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Condividono saperi verso una cartografia per la vita
Leader indigeni e specialisti provenienti da tre continenti si sono riuniti per condividere conoscenze e costruire un’agenda comune durante il Seminario internazionale sulle Pratiche di Mappatura Indigena tenutosi a Santa Cruz, in Bolivia. Dopo due giorni di dialoghi, le/i partecipanti hanno concordato sulla necessità di costruire reti di cooperazione per rafforzare l’unità dei popoli dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. FOTO: CENDA “Se lavoriamo collettivamente, potremmo costruire una proposta di vita civilizzatrice, una cartografia per la vita”, ha sottolineato Paspantzhu Vitery, vicepresidente della Nazionalità Kichwa del Pastaza (Pakkiru). Le discussioni sulla cartografia hanno riguardato il suo utilizzo nella gestione e nella governance, nella pianificazione territoriale, nella lotta contro le attività estrattive o per segnalare e denunciare minacce. C’è stato anche spazio per condividere strumenti ed esperienze nella gestione delle tecnologie satellitari al fine di identificare attività illecite e contribuire alla prevenzione della loro diffusione. Da un punto di vista critico, l’incontro è servito a sottolineare come le mappe siano state storicamente utilizzate come strumenti di colonizzazione dei territori del sud del mondo. In contrapposizione a queste spinte egemoniche, le/i partecipanti hanno presentato strategie di appropriazione di questi strumenti da parte delle popolazioni indigene, elaborate a partire dai territori. “La mappa non è sempre stata nostra alleata, ma con il tempo siamo riusciti a utilizzare questi strumenti per esercitare i nostri diritti”, ha affermato Simón Crisóstomo Loncopán, presidente del Coordinamento di Comunità Mapuche Winkul Mapu di Curarrehue. “Le espressioni che condividiamo nascono dalla lotta per il riconoscimento di epistemologie che sono state rese invisibili dal nord del mondo”, ha aggiunto il leader mapuche. FOTO: CENDA Nell’ambito delle discussioni, il leader wampis Shapiom Noningo ha raccontato come il popolo Wampis abbia costruito la propria storia sulla base delle conoscenze, della saggezza e delle pratiche ancestrali. “I nostri nonni erano esperti nel costruire le proprie mappe […]. Erano cartografi empirici. Non scrivevano, ma ne conservavano la memoria, lo spazio del loro territorio, l’occupazione, i camminamenti, i confini di ogni villaggio”, ha sottolineato Noningo. FOTO: CENDA Il Seminario internazionale sulle pratiche di mappatura indigena è stato promosso dal Gruppo di Lavoro Internazionale sulle Questioni Indigene (IWGIA). L’evento è stato realizzato grazie a una collaborazione con l’Organizzazione di Sostegno Legale e Sociale (ORE), il Centro di Studi Giuridici e Ricerca Sociale (CEJIS), il Centro di Comunicazione e Sviluppo Andino (CENDA) e molte altre istituzioni della regione.   TRADUZIONE DI MATILDE MIRABELLA CON L’AUSILIO DI TRADUTTORE AUTOMATICO Redazione Italia
Brasile, sentenza storica. Bolsonaro e altri condannati per tentato colpo di Stato nel 2022 contro Lula
Bolsonaro è stato condannato per cinque reati: tentato colpo di Stato, tentata abolizione dello Stato di diritto democratico, appartenenza a un’organizzazione criminale, danneggiamento di proprietà pubbliche e danneggiamento di proprietà protette. Con una sentenza storica, giovedì il sistema giudiziario brasiliano ha condannato l’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro a 27 anni di carcere per aver guidato un complotto golpista dopo la sua sconfitta elettorale nel 2022, al fine di impedire l’insediamento dell’attuale presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Questa decisione arriva dopo che quattro magistrati della Corte Suprema Federale del Brasile (STF) hanno votato a favore della condanna. I giudici hanno ritenuto che Bolsonaro abbia cercato di rompere con la democrazia con l’aiuto di membri del suo governo, agenzie di intelligence e membri delle forze armate. Alla lettura della sentenza, il giudice Alexandre de Moraes, che ha guidato il processo giudiziario, ha sottolineato che Bolsonaro ha cercato “la perpetuazione del potere del suo gruppo politico, indipendentemente dalle regole democratiche e repubblicane”. “Intendeva annientare i pilastri essenziali dello Stato di diritto democratico attraverso la violenza, gravi minacce e attacchi sistematici alla magistratura, cercando il ritorno della dittatura in Brasile”, ha aggiunto. Il voto è stato così suddiviso, i giudici Alexandre de Moraes, Flávio Dino, Cristiano Zanin e Carmen Lúcia hanno votato a favore della condanna e solo il giudice Luiz Fux contro. In particolare, Moraes ha proposto la condanna a 27 anni e 3 mesi per Bolsonaro per associazione a delinquere armata, tentata abolizione violenta dello stato di diritto, colpo di Stato, danni qualificati e danneggiamento del patrimonio storico. Inoltre, Mauro Cid, ex assistente e informatore di Bolsonaro, ha ricevuto due anni di carcere in regime semi-aperto per la sua collaborazione. La sua difesa ha chiesto l’assoluzione, ma Moraes ha respinto la richiesta e ha criticato le proposte di amnistia. “Rifiuto la grazia giudiziaria, perché la grazia non è appropriata, né lo è l’amnistia. Sono clemenza costituzionale. Una grazia presidenziale, né un’amnistia del Congresso, né una grazia giudiziaria per crimini contro la democrazia sono appropriati”, ha detto Moraes. Il generale Walter Braga Netto, ex capo di stato maggiore ed ex ministro della Difesa, è stato condannato a 26 anni e 6 mesi di carcere, secondo la proposta di Moraes. Fux suggerì sette anni, ma era in minoranza. Anderson Torres, ex ministro della Giustizia, è stato condannato a 24 anni di carcere, con il voto di Moraes sostenuto da Dino, Zanin e Lúcia. Anche l’ex comandante della Marina Almir Garnier è stato condannato a 24 anni per aver sostenuto il tentativo di colpo di stato, secondo l’accusa. Augusto Heleno, ex ministro della Sicurezza istituzionale, ha ottenuto 21 anni di carcere, con la sua età di 77 anni considerata nella sentenza. Paulo Sérgio Nogueira, ex ministro della Difesa, è stato condannato a 19 anni, dopo una riduzione proposta da Dino, che sosteneva che Nogueira cercava di fermare le azioni golpiste di Bolsonaro. Moraes aveva suggerito 20 anni. L’STF ha sottolineato la gravità dei crimini, che includevano atti di violenza e danni al patrimonio storico, dopo che migliaia di sostenitori di Bolsonaro hanno invaso gli edifici del Governo, del Congresso Nazionale e della Suprema Corte Federale durante l’assalto dell’8 gennaio 2023 a Brasilia. https://www.telesurtv.net/bolsonaro-condenado-27-anos-carcel-golpista/   da Viva Cuba Libre Redazione Italia
Un tango peronista a Buenos Aires
Doppia sconfitta in Argentina per il governo ultra-liberista di Javier Milei in pochi giorni. La prima è di carattere elettorale. La seconda nel Parlamento, dove il governo ha subito una pesante battuta d’arresto, sia concreta che simbolica. Per quanto riguarda la sconfitta elettorale, domenica scorsa il peronismo ha vinto ampiamente nelle importanti elezioni legislative della provincia di Buenos Aires. Al voto erano chiamati oltre 14 milioni di argentini-e. La coalizione peronista Fuerza Patria ha ottenuto circa il 47 % delle preferenze contro il 33,8 % di “La Libertà Avanza” (LLA), il partito del Presidente Javier Milei. Come spesso accade, l’inatteso distacco di quasi 14 punti non era previsto nei sondaggi, che, su suggerimento di Milei, parlavano di una tendenza al pareggio. Lungi dal correggere la direzione del suo governo, come richiesto dall’opposizione, le prime dichiarazioni di Milei non lasciano spazio a malintesi.  “… abbiamo registrato una chiara sconfitta e se vogliamo continuare a crescere dobbiamo riconoscerlo”, ha dichiarato il Presidente ultraliberista. Sul programma economico “non tornerò indietro neanche di un passo”. “Non siamo disposti a rinunciare a un modello che ha ridotto l’inflazione dal 200 al 30% …”. I dissidenti radicali e peronisti Al terzo posto, si piazza l’inedita alleanza elettorale delle dissidenze del Partito Radicale e di quello peronista, che in poco tempo sono riusciti a presentare una propria lista (Somos Buenos Aires).  La lista ottiene un discreto risultato (5,4 %) che assicura una visibilità a futuro. Una parte della sinistra La quarta forza, è il Frente de Izquierda y de Trabajadores – Unidad (FIT-U), una lista di alcuni settori che provengono dal trotzkismo, ma che in questa occasione avevano aperto le liste ad altri. Con il 4,3 % entra per la prima volta nel parlamento della Provincia e promette di dare battaglia. La sconfitta parlamentare La seconda sconfitta è sul versante parlamentare. Nelle settimane scorse, il Parlamento aveva approvato una legge sulla disabilità che assegnava nuove risorse al settore. Una legge a cui il Presidente Milei aveva contrapposto il veto, adducendo la mancanza di fondi e la necessità di tagli.  Ma pochi giorni dopo, sono state rese pubbliche alcune registrazioni telefoniche che hanno scoperchiato un gravissimo scandalo di corruzione e mazzette sulle forniture mediche per l’Agenzia per la disabilità (ANDIS). Lo scandalo ha coinvolto direttamente l’ex direttore della ANDIS, Diego Spagnuolo, due parenti dell’ex-presidente Menem, ma soprattutto Karina Milei, sorella e capo gabinetto del Presidente, una figura chiave nella gestione e nelle trame di governo. E così, facendo uso delle prerogative costituzionali, il Parlamento ha rispedito al mittente il veto del Presidente, approvando la legge. C’è da dire che, nonostante “il callo” della popolazione rispetto agli episodi di malversazione, il furto dei fondi delle disabilità ha provocato una enorme indignazione popolare. E quello che ha fatto traboccare il vaso, è stata la concomitanza dei nuovi tagli ai fondi per le disabilità e del veto presidenziale, con lo scandalo di mazzette venuto alla luce. E questa volta, non sono bastate le promesse di maggiori fondi alle province per convincere i governatori riottosi e comprare il voto di qualche deputato e senatore per ribaltare i numeri. I perché della sconfitta elettorale Sul risultato elettorale hanno pesato diversi fattori. Innanzitutto, la durissima situazione economica frutto di una violenta politica neo-liberista che, dal dicembre 2023, ha impoverito ulteriormente una gran parte della popolazione, con una pesante riduzione del potere d’acquisto dei salari. Le tasche vuote hanno ovviamente ridotto la pressione inflazionaria da domanda che, secondo i dati ufficiali, è scesa dal 200% al 30%. Ma Milei ha sopravvalutato il sostegno popolare alla sua politica economica e sottovalutato l’impatto sul tessuto sociale. L’enormità dei tagli, la forte riduzione dei lavori pubblici, la chiusura di decine di istituzioni ed i massicci licenziamenti nell’amministrazione statale hanno colpito duramente i settori più vulnerabili e lo stesso ceto medio. Da non dimenticare anche la violenta repressione di piazza contro i pensionati che manifestano tutte le settimane, che ha causato un’indignazione diffusa. Alle urne, questo disagio profondo ha portato a un voto castigo contro il governo, anche in settori che lo avevano votato nel 2023 e che in questo periodo hanno accettato di fare sacrifici, convinti della loro necessità. In seconda battuta, ha pesato non poco il recentissimo scandalo di corruzione e mazzette, che coinvolge Karina Milei, sorella del Presidente. I tagli alle pensioni per invalidità ed il furto dei fondi dei disabili hanno superato ogni limite e vergogna di chi aveva vinto la presidenza promettendo di “farla finita con la casta corrotta dei politici” a colpi di motosega. Oltre a ciò, nelle settimane scorse, si era gridato ad un altro scandalo a causa di un coinvolgimento di Milei in una truffa con Criptomonete basata sullo “schema Ponzi”. Un episodio su cui sta indagando anche la giustizia statunitense. Inoltre, una parte dei poteri forti del Paese non vede di buon occhio il linguaggio carico di insulti e di odio contro la sinistra, contro i sindacati, contro il peronismo e Cristina Kirchner in particolare. Nelle settimane precedenti al voto, gli “spin doctors” della comunicazione del governo, gli avevano consigliato di assumere un atteggiamento più prudente e meno aggressivo, ma la promessa fatta in campagna elettorale è stata quella di “porre l’ultimo chiodo nella bara del kirchnerismo”. Visto il personaggio, non sarà semplice per lui smettere di attaccare la democrazia, il federalismo e la Costituzione, nonché rispettare la separazione dei poteri. Il braccio di ferro delle destre Si tratta quindi di una dura sconfitta elettorale del Presidente Milei e di La Libertà Avanza (LLA), ma anche dell’ex-Presidente Mauricio Macri il cui partito (PRO) era parte dell’alleanza con Milei. I rapporti tra i due non sono certo stati dei migliori dal dicembre 2023 e, in questo periodo, il braccio di ferro interno non si è mai interrotto. Molti sostengono sia farina del suo sacco la pubblicazione delle registrazioni audio con lo scandalo sulle disabilità che coinvolge il governo. Di certo, di fronte ad un risultato che cambia la geografia politica e tenendo conto della battaglia intestina, le destre argentine dovranno trovare una loro nuova ricomposizione, priorità e gerarchie. Nonostante la sconfitta, sarebbe un errore non tener conto della forza elettorale di Milei e della crescita in parlamentari locali che finora non aveva nella provincia di Buenos Aires. Anche in vista delle prossime elezioni di medio termine del prossimo 26 ottobre dove si rinnova una parte del parlamento e si vota per i parlamenti di diverse province. Saranno elezioni decisive per il Paese, ma oggi sono accompagnate da una grande incertezza. La proiezione del peronismo La vittoria di “Fuerza Patria” va oltre la provincia di Buenos Aires, con quasi il 40 % degli elettori del Paese e una grande ricchezza economica. È una vittoria che ha un significato ed una proiezione nazionale e rafforza la figura di Alex Kicillof, riconfermato come governatore della Provincia e vincitore de “la interna peronista”. Per molti, il suo discorso ottimista e la capacità di mobilitazione territoriale dei sindaci peronisti sono stati decisivi per la vittoria elettorale. Kicillof ha denunciato la proscrizione di Cristina e ne ha chiesto la libertà dagli arresti domiciliari. Lo ha fatto senza porre l’accento sullo slogan “Cristina Libera”, ma sulla necessità collettiva di “fermare Milei”. Infine, come aspetto simbolico chiave, la sua vittoria ha restituito autostima al peronismo, infliggendo una sconfitta strategica all’anarco-capitalismo in un momento cruciale, sia dal punto di vista politico che economico. La nettezza del risultato lo proietta quindi come possibile futuro candidato presidenziale, anche se nella storia argentina, nessun governatore della provincia è mai riuscito a diventare presidente.   La risposta dei “mercati” e le ripercussioni economiche A proposito dei “mercati”, la sconfitta del Governo è stata interpretata correttamente come una perdita di fiducia popolare che mette a rischio il suo piano economico. Milei non avrà davanti a sé uno scenario semplice per portare avanti il suo programma “market-friendly” e appaiono i primi segni delle ripetute crisi cicliche del liberalismo in Argentina. La sfiducia dei mercati si era già manifestata prima delle elezioni, quando JP Morgan aveva aumentato di molto l’indicatore di “rischio Paese”. Quella previsione era stata formulata sulla base del sospetto di una vittoria del peronismo con un margine di 5 punti, ma la differenza finale è stata di quasi 14. E da domenica scorsa, il “rischio Paese” è ulteriormente salito, mentre è sceso il prezzo dei titoli del debito pubblico. Per investitori e analisti, il verdetto delle urne è risultato più credibile del discorso del Presidente dopo la sconfitta («non si cambierà nulla, anzi si approfondirà») e dei tentativi del ministro dell’Economia, Luis Caputo, di far credere che «nulla cambierà». Dopo il voto, quasi tutto il mercato azionario ha subito un duro contraccolpo, ma i ribassi più marcati hanno riguardato i titoli del settore bancario ed energetico. A New York le azioni delle banche hanno registrato perdite del 20%, mentre i ribassi dei bond sovrani sono stati fino al 17%. Anche sul versante del dollaro c’è stato un rialzo nel cambio che, come si sa opera sia sui canali ufficiali che su quelli del “dollaro blue” del mercato parallelo.  Mentre scrivo, il dollaro ufficiale è quotato presso il Banco Nación a 1.390 pesos per l’acquisto e 1.450 pesos per la vendita. Per gli investitori, la sconfitta di Buenos Aires solleva dubbi sulla stabilità politica necessaria per sostenere il programma economico del governo. Il ricordo della sconfitta di Mauricio Macri nelle primarie del 2019, che aveva causato un forte impatto in borsa e sul mercato azionario, pesa ancora sulla memoria degli argentini e degli investitori. Certamente il contesto attuale è diverso, ma la batosta politica del governo Milei ha già sollevato molti segnali di allarme e genera incertezza economica e politica. Mentre probabilmente si rafforzerà la pressione per svalutare il peso argentino, la decisione di Milei è quella di raddoppiare la scommessa, di approfondire ed accelerare il modello neo-liberista, indurendo lo scontro con l’opposizione e con una cittadinanza che ha già mostrato il suo malcontento. Conclusioni Sul versante internazionale, mentre Giorgia Meloni sceglie di tacere sulla sconfitta del suo migliore alleato in America Latina, il criminale di guerra israeliano Netanyahu ha annunciato la cancellazione della sua prevista visita all’amico Milei. Dall’Argentina viene un messaggio chiaro: la politica di aggiustamento strutturale senza risultati che favoriscano la maggioranza della popolazione logora rapidamente il governo che aveva vinto con la promessa di combattere la corruzione e trasformare radicalmente il Paese. Viceversa, questo risultato rafforza la resistenza popolare contro il governo, mentre appare uno spiraglio di speranza per i pensionati, i funzionari pubblici, i lavoratori e lavoratrici della scuola e della salute. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se, a partire dalla resistenza popolare e dai risultati elettorali, si riuscirà a costruire un’alternativa politica credibile.   Redazione Italia
Cile: nubi minacciose sulla contesa elettorale
Secondo i sondaggi, è molto probabile che più della metà della popolazione cilena rimanga insoddisfatta di chiunque vincerà la corsa presidenziale. Né la vittoria di una candidata comunista, né l’eventuale vittoria del leader del Partito Repubblicano, potranno soddisfare quel centro politico frammentato che non è stato in grado di imporre qualcuno del proprio settore all’interno dei due maggiori raggruppamenti, sia nel centro-sinistra che nel centro-destra. Finora, coloro che hanno maggiori possibilità di passare al secondo turno elettorale sono Jeannette Jara (sinistra) e José Antonio Kast (destra). Vale a dire, gli estremi dell’arcobaleno politico cileno. Si stanno compiendo enormi sforzi a montare delle campagne di terrore a danno di entrambi i candidati. Tuttavia, queste manovre non hanno influenzato le intenzioni di voto dei cittadini cileni. Molto più impatto sembra avere la serie di errori commessi dagli stessi contendenti, così come dai partiti che rappresentano. Ma questo può al massimo favorire il voto nullo o bianco, posizione che è stata insinuata dai democratici cristiani, dagli autodefiniti socialisti “democratici” e da alcuni leader di altre formazioni riluttanti al trionfo dei candidati che oggi sono meglio quotati. Va considerato che, parallelamente, gli elettori dovranno rinnovare tutti i membri della Camera dei deputati e metà del Senato in elezioni che stanno gradualmente concentrando gli interessi dei partiti. Soprattutto quando si presume che chiunque sarà il futuro presidente della Repubblica non otterrà una maggioranza parlamentare che gli consenta di governare senza grandi intoppi con il potere legislativo. In sostanza, i partiti politici scommettono che sarà in entrambe le camere che si giocherà la grande battaglia per il proprio futuro politico e quello del Paese. Per questo motivo molti analisti prevedono una situazione di ingovernabilità e di nuovi conflitti sociali. È in questo senso che si spiegano le tensioni vissute dalla candidata Jara e dalla sua stessa comunità. Per quanto il Partito Comunista abbia concesso autonomia alla candidata del partito di governo, in pratica il PC disapprova quella che definisce la posizione socialdemocratica assunta da lei nel tentativo di ottenere sostegno e fiducia degli otto partiti che rappresentano la sua candidatura. Sembra che i comunisti non vogliano che le loro posizioni più radicali vengano offuscate, il che potrebbe compromettere le loro aspirazioni di aumentare la loro rappresentanza di deputati e senatori. Questo raffreddamento dei dirigenti comunisti nei confronti della loro candidata presidenziale sarebbe favorito dalla constatazione che il sostegno popolare a Jeannette Jara sembra aver raggiunto il limite massimo, oltre alle scarse possibilità che avrebbe nella disputa con uno qualsiasi dei tre candidati della destra. Vale a dire, lo stesso Kast, Evelyn Matthei e Johannes Kaiser. In definitiva, né l’anticomunismo né l’antipinochetismo sono riusciti a influenzare in modo significativo le campagne elettorali. La cosa più chiara è che i cileni preferiscono una soluzione radicale piuttosto che la continuità, in una chiara espressione del malcontento generale nei confronti di tutti i principali attori politici e partiti. A poco più di due mesi dal voto, c’è ancora il 25% degli elettori senza un candidato e apparentemente senza un grande interesse a votare. Sebbene il voto sia obbligatorio, ciò influirà comunque sui risultati. È evidente che l’opposizione è più sicura della vittoria e del buon risultato elettorale di tutti i suoi candidati presidenziali. Ma questo entusiasmo non riesce a dissuadere i suoi partiti dalle aspre controversie in tutto il settore. E se si suppone anche che al secondo turno saranno tutti costretti a trovare un accordo elettorale, non mancano coloro che prevedono che Kast non troverà persone delle file di Renovación Nacional o dell’UDI disposte a entrare a far parte del suo governo. Sapendo, inoltre, che nemmeno i repubblicani entrerebbero a far parte di un eventuale governo di Evelyn Matthei. Da parte del governo, c’è molta più vocazione al potere. I suoi partiti hanno già co-governato nell’amministrazione di Gabriel Boric e, prima ancora, in quella della Nueva Mayoría (Michelle Bachelet) e della Concertación Democrática (Patricio Aylwin, Ricardo Lagos ed Eduardo Frei). Ma la vittoria alle primarie di Jeannette Jara ha incrinato la piena armonia. Una situazione che potrebbe diventare più evidente al momento dell’insediamento del nuovo potere legislativo. Queste tensioni hanno provocato il fallimento del presidente Boric nell’imporre la piena unità del suo settore, il che ha portato alla nascita di una lista parallela di candidati al Congresso Nazionale. Si tratta del Partito Umanista e dei Verdi Regionalisti. Una scissione elettorale che ha provocato l’ira del capo dello Stato e lo ha portato a destituire dal suo incarico il ministro dell’Agricoltura, Esteban Valenzuela, militante di un partito del settore. Considerato da molti uno dei suoi segretari di Stato più efficienti, in quella che è stata definita una vendetta del presidente. Questo incidente dimostra la perdita di leadership di Boric e la decisione dei partiti politici di governo di ignorare i suoi desideri e le sue istruzioni, in un panorama che certamente cospira contro le intenzioni presidenziali di Jeannette Jara. In questo scenario polarizzato, sembra che le candidature presidenziali di Franco Parisi, Marco Enríquez Ominami ed Eduardo Artes abbiano poche possibilità di raccogliere molti sostenitori, di “rubare”, come si dice, voti ai principali avversari. Si presume già che ottenere le firme dei cittadini per iscriversi alle elezioni ufficiali sia un buon affare, poiché il Registro Nazionale Elettorale dovrà concedere dei fondi anche ai candidati alla presidenza e alle migliaia di candidati al Congresso Nazionale. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Juan Pablo Cárdenas
“Il Venezuela è il grande laboratorio politico della nostra epoca” – intervista esclusiva a Ignacio Ramonet
Ignacio Ramonet, giornalista e saggista, analista internazionale, è stato a lungo direttore di Le Monde diplomatique. Nel suo libro La era del conspiracionismo ha analizzato i meccanismi del “trumpismo” che oggi vediamo estendersi ad altre latitudini, dall’America latina all’Europa. Con lui abbiamo parlato della crisi politica dell’Unione europea, e delle rinnovate tensioni fra gli Usa e i paesi socialisti latinoamericani. Viviamo un momento di profonde e drammatiche trasformazioni che investono tutti i piani di un modello – il capitalismo dominante – in crisi sistemica, ma con la chiara intenzione di far vivere a tutta l’umanità la sua agonia. Dal suo punto di vista, quello di un raffinato analista politico di lunga data, come interpreta questa crisi? Non siamo di fronte a una crisi puntuale del capitalismo, ma a una sua crisi di civiltà. Il sistema, nella sua versione neoliberista e finanziarizzata, ha raggiunto un punto in cui non riesce più a riprodursi senza distruggere le sue stesse fondamenta: il lavoro, la natura, i legami sociali e persino l’idea di comunità politica. Il capitale trasforma il collasso in strategia, fa della precarietà la norma e gestisce la catastrofe come se fosse uno stato naturale delle cose. La sua agonia è lunga e violenta e intende trascinare con sé l’intera umanità. Ciò che si annuncia non è solo l’esaurimento di un modello economico, ma la fine di una razionalità storica: quella che identificava il progresso con l’accumulazione infinita. E quali contromisure individua in quello che per molti è l’emergere di un mondo multicentrico e multipolare, dal quale, tuttavia, non emerge una chiara visione prospettica come invece accadeva nel secolo scorso, quando una buona parte del mondo credeva nella speranza del comunismo? Il mondo multipolare è già un dato di fatto, ma non è ancora un orizzonte. Multipolarità significa diversificazione dei centri di potere, indebolimento dell’egemonia assoluta degli Stati Uniti, emergenza di attori come Cina, India o Russia. Ma questo non equivale a un’emancipazione. Nel XX secolo, anche in mezzo a guerre e contraddizioni, la speranza comunista offriva una narrazione di futuro, una bussola collettiva. Oggi il multipolarismo appare più come un negoziato tra potenze che come un progetto per l’umanità. Detto questo, ai margini, nei movimenti sociali del Sud del mondo, nelle resistenze femministe, indigene ed ecologiste, si insinua un’altra logica: quella di una vita che non si misura in base al profitto, ma alla cura. È qui che risiede, ancora in nuce, una prospettiva di speranza. Parliamo della crisi dell’Europa, a partire da quella del sistema politico francese, ora immerso in una nuova e probabile caduta del governo. Qual è la sua analisi delle forze in gioco e delle possibili soluzioni? La Francia incarna, in modo particolarmente evidente, la crisi politica europea. La V Repubblica, progettata per garantire stabilità, è diventata un regime bloccato, incapace di produrre legittimità. Macron governa con arroganza tecnocratica, ma anche con un vuoto di progetto: non parla alla società, ma ai mercati e a Bruxelles. Questa disconnessione spiega la rabbia sociale, la frammentazione della sinistra e l’ascesa dell’estrema destra. L’Europa vive in Francia il suo specchio rotto: istituzioni che non rappresentano più, popoli che non si sentono ascoltati, società che cercano soluzioni nella protesta o nel voto di protesta. La vera soluzione richiederebbe una rifondazione democratica dal basso, ma quell’orizzonte non riesce ancora a organizzarsi politicamente. La Francia è il motore del riarmo europeo, il paese che porta avanti il maggior numero di progetti finanziati dal Fondo Europeo di Difesa (FED), e l’Italia di Giorgia Meloni sta seguendo la stessa strada, la Germania si sta riarmando, e i paesi baltici non sono da meno. L’Unione Europea può essere solo quella del complesso militare-industriale, eternamente subalterna agli Stati Uniti? E quali conseguenze può avere nel quadro dei conflitti attuali? Il riarmo europeo è il sintomo più evidente della subordinazione del continente agli interessi strategici degli Stati Uniti. Francia, Germania, Italia o i paesi baltici non si stanno riarmando per difendere un proprio progetto, ma per rafforzare il complesso militare-industriale sotto la tutela della NATO. L’Europa investe in armi ciò che nega alla coesione sociale, all’istruzione o alla transizione ecologica. Questo squilibrio rivela una scelta storica: essere un campo di scontro e non un attore di pace. Con ciò, l’Europa non solo si militarizza, ma diventa anche irrilevante come progetto di civiltà. Abdicando a una politica estera autonoma, rinuncia alla sua possibilità di offrire al mondo un’altra razionalità che non sia quella della guerra. La crisi delle democrazie occidentali sta mostrando due fenomeni in crescita: il disincanto dell’elettorato (soprattutto di sinistra) e l’aumento dei partiti xenofobi e di estrema destra, apparentemente i meno inclini a usare le “maniere forti” a livello geopolitico. Come si è arrivati a questo cortocircuito e come si esce da una trappola del genere? Il cortocircuito delle democrazie occidentali ha radici profonde. Per decenni, la socialdemocrazia e buona parte della sinistra hanno accettato il neoliberismo come quadro inevitabile. In quel momento si è consumato il tradimento: milioni di lavoratori, di giovani, di settori popolari si sono sentiti privati di una reale rappresentanza. L’estrema destra si è quindi insediata come l’unico discorso di rottura, offrendo identità chiuse, sovranità fittizie e sicurezze illusorie. È una narrazione povera ed escludente, ma si collega al dolore sociale di coloro che hanno visto i loro diritti spazzati via. La via d’uscita non può consistere nell’imitare questa narrazione, ma nel ricostruire un orizzonte di emancipazione: ridistribuzione radicale della ricchezza, democrazia partecipativa, internazionalismo, giustizia sociale ed ecologica. In altre parole, restituire alla politica la capacità di dare un nome al futuro. Mentre si sfilaccia la possibilità di un’alternativa anticapitalista, o di una democrazia avanzata (quello che è stato chiamato “il rinascimento latinoamericano” dopo la vittoria di Chávez alle presidenziali in Venezuela), si intravede la minaccia di una nuova internazionale fascista, con varie modulazioni. Il “modello” europeo si sta imponendo anche in America Latina? Il ciclo progressista latinoamericano, che alcuni hanno chiamato “rinascimento” dopo la vittoria di Chávez nel 1998, ha aperto un orizzonte inaspettato in mezzo al dominio neoliberista: la possibilità di una democrazia avanzata, popolare, inclusiva, con sovranità e giustizia sociale. Tuttavia, questo slancio iniziale ha trovato rapidamente limiti e resistenze: sabotaggio economico, colpi di stato soft, guerra mediatica e anche le contraddizioni interne dei processi stessi. In questo vuoto riemerge un pericolo che credevamo debellato: un’internazionale fascista con molteplici volti – religiosi, neoliberisti, militaristi – che opera in rete e con una forte ispirazione europea. L’America Latina, che tante volte è stata laboratorio di emancipazione, corre il rischio di esserlo anche di nuove forme di autoritarismo. La battaglia attuale è quella di impedire che questa razionalità escludente si imponga come norma e di recuperare l’audacia di immaginare un progetto storico proprio. Che analisi fa del “laboratorio Venezuela” alla luce dei nuovi attacchi imperialisti alla rivoluzione bolivariana, ma anche dal punto di vista delle forze di trasformazione? Come si inserisce questo “esperimento” nella storia del marxismo? Il Venezuela continua a essere il grande laboratorio politico della nostra epoca. Lì si sta cercando di fare qualcosa che il sistema globale non tollera: combinare democrazia partecipativa, sovranità nazionale e ridistribuzione sociale sotto un orizzonte socialista. Per questo le aggressioni non si fermano: blocco, sanzioni, asfissia economica, campagne di delegittimazione. Ma anche lì si sono viste le forme più creative di resistenza popolare: le comuni, l’autogestione, l’idea di un potere dal basso. Nella storia del marxismo, l’esperienza bolivariana rappresenta un tentativo di attualizzazione: non ripetere dogmi, ma innestare la tradizione emancipatrice nelle realtà latinoamericane, con Bolívar, con Chávez, con i popoli indigeni e con la memoria insorgente del continente. È un processo incompiuto e pieno di tensioni, ma è anche la prova che il marxismo non è morto: muta, si reincarna, cerca nuove sintesi. Gli apparati ideologici di controllo sono sempre più sofisticati. Alla guerra di IV e V generazione, si accompagna la guerra cognitiva, come vediamo con il genocidio in Palestina – il genocidio più teletrasmesso e al tempo stesso il più nascosto – ma anche con l’aggressione al Venezuela. Eppure, vediamo anche che, con l’arrivo di Trump, l’attacco ai settori popolari e alle visioni che li hanno voluti rappresentare nel secolo scorso (il socialismo e il comunismo) è diretto e frontale. Come dobbiamo interpretare tutto questo? Viviamo in un’epoca in cui la dominazione non si esercita più solo con armi ed eserciti, ma con narrazioni e dispositivi di controllo mentale. La guerra di quarta e quinta generazione, la cosiddetta “guerra cognitiva”, consiste nel modellare le percezioni, fabbricare consensi, naturalizzare le ingiustizie. La Palestina è il caso più brutale: un genocidio trasmesso in diretta e, al tempo stesso, nascosto sotto strati di manipolazione mediatica. Lo stesso accade con il Venezuela e con ogni processo che sfida l’ordine imperiale. Il trumpismo e fenomeni simili in altre latitudini non fanno che mettere a nudo questa logica: l’attacco frontale ai settori popolari e alle memorie di emancipazione (il socialismo, il comunismo, le lotte operaie, femministe o anticoloniali). L’obiettivo è estirpare l’idea stessa di alternativa. Il nostro compito è esattamente il contrario: preservare la memoria, sostenere le resistenze e mantenere viva l’immaginazione politica di un altro mondo possibile. A 100 anni dalla nascita di Fanon, di Malcolm X e di Lumumba, il Sud del mondo, la Palestina e l’Africa in particolare (penso soprattutto al Sahel) hanno ancora bisogno del loro messaggio? Ha ragione il socialismo bolivariano a puntare sulla possibilità di costruire oggi l’uomo e la donna nuovi senza distruggere ciò che lo impedisce? O bisogna tornare al machete? A un secolo dalla nascita di Franz Fanon, Malcolm X e Lumumba, il loro messaggio è ancora essenziale. Fanon ci ha insegnato che la colonizzazione non occupa solo territori, ma anche coscienze, e che la liberazione deve essere materiale e psicologica allo stesso tempo. Malcolm ha incarnato la dignità radicale contro il razzismo strutturale. Lumumba ha simboleggiato la sovranità africana in un mondo diviso in blocchi. Oggi, in Palestina, in Africa e nel Sud del mondo, queste lezioni sono vitali: senza emancipazione culturale, non c’è emancipazione politica. Il socialismo bolivariano, parlando dell'”uomo e della donna nuovi”, riprende questa tradizione: quella di trasformare l’essere umano nel processo stesso della lotta, non dopo. Non si tratta di “tornare al machete” come pura violenza, ma di riconoscere che nessun progetto emancipatorio può fiorire senza smantellare i dispositivi di oppressione che lo soffocano. La sfida rimane la stessa: liberare l’essere umano nella sua totalità.   Geraldina Colotti
Dal Brasile con amore e solidarietà. Diario di bordo dalla Global Sumud Flotilla
Questa puntata del diario di bordo è dedicata a conoscere un po’ i capitani che vengono da molto lontano e che sono con noi sulla flottiglia. Karina viene dal Brasile, dalla regione di San Paolo, ha una figlia di 17 anni, fa l’insegnante ed è venuta qui perché sentiva che doveva fare qualcosa di diretto, di significativo. Le abbiamo posto alcune domande ed ecco quello che ci ha risposto. Che cosa significa per te, brasiliana, fare una scelta di questo tipo, con tutti i costi anche economici e affettivi che ne derivano? Mi chiamo Karina Viaggiani, sono brasiliana, ma il mio bisnonno era un italiano di Parma; purtroppo non ho potuto ottenere la cittadinanza italiana a causa della legge votata di recente dal governo Meloni, che impedisce a chi ha un nonno italiano di ricevere la cittadinanza se il nonno non è nato in Italia. Ho deciso di venire qui perché da due anni soffriamo molto in Brasile vedendo un genocidio in diretta, una forma brutale di colonialismo che si svolge sotto i nostri occhi. Noi brasiliani il colonialismo lo abbiamo subito per 500 anni, ma fa effetto vederlo in diretta. In Brasile mi occupo di vela, ho un progetto di vela per i minori che vivono in una favela e non potrebbero mai avvicinarsi a questo sport a causa dei costi; noi invece cerchiamo di offrirgli i corsi migliori. Non sono un’esperta di Palestina, non ero una militante, un’attivista storica, ma ho iniziato ad avvicinarmi a questo tema conoscendo Thiago Avila a un incontro all’università a San Paolo e in un centro culturale gestito dagli studenti palestinesi. Ho potuto seguire un seminario di Ilan Pappé, ho approfondito la situazione della Palestina, la lunga lotta di questo popolo contro il colonialismo israeliano e ho deciso di fare qualcosa in prima persona. Come vedono quello che sta accadendo in Palestina il popolo brasiliano e i militanti e le militanti? Il Brasile, ricordiamolo, ha condannato Israele ed espulso il suo ambasciatore e il presidente Lula non può più entrare in Israele. Come vivi tutto questo? Hai paura per la tua incolumità nel caso di arresto e detenzione nelle prigioni israeliane? Il Brasile è un Paese molto grande e noi abbiamo seguito quello che sta succedendo in Palestina anche se siamo molto lontani. Il governo brasiliano si è mosso insieme a quello sudafricano all’interno dei BRICS per condannare la politica colonialista e genocida di Israele, anche perché, come ho già detto, noi abbiamo vissuto nel periodo della dominazione portoghese tutti gli effetti nefasti del colonialismo. Proprio per questo in Brasile c’è molto solidarietà verso la Palestina. Io in Brasile ho la mia vita, una figlia di 17 anni, devo lavorare per mantenerla e quindi questa scelta è stata abbastanza pesante per me, ma ho voluto farla per testimoniare una solidarietà che non conosce confini o frontiere. Certo che ho un po’ di paura all’idea di essere non tanto intercettata, quanto detenuta per molto tempo, perché perderei il lavoro e la mia vita diventerebbe molto, molto complicata.  Il governo Lula però mi dà sicurezza e un senso di protezione. Non sarei mai partita se al posto di Lula ci fosse stato un governo di destra come quello che abbiamo avuto con Jair Bolsonaro.   Manfredo Pavoni Gay
Il presidente colombiano Gustavo Petro invia un messaggio di appoggio alla Global Sumud Flotilla
Care compagne e cari compagni della Global Sumud Flotilla, dalla Colombia, terra segnata dalla resistenza e dalla speranza, invio un abbraccio solidale a voi che, da diversi angoli del mondo, vi preparate a salpare verso Gaza nei prossimi giorni. Ho letto con attenzione la lettera che mi avete indirizzato e voglio dirvi che ogni parola risuona con la storia viva dei nostri popoli. Voi siete la testimonianza che l’umanità può ancora rialzarsi di fronte alla barbarie, che la dignità non si arrende anche quando cercano di soffocarla con muri, blocchi e silenzi. L’ho detto in passato e lo ripeto oggi: quando morirà Gaza, morirà tutta l’umanità. Per questo, ogni gesto che si oppone allo sterminio, ogni voce che sfida l’indifferenza è un atto di vita. Quella che intraprendete non è solo una traversata marittima: è un grido etico, una poesia scritta sull’acqua contro l’ingiustizia, una dimostrazione che la solidarietà può solcare i mari anche quando le frontiere si chiudono. So che non è facile. So che la decisione di salire su quella flottiglia non nasce dal romanticismo né dall’avventura, ma da una profonda convinzione. In Colombia conosciamo il peso del dolore e il prezzo della guerra. Sappiamo cosa significa piangere gli assenti, camminare nella fame, seppellire la speranza. E forse proprio per questo comprendiamo che il silenzio di fronte al genocidio è un’altra forma di complicità. Avete scelto il cammino più difficile: quello dell’azione pacifica contro la violenza smisurata. E da qui vi dico: non siete sole, non siete soli. Da questa riva, a nome di un popolo che ha anch’esso sofferto la guerra, vi mandiamo forza, vi mandiamo parole, vi mandiamo vita. Che il vento porti le vostre imbarcazioni con la forza della storia, che il mare apra le sue braccia per abbracciare la vostra causa, e che il mondo ascolti questo messaggio: Gaza non è sola, la Palestina non è sola, l’umanità non può continuare a tacere. Tornate sane e salve. Quando toccherete le acque vicine a Gaza, sentirete che con voi viaggia la voce di milioni di persone che credono che la pace non sia un’utopia, ma un dovere. Con tutta la fraternità, Gustavo Petro Urrego, Presidente della Repubblica di Colombia Progressive International https://x.com/ProgIntl   Redazione Italia
Il “Narco-Venezuela”: la grande bufala
di Pino Arlacchi. L’ennesimo tentativo Usa di ingerire in un Paese che – lo dice l’Onu – ha estirpato la coca, la marijuana ecc. e i cartelli che ne gestiscono il traffico. Geopolitica del petrolio travestita da lotta alla droga Durante il mio mandato alla guida dell’Unoc, l’agenzia antidroga e anticrimine dell’Onu, sono stato di casa in Colombia, Bolivia, Perù e Brasile ma non sono mai stato in Venezuela. Semplicemente, non ce n’era bisogno. La collaborazione del governo venezuelano nella lotta al narcotraffico era tra le migliori dell’America latina. Il paese era pieno di problemi, ma era del tutto estraneo al circuito della produzione, del traffico e perfino del consumo di droghe pesanti. Dati di fatto assodati che oggi, nella delirante narrativa trumpiana del “Venezuela narco-Stato”, sostanziano una calunnia geopoliticamente motivata. Le analisi che emergono dal Rapporto mondiale sulle droghe 2025 dell’organismo che ho avuto l’onore di dirigere, raccontano una storia opposta a quella spacciata dall’amministrazione Trump, che smonta la montatura costruita attorno al Cartel de los soles venezuelano, una supermafia madurista tanto leggendaria quanto il mostro di Loch Ness, ma adatta a giustificare sanzioni, embarghi e minacce d’intervento militare contro un paese che, guarda caso, siede su una delle più grandi riserve petrolifere del pianeta. Il rapporto Onu 2025, appena pubblicato, è di una chiarezza cristallina, che dovrebbe imbarazzare chi ha costruito la demonizzazione del Venezuela. Il documento menziona appena il Venezuela, affermando che una frazione marginale della produzione di droga colombiana passa attraverso il paese nel suo cammino verso Usa ed Europa. Il Venezuela, secondo l’Onu, ha consolidato la sua posizione storica di territorio libero dalla coltivazione di foglia di coca, marijuana e simili, nonché dalla presenza di cartelli criminali internazionali. Il documento non fa altro che confermare i 30 rapporti annuali precedenti, che non parlano del narcotraffico venezuelano perché questo non esiste. Solo il 5% della droga colombiana transita attraverso il Venezuela. Ben 2.370 tonnellate – dieci volte di più – vengono prodotte o commerciate dalla Colombia stessa, e 1.400 tonnellate passano dal Guatemala. Sì, avete letto bene: il Guatemala è un corridoio di droga sette volte più importante di quello che dovrebbe essere il temibile “narco-Stato” bolivariano. Ma nessuno ne parla perché il Guatemala è a secco dell’unica droga non naturale che interessa Trump: il petrolio. Il paese ne produce lo 0,01% del totale globale. Il Cartel de los soles è una creatura dell’immaginario trumpiano. Si potrebbe tradurre in italiano come “Il cartello delle sòle”. Esso sarebbe guidato dal presidente del Venezuela, ma non viene citato né nel rapporto del principale organismo mondiale antidroga né nei documenti di alcuna agenzia anticrimine europea o di altra parte del pianeta. Solo la Dea americana gli dedica un riferimento fondato su prove segrete, che potete stare certi non lo sarebbero se avessero un minimo di consistenza e fossero corroborate da altre fonti. Come può un’organizzazione criminale così potente da meritare una taglia di 50 milioni di dollari, essere completamente ignorata da chiunque si occupi di antidroga al di fuori degli Usa? In altre parole, quello che viene venduto come un super-cartello alla Netflix è in realtà un miscuglio di piccole reti locali e di qualche episodio di corruzione. Il tipo di criminalità spicciola che si trova in qualsiasi paese del mondo, inclusi gli Usa, dove – per inciso – muoiono ogni anno quasi 100 mila persone per overdose da oppiacei che nulla hanno a che fare col Venezuela, e molto con Big Pharma americana. L’Ue non ha speciali interessi petroliferi in Venezuela, ma ha un interesse concreto nel combattere il narcotraffico che affligge le sue città. L’Unione ha pubblicato il suo Rapporto europeo sulle droghe 2025. Il documento, basato su dati reali e non su wishful thinking geopolitici, non cita neppure una volta il Venezuela come corridoio del traffico internazionale di droga, e ignora del tutto “Il cartello delle sòle”. Sta qui la differenza tra un’analisi onesta e una falsa narrativa. L’Europa ha bisogno di dati affidabili per proteggere i suoi cittadini dalla droga, quindi produce studi accurati. Gli Usa hanno bisogno di giustificazioni per il loro bullismo petrolifero, quindi producono propaganda mascherata da intelligence. Secondo il rapporto europeo, la cocaina è la seconda droga più usata nei 27 paesi Ue, ma le sue fonti principali sono chiaramente identificate: Colombia per la produzione, America centrale per lo smistamento, e varie rotte attraverso l’Africa occidentale per la distribuzione finale. In questo scenario, Venezuela e Cuba non ci sono. Mentre Washington agita lo spauracchio venezuelano, i veri hub del narcotraffico prosperano quasi indisturbati. L’Ecuador, per esempio, con il 57% dei container di banane che partono da Guayaquil e arrivano ad Anversa carichi di cocaina. Le autorità europee hanno sequestrato 13 tonnellate di cocaina in una singola nave spagnola, proveniente proprio dai porti ecuadoriani controllati dalle aziende Noboa Trading e Banana Bonita, appartenenti alla famiglia del presidente ecuadoriano, Daniel Noboa. Uno studio dell’Unione europea documenta come le mafie colombiane, messicane e albanesi operano tutte alla grande in Ecuador. Il tasso di omicidi del paese è schizzato da 7,8 per 100.000 abitanti nel 2020 a 45,7 nel 2023. Ma dell’Ecuador si parla poco o nulla. Forse perché l’Ecuador produce solo lo 0,5% del petrolio mondiale, e perché il suo governo non ha la cattiva abitudine di sfidare lo strapotere Usa nel continente? Una delle lezioni più importanti che ho imparato durante i miei anni all’Onu è che la geografia non mente. Le rotte della droga seguono logiche precise: vicinanza ai centri di produzione, facilità di trasporto, corruzione delle autorità locali, presenza di reti criminali consolidate. Il Venezuela non soddisfa quasi nessuno di questi criteri. La Colombia produce oltre il 70% della cocaina mondiale. Perù e Bolivia coprono la maggior parte del restante 30%. Le rotte logiche per raggiungere i mercati americani ed europei passano attraverso il Pacifico verso l’Asia, attraverso i Caraibi orientali verso l’Europa, e via terra attraverso l’America centrale e il Messico verso gli Stati Uniti. Il Venezuela, affacciato sull’Atlantico meridionale, è geograficamente svantaggiato per tutte e tre le rotte principali. La logistica criminale rende il Venezuela un attore marginale del grande teatro del narcotraffico internazionale. La geografia non mente, ma la politica può sconfiggerla. Cuba rappresenta ancora oggi il gold standard della cooperazione antidroga nei Caraibi. Isola poco distante dalle coste della Florida, base teoricamente perfetta per avvelenare gli Stati Uniti, ma che è totalmente estranea ai flussi del narcotraffico. Ho riscontrato più volte l’ammirazione degli agenti Dea e Fbi verso le rigorose politiche antidroga dei comunisti cubani. Il Venezuela chavista ha costantemente seguito il modello cubano di ostilità alla droga inaugurato da Fidel Castro in persona. Cooperazione internazionale, controllo del territorio, repressione delle attività criminali. Né in Venezuela né a Cuba sono mai esistiti larghi pezzi di territorio coltivati a coca e controllati dalla grande criminalità. Ma il Venezuela viene sistematicamente insolentito contro ogni principio di verità. La spiegazione l’ha fornita l’ex direttore dell’Fbi, James Comey, nel suo libro di memorie post-dimissioni, nel quale ha parlato delle vere motivazioni delle politiche americane verso il Venezuela: Trump gli aveva detto che quello di Maduro era “un governo seduto su una montagna di petrolio che noi dobbiamo comprare”. Non si tratta di droga, criminalità, sicurezza nazionale. Si tratta di petrolio che sarebbe meglio non pagare.   Redazione Italia
Cile, fallisce la consultazione di Boric al popolo mapuche: “Il territorio non è in vendita”
La Commissione Presidenziale per la Pace e la Comprensione è un’iniziativa dell’amministrazione di Gabriel Boric, formata da membri del sistema politico dello Stato cileno nel 2023, “con l’obiettivo di guidare un processo di dialogo e accordi per canalizzare istituzionalmente le richieste di restituzione delle terre e di riparazione da parte del popolo mapuche e raccomandare misure praticabili per una pace duratura e la comprensione reciproca tra gli attori delle regioni di Biobío, La Araucanía, Los Ríos e Los Lagos”. Il rapporto finale della commissione è stato consegnato a Boric il 6 maggio 2025, a La Moneda. E il 13 agosto è iniziata una consultazione con alcune comunità mapuche in merito alla proposta del documento governativo. Finora gli obiettivi della commissione stanno fallendo clamorosamente contro la dignità di un intero popolo. Il werken (una delle autorità tradizionali del popolo mapuche che svolge funzioni di consigliere e portavoce, N.d.t.) della comunità di Pepiukelen de Pargua, Francisco Vera Millaquen, in merito alla consultazione ha sottolineato che “il nuovo sistema di gestione della terra che ci viene proposto è un modo molto elegante per definire la spoliazione dei nostri territori, dal Biobío al sud, da parte dello Stato cileno. Ricordiamoci che nel 1825, dopo 14 anni di guerra, su richiesta delle autorità cilene, fu firmato il Trattato di pace di Tapihue, in cui fummo riconosciuti come Stato sovrano e libero. Oltre ad essere un patto di pace tra le due nazioni, costituiva un accordo di collaborazione reciproca”, aggiungendo che “tuttavia, lo stesso esercito cileno, anni dopo, invase le nostre terre con il sangue e il fuoco”. Vera Millaquen ha ricordato che “nel 2003, sotto il governo di Lagos Escobar, le autorità cilene hanno redatto un documento intitolato “Rapporto sulla Verità Storica e Nuovo Accordo”). In esso si riconosce la perdita del territorio mapuche per responsabilità dello Stato cileno in modo assolutamente arbitrario e illegale. Inoltre, indica che un totale di 10 milioni di ettari sono stati sottratti al nostro popolo. Quel territorio non è mai stato restituito. Infatti, dal 1993, con vari mezzi, sono stati restituiti solo circa 700 mila ettari e ora il rapporto dell’ultima commissione dice che saranno restituiti circa 300 mila ettari in più. Cioè, solo il 10% di tutto il territorio mapuche riconosciuto dalle stesse istituzioni cilene”, e l’autorità mapuche ha aggiunto che ”fortunatamente l’attuale proposta del governo viene respinta dalla stragrande maggioranza della popolazione indigena e persino da enti internazionali. In sintesi, ci troviamo di fronte a un processo illegale che ha preso in considerazione solo una parte del nostro popolo. Non bisogna dimenticare che praticamente il 50% della nazione mapuche vive a Santiago e Valparaíso, e queste regioni non sono state prese in considerazione per la consultazione”. Da parte sua, Sergio Santos Millalen, werken del gruppo mapuche Pikvun Mapu, ha riferito che, alla luce delle procedure derivanti dalla relazione della Commissione Presidenziale per la Pace e la Comprensione, “il Ministero dello Sviluppo Sociale e della Famiglia, con la Risoluzione n. 244 del 27 giugno 2025, ha negato la partecipazione alla consultazione di tutto il popolo mapuche, coinvolgendo solo metà della nostra gente. Ciò viola la convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro firmata dallo Stato cileno” e ha comunicato che “abbiamo presentato ricorso di tutela contro tale misura unilaterale alla Corte d’Appello di Santiago. A tal proposito, la Corte Suprema deve ancora pronunciarsi. Per il resto, noi Mapuche delle regioni di Santiago, Valparaíso e O’Higgins ci autoconvocheremo per respingere la presente consultazione, perché mira esclusivamente a creare un catasto dei terreni, senza una visione del territorio. Non accetteremo i risultati di questa commissione presidenziale. Anzi, la affronteremo sul piano politico, storico e giuridico”. Sergio Santos ha affermato con veemenza che “Il territorio non è in vendita; il territorio ancestrale va difeso”». > “La consultazione mira a imporre una legge di punto finale (estinzione > dell’azione penale, N.d.t.) alla legittima restituzione territoriale dei > Mapuche” Le comunità di Purén de La Araucanía hanno sottolineato che “attraverso la consultazione il governo intende legittimare le decisioni della Commissione per la Pace e la Comprensione, che rappresenta una narrazione di negazionismo e colonialismo nei confronti del popolo mapuche e dei suoi diritti”, e hanno avvertito che “questo sistema cerca di imporre una legge di punto finale alla legittima restituzione territoriale del nostro popolo”. La nuova politica faciliterà l’ingresso della terra mapuche nel mercato della vendita, dell’affitto, del trasferimento e del comodato, consentendo l’installazione e la realizzazione di progetti immobiliari, minerari, stradali, centrali elettriche, dighe, forestali e piani estrattivi senza alcuna protezione per la nostra gente”. I Mapuche di Purén hanno enfatizzato che l’iniziativa governativa in corso “non farà altro che aumentare il conflitto e la militarizzazione nel nostro territorio”. D’altra parte, il 13 agosto, gli apo ülmen, i machi e i rappresentanti della provincia di Osorno hanno deciso di respingere la consultazione, sostenendo che essa è “dannosa, in malafede e priva della volontà politica di dare una soluzione reale alla nostra storica rivendicazione. Pretendiamo che il governo ritiri la consultazione; il governo non offre garanzie che i nostri diritti saranno tutelati in Parlamento, dove sarà discusso il disegno di legge risultante dalla consultazione indigena, il che viola i diritti tutelati dagli strumenti del diritto internazionale”, e hanno spiegato che “lo Stato, attraverso questa consultazione, ci offre compensazioni in cambio del nostro diritto territoriale, quando il territorio è un bene intransigibile e un elemento inalienabile di ogni mapuche. Lo Stato non ha l’autorità morale per parlare di Pace e Comprensione in circostanze in cui continuano le perquisizioni alle autorità spirituali in diversi territori, mentre ci sono prigionieri politici e le regioni si trovano in stato di Emergenza”. Allo stesso modo, le comunità indigene di Puerto Varas, Llanquihue e Frutillar hanno ripudiato il nuovo sistema di gestione delle terre e denunciato “la totale mancanza di legittimità dell’intero processo. Fin dall’inizio, lo Stato cileno non è stato in grado di convocare le autorità mapuche pertinenti, né le comunità che hanno fatto parte dell’organizzazione politica del nostro territorio. La misura mette in pericolo il nostro diritto ancestrale alla terra e riduce la nostra lotta storica a semplici atti amministrativi e logiche di mercato”. Allo stesso modo, hanno affermato che “i meccanismi di indennizzo proposti dallo Stato cileno sono pensati solo per avvantaggiare i latifondisti, trattandoli come “vittime di conflitti”. Ma noi siamo consapevoli che essi sono stati gli unici favoriti da quando sono arrivati nel nostro territorio per derubarci e spogliarci con l’inganno e la violenza”. Ancora una volta, l’amministrazione attuale dello Stato cileno, con un atteggiamento razzista, vede le comunità indigene come contadini poveri, braccianti agricoli, folklore e massa corruttibile e colonizzabile, quando invece si tratta di un popolo diverso da quello cileno, con una propria cultura, organizzazione, modo di produrre e vivere, cosmovisione, legame speciale e specifico con la natura.   Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Andrés Figueroa Cornejo
Bolivia a destra, una sconfitta annunciata
Tra profonde tensioni interne, domenica 17 agosto più di 7,5 milioni di cittadini-e boliviani-e (di cui circa 400.000 all’estero in 22 Paesi) sono stati chiamati alle urne per scegliere tra sette candidature a Presidente e Vice-presidente. Candidature tutte al maschile, dopo che l’unica candidata donna, Eva Copa, aveva rinunciato a causa dello scarso appoggio nei sondaggi. Si è votato anche per eleggere 36 senatori; 130 deputati, sette deputati dei popoli originari e nove rappresentanti presso organismi parlamentari sovranazionali, uno per ogni dipartimento. Dato che nessun candidato ha raggiunto la maggioranza necessaria, il ballottaggio ci sarà il 19 ottobre, mentre il vincitore si insedierà l’8 novembre. In testa al primo turno c’è Rodrigo Paz Pereira, con la sigla del Partito Democratico Cristiano (PDC) che ha ottenuto circa il 32% dei voti. Al secondo posto, il sempiterno Jorge (Tuto) Quiroga dell’Alleanza Libre, di estrema destra, con circa il 28%. Saranno loro due i contendenti al ballottaggio. Al terzo posto con circa il 20%, si piazza Samuel Doria Medina (Alleanza Unidad) di centro-destra, al suo quarto tentativo presidenziale. A differenza dei sondaggi, che prevedevano un testa a testa tra Quiroga e Doria, la vera sorpresa è stata la vittoria al primo turno di Rodrigo Paz Pereira. Ex deputato, ex sindaco, economista di professione è nato in Spagna a causa dell’esilio dei suoi genitori.  E’ infatti figlio di Jaime Paz Zamora, ex presidente del Paese andino, nonché nipote di un altro ex-Presidente, Victor Paz Estenssoro. Da parte sua, lo sconfitto Doria Medina, ha fatto subito appello al voto per Rodrigo Paz. Quel che resta del MAS Disastroso il risultato dei due candidati che facevano riferimento al Movimento al Socialismo (MAS-IPSP), dato che il partito di governo non è riuscito a trovare un candidato unitario. Da una parte, il giovane Andrónico Rodríguez, proposto come candidato di compromesso tra le due anime del MAS. La figura di Rodríguez faceva parte del rinnovamento generazionale del movimento sindacale cocalero e aveva consolidato il suo profilo istituzionale come presidente del Senato, ratificato in cinque occasioni con ampio sostegno. Ma alla fine non c’è stato accordo e Rodríguez ha raccolto circa l’8%, piazzandosi al quarto posto. Dall’altra, Eduardo del Castillo, candidato “ufficiale” del partito di governo, rimasto al palo con un deludente 3%. In questa situazione di frattura interna, del Castillo ha dovuto affrontare la sfida più complessa. Il trentaseienne avvocato è arrivato al Ministero dell’Interno nel 2020 ed è rimasto in carica fino al maggio 2025, diventando una delle figure più visibili nel gabinetto di Luis Arce. La sua candidatura era un tentativo di rinnovare i dirigenti dopo le fratture interne del partito, ma di certo il risultato striminzito non favorisce il processo di ricambio. Il programma di Rodrigo Paz Se non ci saranno ulteriori sorprese, Rodrigo Paz dovrebbe avere la strada spianata alla Presidenza. Nel suo programma, ha fatto appello al ricambio generazionale e ha proposto uno Stato facilitatore, agile e impegnato nei confronti dei cittadini, lontano dal cosiddetto “Stato che ostacola”. Provenendo dalla regione più importante del Paese per produzione di gas, la sua campagna ha posto l’accento sul decentramento dello Stato, con l’obiettivo di ridistribuire in parti uguali il bilancio nazionale tra il livello centrale e le regioni, nell’ambito della sua “Agenda 50/50”, come parte di “un nuovo accordo di convivenza”. Tra le sue proposte spiccano l’idea di un “Capitalismo per tutti” (con crediti accessibili, riduzione delle tariffe e delle tasse e l’eliminazione delle dogane “corrotte”) la riforma della giustizia e la lotta alla corruzione. Paz Pereira afferma che la Bolivia dispone di risorse proprie per rilanciare la propria economia ed ha dichiarato la sua contrarietà a ricorrere ai prestiti degli organismi internazionali. Jorge (Tuto) Quiroga: il ritorno della destra Il sessantacinquenne di Cochabamba rappresenta l’opzione dell’estrema destra boliviana tradizionale. Ex presidente tra il 2001 e il 2002, Quiroga è stato vicepresidente sotto il governo del militare golpista Hugo Banzer (1997-2001), mentre durante l’amministrazione di Jaime Paz Zamora (1989-93) è stato Sottosegretario del Ministero della Pianificazione (1989), Sottosegretario di Investimenti pubblici (1990) e Ministro delle Finanze (1992). I suoi legami con gli Stati Uniti lo posizionano come candidato dei settori economici dominanti e transnazionali, anche se, in pubblico, insiste nel mantenere una linea indipendente da Washington. “So come farlo. L’ho già fatto in passato. Il mio vantaggio è l’esperienza“, ha recentemente dichiarato in merito al suo piano di ottenere 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) ed altri.  Nel 2019, ha avuto un ruolo chiave nel colpo di Stato contro Evo Morales ed è stato portavoce internazionale del governo golpista di Jeanine Añez. Samuel Doria Medina Il candidato dell’Alleanza Unidad rappresentava l’aspirazione di un progetto politico di centro-destra. A 66 anni, l’uomo d’affari di Paz era al suo quarto tentativo presidenziale, dopo averci provato nel 2005, 2009 e 2014. Come secondo imprenditore più influente della Bolivia, Doria Medina è tra i 500 imprenditori più conosciuti dell’America Latina e dei Caraibi. Il suo curriculum include il passaggio attraverso il Ministero della Pianificazione e la fondazione de Unidad nel 2003, dopo il suo abbandono del Movimento Rivoluzionario di Sinistra (MIR). Il suo bagaglio elettorale del 20% sarà decisivo per eleggere il prossimo Presidente. La crisi economica Due sono stati i fattori principali della sconfitta a sinistra. Per entrambi, il governo del MAS ha perso le elezioni a causa dei propri molteplici errori politici. Da una parte una dura crisi economica e sociale che il governo Arce non ha saputo superare. Per quanto riguarda la crisi economica, dopo aver disinnescato l’ennesimo tentativo di golpe del 2019, la Bolivia aveva ripreso il cammino anti-neoliberale con la presidenza di Luis Arce, ex Ministro di Economia durante i mandati presidenziali di Evo Morales e del vice-presidente Alvaro García Linera. Ma come afferma quest’ultimo, “…il MAS come strumento politico dei sindacati e delle organizzazioni comunitarie contadine ha perso le elezioni a causa della disastrosa gestione economica di Luis Arce. Con un’inflazione dei generi alimentari di base che sfiora il 100%, la mancanza di carburante che costringe a fare code di giorni per ottenerlo e un dollaro reale che ha raddoppiato il suo prezzo rispetto alla moneta boliviana, non è strano che il processo di trasformazione democratica più profondo del continente perda due terzi dei voti popolari a favore di vecchi vendi-patria che promettono di cacciare a calci gli indigeni dal potere, regalare le aziende pubbliche agli stranieri e insediare, con la Bibbia in mano, le oligarchie mercenarie alla guida dello Stato. Se a tutto ciò aggiungiamo il risentimento dei ceti medi tradizionali, privati dei loro privilegi dall’ascesa sociale e dall’emancipazione politica delle maggioranze indigene, è chiaro il tono apertamente vendicativo e razzista che avvolge i discorsi della destra boliviana” [i]. Evo e il voto nullo Il secondo fattore decisivo per la sconfitta, è stata la divisione interna al blocco sociale che ha espresso il governo negli ultimi 20 anni. Purtroppo, la frattura interna al MAS viene da lontano. Da circa due anni è in corso una dura lotta interna fratricida, che ha portato ad uno scontro aperto tra Evo Morales e Luis Arce. Una frattura che si è estesa negativamente anche a molte organizzazioni di massa, che erano state la colonna vertebrale dei governi del MAS e che avevano pagato un alto prezzo di sangue per la resistenza anti-golpista.  Il lungo braccio di ferro per il controllo dello strumento politico (movimento-partito, MAS-IPSP) aveva portato alla fuoriuscita dal MAS di Morales e della sua base d’appoggio, alla spaccatura nel gruppo parlamentare con gli “evisti” che votano contro le misure del governo e ad un forte disorientamento nel blocco sociale del cambiamento. Come si ricorderà, sulla base di una discussa decisione della Corte costituzionale, Evo Morales non poteva ri-aspirare alla Presidenza, dopo aver svolto tre mandati. Ma non ha voluto accettare la decisione giudiziaria e ha mobilitato la sua base contadina, specialmente nella zona di Cochabamba, per cercare di bloccare il Paese. Nel 2016, Evo perse un referendum per la quarta candidatura, ma il Tribunale Costituzionale ribaltò il risultato. Alla fine, dopo essersi salvato da un attentato nell’ottobre 2024 (smentito dal governo Arce), in queste elezioni l’ex presidente Morales non ha potuto registrarsi come candidato presidenziale in nessun partito con personalità giuridica in vigore. Morales ha ritirato la sua candidatura e, dalla sua roccaforte nel Tropico di Cochabamba, come forma di protesta politica per avergli impedito di partecipare alle elezioni,  ha promosso attivamente il voto nullo contro il governo di Luis Arce e le candidature di opposizione. C’è da dire che, in tutto questo periodo, a nulla sono valsi i molteplici tentativi di mediazione tra i dirigenti boliviani fatti da alcuni dei governi e dei partiti della sinistra latino-americana (e non solo) per provare a ricucire i rapporti con spirito unitario. Solo Andrónico Rodriguez avrebbe avuto qualche possibilità, se il suo ex mentore Morales lo avesse appoggiato. Ma Evo lo ha bollato come traditore e ha fatto appello al voto nullo. D’altra parte, il risultato del voto nullo (circa il 19%) non preoccupa una destra che è vincente e, per il momento, si troverà una opposizione frammentata socialmente e senza una presenza parlamentare di qualche peso. In altre parole, in termini elettorali, il peso del voto nullo è francamente nullo. E ora? Con questi risultati, che impongono un accordo parlamentare, si vedrà se la Bolivia riuscirà a costruire un consenso minimo per affrontare le sue sfide strutturali. O se, al contrario, la crisi si approfondirà. Il Paese è alle porte di un cambiamento radicale nell’orientamento politico, con un ritorno alla decade neoliberista e privatizzatrice degli anni ’90. Per non parlare della politica estera. Con una gradazione di più o meno liberalismo, le destre (tutti uomini, per lo più bianchi e di classe alta) propongono un ritorno alla riduzione dello Stato, alla privatizzazione o chiusura di aziende pubbliche, alla promozione dell’iniziativa privata, al probabile taglio dei bonus sociali, la riduzioni delle tasse e un ritorno all’indebitamento ed alle condizioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o della Banca Interamericana di Sviluppo per uscire dalla difficile situazione economica attuale. In una Bolivia così diversa e con un “razzismo” che continua a essere un problema, già si parla di “farla finita con il socialismo”, dell’eliminazione dello status Plurinazionale dello Stato e della wiphala (bandiera dei popoli originari) come simbolo nazionale, del ritorno al sistema educativo precedente “che non indottrini”, etc..  Al centro non ci sarà la questione sociale, né quella dei popoli originari o della “Madre terra”, ma l’economia aziendale. In ogni caso, il popolo boliviano ha una lunga tradizione di resistenza e il prossimo Presidente non avrà la vita facile. [i] https://www.jornada.com.mx/noticia/2025/08/16/mundo/por-que-la-izquierda-y-el-progresismo-pierden-elecciones Redazione Italia