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L’Ecuador non è in rivolta. È in uno stato di difesa ancestrale
> “Quando lo Stato reprime la vita, resistere smette di essere una protesta e > diventa un imperativo”. In Ecuador non c’è un conflitto per i sussidi. C’è lo scoppio di una storia che l’America Latina conosce a memoria. In Ecuador, le popolazioni indigene non stanno reclamando benefici. Stanno difendendo il diritto di esistere di fronte a un governo che ha deciso di militarizzare la fame, blindare l’estrattivismo e criminalizzare la memoria. Questa non è una protesta. È un’autodifesa storica contro uno Stato che non ascolta più e che risponde alla povertà con i fucili. NON SOLO NOBOA, MA TUTTO UN MODELLO Il presidente Daniel Noboa ha eliminato il sussidio sul diesel sapendo che avrebbe colpito prima di tutto i più poveri del Paese. Nelle zone rurali, dove la povertà raggiunge il 41% della popolazione, un litro di carburante può significare mangiare o non mangiare. Noboa non ha corretto una distorsione. Ha attuato una decisione ideologica, secondo cui la vita rurale non è indispensabile e il mercato deve decidere chi respira. Lo ha fatto ripetendo la ricetta già applicata in Perù, Cile e Colombia. Il manuale è chiaro: . Si aumenta il costo della sopravvivenza. . Si invia l’esercito prima del dialogo. . Chi resiste viene accusato di terrorismo. . Si promette ordine per i mercati mentre si normalizza la paura. Niente di più moderno della violenza amministrata. Il governo crede di poter controllare la crisi con discorsi di stabilità macroeconomica e il sostegno degli organismi multilaterali. Ma l’economia che difende non misura vite, misura investimenti. È questa logica di cifre senza volti che sta nuovamente infiammando il continente. I POPOLI INDIGENI NON MANIFESTANO, SI RIBELLANO La CONAIE (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) non ha indetto una protesta simbolica. Ha dichiarato una difesa territoriale. Sono state chiuse le strade e bloccati i passaggi logistici strategici. Non come gesto simbolico, ma come barricata. Quando i popoli indigeni agiscono, non lo fanno per ideologia, ma per sopravvivere. La risposta del governo è stata immediata e brutale. Migliaia di poliziotti e militari schierati. Minaccia televisiva di Noboa e apertura di tutte le strade a qualsiasi costo. Come se un Paese fosse un’autostrada e non una nazione con una memoria. Come se permettere al popolo di parlare fosse un atto di debolezza. Le cifre non sono più voci. Tre morti, centinaia di feriti e duecento arrestati. Intere comunità assediate dalle forze armate, eppure la resistenza non si è spezzata. Si è ritirata per riorganizzarsi. Questa non è una sconfitta, è una strategia. Oggi i leader indigeni parlano dalla selva e dalla collina, collegati da radio e telefoni comunitari, ricostruendo l’unità dalla precarietà. Quello che il governo chiama “ritirata” è, in realtà, un seme di resistenza. L’ECUADOR NON È SOLO, IL CONTINENTE OSSERVA IL PROPRIO RIFLESSO Quello che sta succedendo in Ecuador fa parte della stessa frattura. Lo viviamo in Bolivia, in Cile e in Perù con morti che continuano a non avere giustizia. Governi che parlano di progresso mentre assediano territori ancestrali, che chiamano modernizzazione la spogliazione di fiumi, montagne, lingue e che amministrano la repressione prima della dignità. I popoli indigeni non sono un attore sociale. Sono l’ultima frontiera tra la vita e lo spoglio. Per questo vogliono che siano smobilitati e per questo li chiamano problema. Perché se si fermano, l’Amazzonia viene liquidata, il litio viene regalato e il rame viene privatizzato per sempre. Nella logica del potere, non possono esistere, ma nella logica del pianeta, non possono scomparire. Il silenzio internazionale fa parte dello stesso patto. I governi del nord del pianeta applaudono la “stabilità” mentre acquistano le risorse che nascono dalla violenza e le élite locali, comode nelle loro capitali. Preferiscono chiamare disordini ciò che è difesa. CIÒ CHE CHI GOVERNA DALL’ALTO NON CAPISCE MAI Noboa crede di poter vincere con la repressione, crede che aprire con la forza una barricata significhi spaccare una cultura, crede che sottomettere alla paura spenga la storia e commette l’errore classico di tutti i governi che vedono i popoli come una minaccia. Non capiscono che queste lotte non sono tattiche, sono spirituali e che il corpo indigeno può cadere, ma ciò che lotta non è il corpo, è la memoria e quella non si negozia con i proiettili. I popoli possono essere impoveriti, sfollati o messi a tacere, ma non sconfitti. Perché la loro lotta non si misura nei sondaggi o nei cicli elettorali, ma in secoli di resistenza. Per questo, ogni volta che lo Stato reprime, risveglia ciò che credeva addormentato e che è la radice del popolo. L’ECUADOR NON STA ANDANDO A FUOCO. SI STA RISVEGLIANDO E quando un popolo si alza in piedi non per rivendicare, ma per difendere ciò che è sacro, i governi dovrebbero smettere di chiedersi come fermarlo e iniziare a porsi l’unica domanda che conta: quale legittimità ha un potere che ha bisogno dei fucili per sostenersi? Perché se la risposta è nessuna, allora ciò che è in crisi non è l’ordine, ma il diritto dello Stato di continuare a definirsi democratico. Oggi il Paese sembra vivere tra coprifuoco e trasmissioni televisive a rete unificate, tra discorsi di unità e gas lacrimogeni. Ma nelle comunità, dove i bambini continuano ad andare a scuola tra le barricate, c’è una certezza che nessun decreto può cancellare, e cioè che la vita non si negozia, si difende. L’ECO DEL CONTINENTE Quello che sta succedendo oggi in Ecuador non è un’eccezione, è un linguaggio comune nella regione. Dalle Ande alla Patagonia, i governi rispondono al malcontento con scudi e decreti, mentre i popoli tornano a parlare a partire della terra, non del potere. La resistenza ecuadoriana non è un‘esplosione isolata, ma è un’ulteriore pagina della stessa storia che attraversa Perù, Cile e Bolivia. L’America Latina non sta bruciando, sta ricordando chi è. E quando un continente ricorda, il potere trema… -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mauricio Herrera Kahn
COP30 a Belém: c’è un elefante nella stanza
C’è un elefante nella stanza della COP30 in corso a Belém, un tema escluso dall’ordine del giorno, ma capace di pregiudicarne gli eventuali risultati (comunque scarsi, ma non più che nelle 29 COP che l’hanno preceduta). Quell’elefante è la guerra. Tutti sanno che guerra e lotta per il clima sono incompatibili, ma nessuno osa parlarne. Il tema non è all’ordine del giorno. Nessuno lo ha proposto. Perché? Molti non credono  che la crisi climatica e ambientale sia una vera minaccia. Altri pensano che sia talmente complicato affrontarla che non vale nemmeno la pena tentare. Altri ancora, la maggioranza di quelli che sono lì  sperando di raggiungere un risultato – e non per boicottarne lo svolgimento, come i 5.000 e più lobbisti dell’industria fossili e affini presenti – temono che sollevare il problema finirebbe per pregiudicare il poco che si può ottenere. Invece occorre parlarne. Per tante ragioni, alcune banali, altre meno. Innanzitutto, la guerra, che la si faccia o no, succhia una quantità incredibile di risorse finanziarie, tecnologiche e umane che potrebbero e dovrebbero essere destinate alla lotta per il clima e per la salvaguardia dell’ambiente (e per l’eguaglianza, che ne è la condizione). Lo abbiamo visto con il Green Deal europeo: dal progetto (malaccorto) di incanalare “sviluppo” e profitti sulla strada della cura dell’ambiente alla decisione, ormai condivisa da tutti i governi, di fare della produzione di armi il motore dell’accumulazione del capitale. Nessuno di loro, guerra o no, si tirerà mai indietro. Poi le guerre in corso sono un potente fattore di rilancio dei fossili. Schiacciati dalle auto-sanzioni che si sono imposte, i Paesi dell’Unione Europea si sono lanciati in una corsa alla scoperta o alla valorizzazione di risorse aggiuntive con cui sostituire le forniture di gas e petrolio russi, con tanti saluti alla transizione. La guerra, d’altronde, aumenta il consumo di combustibili e le relative emissioni: per spostare uomini e mezzi, per far funzionare e produrre sempre nuove armi. E ogni esplosione è un fuoco che brucia ossigeno e produce CO2. Poi la guerra distrugge non solo vite umane, ma anche edifici e manufatti, fino a radere tutto al suolo, come a Gaza, ma anche in Donbass: tutte cose che andranno sostituite e ricostruite con altro dispendio di risorse e altre emissioni. Ma distrugge anche il suolo, le acque dei fiumi e la vita animale e vegetale, sia selvatica che coltivata o di allevamento che li abita, rendendoli sterili per anni o per sempre e trasformando in fonti di emissioni quelli che erano pozzi di assorbimento del carbonio. La guerra è un incubatore di tecnologie della violenza rivolte contro la vita umana, i centri abitati, i manufatti e le infrastrutture, ma disponibili (dual use) a venir utilizzate anche nella guerra contro l’ambiente e la natura. La storia dei pesticidi, dei mezzi aerei per irrorarli, dei razzi per provocare la pioggia o sventare la grandine e altro ancora è questa. Ma domani verranno sviluppate e impiegate per arginare il riscaldamento climatico con la geo-ingegneria: tecnologie “dure”, dagli effetti irreversibili, ideate e gestite da un qualsiasi “Stato maggiore” della lotta per il clima autonominato, sia di Stato che privato. Per mettere fuori gioco le tecnologie “dolci” e amiche della Terra – dall’alimentazione ai trasporti, da quelle dell’abitare alla rinaturalizzazione del territorio, dalla cura congiunta di uomini e ambiente (one health) alla salvaguardia della biodiversità – tutte cose praticabili solo attraverso una riorganizzazione della vita quotidiana con il coinvolgimento di tutti. La guerra produce profughi, milioni di “migranti”, sia direttamente, sia attraverso la distruzione dell’ambiente e la crisi climatica che alimenta. La lotta per la salvaguardia dell’ambiente e per il clima cerca invece di restituire a chi è investito da quei processi la possibilità e i mezzi per restare dov’è, per ricostruire su nuove basi le condizioni della vivibilità. La guerra porta alla militarizzazione non solo delle istituzioni, ma anche della vita quotidiana e delle culture che la sottendono e a poco a poco – o anche rapidamente – invade tutti gli spazi: informazione, cultura, ricerca, scuola, lavoro, produzioni, mentalità e, ovviamente, “ordine pubblico”: cioè spazi di libertà. Tutti coloro che allo scoppio della guerra in Ucraina si sono compiaciuti della risposta puramente militare della Nato,  dell’Unione Europea o del governo ucraino non si sono resi conto – allora e forse neanche adesso – di quanto quel loro entusiasmo abbia influito nel trasformare “lo spirito del tempo”: il linguaggio dei media, l’autocensura, il rancore, la priorità su tutto data alle armi, la perdita di un orizzonte di convivenza, il cinismo di fronte alla morte sia di “civili” che di combattenti, sia “nemici” che “amici” e ovviamente l’indifferenza per il destino del nostro pianeta. La guerra promuove sudditanza e subordinazione da caserma, mentre la lotta per l’ambiente e per il clima produce autonomia, inventiva, spirito di collaborazione e di iniziativa dal basso, quello che occorre per affrontare il difficilissimo futuro che ci aspetta. Infine, tema di grande attualità, la guerra è sia fonte che copertura (per chi già la praticava alla grande) di corruzione: rende possibile accumulare potere e ricchezza alle spalle di chi viene mandato a morire al fronte o condannato a crepare nelle retrovie. Costi, prezzi e destino delle armi sono segreti di Stato non controllabili (tanto poi scompaiono, distrutte), come lo è il conto delle vittime e dei danni: chi li maneggia e ci guadagna sta da sempre nelle retrovie, mentre a morire sono sempre altri. Il contrario della lotta per la salvaguardia dell’ambiente: in prima linea nell’organizzarla e nel condurla ci sono sempre i “difensori dell’ambiente”, il numero ormai sterminato delle vittime della guerra che governi e multinazionali che speculano distruggendo l’ambiente conducono contro Madre Terra. Leggere l’enciclica Laudato sì farebbe bene a tutti i convocati a Belém, ma i popoli indigeni presenti non ne hanno bisogno. La conoscono già. L’hanno ispirata loro. Guido Viale
Filippine, proteste contro il progetto di una diga sul fiume Kaliwa
RICHIESTA DI ANNULLAMENTO IMMEDIATO DEL PROGETTO La coalizione Stop Kaliwa denuncia con forza l’approvazione di ulteriori 3,1 miliardi di Pesos filippini per il progetto di una diga sul fiume Kaliwa (30 km a est della capitale Manila, N.d.R), aumentando il suo costo totale a 15,3 miliardi di pesos. Questa decisione, promossa dal Consiglio dell’Autorità nazionale per l’economia e lo sviluppo (NEDA), sotto il presidente Ferdinand Marcos Jr, ignora palesemente le questioni gravi e irrisolte che riguardano il progetto. Il Sistema Idrico e Fognario Metropolitano di Manila ha ripetutamente violato i requisiti essenziali del suo certificato di conformità ambientale. Il progetto continua senza soddisfare le condizioni intese a salvaguardare l’ambiente, le popolazioni indigene e le comunità locali; un tradimento della fiducia pubblica e della tutela ambientale. > “Mi chiedo perché sono stati aumentati i fondi se la Commissione Nazionale per > i Popoli Indigeni ha già violato molte leggi in materia di consulta previa > delle popolazioni locali (FPIC). Non dovrebbe aumentare i fondi, ma fermare la > diga di Kaliwa”, ha affermato Marcelino Tena, un leader tribale. Il presidente > Marcos ha detto che il cambiamento climatico dovrebbe essere protetto, ma ora > è lui ad aumentarlo.” Il processo di consenso libero, preventivo e informato (FPIC), una salvaguardia vitale per i diritti degli indigeni, è stato gravemente violato. Il consenso è stato ottenuto attraverso processi manipolati pieni di irregolarità, ignorando le vere preoccupazioni e l’opposizione delle comunità Dumagat-Remontado. “Contrariamente a quanto dice Marcos, è stata aggiunta un’area dove la terra ancestrale dei nostri nativi Dumagat sarà distrutta”, ha denunciato Ma. Clara Dullas, presidente di K-GAT, un’organizzazione femminile nella Sierra Madre. Nonostante le evidenti violazioni legali ed etiche, non è stato pubblicato alcuno studio ambientale aggiornato che rifletta il grave impatto ecologico e sociale del progetto. Non sono state condotte vere e proprie consultazioni pubbliche. Le comunità locali rimangono disinformate o deliberatamente escluse. Diamo anche l’allarme per l’esborso anomalo della cosiddetta “tassa di disturbo” di 160 milioni di pesos. Il processo manca di trasparenza, scavalca la consultazione delle comunità e alimenta la divisione tra i popoli indigeni, una chiara tattica per indebolire la legittima resistenza. > “Questa mossa del presidente è deludente. Il Sistema Idrico e Fognario > Metropolitano di Manila e la Cina stanno festeggiando, mentre noi stiamo dando > la vita per proteggere la nostra terra e la nostra tribù “, ha affermato Ramcy > Astoveza. “Spero che quest’anno, prima di negoziare con la nostra terra, > parlino prima con noi.” Anche l’irresponsabilità finanziaria del governo è sotto esame. Il progetto è sintomatico di un modello di costi delle dighe gonfiati e di un debito estero insostenibile. > Conrad Vargas di PICOPI cita studi globali: “Ciò che dice lo studio della > Commissione mondiale sulle dighe è corretto. Il costo sta aumentando di quasi > il 200% rispetto all’originale.” Avverte: “Ogni filippino sopporterà l’onere > di pagare questo debito. Mettiamo in discussione la legittimità di queste > decisioni alla Corte Suprema.” Il Presidente Marcos Jr. non si è presentato durante la marcia di Alay Lakad (processione religiosa che si svolge durante la Settimana Santa, N.d.R.)  di 9 giorni nel 2023, dove le comunità indigene e non indigene hanno camminato per la giustizia e hanno chiesto la sua attenzione. Oggi lo esortano di nuovo ad ascoltare le persone che ha promesso di servire. > “Chiediamo al presidente Marcos Jr. di annullare immediatamente il progetto > della diga di Kaliwa, interrompere tutte le attività di costruzione e avviare > un dialogo autentico con le comunità colpite. Le nostre foreste, i fiumi, le > culture e vite non sono in vendita. Chiediamo soluzioni sostenibili e > incentrate sulle comunità per le esigenze idriche di Metro Manila, non > progetti distruttivi che violano i diritti umani e il dominio ancestrale”. Fermiamo subito la diga di Kaliwa! Proteggiamo le nostre foreste, difendiamo i diritti degli indigeni! ——— STOP Kaliwa Dam Network (SKDN) è una coalizione di varie organizzazioni locali e nazionali, istituzioni e gruppi indigeni che si oppongono e si battono attivamente contro la costruzione del controverso New Centennial Water Source-Kaliwa Dam nella catena montuosa della Sierra Madre meridionale nelle Filippine. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza Philippines
Resistenza indigena contro l’espansione estrattivista
L’espansione estrattivista ha caratterizzato per secoli l’economia e la storia dell’Ecuador, ed è stata da sempre sinonimo di ecocidio e di distruzione delle culture indigene. A questo fenomeno le popolazioni si sono opposte e hanno sviluppato molteplici forme di opposizione. Lo sfruttamento di risorse naturali da parte delle imprese petrolifere e minerarie continua a provocare un grave danno per il territorio amazzonico ecuadoriano.  Queste pratiche estrattive accelerano il depauperamento delle risorse naturali e minacciano la sopravvivenza fisica, culturale e spirituale dei popoli locali, contribuendo al perpetuarsi della colonizzazione dei loro territori. > Lo sviluppo illimitato e lo sfruttamento costante dei territori è in antitesi > al neologismo quechua Sumak Kawsay, creato negli anni 1990 da organizzazioni > indigene socialiste, che indica il principio radicato nella cosmovisione > indigena e nella conoscenza ancestrale del “vivere bene” in armonia con la > terra. Con l’aumentare della devastazione ambientale, cresce con gli anni anche l’incidenza di malattie tra gli abitanti. Nel decimo rapporto del Registro Biprovinciale dei Tumori delle province di Sucumbíos e Orellana, l’associazione UDAPT – La Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco (Unione delle persone colpite dalle operazioni petrolifere della Texaco) e la ong Clínica Ambiental riportano un incremento delle persone malate di cancro, di cui il 74% donne, e una maggior presenza della malattia nella popolazione che vive nelle vicinanze delle aree in cui operano diverse aziende petrolifere. L’incidenza dei tumori è allarmante e non accenna a diminuire. Visitando la zona equatoriale dell’Amazzonia, l’odore acre e il suono aggressivo e ininterrotto delle fiamme segnalano l’avvicinarsi alle zone dove si pratica il gas flaring, ossia la combustione di gas di scarto derivanti dall’estrazione del petrolio, i quali, anziché essere recuperati, vengono bruciati nell’ambiente attraverso i cosiddetti “mecheros de la muerte”. Queste alte ciminiere emanano sostanze tossiche che contribuiscono alla devastazione ambientale e rappresentano una delle principali cause dell’aumento dei casi di cancro. Solo nell’Amazzonia ecuadoriana sono attivi ben 486 “mecheros”. Dal dolore per le ferite inflitte alla terra e alle persone, nascono forme di Lotta, Resistenza e Cura collettiva. Nel 2023 la storica vittoria nel referendum contro lo sfruttamento petrolifero nel Parco Yasuní e l’estrazione mineraria nel Chocó Andino – una delle 40 riserve di biodiversità del pianeta – sembrava un nuovo punto di svolta fortemente voluto dalla popolazione ecuadoriana. > Nell’agosto del 2024 però, a distanza di un anno, la situazione era rimasta > invariata, nulla era cambiato nelle attività minerarie e nelle strategie di > tutela ambientale, e anzi il governo ecuadoriano ha chiesto una proroga di > cinque anni per l’attuazione della volontà popolare. Al centro delle azioni di lotta ci sono le comunità indigene e le popolazioni locali che con determinazione si organizzano e si formano per attivare nuove forme di resistenza locale. Proteste, scioperi, querele contro lo Stato, campagne di sensibilizzazione e denuncia per proteggere i loro territori ancestrali. Ancora oggi luoghi e persone, custodi per secoli di tradizioni, culture e conoscenze, sono minacciati da un modello di sviluppo che, in nome del progresso, saccheggia risorse naturali, inquina i fiumi, l’aria, deforesta le montagne e compromette l’equilibrio ecologico. Anche la cura emerge come elemento centrale, non limitandosi a sanare le ferite e le cicatrici fisiche, ma anche quelle spirituali, causate dal disprezzo e dall’oppressione delle culture indigene e locali. La cura come difesa del territorio e cura degli elementi e simboli che identificano e rappresentano la memoria ancestrale, culturale, spirituale e cosmogonica delle popolazioni native. Che futuro ha questo processo di guarigione collettiva? Riuscirà a proteggere il territorio ferito? Davide Costantino Il terreno sotto le torce degli impianti di gas flaring è un triste cimitero di insetti. Oltre a danneggiare la salute delle comunità locali, le fiamme hanno un impatto devastante sulla flora e fauna dell’Amazzonia Davide Costantino I gas di scarto bruciano nella ciminiera del pozzo petrolifero nella Parahuacu Oil Station, rilasciando inquinamento atmosferico ed un odore acre diffuso nell’aria che si estende per chilometri Davide Costantino Tubi neri di petrolio carbonizzato si snodano attraverso la vasta foresta amazzonica, lacerando il silenzio della natura e penetrando nel cuore pulsante di un ecosistema ancestrale Davide Costantino Il “pozzo Lago Agrio N° 1” è stato il primo pozzo petrolifero perforato in Ecuador nel 1967 dal consorzio americano Texaco-Gulf, aprendo l’era dell’oro nero nell’Amazzonia ecuadoriana e facendo della zona di Lago Agrio la capitale petrolifera dell’Ecuador Davide Costantino L’impronta umana del petrolio su un albero della foresta amazzonica. In 30 anni, la compagnia Texaco ha perforato 356 pozzi, creando bacini di ritenzione per raccogliere residui di petrolio, rifiuti tossici e acqua contaminata. L’impatto è ancora visibile Davide Costantino Donald Moncayo coordinatore generale di UDAPT – La Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco (Unione delle persone colpite dalle operazioni petrolifere della Texaco), mostra gli sversamenti di petrolio e i luoghi contaminati ancora presenti nelle province amazzoniche di Sucumbíos e Orellana Davide Costantino Sala di attesa dell’ambulatorio dell’équipe sanitaria dell’UDAPT. L’associazione lavora per contrastare gli effetti devastanti dell’inquinamento ambientale offrendo supporto terapeutico e sociale a chi è colpito da malattie gravi, in particolare oncologiche, provocate dalle attività estrattive Davide Costantino Jenny España, conduce una sessione di biomagnetismo per trattare il dolore post-operatorio di una paziente curata dal cancro. Secondo il Registro dei Tumori Biprovinciale delle province di Sucumbíos e Orellana, sono stati registrati in totale 531 casi di cancro (fino al 2023) Davide Costantino M. è seguita dall’Equipo de Salud, durante un trattamento alternativo specifico per la riduzione del dolore. Questo approccio mira a migliorare la sua qualità di vita, affiancando le terapie tradizionali Davide Costantino L’attività mineraria e l’estrazione petrolifera continuano a costituire una minaccia costante per il territorio ancestrale amazzonico. La Guardia Indigena, composta da uomini e donne, ha organizzato gruppi di osservatori e guardie per proteggersi dalle nuove e crescenti minacce Davide Costantino Un truck proveniente dalle raffinerie di petrolio che attraversa il territorio amazzonico. Oltre all’estrazione petrolifera anche la costruzione di strade è una delle principali cause di deforestazione soprattutto nell’Amazzonia ecuadoriana Davide Costantino Membri della Guardia Indigena durante un’operazione di controllo del territorio amazzonico minacciato da attività illegali. La profonda conoscenza del territorio e l’utilizzo di nuove tecnologie hanno un ruolo fondamentale per la conservazione del territorio Davide Costantino Decimo incontro di scambio di conoscenze ed esperienze per la difesa del territorio presso la Comunità Shuar di Consuelo. Guardie Indigene durante le attività spirituali e formative per la protezione e la difesa dei loro territori, per fortificare i processi del diritto all’autonomia e all’autogoverno Davide Costantino Al centro delle azioni di lotta le Guardie Indigene si organizzano e si formano per attivare nuove forme di resistenza locale per la preservazione del territorio Davide Costantino Il fuoco sacro è il cuore spirituale nelle comunità che si impegnano a promuovere le tradizioni culturali per la difesa del territorio e per riconnettere i giovani con la foresta e i suoi spiriti Davide Costantino Attiviste davanti alla Corte Costituzionale di Quito durante la manifestazione che ha celebrato il primo anniversario della vittoria al referendum del 2023. Delia chiede che il referendum venga rispettato e venga attuato il piano per la chiusura e lo smantellamento dei siti di estrazione nel Parco Yasuní e nel Chocó Andino Davide Costantino Gruppi sociali durante una marcia per chiedere il rispetto della consultazione popolare sul Chocó andino. ‘Quito Sin Minería’ è l’urlo di protesta che si alza davanti alla Corte Costituzionale Davide Costantino La polizia nel presidio di controllo per scortare e monitorare la manifestazione per la ricorrenza dopo un anno dalla consultazione popolare del 2023 in cui la maggioranza degli elettori di Quito ha rifiutato l’estrazione mineraria nella riserva della biosfera Chocó Andino Davide Costantino Marcia nel centro di Quito contro lo sfruttamento minerario nell’Amazzonia ecuadoriana. Le misure di protezione ambientale non sono state attuate, il Governo chiede una proroga di cinque anni per dismettere le perforazioni dei giacimenti Tutte le immagini sono di Davide Costantino e fanno parte di un più ampio reportage intitolato «LA NOSTRA TERRA: Resistenza indigena contro l’espansione estrattivista» SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Resistenza indigena contro l’espansione estrattivista proviene da DINAMOpress.