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Caos Eurovision: l’ok a Israele porta al ritiro di quattro Paesi
L’EBU approva la partecipazione di Israele all’Eurovision 2026. In risposta si ritirano 4 Paesi e il numero potrebbe aumentare. L’Eurovision Song Contest 2026 in questi mesi aveva mano a mano assunto le sembianze di una polveriera. L’EBU (European Broadcasting Union), con la sua assemblea generale di giovedì 4 dicembre ha acceso la miccia, facendo saltare tutto in aria. Con l’approvazione delle modifiche al regolamento, è stata ufficialmente autorizzata la partecipazione di Israele alla prossima edizione, che si terrà a Vienna (Austria) dal 12 al 16 maggio. Immediata è stata la reazione dei Paesi che da tempo chiedevano l’esclusione di Israele, in risposta al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza. Spagna, Paesi Bassi, Irlanda e Slovenia hanno già annunciato il boicottaggio della prossima edizione, mentre la prossima settimana potrebbero arrivare i ritiri anche di Belgio e Islanda. La Finlandia valuterà ulteriormente la situazione, mentre il Portogallo ha detto che si presenterà a Vienna. Questo è solo il primo scoppio di un disastro annunciato fin dal termine dell’edizione 2025, dove Israele non solo è stato al centro delle attenzioni per i fatti della Striscia di Gaza, ma anche per il controverso exploit al televoto della sua rappresentante Yuval Raphael, che ha così sfiorato un clamoroso trionfo. Sotto la lente di ingrandimento degli osservatori e degli appassionati è finito il primo posto al televoto, gonfiato grazie alle campagne promozionali multi-piattaforma ideate e promosse da agenzie governative israeliane, come evidenziato successivamente da Eurovision News – Spotlight. Subito dopo la finale dello scorso maggio i sopraccigli si erano alzati proprio in quei Paesi che oggi hanno annunciato il ritiro dalla prossima edizione. L’EBU ha mostrato tuttavia mancanza di nervo nella gestione della situazione, schiacciata dalle pressioni politiche. Ha dapprima annunciato una votazione a novembre (con quorum abbassato dal 75% al 50% più uno) per decidere sulla partecipazione o meno di Israele, per poi ritrattare e fissare una riunione dedicata. La questione è stata, infine, spostata all’Assemblea Generale dell’EBU, in cui si sarebbe votato non per l’esclusione o meno del Paese, ma per delle modifiche al regolamento. Il nuovo regolamento dell’Eurovision 2026 L’EBU già a novembre aveva annunciato novità, con l’obiettivo di «fornire tutele più solide e aumentare il coinvolgimento», come dichiarato dal Direttore dell’evento Martin Green. Tra le righe queste modifiche cercavano di garantire la partecipazione di Israele e rassicurare i Paesi più critici come Spagna, Paesi Bassi e Irlanda, in un complesso tentativo di mediazione. Tentativo naufragato sul nascere, vista l’immediata reazione del broadcast spagnolo RTVE che – come riportato da EurofestivalNews – ha definito “insufficienti” i cambiamenti. Si è arrivati così al 4 dicembre, quando la stessa RTVE assieme ad altre sette emittenti ha chiesto ugualmente il voto a scrutinio segreto sull’esclusione – anche solo provvisoria per un anno – di Israele. La richiesta è stata rigettata perché – dal punto di vista dell’EBU – l’approvazione del regolamento stabiliva nuove garanzie per la partecipazione di tutti i Paesi all’evento. Con 738 voti a favore, 264 contrari e 120 astenuti l’EBU ha reintrodotto le giurie tecniche nazionali nelle semifinali, aumentando il numero dei loro componenti da 5 a 7; ridotto il numero massimo di voti per utente da 20 a 10; modificato le Istruzioni di Voto e il Codice di Condotta del concorso per impedire campagne promozionali di terze parti e una revisione dei sistemi tecnici di sicurezza. Le reazioni e gli scenari possibili Subito dopo l’esito del voto sono usciti i primi comunicati stampa, tra cui quello durissimo dell’emittente olandese AVROTROS: “La partecipazione [all’Eurovision nda] non è conciliabile con i valori pubblici fondamentali per la nostra organizzazione. […] AVROTROS ha rilevato che la crisi umanitaria a Gaza, le restrizioni alla libertà di stampa e l’interferenza politica che hanno caratterizzato l’ultima edizione dell’Eurovision Song Contest erano incompatibili con i valori che rappresentiamo. In tale contesto, ha concluso che la partecipazione dell’emittente israeliana KAN quest’anno non poteva più essere in linea con le nostre responsabilità di emittente pubblica. Affidabilità, indipendenza e umanità sono i nostri principi guida. […] L’EBU ha riconosciuto che si sono verificate interferenze politiche durante la precedente edizione e ha annunciato misure aggiuntive per evitare che si ripetano. Tuttavia, queste misure non modificano quanto accaduto durante l’ultima edizione. […] Ciò che è accaduto nell’ultimo anno […] ha oltrepassato un limite per noi. […] Inoltre, la situazione a Gaza rimane estremamente fragile e profondamente preoccupante”. Dello stesso tono anche la dichiarazione dell’irlandese RTÈ («RTÉ rimane profondamente preoccupata per l’uccisione mirata di giornalisti a Gaza durante il conflitto e per il continuo diniego di accesso al territorio ai giornalisti internazionali») e della slovena RTVSLO («Per il terzo anno consecutivo, il pubblico ci ha chiesto di dire no alla partecipazione di qualsiasi Paese che ne attacchi un altro. […] L’Eurovision è stato un luogo di gioia e felicità fin dall’inizio, artisti e pubblico erano uniti dalla musica, e dovrebbe rimanere così. […] Non parteciperemo all’ESC se ci sarà Israele. A nome dei 20.000 bambini morti a Gaza»). Critiche sulla neutralità politica del concorso arrivano, infine, dalla Spagna con RTVE: «L’uso del concorso da parte di Israele per scopi politici rende sempre più difficile mantenere l’Eurovision come evento culturale neutrale». A questi quattro Paesi potrebbero seguire a ruota il Belgio, l’Islanda – che comunicherà la sua decisione mercoledì 10 dicembre – ma anche Finlandia e Svezia. Già solo con l’uscita di questi primi quattro Paesi, che non trasmetteranno l’evento, l’Eurovision Song Contest perderà – stando ai dati 2025 – quasi 10 milioni di spettatori (solo per la finale), il 6% complessivo. Tutto questo nonostante il ritorno in gara di Bulgaria, Moldavia, Romania e il probabile debutto del Kazakistan. Chiaramente opposta la reazione israeliana con il tweet del Presidente Isaac Herzog, che scrive «Israele merita di essere rappresentato su tutti i palcoscenici del mondo». Israele aveva ricevuto il sostegno del Paese organizzatore, l’Austria, così come della Germania. Il Cancelliere Friedrich Merz ad ottobre aveva dichiarato che sarebbe stata la Germania a dover lasciare il concorso qualora Israele fosse stato escluso. L’Italia nel mentre – salvo clamorosi ripensamenti – ci sarà, con il vincitore del Festival di Sanremo 2026. L’elenco definitivo dei Paesi in gara all’Eurovision Song Contest 2026 sarà pubblicato prima di Natale ma, comunque vada, sotto l’albero non ci sarà una bella sorpresa. Anna Polo
Combustibili fossili in India: proteste a Delhi contro l’inquinamento
La Cop 30 di Belém appena conclusa è l’ennesimo passo indietro rispetto agli accordi di Parigi. Il compromesso raggiunto attorno all’accordo Mutirao vede una netta divisione tra paesi del Nord e del Sud globale, con il raggiungimento di un accordo che continua a far discutere per il suo essere centrato sui fondi di adattamento climatico per i paesi in via di sviluppo, cioè su compensazioni per le emissioni fossili. Scompaiono dal documento finale i riferimenti ai combustibili fossili, facendo emergere le critiche di un gruppo di trentasei paesi – tra cui Francia e Colombia – che reputano il documento finale un passo indietro, su cui pesano il ruolo di Paesi emergenti come India, Cina, Russia, Arabia Saudita e Nigeria. La posizione del governo indiano è tra le più critiche. Il subcontinente è il paese che ha accresciuto di più le proprie emissioni di gas climalteranti nel 2024, un dato da soppesare sì in base alla popolazione di oltre 1.4 miliardi di persone e al crescente ritmo di sviluppo economico, su cui grava l’irresponsabilità del governo nel delineare una strategia di phase out dai combustibili fossili. La dipendenza energetica dal carbone, da cui dipende il 75% della produzione di energia nazionale, è tra i fattori di maggiore criticità. > Nonostante l’implementazione di energie rinnovabili, a oggi 236 GW di energia > fotovoltaica prodotta, la strategia di produzione energetica resta ancorata al > carbone. Il dato è suffragato dall’aumento di concessioni di estrazione di > carbone in aree forestali e dall’accresciuto afflusso di gas e petrolio, anche > grazie agli accordi con Russia e petrostati del golfo arabico. Sono ancora > lontani gli obiettivi di riduzione di dipendenza da fonti carbonifere ad > almeno il 19% del totale del computo energetico necessario per rispettare > l’obiettivo di fermare il riscaldamento globale a 1,5°. Invertire la rotta della dipendenza energetica dalle fonti fossili per l’India è fuori dagli obiettivi economici del Paese in ascesa come potenza economica globale; anche se i dati della produzione di energia da fonti rinnovabili segnano un importante incremento di produzione, queste si inseriscono in uno schema di addizione energetica. Nell’India che vuole affermarsi come potenza economica di prim’ordine, con un governo alla stregua di oligopoli direttamente coinvolti nella produzione di energia fossile e rinnovabile, la prima necessità è accrescere la produzione energetica totale per sostenere la crescita del settore delle infrastrutture, edilizia, industrie ad alta intensità tecnologica e in ultimo data center di nuova generazione – come confermato dagli investimenti proposti da Google e da Tata Consultancy Services. Su questi ultimi due settori, governo e aziende hanno cominciato a sondare il mercato globale per la costruzione di centrali nucleari di nuova generazione e mini centrali nucleari, da costruire nei pressi degli stabilimenti produttivi per garantire continuità e sufficienza energetica degli impianti. Il contraltare di COP 30 e strategia energetica indiana sta nelle condizioni climatiche dell’India, toccata da temperature altissime nelle sue stagioni secche ed esponenziale crescita di eventi climatici disastrosi nella stagione umida. In un report presentato dal dipartimento meteorologico dell’India sui primi nove mesi del 2025, sono 4064 i morti registrati a causa di eventi climatici estremi e ingenti le perdite di raccolti che hanno colpito 9,47 milioni di ettari coltivati. Nella stagione umida appena passata, i danni causati dagli effetti di alluvioni e frane sono aumentati nelle regioni sub-himalayane e a valle. Le immagini di Dharali del 5 agosto scorso, in cui una bomba d’acqua ha causato una frana che ha travolto un intero villaggio, sono emblematiche della situazione in cui versa l’India trainata da costruzioni di infrastrutture e di edilizia turistica selvaggia in aree vulnerabili, della voluta negligenza governativa in materia per favorire la crescita economica a tutti i costi. Simili esempi si possono trovare nelle regioni del Nord-Est indiano come in Kashmir, con fenomeni di simile intensità più o meno accentuati dalla maggior frequenza di bombe d’acqua; o a valle, nelle regioni a forte vocazione agricola dove le alluvioni distruggono raccolti annuali e vite. Basti citare in questa sede le alluvioni nel Punjab indiano dove 1400 villaggi sono stati inondati dall’acqua e trenta persone sono morte, anche a causa delle piogge più forti degli ultimi 25 anni nel mese d’agosto: 253,7mm d’acqua, il 74% più forti rispetto alla media. L’ARIA IRRESPIRABILE DI DELHI Dimensione della crisi climatica che arriva a toccare anche le città. La capitale Delhi è esemplificazione delle contraddizioni che l’India si trova ad affrontare su più fronti: eventi climatici disastrosi, inquinamento delle acque e dell’aria e assenza di efficaci politiche di prevenzione. Nelle scorse settimane sono stati presentati i dati sull’inquinamento urbano, dove al solito troviamo in cima alla classifica delle città più inquinate al mondo megalopoli indiane e pakistane. In questa classifica e dai dati della qualità dell’aria raccolti da IQAir, Delhi si conferma la capitale mondiale più inquinata al mondo. Tra le cause principali l’uso di mezzi di trasporto – pubblici ma soprattutto privati –, gli incendi di sterpaglie agricole negli Stati limitrofi, l’inquinamento delle attività produttive e l’uso di combustibili a uso domestico per cucinare o riscaldarsi. Cause imposte dalle condizioni di impoverimento generalizzato della popolazione indiana che rendono impossibile la diminuzione delle emissioni, soprattutto a fronte dell’assenza di un intervento pubblico atto a sovvenzionare la transizione. Le conseguenze della crisi climatica sono pagate soprattutto dai subalterni e in particolare dalle donne. Dal report sulla qualità dell’aria e della vita del 2025 dell’Istituto per le politiche energetiche dell’Università di Chicago, emerge che l’inquinamento dell’aria ha ridotto l’aspettativa di vita degli indiani di circa tre anni e mezzo; da un altro report dello Stato di Delhi fatto sugli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’aspettativa di vita nelle condizioni di inquinamento in cui versa la capitale indiana si abbassa di 8.2 anni. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista scientifica “The Lancet Planetary Health“, a dicembre 2024, sono quasi 1,7 milioni le persone morte tra il 2009 e il 2019 in India a causa dell’esposizione a livelli di PM2.5 superiori a 40 μg/m3. A essere più esposte e vulnerabili sono le donne. Allarmante il dato arrivato da Ahmdebad, capitale del Gujarat, dove le donne esposte a combustibili da biomassa –legname, carbone, ecc. spesso utilizzati in attività domestiche – durante la gravidanza avevano il 50% di probabilità in più di aborto spontaneo. di Ninara (Flickr) LE PROTESTE CONTRO L’INQUINAMENTO Nel mese di ottobre la città di Delhi ha toccato livelli record d’inquinamento in concomitanza con la festività del Diwali. Nonostante il divieto del governo di Delhi di uso di fuochi d’artificio, l’inquinamento dell’aria ha toccato i livelli record di 1000 µg/m³ – ben oltre la soglia limite di 40 µg/m³ fissata dall’organizzazione mondiale della sanità. La situazione è aggravata dal malfunzionamento delle stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria. Stando ai dati raccolti dalla testata indiana “Hindustan Times” solo il 23% delle stazioni di monitoraggio funziona a pieno nella capitale, tra queste molte sono disattivate automaticamente nella notte o al raggiungimento del valore di 1000 µg/m³. Una situazione insostenibile e prolungata oltre il mese del Diwali, dove i valori sono scesi continuando a restare tra i 300 e i 600 µg/m³. La difficile situazione dell’inquinamento dell’aria di Delhi è causata da più fattori, tra cui inquinamento da traffico urbano, combustione di biomasse per uso domestico, centrali a carbone vicine alla città, incendi di rifiuti, inceneritori urbani e arrivo di fumi tossici dagli incendi di sterpaglie da Stati limitrofi. Un’emergenza permanente nella quale vi è un sostanziale immobilismo delle istituzioni nell’invertire la rotta. A nulla è servito l’uso di oltre mille camion con idranti e 140 cannoni d’acqua per ridurre i livelli d’inquinamento dell’aria. Nemmeno l’avveniristica mossa di inseminazione delle nuvole per stimolare piogge naturali condotta da governo di Delhi e Istituto Indiano di Tecnologie di Kanpur ha migliorato la situazione. Irrespirabilità dell’aria e non gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni hanno causato proteste di piazza da parte dei giovani della capitale. Al grido di «vogliamo respirare» in centinaia sono scesi in piazza da inizio novembre per rivendicare il proprio diritto a respirare un’aria pulita, richiedendo alle istituzioni un piano credibile per fronteggiare l’emergenza inquinamento nella capitale arrivata a livelli ingestibili. Una protesta organizzata dal Delhi Coordination Committee for Clean Air, e animata da giovani studenti della capitale e cittadini accorsi nella zona turistica di Delhi gate per prendersi la scena uscendo dal perimetro designato dalle istituzioni locali per le manifestazioni della più periferica Jantar Mantar. La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere. Con la zona blindata da jester e pattuglie della polizia, le forze dell’ordine hanno caricato i manifestanti su pullman diretti alle stazioni di polizia con la motivazione dell’assenza di autorizzazioni necessarie per la manifestazione. Repressione che non ha fatto demordere i manifestanti dal riscendere in piazza, che a distanza di due settimane hanno riconvocato un presidio statico a Delhi gate con le stesse rivendicazioni fronteggiando una più forte repressione. > Ventitré gli arrestati con accuse di offesa a pubblico ufficiale, > disobbedienza agli ordini di polizia, e cospirazione contro i poteri dello > Stato. Uno dei manifestanti arrestati ha dichiarato alla testata indiana “The > Wire”: «Chiedevamo forse qualcosa di illegale? Chiedevamo l’impossibile? > Stavamo semplicemente ricordando al governo il nostro diritto alla vita. > Eppure, siamo stati trattati come se stessimo incitando la gente a far > crollare il Paese». Hanno fatto scalpore le immagini di uno degli arrestati, il ventiquattrenne Akshay E R, studente della Delhi University, scaraventato a terra dalla polizia, con l’accusa di aver scandito slogan maoisti, aver rotto le barricate e aggredito poliziotti. Tra le motivazioni delle accuse a suo carico il suo attivismo nell’organizzazione Bhagat Singh Chhatra Ekta Manch, tra i collettivi promotori del coordinamento della capitale per l’aria pulita, che ha denunciato sui social le cause dell’inquinamento «aumento delle tariffe del trasporto pubblico, diminuzione del numero di autobus, mancata applicazione degli standard governativi per prevenire l’inquinamento atmosferico in oltre il 70% dei cantieri e l’esenzione concessa a una grande quantità di industrie pesanti all’interno della regione NCR di Delhi sono le ragioni di questa emergenza.» Gli esponenti del Bharatiya Janata Party non hanno risposto nel merito alle proteste cercando di spostare il focus sulla legittimità delle modalità di protesta. Un classico dell’India governata da Modi, dove il diritto al dissenso viene sempre più negato con esplicite motivazioni politiche e anche grazie a nuove norme atte a criminalizzare ogni atto di protesta. La copertina è di Peter Addor da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Combustibili fossili in India: proteste a Delhi contro l’inquinamento proviene da DINAMOpress.
Messico. Proteste della “Generazione Z” o rivoluzione colorata alimentata dalla destra?
L‘ultradestra messicana sabato scorso ha organizzato una manifestazione intitolata “Marcia della Generazione Z”, che è stata puntualmente registrata, commentata, celebrata e moltiplicata dalle principali piattaforme conservatrici del paese come El Financiero, la rivista Merca2.0, Uno TV, El Sol de México, W Radio, N+, ADN40, Tv Azteca, CNN, El Universal, Reporte Índigo, Telediario, Record, SDP noticias, Ovaciones, Generación […] L'articolo Messico. Proteste della “Generazione Z” o rivoluzione colorata alimentata dalla destra? su Contropiano.
L’Ecuador non è in rivolta. È in uno stato di difesa ancestrale
> “Quando lo Stato reprime la vita, resistere smette di essere una protesta e > diventa un imperativo”. In Ecuador non c’è un conflitto per i sussidi. C’è lo scoppio di una storia che l’America Latina conosce a memoria. In Ecuador, le popolazioni indigene non stanno reclamando benefici. Stanno difendendo il diritto di esistere di fronte a un governo che ha deciso di militarizzare la fame, blindare l’estrattivismo e criminalizzare la memoria. Questa non è una protesta. È un’autodifesa storica contro uno Stato che non ascolta più e che risponde alla povertà con i fucili. NON SOLO NOBOA, MA TUTTO UN MODELLO Il presidente Daniel Noboa ha eliminato il sussidio sul diesel sapendo che avrebbe colpito prima di tutto i più poveri del Paese. Nelle zone rurali, dove la povertà raggiunge il 41% della popolazione, un litro di carburante può significare mangiare o non mangiare. Noboa non ha corretto una distorsione. Ha attuato una decisione ideologica, secondo cui la vita rurale non è indispensabile e il mercato deve decidere chi respira. Lo ha fatto ripetendo la ricetta già applicata in Perù, Cile e Colombia. Il manuale è chiaro: . Si aumenta il costo della sopravvivenza. . Si invia l’esercito prima del dialogo. . Chi resiste viene accusato di terrorismo. . Si promette ordine per i mercati mentre si normalizza la paura. Niente di più moderno della violenza amministrata. Il governo crede di poter controllare la crisi con discorsi di stabilità macroeconomica e il sostegno degli organismi multilaterali. Ma l’economia che difende non misura vite, misura investimenti. È questa logica di cifre senza volti che sta nuovamente infiammando il continente. I POPOLI INDIGENI NON MANIFESTANO, SI RIBELLANO La CONAIE (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) non ha indetto una protesta simbolica. Ha dichiarato una difesa territoriale. Sono state chiuse le strade e bloccati i passaggi logistici strategici. Non come gesto simbolico, ma come barricata. Quando i popoli indigeni agiscono, non lo fanno per ideologia, ma per sopravvivere. La risposta del governo è stata immediata e brutale. Migliaia di poliziotti e militari schierati. Minaccia televisiva di Noboa e apertura di tutte le strade a qualsiasi costo. Come se un Paese fosse un’autostrada e non una nazione con una memoria. Come se permettere al popolo di parlare fosse un atto di debolezza. Le cifre non sono più voci. Tre morti, centinaia di feriti e duecento arrestati. Intere comunità assediate dalle forze armate, eppure la resistenza non si è spezzata. Si è ritirata per riorganizzarsi. Questa non è una sconfitta, è una strategia. Oggi i leader indigeni parlano dalla selva e dalla collina, collegati da radio e telefoni comunitari, ricostruendo l’unità dalla precarietà. Quello che il governo chiama “ritirata” è, in realtà, un seme di resistenza. L’ECUADOR NON È SOLO, IL CONTINENTE OSSERVA IL PROPRIO RIFLESSO Quello che sta succedendo in Ecuador fa parte della stessa frattura. Lo viviamo in Bolivia, in Cile e in Perù con morti che continuano a non avere giustizia. Governi che parlano di progresso mentre assediano territori ancestrali, che chiamano modernizzazione la spogliazione di fiumi, montagne, lingue e che amministrano la repressione prima della dignità. I popoli indigeni non sono un attore sociale. Sono l’ultima frontiera tra la vita e lo spoglio. Per questo vogliono che siano smobilitati e per questo li chiamano problema. Perché se si fermano, l’Amazzonia viene liquidata, il litio viene regalato e il rame viene privatizzato per sempre. Nella logica del potere, non possono esistere, ma nella logica del pianeta, non possono scomparire. Il silenzio internazionale fa parte dello stesso patto. I governi del nord del pianeta applaudono la “stabilità” mentre acquistano le risorse che nascono dalla violenza e le élite locali, comode nelle loro capitali. Preferiscono chiamare disordini ciò che è difesa. CIÒ CHE CHI GOVERNA DALL’ALTO NON CAPISCE MAI Noboa crede di poter vincere con la repressione, crede che aprire con la forza una barricata significhi spaccare una cultura, crede che sottomettere alla paura spenga la storia e commette l’errore classico di tutti i governi che vedono i popoli come una minaccia. Non capiscono che queste lotte non sono tattiche, sono spirituali e che il corpo indigeno può cadere, ma ciò che lotta non è il corpo, è la memoria e quella non si negozia con i proiettili. I popoli possono essere impoveriti, sfollati o messi a tacere, ma non sconfitti. Perché la loro lotta non si misura nei sondaggi o nei cicli elettorali, ma in secoli di resistenza. Per questo, ogni volta che lo Stato reprime, risveglia ciò che credeva addormentato e che è la radice del popolo. L’ECUADOR NON STA ANDANDO A FUOCO. SI STA RISVEGLIANDO E quando un popolo si alza in piedi non per rivendicare, ma per difendere ciò che è sacro, i governi dovrebbero smettere di chiedersi come fermarlo e iniziare a porsi l’unica domanda che conta: quale legittimità ha un potere che ha bisogno dei fucili per sostenersi? Perché se la risposta è nessuna, allora ciò che è in crisi non è l’ordine, ma il diritto dello Stato di continuare a definirsi democratico. Oggi il Paese sembra vivere tra coprifuoco e trasmissioni televisive a rete unificate, tra discorsi di unità e gas lacrimogeni. Ma nelle comunità, dove i bambini continuano ad andare a scuola tra le barricate, c’è una certezza che nessun decreto può cancellare, e cioè che la vita non si negozia, si difende. L’ECO DEL CONTINENTE Quello che sta succedendo oggi in Ecuador non è un’eccezione, è un linguaggio comune nella regione. Dalle Ande alla Patagonia, i governi rispondono al malcontento con scudi e decreti, mentre i popoli tornano a parlare a partire della terra, non del potere. La resistenza ecuadoriana non è un‘esplosione isolata, ma è un’ulteriore pagina della stessa storia che attraversa Perù, Cile e Bolivia. L’America Latina non sta bruciando, sta ricordando chi è. E quando un continente ricorda, il potere trema… -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mauricio Herrera Kahn
Cop30, tra le proteste indigene
Martedì, contestualmente alla conferenza COP30 (30ª Conferenza delle Parti sulla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che sta avendo luogo in questi giorni a Belém in Brasile, è scoppiata una nutrita protesta da parte di comunità indigene e attivisti per il clima, che ha visto dozzine di manifestanti – […] L'articolo Cop30, tra le proteste indigene su Contropiano.
Romania. Migliaia in piazza contro l’austerity del governo “europeista”
Migliaia di manifestanti hanno marciato mercoledi nelle strade di Bucarest, per chiedere salari più alti, misure per frenare l’inflazione e riduzioni fiscali per i lavoratori, mentre il governo romeno continua a perseguire l’austerità per affrontare l’ampio deficit di bilancio del Paese e mantenere i vincoli di bilancio con l’Unione Europea. […] L'articolo Romania. Migliaia in piazza contro l’austerity del governo “europeista” su Contropiano.
Madagascar, anatomia di un (non) colpo di stato
Un nuovo presidente e un primo ministro tecnico guidano il Madagascar dopo le proteste giovanili. Tra speranze e dubbi, la Generazione Z teme che le promesse di cambiamento restino vuote.  Le prime reazioni della Generazione Z malgascia sono state tutt’altro che entusiaste. Dopo soli 20 giorni di proteste in piazza, il Madagascar ha un nuovo volto: alla presidenza c’è il colonnello Michael Randrianirina, figura descritta dai suoi pari come un militare rigoroso; al suo fianco, nel ruolo di primo ministro, è stato nominato Herintsalama Rajaonarivelo, economista e manager di lungo corso, collaboratore della Banca Mondiale e presidente del consiglio di amministrazione della Banca Nazionale dell’Industria. Per i ragazzi non è esattamente uno fuori dal coro. A distanza di poco più di quindici anni, il Madagascar ha vissuto un déjà vu politico. Già nel 2009, durante la rivolta contro Marc Ravalomanana, l’unità d’élite CAPSAT si rifiutò di reprimere i manifestanti e contribuì alla salita al potere di Andry Rajoelina. Oggi, la stessa unità ha nuovamente scelto di non sparare sulla folla, schierandosi con i giovani della Generazione Z: un gesto che ha preceduto la destituzione e la fuga all’estero dello stesso ex presidente Rajoelina. La scelta di un primo ministro stimato dalla comunità economica internazionale è volutamente una mossa volta a rassicurare, anche se è già scattata la condanna dell’ONU e dell’Unione Africana che ha sospeso il Madagascar dalle sue istituzioni. Nel frattempo il presidente ex colonnello ha dichiarato che il suo non è affatto un colpo di Stato e che “un colpo di Stato è quando si entra armati nel palazzo presidenziale e si versa sangue”, mentre in questo caso i militari avrebbero “deposto le armi per unirsi alle richieste popolari” e ha insistito sul fatto che la sua nomina è stata approvata dalla Corte Suprema e quindi “segue la procedura legale”. L’esercito malgascio storicamente ha sempre agito più come un catalizzatore sociale piuttosto che come un conquistatore del potere. Nel 1972, le proteste studentesche e contadine (le Rotaka) portarono alla fine del regime filo‑francese di Philibert Tsiranana. L’esercito, guidato dal generale Gabriel Ramanantsoa, si rifiutò di reprimere i manifestanti e convinse il presidente a farsi da parte, creando un governo di transizione militare‑civile che aveva la missione di ristabilire ordine e sovranità, senza instaurare una dittatura. Nel 2002, la crisi elettorale tra Didier Ratsiraka e Marc Ravalomanana paralizzò lo Stato. Solo dopo mesi di tensioni e morti, l’esercito intervenne per “ristabilire la legalità”, favorendo il passaggio dei poteri a Ravalomanana, riconosciuto come vincitore dal popolo. Nel 2009, la rivolta contro Ravalomanana vide un ruolo centrale dell’unità d’élite CAPSAT, che si rifiutò di sparare sui manifestanti pro‑Rajoelina. Dopo il massacro del 7 febbraio, il suo ammutinamento provocò la caduta del presidente. L’esercito, come nelle crisi precedenti, si presentò come salvatore della nazione e non come usurpatore, consegnando poi il potere a un civile, Rajoelina. Molti membri del movimento Generazione Z riconoscono al nuovo primo ministro competenza e profilo tecnico, ma lo percepiscono come parte dell’élite economica distaccata dai problemi dei giovani malgasci, che riguardano disoccupazione, precarietà e povertà diffusa. In molti chiedono che le promesse di trasparenza e partecipazione non restino solo promesse del momento. A due passi dal palazzo presidenziale, riferisce il mensile francese Jeune Afrique, una parte della Generazione Z avrebbe montato la propria sede al primo piano di una pizzeria. Una ventina di giovani cercano di trovare un portavoce del collettivo per poter parlare con una sola voce. Non sarà facile. “Siamo un’organizzazione giovane e orizzontale, di fronte a un’organizzazione militare verticale. Dobbiamo andare veloci” è uno dei commenti più seguiti nella chat di Discord. Ketakandriana Rafitoson, vicepresidente di Transparency International, che ha avuto un ruolo nell’organizzazione di alcune delle proteste iniziali, e lei stessa malgascia, ha detto all’agenzia Reuters che i colpi di Stato sono sempre indesiderabili per la democrazia, ma in questo caso c’era “un’apparente riluttanza dei leader politici ad affrontare le rimostranze, un’unità armata organizzata era in pratica l’unica istituzione in grado, rapidamente, di fermare lo spargimento di sangue e riaprire lo spazio civico”. Elliot Randriamandrato, attivista e intellettuale malgascio di 30 anni, è uno dei volti della Generazione Z in Madagascar: “Le ultime settimane sono una mezza vittoria, la vera lotta inizia ora: la nostra principale richiesta è un cambiamento all’attuale sistema politico” ha detto all’AFP. Diverse reti della Generazione Z hanno espresso frustrazione, accusando l’esercito di essersi “appropriato” dei risultati delle proteste popolari che hanno rovesciato l’ex presidente Andry Rajoelina. Molti attivisti parlano di un “tradimento della rivoluzione giovanile”, poiché la promessa di un dialogo inclusivo starebbe cedendo a una gestione verticale del potere. Nel frattempo Rajaonarivelo ha annunciato l’avvio di un piano nazionale per promuovere l’occupazione giovanile, articolato in incentivi alle microimprese, programmi di apprendistato e partenariati strategici con il settore privato. Il suo esecutivo sarà chiamato a coabitare con l’esercito per un periodo di circa due anni, durante il quale dovranno essere organizzate nuove elezioni generali. Durante il suo discorso inaugurale di questa settimana il presidente non ha mancato di rendere omaggio “alla gioventù malgascia vittima dell’ingiustizia”, ma – secondo il racconto dei presenti – i dieci posti riservati ad alcuni dei ragazzi protagonisti della rivolta erano tutti in piccionaia, nel bancone sul retro, in fondo alla sala. Un dettaglio che non è sfuggito alla Generazione Z. Africa Rivista
Elezioni presidenziali in Camerun: proteste, repressione del dissenso e delle opposizioni.
Le elezioni presidenziali in Camerun del 12 ottobre hanno portato ad un clima di crescente tensione nel Paese. Dopo 42 anni di regime Paul Biya è stato proclamato nuovamente presidente lunedì 27 ottobre, nonostante l’opposizione reclami la vittoria delle elezioni. Il clima elettorale è stato caratterizzato da aggressioni e rapimenti di sostenitori, scrutatori e militanti […]
Tunisia, rivolta e arresti a Gabès contro la “fabbrica killer”, le proteste arrivano fino alla capitale
Come scritto da Matteo Garavoglia in un recente articolo per il Manifesto, “Gli ultimi sette giorni hanno riacceso l’attenzione su uno dei veri buchi neri del sud est tunisino, il complesso industriale chimico di Gabes che dagli anni Settanta sta inquinando l’unica oasi del Mediterraneo, ormai perduta per sempre. Da tempo non si contano più […]
Generazione liquida: la rivoluzione senza leader
Da Nairobi al Nepal, dal Perù al Botswana, fino al Madagascar e al Marocco: i giovani scendono in piazza in tutto il mondo. Nonostante le grandi differenze culturali e le motivazioni diverse che animano le proteste, alcuni codici e linguaggi comuni si diffondono e connettono le piazze globali, superando persino il muro degli algoritmi. Ma interpretare le proteste della Generazione Z solo come un’urgenza generazionale sarebbe riduttivo. “…vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare. Non vogliamo essere subito già così sicuri. Non vogliamo essere subito già così senza sogni.” Sono passati 50 anni da quando Pier Paolo Pasolini rifletteva sui giovani con lucidità e passione. Eppure sembrano parole scritte ieri mattina, tra le grida della Gen Z ad Antananarivo. Per un certo periodo, il 2019 è stato definito “l’anno della protesta”, con disordini civili che invasero le strade da Hong Kong all’Egitto. Prima ancora, il titolo spettava al 2011, segnato da Occupy Wall Street e dalle rivolte pro-democrazia della primavera araba in Medio Oriente. Oggi siamo nel pieno di una nuova ondata globale: le proteste della Generazione Z si diffondono ovunque, ridefinendo linguaggi, strumenti e spazi della mobilitazione. Ma non erano sdraiati? L’età media in Africa è di appena 19 anni: la più bassa al mondo. Per confronto, in Europa l’età media è di 42 anni. Quasi il 60% della popolazione africana ha meno di 25 anni, la più alta concentrazione giovanile al mondo, mentre il 70% è sotto i 35. Su un totale di 1,47 miliardi di abitanti, quasi 900 milioni sono giovani. I dieci Paesi più giovani del mondo? Tutti africani. Sarebbe dunque quantomeno riduttivo interpretare le proteste della Generazione Z esclusivamente come un’urgenza generazionale: in Africa, la Gen Z non è una minoranza ribelle. È la maggioranza assoluta. Le mobilitazioni giovanili nel sud del mondo assumono quindi un peso e un valore del tutto diversi, perché esprimono la voce prevalente. A differenza delle primavere arabe, dove mancava una chiara identificazione generazionale, le proteste attuali si distinguono per un preciso riferimento ai protagonisti: è evidente chi sono, da dove parlano e quale generazione rappresentano. Questo elemento identitario è centrale per capire la cifra di questa generazione. La Gen Z si propone come possibile futuro movimento di liberazione dai sistemi post-coloniali, che, pur formalmente democratici, hanno perpetuato meccanismi di esclusione. Le elezioni, in questi contesti, hanno spesso garantito diritti e privilegi solo alle élite, lasciando ai margini la maggior parte della popolazione. Giovani in primis. Un altro tratto distintivo è il rifiuto della violenza. La rivendicazione della natura pacifica delle rivolte è costante: “Siamo un movimento pacifico, rinneghiamo qualsiasi forma di violenza”. Questa dichiarazione non è episodica, ma viene ripetuta sistematicamente, a sottolineare l’impegno etico e strategico verso la nonviolenza. Parallelamente, questi ragazzi si caratterizzano per l’assenza di una leadership tradizionale: non esiste un leader riconosciuto, né un portavoce ufficiale e pur non avendo alcuna affiliazione partitica, sono gli attivisti stessi a cercare il dialogo con esperti politici e figure di rilievo. Infine non vi è alcun riferimento religioso nelle loro rivendicazioni. I millennial occidentali, tra un aperitivo l’altro, sentenziavano che “i giovani non credono nel futuro”, o che erano troppo superficiali, troppo egocentrici. Oggi iniziano a capire che quando la maggioranza ha vent’anni, la percezione del tempo, della storia, del potere e del cambiamento si ribalta. What’s behind Africa’s youth-led protests?” (Cosa c’è dietro le proteste guidate dai giovani in Africa?) titolava il New York Times la scorsa settimana, “In pochi mesi, la Gen Z ha abbattuto diversi governi. Chi sarà il prossimo?” riassume il settimanale francese Jeune Afrique, mentre il quotidiano di Nairobi Daily Nation titola: “In tutta l’Africa e oltre, le rivolte giovanili stanno costringendo i leader a fare marcia indietro”. Nonostante le grandi differenze culturali e le diverse motivazioni che muovono le proteste, alcuni codici e linguaggi si diffondono e connettono le piazze di tutto il mondo, sfondando il muro dell’algoritmo. I social media hanno un modo tutto loro molto specifico e velocissimo di unificare e collegare le voci e le esperienze più disparate, questo permette alle singole persone di vedere le loro personali – talvolta intime – esperienze di disuguaglianza, come un’unica ingiustizia collettiva. Non è poco. Nel 2025, Discord – piattaforma lanciata nel 2015 come spazio di chat per videogiocatori – si è affermata come uno degli strumenti più potenti di mobilitazione politica e sociale della Generazione Z. Con una presenza capillare che si estende dall’Asia all’Africa, la piattaforma conta oggi 200 milioni di utenti mensili attivi che quotidianamente scrivono su questa piattaforma, votano, creano dei sondaggi dove fanno delle domande ai partecipanti e sulla base di quello, decidono le proprie istanze. Un esempio emblematico è il server che ospita la “GenZ 212” che in meno di un mese ha superato i 250.000 iscritti, con una partecipazione media di 40.000 utenti giornalieri e oltre 6.000 persone collegate contemporaneamente durante le assemblee vocali serali. “Ci stiamo convalidando a vicenda. Ci stiamo ispirando a vicenda e prendiamo coraggio l’uno dall’altro” commenta in chat su Discord una ragazza marocchina. In “Se noi bruciamo” del 2023 il giornalista e scrittore americano Vincent Bevins analizzava dieci anni di rivolte globali, dal 2010 al 2020, mostrando – a suo dire – come quelle proteste, pur generando immense speranze, non fossero riuscite a tradursi in cambiamenti strutturali duraturi. Quasi ovunque – scriveva – dopo una fiammata iniziale, si è vista la restaurazione di regimi autoritari o la cooptazione da parte di nuove élite politiche. Ma è davvero così? Il Movimento degli Ombrelli di Hong Kong, nato nel 2014 e riemerso nel 2019, è stato una di quelle maree che promettevano un futuro diverso. Ma quelle richieste democratiche furono rigettate e la dirigenza di Pechino consolidò la propria presa. Anche in Egitto e Tunisia, tra il 2010 e il 2013, erano state annunciate le famose Primavere arabe: giovani blogger, attivisti e cittadini comuni si ribellarono alla lunga notte dei regimi autoritari. Le Primavere, nate come canto di libertà, finirono tuttavia per lasciare dietro di sé un panorama di disillusione: le rivoluzioni che promettevano libertà e giustizia si infransero contro vecchie élite e istituzioni fragili. Più lontano però, in Nepal, la Gen Z ha trasformato i social network in uno strumento di potere politico inedito. La mobilitazione giovanile, attiva online contro la corruzione e la stagnazione dei partiti tradizionali, ha spinto fino all’elezione – avvenuta simbolicamente su Discord e confermata poi in parlamento – della prima premier donna della nazione himalayana. Anche nelle Filippine le proteste sono state motivate dalla rabbia popolare contro la corruzione della classe dirigente. La manifestazione più imponente si è tenuta il 21 settembre 2025 a Manila e in altre grandi città, richiamando decine di migliaia di persone. I partecipanti hanno denunciato lo scandalo dei “progetti fantasma” per il controllo delle inondazioni, chiedendo trasparenza, responsabilità e la fine dell’impunità politica. In Perù, dopo la grande ondata di proteste del 27 settembre è emersa una nuova ondata di mobilitazioni giovanili. A Lima, nelle ultime ore è in corso una crisi politica e sociale molto grave, con tensioni tra manifestanti e forze dell’ordine, stato d’emergenza attivo, più di cento feriti, tra cui decine di agenti e diversi giornalisti  e forti richieste di riforma e sicurezza da parte della popolazione giovanile e civile. Il presidente Jerí ha escluso dimissioni e ha chiesto al Parlamento poteri speciali per contrastare l’insicurezza e la criminalità, dichiarando tolleranza zero verso le “infiltrazioni criminali nei cortei”. Nel frattempo si teme un’ulteriore escalation nelle prossime ore. Nel 2024, la Generazione Z del Kenya è scesa in piazza – contro la proposta di legge finanziaria del governo Ruto. La mobilitazione, nonostante la repressione, segnò un punto di svolta politico. Di fronte alla pressione della società civile e all’indignazione internazionale, Ruto ritirò la legge finanziaria e, poche settimane dopo, sostituì diversi ministri del gabinetto. Nel settembre scorso dopo nuovi episodi di violenza e arresti, le proteste si sono riaccese, confermando che la generazione digitale keniota non arretra. In Botswana un elettorato giovane e desideroso di cambiamento ha avuto un ruolo decisivo nel porre fine a quasi sessant’anni di dominio del Partito Democratico del Botswana, che governava sin dall’indipendenza del 1966. Allo stesso modo, in Sudafrica, anche la crescente disillusione tra i giovani ha contribuito al crollo del sostegno per l’African National Congress, sceso per la prima volta dal 1994 sotto la soglia del 50 per cento dei voti. In Senegal, i giovani che avevano difeso Ousmane Sonko nei tribunali e nelle strade sono diventati base elettorale che ha portato Diomaye Faye alla presidenza nel marzo 2024. Dopo mesi di crisi istituzionale, arresti e sospensione del voto, fu proprio la pressione dei giovani e delle reti civiche – eredi di “Y’en a Marre” – a pretendere elezioni regolari. Marocco e Madagascar sono storia in corso. Nel 2011 i giovani marocchini avevano ottenuto la revisione costituzionale, ed oggi dopo mesi di malcontento, la voce del movimento “Gen Z 212” ha spinto il re Mohammed VI a non ignorarli. Nel suo discorso del 10 ottobre, pur evitando ogni riferimento diretto alle manifestazioni della “Gen Z 212”, Mohammed VI ha invitato il governo a «rafforzare il patto sociale» e ad accelerare gli investimenti in sanità, istruzione e coesione territoriale, riconoscendo implicitamente le priorità indicate dal movimento Il Madagascar è tornato al centro dell’attenzione internazionale grazie alla straordinaria mobilitazione giovanile. Le proteste, le più imponenti degli ultimi anni, hanno costretto il presidente Andry Rajoelina a lasciare il paese; in seguito, il Parlamento ha approvato la rimozione formale del capo dello Stato. Il potere è passato a un Consiglio Militare di transizione, che ha sospeso la Costituzione e sciolto la maggior parte delle istituzioni, lasciando in funzione soltanto l’Assemblea nazionale, incaricata di guidare il Paese verso elezioni da indire “entro 24 mesi”. Il filo rosso che unisce queste storie – e non solo – è la speranza di trasformare l’indignazione in progetto, è il tentativo della Gen Z di rigenerare una politica nuova, spinta dal basso, e di forzarla a muoversi. Perché non accada più che un ventenne scriva “Me ne vado, mamma, perdonami… i rimproveri sono inutili in quest’epoca crudele… io non ne posso più di piangere senza lacrime.” come fece Mohamed Bouazizi prima di darsi fuoco la mattina del 17 dicembre 2010, davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid in Tunisia. Perché nessuno possa più dire: “Non spingete”! Africa Rivista