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In Nepal la Gen-Z sta facendo una rivoluzione
Da inizio settimana il Nepal ha cambiato faccia. In molte e molti giovanissimi, con ancora indosso le divise scolastiche, hanno risposto alla chiamata alla mobilitazione della ONG nepalese “Hami Nepal” – Noi siamo il Nepal – a scendere in piazza contro la messa al bando di 26 piattaforme social – tra cui WhatsApp, Facebook, Instagram, YouTube ed X. Una decisione simile venne presa nel novembre 2023, con il temporaneo ban di TikTok e Viber, poi ritirato nell’agosto successivo in seguito all’adeguamento delle piattaforme alle normative sulla privacy nazionali. Con la motivazione ufficiale di tutelare la sicurezza nazionale attraverso il monitoraggio e la regolazione dei contenuti, il governo di Khadga Prasad Sharma Oli, appoggiato dal Partito del Congresso Nepalese e dal Partito Comunista (Unificato Marxista-Leninista), ha approvato la misura di regolazione delle piattaforme. > Il provvedimento impone il blocco delle piattaforme in caso di non adeguamento > alla normativa, configurandosi di fatto come censura. Negli ultimi mesi, gli esponenti del governo sono stati oggetto di serrate critiche su corruzione e crescita delle diseguaglianze nel paese. Gli occhi della popolazione sono stati puntati verso i “Nepo-kids”, nome con cui si fa riferimento ai figli di funzionari, uomini delle istituzioni o uomini d’affari vicini al governo, che ostentano le proprie ricchezze sui social. È proprio sugli stessi social che si sono organizzate le manifestazioni di massa. La comunicazione delle indicazioni generali sulle mobilitazioni su Instagram e il costante monitoraggio degli eventi nelle piazze con conversazioni in tempo reale su Discord, hanno garantito il coordinamento nei cortei. Un diffuso sentimento di ostilità verso la classe dirigente ha fatto sì che la protesta eccedesse le intenzioni pacifiche degli organizzatori. Anil Baniya, membro di Hami Nepal, ha dichiarato ad AlJazeera «Durante le prime ore, è andato tutto come previsto, fino a quando alcune forze esterne e militanti di partito si sono uniti alla protesta fronteggiando le forze armate e lanciando pietre». Dai primi jersey divelti da giovani e uomini palestrati, è stata evidente l’incontenibilità del movimento. Le immagini delle giovanissime e dei giovanissimi in uniformi scolastiche che attraversano le barricate intorno ai palazzi istituzionali di Kathmandu, dei fuochi di copertoni agli angoli delle strade, hanno avuto forte presa sull’immaginario, restituendo plasticamente il desiderio di massa di rompere con l’attuale stato di cose esistenti della giovane Repubblica parlamentare nepalese nata nel 2008. Gli eventi della stessa giornata hanno portato alla morte di 19 persone ed oltre 400 feriti; numeri ad oggi saliti a circa 30 morti, e migliaia di feriti. Primo risultato politico delle mobilitazioni sono state le dimissioni del Ministro degli Interni Ramesh Lekhak nella mattinata di lunedì, seguite poi dalla dichiarazione del Ministro delle Telecomunicazioni, Prithvi Subba Gurung, di revoca della legge sulla regolazione delle piattaforme. Eventi che hanno dato forza alle mobilitazioni: come riportato da un inviato di TheWire sul campo, le e i manifestanti «non vogliono dare una lezione al governo, vogliono che se ne vadano tutti». > I messaggi di rottura scanditi nelle piazze si alimentano di un immaginario > che unisce l’iconografia piratesca di One Piece — con bandiere raffiguranti il > Jolly Roger dal cappello di paglia, già simbolo di rivolte in Indonesia — a un > repertorio di tattiche prese in prestito dai recenti movimenti anti-sistemici > in Bangladesh e Sri Lanka. Nel secondo giorno le proteste sono aumentate con ancor più decisione, portando alle dimissioni del primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli e di componenti del suo governo. Sorte peggiore è toccata al Ministro delle Finanze, Bishnu Paudel, alla Ministra degli Esteri, Arzu Rana Deuba, e a suo marito, l’ex primo Ministro Sher Bahadur Deuba: sono stati picchiati in pubblica piazza davanti alle telecamere. Numerosi altri ministri e parlamentari sono stati recuperati dagli elicotteri dell’esercito, unico mezzo a disposizione per sfuggire dalla furia della folla. Al termine dei primi due giorni di rivolta, è il dato simbolico a restituire la portata degli eventi: con i palazzi del potere esecutivo, legislativo e giudiziario dati alle fiamme sembra essere imminente l’alba di un nuovo stato di cose esistenti. Assieme a questi, sono stati dati alle fiamme gli uffici centrali del partito del Congresso nepalese, residenze private di primi ministri, ministri ed ex-ministri, centri di affari, hotel di lusso, ed interi complessi ministeriali. Con il palazzo della Corte Suprema dato alle fiamme, sono sparite decine di migliaia di fascicoli giudiziari ed oltre 7.500 detenuti sono evasi dalle patrie galere. Le violenze di massa hanno portato ad assalti generalizzati alle caserme di polizia ed esercito, tanto da portare il neonominato Comandante dell’esercito e capo della sicurezza nazionale, Ashokraj Singdel, a dover dichiarare ciò che non è più ovvio in tempi di rivolta: i civili trovati con equipaggiamento dell’esercito o della polizia indosso saranno arrestati. La dichiarazione è stata già presa come una sfida dalle e dai manifestanti, che sui social postano foto con fucili o attrezzature dell’esercito. LE RAGIONI DELLA PROTESTA La mobilitazione ha dato libero sfogo all’insoddisfazione popolare contro il governo, reo non solo di provare a censurare le critiche sui social, ma anche di essere fortemente corrotto, incapace di garantire un deciso sviluppo al Paese e sanare le diseguaglianze. Dopo le prime violenze della polizia, il programma di minima del movimento Gen-Z ha fissato alcune richieste non negoziabili: dissoluzione del Parlamento, dimissioni di massa dei parlamentari, sospensione immediata degli ufficiali che hanno dato l’ordine di aprire il fuoco contro i manifestanti, e programmazione di nuove elezioni. La percezione dell’alta corruzione in Nepal trova conferma nei dati di Transparency International: nell’Indice del 2024, il Paese si classifica 107esimo su 180 a livello mondiale. Il sentimento di insoddisfazione si rinforza nel tam-tam social di pagine Instagram sulle immagini delle ville di ministri, funzionari di governo ed ex parlamentari; nei video delle e dei manifestanti che lanciano in aria i soldi appena presi da residenze di uomini di governo o da uffici di partito. Altrettanto critiche sono le diseguaglianze. Nel Paese himalayano martoriato dai disastri naturali, le diseguaglianze mostrano l’incapacità delle istituzioni ad attuare una traiettoria di sviluppo per le masse. > Con un reddito pro-capite di 1.400 dollari l’anno ed un tasso di > disoccupazione pari al 20%, il Nepal è il Paese più povero della regione sud > asiatica. Altrettanto preoccupante è l’esodo di massa dal Paese: sono oltre 1,4 milioni le e i nepalesi all’estero per ragioni economiche registrati nel 2023, a cui vanno aggiunti parte degli 839.266 richiedenti permessi di lavoro in uscita dell’anno fiscale 2024/25. Ad oggi si stima che il 7,5% dei nepalesi, migranti lavoratrici/lavoratori e non, viva all’estero. Le rimesse da loro inviate ai familiari in Nepal costituiscono il 33,1% del PIL e risultano essenziali per il mantenimento dei conti pubblici dello Stato. I numeri della diaspora parlano indirettamente degli effetti collaterali del ban delle piattaforme social. Con famiglie ed affetti divisi da migliaia di kilometri di distanza, queste app sono tra i pochi mezzi di comunicazione a disposizione per restare in contatto con i propri cari, per sentirsi ancora parte di una comunità che si è dovuto abbandonare per assicurarsi un futuro migliore. Tutto questo in un Paese fortemente diseguale dove «Il 10% più ricco dei nuclei familiari possiede oltre il 40% dei terreni, mentre un’ampia quota della popolazione rurale povera è senza terra o, potremmo dire, quasi senza terra», e non ha accesso a un’educazione di qualità, e dove lavori o redditi alti sono scranno delle stesse élite spesso colluse con esponenti di governo. Diseguaglianze fortemente amplificate dai social. Oltre il 90% delle e degli abitanti li utilizza, e proprio su queste piattaforme l’ostentazione della ricchezza è diventata un potente catalizzatore di odio di classe. DUBBI SULLA TRANSIZIONE, PROTAGONISTI ED ESITO FINALE Mercoledì, nel terzo giorno della rivoluzione della Gen-Z, iniziano a presentarsi le prime scelte difficili del movimento: quali direzioni deve intraprendere il movimento rivoluzionario? Chi decide per esso? Domande a cui ha iniziato a rispondere la stampa locale, individuando dei primi referenti in Sudan Gurung – a capo della ONG Hami Nepal –, Balendra Shah – trentacinquenne sindaco di Kathmandu, ex-rapper molto popolare tra i giovani –, e, in minor parte, Rabi Lamichhane – leader del partito centrista Rashtriya Swatantra Party, quarta forza politica nepalese, ex vice-ministro, ed ex conduttore televisivo – fino a martedì in carcere con accuse di frode fiscale. Seppur non in linea con l’età media del Paese, di 25 anni, i personaggi indicati come potenziali nuovi leader sono molto più giovani dell’attuale classe dirigente nepalese, abbondantemente sopra i settant’anni d’età. > Ancorati ad una vecchia visione del mondo e responsabili di aver affossato la > recente rivoluzione anti-monarchica in nome dei propri interessi personali, i > governanti appena scacciati rappresentano un vecchio mondo di cui la > popolazione non ha memoria. Anche per questo sono molteplici i dubbi che arrivano sulla transizione tra il vecchio ordine ed il nuovo assetto post-rivoluzionario. Dubbi sedati mercoledì, con la nomina condivisa da militari e manifestanti di Sushila Karki, settantatreenne ex presidente della Corte Suprema nota per il suo approccio integerrimo, come prima ministra nominata per guidare la transizione di potere. La proposta della nomina di Karki è arrivata durante un incontro partecipato da migliaia di persone sulla piattaforma Discord, dove dopo una lunga discussione, è emerso il nome dell’ex presidente della Corte Suprema. Con i dubbi sempre meno pressanti di passaggio dei poteri ai vertici militari, Khadga Prasad Sharma Oli disperso, e le rassicurazioni di gran parte del movimento Gen-Z di rifiutare pratiche violente, la transizione pacifica sembra poter essere possibile. La soluzione trovata da movimento e giunta militare sembra poter essere adeguata all’assetto istituzionale nepalese. La nomina di Karki, inizialmente ad interim, dovrà incassare in un secondo momento la fiducia attraverso il voto favorevole della maggioranza dei membri dell’assemblea legislativa. Sarà interessante osservare gli esiti del voto in un Parlamento dove non vi è alcuna presenza di membri della Gen-Z. RIVOLUZIONE O RESTAURAZIONE MONARCHICA? Tra i dubbi che più insidiano la transizione di poteri c’è il risorto revanscismo pro-monarchico. Cresce il numero dei sostenitori del vecchio ordine monarchico rappresentato dal Re Gyanendra Bir Bikram Shah, già protagonisti di numerose manifestazioni di piazza tra la fine di maggio e l’inizio di giugno. Gyanendra è l’ultimo discendente al trono e unico superstite del massacro reale in cui dieci membri della famiglia reale si ammazzarono nella notte del 1 giugno 2001 per accaparrarsi la guida del Paese. La sua famiglia ha unificato i reami del Nepal nel 1768, ed ha governato il Paese fino al 2008, anno in cui dopo dieci anni di serrata lotta armata, le fazioni guidate dai maoisti deposero il governo dispotico di Gyanendra istituendo la Repubblica del Nepal. La Costituzione repubblicana arrivò sette anni dopo. I 10.000 che il 29 maggio accolsero Gyanendra a Kathmandu, giunto per un tour nella parte occidentale del paese, non furono un evento di colore, ma un segnale che il vento politico stava cambiando. Gli scontri sanguinosi di quei giorni sono altrettanto rappresentativi del revanscismo presente e della forte conflittualità politica. Dall’accoglienza trionfale alle manifestazioni esplicitamente pro-monarchiche il passo è stato breve. Gli slogan pronunciati proprio il 29 maggio dalla folla «Liberate il palazzo reale per il Re. Torna, Re, salva il Paese. Lunga vita al nostro amato Re. Vogliamo la monarchia», si sono trasformati in manifestazioni pro-monarchiche a Kathmandu il 12 giugno. A muovere questo sentimento popolare, al momento non di massa, sono il sentore di stabilità politica sotto l’egida del Re, ed il rampante nazionalismo hindu; se della stabilità monarchica non ci si sorprende troppo, anche grazie ai 14 governi succedutisi in soli 17 anni di Repubblica, sulle seconde ragioni occorre allargare lo sguardo dalla monarchia nepalese alle fazioni nazionaliste hindu indiane. > Un primo indizio sulle traiettorie del nazionalismo hindu filo-monarchico > nepalese è dato dalle icone portate dai monarchici in piazza. Non è raro vedere nelle piazze di questi i quadri di Yogi Adityanath, santone, governatore dell’Uttar Pradesh in quota Bharatiya Janata Party e capo della milizia armata Hindu Yuva Vahini, portato in spalla dai manifestanti. A unire monarchi e Adityanath, è l’intenzione di istituire l’Hindu Rashtra, ovvero uno Stato dove identità, cittadinanza, e leggi sono fondati sui principi e valori della cultura hinduista. Tra i mezzi politici utilizzati per fomentare l’hindu-nazionalismo nel Nepal, Paese a prevalenza di popolazione di fede hinduista, il partito Rashtriya Prajatantra Party, associazioni hindu-nazionaliste socio-culturali parallele a quelle indiane, ed il legame storico-religioso tra il tempio di Gorakhnath Mutt – di cui Adityanath è capo spirituale – e la dinastia reale della famiglia di Gyanendra. Fattori da attenzionare, certo, ma al momento minoritari. In questo momento di transizione, connotato da un’esigenza di rinnovamento, nella forza del movimento Gen-Z espressa nelle piazze e nel metodo assembleare di decisione delle candidature emerge l’insoddisfazione delle masse impoverite da classi politiche predatorie. L’esigenza delle e dei giovani attaccate e attaccati ai telefonini per fare la rivoluzione, per cambiare l’ordine presente resettando universo simbolico istituzionale e adottando un immaginario pirata degno della ciurma di Luffy, è in piena continuità con quella delle masse rivoluzionarie di Bangladesh e Sri Lanka recentemente insorte. Nel Sud Asia la storia è in movimento, il suo domani è ancorato ai desideri delle masse. L’immagine di copertina è di हिमाल सुवेदी, da wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo In Nepal la Gen-Z sta facendo una rivoluzione proviene da DINAMOpress.
Mantova blindata: nessuno tocchi gli allevamenti
Il prefetto di Mantova ha espresso il suo apprezzamento per le forze dell’ordine che durante Festivaletteratura lo scorso fine settimana hanno messo in piedi un “efficace dispositivo di controllo” in modo da consentire “ai numerosi visitatori (…) di vivere pienamente lo spirito della manifestazione”. Ma chi era a minacciare “l’ordine pubblico” durante un evento letterario? Le stesse attiviste che da anni denunciano inascoltate Festivaletteratura ed altre kermesse cittadine, per gli sponsor da cui ricevono fondi e a cui in cambio fanno pubblicità: le aziende degli allevamenti e dei macelli (come Levoni e Grana Padano) e quelle dei combustibili fossili (la multinazionale Eni). A questo come ad altri eventi precedenti centinaia di agenti in divisa e in borghese hanno pattugliato le vie di Mantova perché nessuna interrompesse una conferenza con uno striscione, distribuisse un volantino o tenesse un’azione simbolica in piazza con la vernice rosso tempera. Dal 2022 le attiviste del gruppo ecologista Fridays for Future sono schedate dalla polizia e ricevono pressioni dagli organizzatori del festival perché non esprimano dissenso nel centro storico (una clausola del loro contratto con Eni non ammette pubblicità negativa). L’anno scorso a Festivaletteratura due attiviste di No Food No Science, collettivo contro lo sfruttamento animale, sono state multate, denunciate ed espulse per anni dalla città con dei “fogli di via”, la misura con cui sbarazzarsi di persone “socialmente pericolose” (a discrezione del questore) che dal 1956 ha sostituito il confino fascista. Quest’anno a maggio attiviste dello stesso gruppo durante il festival Food & Science (organizzato tramite Confagricoltura e sponsorizzato dai grandi marchi dell’industria della carne, incluso Inalca di Cremonini, il più grande in Europa) hanno ricevuto altre denunce, fogli di via e multe che ammontano a svariate migliaia di euro per uno striscione affisso davanti al municipio (che dava ironicamente il foglio di via alla giunta comunale). Negli ultimi giorni, dal 3 al 7 settembre, per l’edizione di quest’anno di Festivaletteratura le attiviste sono state costantemente pedinate per le strade, seguite persino dentro una gelateria, come mostrano in un video sui social media. Domenica sera sedici persone sono state fermate per ore con il pretesto di controllare i documenti da agenti appostati appena fuori da due circoli Arci, Virgilio e Papacqua, dove si è tenuto il controfestival letterario Pagine Animali per parlare di giustizia climatica e multispecie. A fine giornata, dopo che due attiviste hanno inscenato una protesta alla libreria del festival con vernice rossa lavabile e un libro che rappresentava i loghi delle aziende criticate, sono state sollevate di peso perché se ne andassero. Eppure tutte sanno che gli allevamenti come i combustibili fossili hanno un peso devastante non solo sulle vite degli animali e dei migranti impiegati dalle aziende per accudirli in cattività e poi ucciderli, ma anche sull’accelerazione della crisi eco-climatica: come ha scritto l’artista Violinoviola in un post su Instagram, che era tra le vittime dei prolungati quanto ingiustificati controlli di polizia a Mantova davanti al circolo Arci Virgilio questa domenica, “l’industria zootecnica è la prima causa di emissioni di Co2 a livello globale, la principale causa delle zone morte degli oceani, la principale responsabile della deforestazione, dell’antibioticoresistenza, dell’impoverimento del suolo eccetera eccetera (l’elenco sarebbe ancora lungo). Senza contare che l’aria di Mantova è ammorbata da una puzza insostenibile di merda visto che è circondata da allevamenti intensivi di maiali e mucche”. La provincia mantovana è la prima in Italia per il numero degli animali rinchiusi in gabbie e capannoni, ma gli amministratori delegati delle aziende che sponsorizzano Festivaletteratura sono i primi a insistere sulla necessità di espandere sempre di più le infrastrutture di questi allevamenti per tenere il passo con il mercato cinese. È sempre più evidente che questo modello produttivo oppressivo e insostenibile ha i giorni contati, ma che gli industriali famelici che ne traggono i maggiori profitti lo manterranno il più a lungo possibile, finché non si troveranno costretti da una forte volontà politica a metterlo da parte. Le attiviste, insultate sui social come fannullone e privilegiate da una folla di commentatori, indignati che qualcuno interrompa il regolare corso degli eventi, sono tra le poche voci che si stagliano in un panorama di silenzio assordante contro aziende come Levoni, Grana Padano e Eni. La speranza ora è che siano scrittori e scrittrici ospiti di Festivaletteratura ad unirsi al coro di chi esprime questa contraddizione tra un evento che si proclama dalla parte dei diritti e dell’ambiente da una parte, dall’altra i suoi sponsor ecocidi e la polizia che perseguita i manifestanti: Eva Meijer, pensatrice olandese che si occupa di linguaggi e organizzazioni politiche degli animali non umani, si è già schierata con le attiviste, inaugurando venerdì 5 il controfestival di No Food No Science Pagine Animali. Il gruppo antispecista mantovano ha provato anche a interpellare altri ospiti eccellenti di Festivaletteratura, affiggendo manifesti con i loro nomi e volti nel centro di Mantova, abbinati ad immagini di allevamenti e pozzi petroliferi (gli sponsor del festival). Ma la repressione in Italia e in Europa si fa ogni giorno più dura per chi si oppone, chi lavora, chi migra, chi vuole proteggere l’ambiente e le altre specie con cui lo dividiamo: lo possono testimoniare le attiviste antispeciste della provincia di Vercelli, che erano presenti al circolo Arci Virgilio di Mantova venerdì 5 per intervenire al controfestival di No Food No Science Pagine Animali. Hanno raccontato di come a giugno durante un sit-in davanti ad un maxi allevamento di galline ovaiole in costruzione nel paese di Arborio, del gruppo Bruzzese, la polizia ha tolto loro cibo, acqua ed ombrelloni ed ha impedito alla popolazione che gliene portassero, per un giorno intero, sotto il sole cocente. Ventuno persone hanno ricevuto denunce e fogli di via. Diverse sono state in ospedale. Due che hanno resistito fino al giorno successivo le hanno portate via in manette. Sull’accaduto è in corso una interrogazione parlamentare, ma i lavori di costruzione del maxi allevamento continuano imperterriti. No Food No Science Redazione Italia
Giovani manifestanti costringono alle dimissioni il primo ministro nepalese
Il primo ministro nepalese Khadga Prasad Sharma Oli è stato costretto a dimettersi martedì dopo che giovani manifestanti  hanno sfidato il coprifuoco e si sono scontrati con la polizia. I giovani protestavano contro la corruzione e  il fatto che nel primo giorno di proteste siano morte  19 persone e siano stati chiusi i social media, ritenuti responsabili di veicolare le proteste. Fonti giornalistiche riferiscono di una situazione di caos nella capitale Katmandu con incendi a edifici pubblici e a case di politici e con l’aereoporto internazionale chiuso. In questi giorni due ministri del governo di coalizione, il Ministro dell’Interno e quello dell’Agricoltura si erano dimessi per protestare contro l’atteggiamento violento della polizia. Il Primo Ministro Oli, leader del locale Partito Marxista-Leninista aveva vinto a sorpresa le ultime elezioni di un anno fa formando poi un governo di coalizione con principale alleato il Congresso. Pressenza IPA
Regno Unito, quasi 900 arresti durante la manifestazione di sostegno a Palestine Action
Sabato a Londra la polizia ha arrestato quasi 900 persone durante una protesta contro il divieto imposto dal governo britannico al gruppo Palestine Action ai sensi della legge sul terrorismo. Ora è illegale per chiunque in Gran Bretagna mostrare sostegno a Palestine Action. Da settimane si moltiplicano le proteste contro il divieto. “Persone comuni che non hanno mai partecipato a una protesta in vita loro stanno facendo i conti con la loro coscienza. Pensano: ‘Non posso continuare a stare seduto sul divano giorno dopo giorno a guardare questo orrore abietto senza fare nulla’. E quindi, la cosa straordinaria è che le immagini più potenti che stiamo vedendo sono quelle di persone bianche disabili, di mezza età o anziane che vengono portate via dalla polizia per aver detto: ‘Smettete di uccidere i bambini’”, cosa ormai considerata un crimine” ha denunciato la giornalista Tamara Abood. Domenica a Bruxelles oltre 110.000 persone hanno partecipato a una grande manifestazione a favore della Palestina, pochi giorni dopo che il governo belga aveva annunciato che avrebbe presto riconosciuto lo Stato palestinese e imposto sanzioni a Israele.   Democracy Now!
Non esistono israeliani buoni
Israele è guidato da un governo crudele e da un Primo Ministro senza cuore, come non se ne sono mai visti prima. Le vite umane, che si tratti di abitanti di Gaza, ostaggi o soldati, non interessano a questo governo. Sta Massacrando gli abitanti di Gaza e abbandonando ostaggi e […] L'articolo Non esistono israeliani buoni su Contropiano.
INDONESIA: CONTINUA LA RIVOLTA POPOLARE CONTRO LE POLITICHE DEL PRESIDENTE SUBIANTO
In Indonesia continua la mobilitazione popolare di massa contro il presidente Prabowo Subianto e le sue politiche, giudicate dai manifestanti colpevoli di acuire le disuguaglianze tra popolazione e classe politica. A far scoppiare la miccia e i violenti scontri con le forze di sicurezza – che dalla capitale Giacarta hanno poi infiammato altre città indonesiane – l’uccisione di un conducente di moto-taxi da parte della polizia durante la manifestazione di lunedì scorso contro la legge che accorda ulteriori benefit ai parlamentari. La situazione era già tesa da diversi mesi, tuttavia a una settimana dall’inizio della rivolta, la situazione sembra poter solo peggiorare in termini di violenza e repressione di Stato. Otto i morti dichiarati fino ad oggi, molti i feriti, tante le mobilitazioni in programma e diverse le abitazioni di parlamentari saccheggiate, tra cui quella di un ministro. Una tensione crescente che sembra far presagire l’intenzione di imprimere una svolta autoritaria al Paese da parte del presidente Subianto, che intanto ha annullato il viaggio previsto in Cina per la commemorazione della fine della Seconda Guerra Mondiale. La situazione attuale del Paese, e il profilo del presidente Subianto, con Emanuele Giordana, giornalista, già direttore di Lettera 22, e attuale direttore di Atlanteguerre.it Ascolta o scarica
Israele in guerra totale, fra le proteste di chi si oppone e la Nakba che continua tra Gaza e Cisgiordania
Alla fine di una settimana che era cominciata con l’euforia alle stelle, per la straordinaria partecipazione allo sciopero indetto dalle Famiglie degli Ostaggi domenica scorsa, nel vano tentativo di scongiurare la “vietnamizzazione” del conflitto che inevitabilmente conseguirà al piano di occupazione di Gaza City, proviamo a ricapitolare gli ultimi eventi in un Israele in guerra: – Hamas avrebbe accettato la proposta egiziano-quatariota di cessazione delle ostilità per i prossimi sessanta giorni, durante i quali procedere al rilascio graduale dei corpi (solo in parte vivi) degli ostaggi, a fronte di un certo numero (forse 200) di detenuti palestinesi, con previsto intervento delle Nazioni Unite per quanto riguarda i varchi umanitari, la gestione dei soccorsi, l’ipotesi di deporre le armi ecc (la stessa proposta che Israele aveva concordato con il negoziatore US Steve Witkoff due settimane fa) e però come non detto: accordo o non accordo, il piano di occupazione di Gaza City è stato approvato e quindi s’ha da fare, come ci informa The Times of Israel. – i blindati si sono infatti già mossi verso l’obiettivo con una prospettiva di evacuazione di circa un milione di civili già ripetutamente evacuati in precedenza, che di nuovo dovrebbero ammassarsi ora verso sud, dove sarebbe in progress l’ennesima tendopoli, ma tra recinzioni, organizzazione dei servizi essenziali, allestimento della cd ‘cittadella umanitaria’ ci vorrà forse un paio di mesi, mentre l’IDF procederà (secondo i piani) per la totale distruzione di Hamas; – totale distruzione di Hamas per la quale sono stati richiamati ca 60.000 riservisti, ma in quanti si presenteranno non si sa: morale delle truppe proprio ai minimi, mentre cresce il numero dei suicidi (uno alla settimana!) soprattutto tra i giovani, come documentava ieri una lunga intervista su El Pais, descrivendo nei dettagli la ‘questione morale’ che turba i pensieri di una crescente popolazione militare, che aveva prontamente aderito alla chiamata post 7 ottobre, ma dopo ventidue mesi di crimini di guerra contro civili inermi, non ne può più; – in compenso è arrivato il plauso del Presidente Trump che su TruthChannel ha incoronato Netanyahu come “eroe di guerra” in totale spregio dei timori del “Forum dei Familiari degli Ostaggi” che ieri sera (21.8) erano in presidio di fronte alla residenza del Primo Ministro a Gerusalemme e di nuovo lo saranno anche oggi. Timori (non solo per la sopravvivenza degli ostaggi, ma per la sicurezza delle truppe) inizialmente espressi dallo stesso Generale Eyal Zamir, che però sembra aver cambiato idea, rendendosi così “totalmente complice di un crimine”, come ha commentato su Haaretz l’editorialista Uri Misgav. – a raffreddare gli entusiasmi circa i piani di totale distruzione di Hamas, è arrivata però la notizia che solo il 10% dei tunnel (per un totale di ca 500 km) è stato seriamente danneggiato dall’inizio del conflitto, per cui Auguri! In compenso è stata ufficialmente annunciata l’avanzata immobiliare in Cisgiordania con l’approvazione del molto controverso piano E1 tra Gerusalemme Est e Ma’ale Adumin, che renderà possibile edificare 3.400 nuove unità abitative, con il dichiarato obiettivo di “seppellire una volta per sempre l’idea di uno stato palestinese”; – al di là dell’effettiva possibilità di immaginare (chissà quando mai) uno Stato palestinese, il suddetto piano E1 condannerà la popolazione in Cisgiordania in isole/ghetti ancor più separati, economie ancor più frammentate, con difficoltà di spostamento ancor più enormi, l’accesso a scuole e ospedali più che mai complicato, Gerusalemme Est ancor più isolata… ma così sarà, per la gioia dei coloni, proprio ieri ne sono arrivati altri 250, da USA e Canada; – reazioni da fuori Israele: Macron ha definito la nuova offensiva come “certezza di guerra permanente”, mentre Londra ha stigmatizzato il Piano E1 come “flagrante rottura di qualsiasi prospettiva di convivenza”. Un po’ più robuste le voci che si sono espresse ieri a Istanbul, nell’ambito di una Conferenza Stampa dal titolo “E’ tempo di agire”: dove l’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Palestina, Richard Falk (predecessore di Francesca Albanese tra il 2008 e il 2014) insieme a un ampio gruppo di’ avvocati avrebbero a questo punto suggerito la necessità di un intervento di forze armate internazionali a Gaza, proposta che sarà avanzata all’Assemblea Generale con l’obiettivo di fermare quella che è stata definita la fase più mortale del genocidio israeliano contro il popolo palestinese, quando sarà già il 20 settembre, per cui chissà quanto sterminato potrà essere il popolo palestinese, o evacuato chissà dove, o comunque ridotto in chissà quali condizioni terminali, per le concause che sappiamo… La Nakba che si rinnova, che non è mai finita nel 1948, che semplicemente si ripresenta con la stessa logica di sempre: di occupazione coloniale, di villaggi e comunità spazzati via, di spazi che si svuotano per essere ripopolati dall’arrivo dei ‘nostri’. L’appuntamento per quella parte di Israele che non si arrende sarà di nuovo domani sera, sabato 23.8, per una marcia “anti war” tra Piazza Dizengoff e Piazza Habima a Tel Aviv, la cui partecipazione però è già stata limitata dalle FFOO entro i 500 partecipanti, per cui: macchina repressiva sempre più dura, guerra che avanza anche in casa. Come è successo l’altro giorno ad Haifa con vari dimostranti arrestati per aver esibito cartelli e intonato slogan critici verso l’operato dell’IDF, ritenuti “turbativi dell’ordine pubblico”.   Centro Sereno Regis
Ancora Taranto. Per un programma di ecologia popolare e partecipata
Stretti in una morsa, forza, diamo fine a questa farsa Forse ci meritiamo una fine diversa Kid Yugi, Fido Guido, Ilva (Fume scure rmx) La storia di quello che è successo il 28 luglio 2025 – e sta seguendo in questi giorni – merita di essere raccontata con la dignità politica che le corrisponde, e merita di essere inserita nell’archivio di resistenza della comunità tarantina. È stata una grande giornata di lotta, e di questo bisogna prendersi i meriti. Nonostante i principali giornali locali e nazionali abbiano ridotto l’evento a un caso di “tensione” e “minacce” verso il sindaco, ignorando le ragioni profonde della contestazione, la realtà è che quella piazza ha rappresentato un rifiuto deciso della violenza strutturale conservata dalle istituzioni. Ancora una volta, la stampa di stato ha dimostrato la sua incapacità nel pensare il conflitto politico: questo non si dà esclusivamente nelle forme e nei costumi dettati dalla classe politica dirigente, cosa che lo ridurrebbe alla difficile digestione di un boccone amaro. Mobilitazione significa frizione, e dobbiamo tornare a riconoscerlo. Normalizziamo genocidio, razzismo, sessismo, classismo e chiamiamo “violenta” la forza che libera da queste catene. Accettiamo come neutrale l’esercizio delle funzioni istituzionali, mentre ignoriamo che la violenza può essere distillata lentamente, firma dopo firma, come l’inquinamento che ci ammala poco a poco. > Quella giornata – e quella piazza – vanno ricordate perché testimoniano la > forza di una comunità capace di unirsi sotto una stessa lotta: quella della > liberazione dalla condanna ad una morte prematura, contro la subalternità > politica per l’autoderminazione del proprio futuro. Liberazione e > autodeterminazione: la Palestina ci insegna e ci mostra la via. La piazza del 28 luglio non era solo un “no” all’ex-Ilva. C’erano i comitati per il fiume Tara, minacciato dal dissalatore; l3 cittadin3 di Paolo VI contro la nuova discarica e quell3 di Statte contro la precedente; le mamme e i genitori del quartiere Tamburi contro l’avvelenamento e l’abbandono; l3 emigrat3 tornati a casa per sostenere la lotta; le collettive femministe e queer a rivendicare l’autodeterminazione sui propri corpi e sul proprio territorio, oltre il ricatto salute-lavoro. Mamme, bambin3, operai, casalinghe, disoccupati, persone queer, giovani e anziane, ammalat3, “disabil3”, “pazz3”: una comunità che resiste, oltre le frontiere fisiche e immaginarie, perché la questione Taranto non è esclusivamente operaia, non è esclusivamente climatica. Taranto fa scuola perché il problema è complesso, e la resistenza è instancabile, di generazione in generazione. Tramandiamo questa storia di lotta, non lasciamo che trovi posto nell’androne di una scala, raccontata di fretta, per passaparola. Celebriamola. ANNI ’60-’20: UNA STORIA DI LOTTA E DI RESISTENZA È ormai noto che la fabbrica, costruita negli anni ’60 a seguito dell’espianto di centinaia di ulivi, abbia inquinato, ammalato e ucciso l’ecosistema e la società tarantina. Dopo le crisi dell’acciaio degli anni ’70-’80, negli anni ’90 viene venduta alla famiglia Riva: così si inaugura non solo un periodo di aggravamento dell’inquinamento, ma in generale delle condizioni di morte prematura dell’ecosistema tarantino. È stato inquinato il suolo, l’aria, gli alimenti, gli animali, e le persone, con danni sulla salute dell’ecosistema e dei quartieri: l’aumento di malattie, tumori ha significato un aumento e un peggioramento delle condizioni del lavoro di cura non retribuito di donne, madri, badanti, figli e famiglie che hanno preso in carico questa situazione a fronte dell’assenza di adeguate infrastrutture sanitarie. Non solo, con la privatizzazione Riva, è stata legittimata la stagione della pesante repressione del dissenso operaio, del mobbing, dell’interruzione degli scioperi e della creazione di quelli falsi, della complicità dei sindacati confederati, dell’insabbiamento delle morti sul lavoro. La comunità tarantina non si è mai arresa, e ha dimostrato un’incredibile capacità di resistenza. È del 2012 la storica sentenza della magistratura per il sequestro di sei impianti della fabbrica: la proprietà dei Riva viene imputata di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Per questo, i Riva vengono condannati, e la gestione della fabbrica finisce prima allo stato – per amministrazione straordinaria – e poi torna ai privati, questa volta partener internazionali (la società franco-indiana ArcelorMittal). Del 2022, invece, è la dichiarazione ONU di Taranto come zona di sacrificio dei diritti umani. Nonostante ciò, la fabbrica continuerà a produrre – sotto sequestro con facoltà d’uso – grazie ad una gestione emergenziale del suo regime produttivo: 18 decreti cosiddetti “salva ILVA” saranno votati dalle maggioranze di qualsiasi colore, del cui l’ultimo è del 9 giugno 2025. Questa gestione emergenziale dell’economia e dei problemi sociali è tipica della storia dei nostri territori meridionali e insulari, integrati a forza dentro un regime produttivo capitalistico e coloniale proprio grazie a soluzioni eccezionali calate dall’alto. 2025: L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, I REQUISITI PER LA VENDITA La nostra storia comincia nel febbraio 2025, quando la fabbrica torna in amministrazione straordinaria da parte dello stato. Come mai? A seguito dell’insostenibilità finanziaria della produzione di acciaio – il regime produttivo della fabbrica è infatti calato con solo 1 altoforno su 5 in attività – lo stato ha iniziato a cercare un nuovo partner commerciale internazionale che possa acquistare la fabbrica. Le trattative al momento sono con l’azienda azera Baku Steel, ma la fabbrica ha diversi problemi: l’inquinamento è il primo, ma anche l’obsolescenza degli altoforni, e i conseguenti costi di messa a norma che l’acquirente dovrà sostenere; la quantità di lavoratori (8.000) decisamente in esubero rispetto alle esigenze produttive, il che significherà licenziamenti e conflitti interni; la restituzione del credito promesso ai lavoratori dell’indotto a causa dell’amministrazione straordinaria. Ma il problema più consistente è quello relativo alle autorizzazioni di produzione, nello specifico l’Autorizzazione Integrata Ambientale, che autorizza il funzionamento degli impianti industriali. A Taranto è scaduta nel 2023, ma la fabbrica ha continuato a produrre indisturbata sino al 2025, quando – qualche giorno fa – è stata rinnovata. Ad annunciarlo è stato il Ministro Urso nella sede della CISL.Tuttavia, l’AIA approvata non recepisce quanto stabilito dalla Corte di Giustizia UE in fase di consultazione da parte del tribunale di Milano, a cui si erano rivolti alcuni genitori tarantini: ossia che non si può autorizzare un impianto potenzialmente dannoso per la salute senza una preventiva valutazione del danno sanitario, che non si possono omettere sostanze dalla valutazione delle emissioni ambientali, e che non è lecito differire l’adeguamento dell’AIA. L’AIA emessa impone di presentare in sede di riesame da parte dell’acquirente una valutazione di impatto sanitario basata su danni inerenti ai cicli produttivi successivi, e non precedenti: in altre parole, su dati presunti e non reali. Che libertà stiamo lasciando al futuro gestore della fabbrica? A quali condizioni si continuerà a produrre? LA “DECARBONIZZAZIONE”: IL GAS, L’ENERGIA, LA COLONIALITÀ Qui si apre un capitolo che riguarda non solo il rispetto della salute ecologica ma anche il piano energetico di produzione: la cosiddetta “decarbonizzazione”, ossia la transizione ad un modello produttivo sostenibile. Un discorso non semplice, ma non dobbiamo lasciarci intimorire; la responsabilità di una adeguata formazione climatica non ricade solo sulle nostre spalle, ma soprattutto su quelle di chi ha il potere di fornircela e non lo fa.   > Dobbiamo smontare l’idea di una tecnicità della scienza climatica e chiedere > saperi popolari ecologisti: uno dei limiti del movimento ambientalista bianco, > in Europa e negli USA – e quindi una delle sue debolezze – è stata la sua > ricerca di legittimità attraverso il costante riferimento alla scienza > accademica e liberale. Ciò ha significato classismo, esclusione e infantilizzazione di coloro che non avessero il privilegio di accedere alle stesse risorse formative, nonché svalutazione dei saperi popolari . Affrontiamo quindi il problema della decarbonizzazione con scrupolosità. La proposta del presidente della Regione Puglia, Emiliano, e del suo partito, il PD, avvallata dai sindacati confederati – CGIL, CISL, UIL, storicamente collusi con il progetto di una fabbrica inquinante – è quella di decarbonizzare l’impianto. Questo significa una trasformazione della qualità energetica delle fonti produttive, ossia di passare dal carbone al gas, e dal gas all’elettrico. In altre parole, la fabbrica, dichiarata di interesse strategico per la nazione, non può essere semplicemente chiusa: le sue fonti vanno trasformate in fonti elettriche, passando per il gas. I problemi però sono tanti, e non di natura leggera. Il primo è che i tempi sono molto lunghi per arrivare all’elettrico. Il secondo, è che un processo chiamato “decarbonizzazione” che preveda un ritorno ad un regime produttivo maggiore dell’attuale, con la riapertura degli altiforni, e che si basi proprio sul carbone, è una contraddizione in termini, o meglio una forma di greenwashing, cioè di presa per il culo. Il terzo è che il gas non è affatto una fonte energetica migliore del carbone, e ha effetti inquinanti analoghi.Inoltre, attingere al gas significherebbe o ricorrere al TAP – storico sito di contestazione pugliese – e potenziare il gasdotto, ma questo richiederebbe troppo tempo; oppure far arrivare una nave rigassificatrice nel porto di Taranto, ma ciò contrasta – secondo il sindaco di Taranto – con la “vocazione turistica e commerciale del porto di Taranto”. Una impasse bella e buona. Ma anche se fosse possibile far arrivare il gas a Taranto, da dove proverrebbe questo gas? La cosa che possiamo sperare è che non venga dai progetti di approvvigionamento del gas che il governo Meloni ha messo in piedi con il Piano Mattei: uno di questi, il cosiddetto Corridoio Sud dell’Idrogeno, un gasdotto lungo 3.300km, dovrebbe portare il gas prodotto in Tunisia verso l’Italia sino alla Germania. Se il gas che arriva a Taranto dovesse arrivare grazie ad uno di questi progetti la produzione tarantina diverrebbe complice di un flusso di beni di natura estrattiva e neocoloniale, di cui SNAM, principale promotrice del piano, sarebbe pienamente responsabile. D’altronde, né il governo italiano né ENI sembrano prendere sul serio le proprie responsabilità coloniali, continuando in pieno genocidio palestinese con l’esplorazione di giacimenti di gas nelle acque gazawi, e stringendo accordi con Ithaca Energy, società inglese partecipata all’89% – e quindi, di fatto, di proprietà – dalla israeliana Delek Group, denunciata dall’ONU per le operazioni nei Territori Occupati palestinesi e ora complice del genocidio. Rimane quindi in gioco la questione di come effettuare questa transizione senza macchiarsi le mani di sangue. VERSO UN COINVOLGIMENTO ECOLOGISTA POPOLARE Torniamo così al nostro 28 luglio. Il 28 luglio 2025 la comunità tarantina si riunisce sotto il palazzo del Comune. Il motivo è un confronto tra l’amministrazione comunale e i movimenti, le associazioni, l3 cittadin3 in generale rispetto al cosiddetto accordo di programma, ossia il documento che disegna il programma della transizione energetica dell’ex-Ilva. L’accordo deve essere firmato da governo, regione, comune, e sindacati. Pensata per ascoltare l3 cittadin3 prima dell’incontro ufficiale con le istituzioni del 31 luglio – ora rinviato al 12 agosto – quella giornata è diventata marea: da anni chiediamo la chiusura degli altiforni, la bonifica dei terreni contaminati, e la fine di modelli produttivi nocivi. Come avremmo potuto reagire, dopo anni di indifferenza, ad un’occasione di confronto? E non è nemmeno successo nulla, solo qualche lucculo (grida, nda). Se le istituzioni si chiedono come si sfiata una pentola a pressione, la risposta è semplice: rimuovendo la pressione. Quello che ci serve è la proliferazione di spazi democratici reali di confronto, che le istituzioni aprano realmente tavoli di trattativa con i movimenti e le associazioni, e non scappino dalle responsabilità politiche. > Serve un coinvolgimento della cittadinanza permanente: tavoli, assemblee, > audizioni, che costruiscano collettivamente un immaginario e un piano di > trasformazione non solo produttiva e climatica, ma ecologica, complessiva, > mettendo in primo piano i bisogni realmente espressi dalle persone. Non più solo verità e giustizia, ma alternativa: al ricatto salute-lavoro, alla produzione inquinante, al lavoro di cura invisibilizzato, alla complicità con il sistema coloniale, alla subalternità politica. Un’alternativa capace di riparare al danno commesso in decenni di sacrificio, all’altezza della dignità politica di una lotta che continua a resistere. Un piano di trasformazione popolare, sociale, che cambi completamente i rapporti di produzione e di riproduzione con il territorio. Il cuore ora ci batte a mille, lasciamo che si alzi ancora nel cielo il coro più minaccioso di quella giornata di luglio: “Vogliamo vivere”. L’immagine di copertina è di Le Benevole (flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Ancora Taranto. Per un programma di ecologia popolare e partecipata proviene da DINAMOpress.