
disegna il programma della transizione energetica dell’ex-Ilva. L’accordo deve
essere firmato da governo, regione, comune, e sindacati. Pensata per ascoltare
l3 cittadin3 prima dell’incontro ufficiale con le istituzioni del 31 luglio –
ora rinviato al 12 agosto – quella giornata è diventata marea: da anni chiediamo
la chiusura degli altiforni, la bonifica dei terreni contaminati, e la fine di
modelli produttivi nocivi. Come avremmo potuto reagire, dopo anni di
indifferenza, ad un’occasione di confronto? E non è nemmeno successo nulla, solo
qualche lucculo (grida, nda).
Se le istituzioni si chiedono come si sfiata una pentola a pressione, la
risposta è semplice: rimuovendo la pressione. Quello che ci serve è la
proliferazione di spazi democratici reali di confronto, che le istituzioni
aprano realmente tavoli di trattativa con i movimenti e le associazioni, e non
scappino dalle responsabilità politiche.
> Serve un coinvolgimento della cittadinanza permanente: tavoli, assemblee,
> audizioni, che costruiscano collettivamente un immaginario e un piano di
> trasformazione non solo produttiva e climatica, ma ecologica, complessiva,
> mettendo in primo piano i bisogni realmente espressi dalle persone.
Non più solo verità e giustizia, ma alternativa: al ricatto salute-lavoro, alla
produzione inquinante, al lavoro di cura invisibilizzato, alla complicità con il
sistema coloniale, alla subalternità politica. Un’alternativa capace di riparare
al danno commesso in decenni di sacrificio, all’altezza della dignità politica
di una lotta che continua a resistere. Un piano di trasformazione popolare,
sociale, che cambi completamente i rapporti di produzione e di riproduzione con
il territorio. Il cuore ora ci batte a mille, lasciamo che si alzi ancora nel
cielo il coro più minaccioso di quella giornata di luglio: “Vogliamo vivere”.
L’immagine di copertina è di Le Benevole (flickr)
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