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Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
Pensiero critico. Ucraina e Cuba: due estremi opposti
Stranamente, in nessun altro posto ho assaggiato una tale varietà di mojito, in tutti i gusti e le combinazioni, come a Kiev. Era un paio d’anni prima del colpo di Stato di Maidan. Cuba era ancora di moda, le stelle rosse non erano vietate e credo che nessuno avrebbe potuto immaginare l’incubo che stava per bussare alla porta. Pochi giorni fa, dopo il tradizionale voto dell’Ucraina a sostegno dell’embargo statunitense contro Cuba all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri del regime di Kiev, Andriy Sibiga, ha annunciato la “riduzione del livello delle relazioni diplomatiche” con l’isola e, di conseguenza, la chiusura dell’ambasciata ucraina a L’Avana. Non c’è mistero in questo; la vera domanda è: perché un governo come quello ucraino ha impiegato così tanti anni per rompere le relazioni con Cuba, un Paese che, sia in politica estera che interna, ha rappresentato per oltre sei decenni l’esatto opposto dell’idea di “sovranità” di Zelensky e dei suoi compari? Avevano paura di Cuba? O della reazione del mondo? A quanto pare, si tratta semplicemente dell’urgente necessità di ingraziarsi Trump in un momento in cui l’Impero minaccia mezzo mondo. Sicuramente, se si presentasse l’occasione, il prossimo passo di Kiev sarebbe quello di offrire le sue truppe per invadere il Venezuela. Se dovessimo definire le azioni del governo ucraino con una sola parola, questa sarebbe “ingratitudine”. Non so se Zelensky e Sibiga ne siano consapevoli, ma il mondo intero ricorda sicuramente le immagini di Fidel Castro che accoglieva i bambini ucraini all’aeroporto José Martí nel 1990 per le cure dopo il disastro di Chernobyl. Cuba è stata la prima nazione al mondo a reagire e ha fornito molti più aiuti di tutti gli altri messi insieme. Non solo li ha offerti senza chiedere un solo centesimo, ma, su esplicita richiesta di Fidel, ha proibito qualsiasi copertura mediatica di questo atto di solidarietà. Ricordiamo che, a quel tempo, il governo di Gorbaciov aveva già tradito Cuba, offrendola come “dono di buona volontà” ai nuovi “partner” degli Stati Uniti, e il popolo cubano stava vivendo il peggio del blocco, soffrendo la fame e la mancanza di tutto tranne che della propria dignità. Testimoni raccontano che, quasi quattro anni dopo il disastro di Chernobyl, le autorità sovietiche, mentre il loro Paese era già al collasso, iniziarono a rendersi conto di non essere in grado di curare decine di migliaia di bambini colpiti dalle radiazioni. Pertanto, nel febbraio 1990, il comitato di emergenza del Comitato Centrale della Lega dei Giovani Comunisti della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, il Paese più colpito dalla catastrofe, fece appello alla comunità internazionale per chiedere aiuto per i bambini colpiti. Fu descritto come un atto disperato, poiché nessun’altra linea d’azione sembrava possibile. La prima e praticamente immediata risposta arrivò dal Consolato Generale di Cuba in URSS. Il Console Sergio López Briel riferì che Cuba era pronta ad accogliere i bambini bisognosi di cure. L’oncologa capo di Cuba, Marta Longchong; il direttore dell’Istituto di Ematologia e Immunologia, il professor José Manuel Balester; e il professore di endocrinologia pediatrica, Ricardo Güell, arrivarono a Kiev. Dopo aver visitato i bambini, appresero la vera portata del problema. La loro conclusione fu che migliaia di bambini erano malati e che, per salvare le loro vite, centinaia di loro necessitavano di cure urgenti e costose. La parte ucraina riconobbe di non avere fondi né per le cure né per il biglietto aereo. Su iniziativa personale di Fidel Castro, i cubani si fecero carico praticamente di tutto e il 29 marzo 1990, due aerei con a bordo bambini malati e i loro genitori decollarono per Cuba. Accogliendo i nuovi arrivati all’aeroporto dell’Avana, Fidel Castro annunciò il lancio del programma di aiuti statali per i bambini di Chernobyl e, quando i giornalisti gli chiesero quanto sarebbe durato, rispose: “finché sarà necessario”. Durante i due decenni di attività del programma, furono curati più di 20.000 bambini ucraini, quasi 3.000 bambini russi e oltre 700 bambini bielorussi. Ucraina, Bielorussia e Russia erano ancora tre repubbliche all’interno di un unico Paese. Furono eseguiti numerosi interventi chirurgici complessi, costati centinaia di migliaia di dollari nel “mondo civile”, ma il governo cubano non chiese a nessuno un centesimo e diede a questi bambini il meglio e più di quanto avesse a disposizione. Il programma “I bambini di Chernobyl” costò a Cuba circa 350 milioni di dollari, mentre sull’isola sotto assedio la valuta estera scarseggiava e la popolazione soffriva innumerevoli difficoltà. Ora mi chiedo: quanti di questi bambini di Chernobyl, e quanti dei loro stessi figli, vengono reclutati dal governo ucraino per uccidere e morire, difendendo i “valori democratici” dei loro peggiori nemici? Il terzo presidente dell’Ucraina indipendente, Viktor Yushchenko, salì al potere nel 2005 dopo una rivolta nota come Rivoluzione Arancione, che servì da prova generale per la Rivoluzione di Maidan del 2014. Fu sotto il suo governo che ebbe inizio la propaganda anti-russa diretta e la glorificazione aperta dei nazisti ucraini, capovolgendo la storia reale. Sempre nel 2005, Yushchenko dichiarò che l’intenzione dell’Ucraina di diventare membro della NATO era un obiettivo primario dello Stato ucraino e, parlando davanti al Congresso degli Stati Uniti, promise che l’Ucraina avrebbe sostenuto la missione per “promuovere la democrazia in Bielorussia e a Cuba”. In quel momento, una delegazione cubana che si stava recando in Ucraina per un viaggio ufficiale e che si trovava già in un paese europeo intermedio, ha sospeso la visita ed è tornata sull’isola. Da allora, l’Ucraina ha regolarmente sostenuto l’embargo statunitense contro Cuba, riaffermando ciò che era già noto: che l’atteggiamento dei governi che sostengono l’embargo è stato e continua a essere l’indicatore più chiaro della loro vera indipendenza. A questo proposito, l’attuale Ministro degli Esteri ucraino, Andriy Sibiga, non ha fatto nulla di nuovo chiudendo l’ambasciata all’Avana. Ciò che sarebbe stato sorprendente è se il governo ucraino avesse mostrato un minimo di decenza. Fonte: Resumen Latinoamericano, 19 novembre 2025 Traduzione: https://italiacuba.it/ Oleg Yasinsky
La menzogna come strumento essenziale contro Cuba
Sin dalla vittoria della Rivoluzione cubana nel 1959, gli Stati Uniti hanno utilizzato la CIA e la loro Agenzia Nazionale di Informazione per progettare e realizzare campagne con informazioni false o distorte, con l’obiettivo di offuscare l’immagine del processo e dei suoi principali leader, per sottrarre loro il sostegno popolare e internazionale. Ciò è dimostrato da molti documenti segreti ormai declassificati, come la stessa Operazione Mangosta, in cui si afferma senza mezzi termini: “Le operazioni psicologiche aumenteranno il risentimento della popolazione nei confronti del regime”. Allo stesso modo si afferma: “Il Dipartimento di Stato sta concentrando i propri sforzi sulla riunione dei ministri degli Esteri dell’OEA, che avrà inizio il 22 gennaio, nella speranza di ottenere un ampio sostegno dall’emisfero occidentale per le risoluzioni dell’OEA che condannano Cuba e la isolano dal resto dell’emisferoName=n1070; HotwordStyle=BookDefault; . […] La riunione dell’OEA sarà sostenuta da manifestazioni pubbliche in America Latina, organizzate dalla CIA e da campagne psicologiche assistite dall’USIA (Agenzia di informazione degli Stati Uniti). Ricordiamo la tristemente famosa Operazione Peter Pan, in cui la CIA, con il sostegno della Chiesa cattolica, riuscì a separare 14.038 bambini dai loro genitori a Cuba per mandarli da soli negli Stati Uniti, con il falso pretesto di impedire che la Rivoluzione li privasse della potestà genitoriale. Niente di tutto questo è propaganda comunista, è la verità assoluta e l’elenco delle menzogne è infinito. In questi giorni il membro del Congresso Mario Díaz-Balart, figlio di un prestanome del dittatore Fulgencio Batista, insiste nel promuovere un’opinione pubblica contro Cuba, chiedendo in una lettera al Nunzio Apostolico negli Stati Uniti e al Vaticano di pronunciarsi sulla presunta repressione religiosa a Cuba e di “affermare senza ambiguità il loro sostegno al desiderio di libertà dei cubani e al loro diritto fondamentale di professare la propria fede”. Il membro del Congresso, appartenente alla mafia terroristica di Miami, mente consapevolmente, perché sa perfettamente che ciò non accade sull’isola e ne sono prova le chiese gremite di fedeli nel giorno della Carità del Cuore Immacolato di Maria, patrona di Cuba, e le strade con migliaia di persone nelle processioni per venerare la loro Santa Madre, tra le altre simili ricorrenze patronali. Se il Vaticano non si esprime contro la Rivoluzione è perché sa perfettamente che Díaz-Balart mente. A Cuba esiste un’ampia libertà religiosa, sancita dalla Costituzione che stabilisce: “l’uguaglianza di tutte le manifestazioni religiose davanti alla legge e il diritto dei cittadini di professare il culto di loro preferenza, di cambiare credo o di non averne alcuno”. Sull’isola sono presenti diverse religioni, tra cui il cristianesimo (cattolici, protestanti, ortodossi di rito russo e greco), l’ebraismo, l’islamismo, il buddismo, lo spiritismo, le religioni cubane di origine africana (yoruba, abacuá, bantu), la fede bahá’í e lo yoga. Tutte sviluppano liberamente i propri principi dottrinali, teologici e organizzativi. Queste istituzioni religiose sono proprietarie dei propri beni e immobili, compresi i templi. Più di 900 templi e cappelle, di proprietà delle 55 chiese evangeliche e protestanti, mantengono le porte aperte al popolo. Ci sono anche 2.550 case di culto in tutto il paese. Diverse istituzioni religiose evangeliche cubane possiedono centri per la formazione del proprio personale. La Chiesa cattolica dispone inoltre di seminari propri per la formazione del proprio clero regolare all’interno del Paese. Cuba è l’unico Paese del continente che ha ricevuto la visita degli ultimi tre Papi e tutti hanno constatato la piena libertà religiosa. Perché il membro del Congresso non si preoccupa della persecuzione contro la religione negli Stati Uniti, dove i musulmani sono respinti e sorvegliati segretamente dall’FBI, accusati ingiustamente di essere terroristi? Questo legislatore anticubano ha costruito la sua carriera politica sostenendo azioni terroristiche contro il popolo cubano e non ha mai condannato coloro che a Miami hanno organizzato gli attentati dinamitardi in diversi hotel dell’Avana. Non ha mai alzato la voce per chiedere giustizia contro i responsabili dell’attentato dinamitardo contro un aereo civile cubano, in cui sono stati uccisi 73 innocenti, e i cui autori hanno vissuto a Miami come rifugiati fino alla loro morte. Mario Díaz-Balart mente con premeditazione quando afferma che “il regime cubano utilizza il suo apparato di sicurezza e sorveglianza per perseguitare i leader religiosi”. A quanto pare suo padre, fervente collaboratore del dittatore Fulgencio Batista, non gli ha mai raccontato la verità su ciò che accadeva a Cuba prima del 1959. Per questo dovrebbe studiare la storia di Cuba per scoprire che il 12 agosto 1953, durante il governo di Batista, il padrino di battesimo di suo fratello Lincoln, il capo del tenebroso Buró de Investigaciones, Armando Suarez Suquet, e diversi suoi agenti fecero irruzione violenta nel Palazzo Cardinalizio dell’Avana e picchiarono senza pietà e spaccarono la testa al cardinale Manuel Arteaga Betancourt, allora arcivescovo della capitale. A causa delle minacce di quei teppisti, la gerarchia cattolica accettò di attribuire le ferite e altre lesioni a un “incidente domestico”. Alcuni giorni dopo, in un’omelia, il cardinale dichiarò che “era stato il risultato di un tentativo di reato comune”. Di fronte a questa situazione, nel settembre dello stesso anno, il cardinale si recò a Roma per «riposarsi». La Rivoluzione non ha mai fatto nulla di simile e, nonostante alcuni sacerdoti abbiano prestato le chiese per dare rifugio ad assassini, terroristi e cospiratori legati alla CIA, non ha mai chiuso un tempio né un ordine religioso. Oggi alcuni sacerdoti e suore legati alle organizzazioni anticubane di Miami diffondono falsità e accuse contro la Rivoluzione, esortando persino alla disobbedienza civile in totale violazione delle norme legali, ma nessuno di loro è stato arrestato e tanto meno perseguito, nonostante seguano le direttive provenienti dall’estero. Batista, invece, non permetteva ai sacerdoti di uscire dalle regole del gioco imposte a Cuba dopo il colpo di Stato del 10 marzo 1952 e per questo motivo arrestò i sacerdoti gesuiti Armando Llorente e Francisco Barbeito, a seguito delle iniziative intraprese dalla Lega della Decenza, che il dittatore considerava sovversive. Questo e molti altri motivi hanno dato origine alla Rivoluzione che tanto odiano e che fanno di tutto per soffocare, affinché il popolo, stanco di tante privazioni, scenda in piazza e, come esposto testualmente nell’Operazione Mangosta: “Scatenare tutto questo deve essere un obiettivo primario del progetto. […] Se necessario, il movimento popolare chiederebbe aiuto ai paesi liberi dell’emisfero occidentale e, se possibile, gli Stati Uniti, di concerto con altre nazioni dell’emisfero, fornirebbero un sostegno aperto alla rivolta del popolo cubano. Tale sostegno includerebbe una forza militare, se necessario”. Quel sogno è ancora vivo e per questo i cubani sono vigili per non tornare a quel passato che gli yankee si ostinano a cancellare, perché, come ha sottolineato José Martí: «… ho lo spirito mortale, per le gravi notizie che vengono alla luce sul modo pericoloso e arrogante con cui in questo paese si propone di trattare i nostri…». #anaic #italiacuba #mentiras #fakenews #usa #cuba #eeuuterroriststate #nomasbloqueoacuba Fonte: El Heraldo Cubano Traduzione:italiacuba.it Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
Segretario Esecutivo dell’ALBA Rander Peña: “Il Venezuela sostiene la pace per tutta l’America Latina”
Al termine della conferenza stampa settimanale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), abbiamo avuto l’opportunità di conversare con Rander Peña, Segretario Esecutivo dell’ALBA, e anche incaricato di dirigere l’organizzazione dell’Internazionale Antifascista, che sta riunendo di nuovo a Caracas delegati provenienti da tutto il mondo. Lei sta svolgendo il ruolo di Segretario Esecutivo dell’ALBA, l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America, fondata da Cuba e Venezuela, che sta perdendo forza dopo il ritorno a destra di alcuni paesi membri: un compito assai complesso in questo momento, di fronte alla minaccia imperialista nei Caraibi. Come vede dal suo punto di osservazione ciò che sta accadendo nella Patria Grande, ma anche a livello mondiale? L’America Latina è minacciata da poteri suprematisti che cercano di imporre i propri interessi con la forza. L’America Latina ha però deciso da tempo di intraprendere il cammino della sovranità, dell’indipendenza, dell’autodeterminazione dei popoli e di proteggere la pace al di sopra di ogni cosa. Nel 2014, al vertice de L’Avana, dove si riunirono i paesi della CELAC, una delle grandi decisioni che furono prese lì, e che rimarrà registrata per la storia, è dichiarare l’America Latina come una zona di pace: e questo è un bene prezioso che abbiamo difeso in quel momento, che difendiamo ora e difenderemo sempre in qualsiasi circostanza. Se c’è qualcosa che il Venezuela ha fatto in tutto questo tempo, in cui vediamo una minaccia reale, provocazioni reali per generare un “cambio di regime”, non è sostenere se stesso. Il Venezuela non sostiene se stesso. Il Venezuela sostiene la pace intera di tutta l’America Latina. Una situazione indesiderabile per il Venezuela, avrà un impatto su tutta la regione. Fortunatamente, la maggior parte dei paesi della regione lo capisce, ed è per questo che hanno contribuito, attraverso le loro azioni e dichiarazioni, a proteggere quella pace che tanto vogliamo e a cui tanto aneliamo. L’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America [ALBA] è stata in prima linea in ognuno di questi scenari, attraverso dichiarazioni, azioni, attraverso vertici straordinari che abbiamo realizzato, ognuno dei presidenti che fanno parte dell’Alleanza, i primi ministri dei Caraibi Orientali. Insomma, in questa fase stiamo difendendo il nostro diritto a vivere in pace, il nostro diritto al futuro, ed è qualcosa che continueremo a fare con tutta la forza indomita di questo popolo latinoamericano, ma specialmente quando parliamo del Venezuela, parliamo anche del popolo bolivariano, che è già una responsabilità storica che abbiamo noi figli e figlie di Bolívar. E questo carico storico ci dà una responsabilità, una altissima responsabilità, e in nome di Bolívar continueremo a difendere la nostra autodeterminazione, la nostra indipendenza e la pace che abbiamo conquistato. Da alcuni paesi dei Caraibi, che sono passati a destra, ma anche quelli in cui governa una falsa sinistra, parliamo ad esempio della Guyana, arriva un attacco anche alla Caricom, un attacco all’integrazione latinoamericana, ma anche una concreta minaccia militare. Come stanno rispondendo gli altri paesi? E cosa sta facendo lei come Segretario esecutivo dell’Alba? Gli Stati uniti adotteranno sempre stratagemmi per strumentalizzare alcuni governi che hanno deciso di non curarsi dei loro popoli, ma di difendere gli interessi degli Stati Uniti. Questo accade con alcuni governi, non solo dei Caraibi, ma dell’America Latina. Sono presidenti che sono arrivati al potere politico con una chiara intenzione, un chiaro obiettivo, che è quello di poter beneficiare gli interessi degli Stati Uniti in ciascuno di questi paesi. Noi, di fronte a ciò, confidiamo nella saggezza di ognuno dei popoli dell’America Latina. Se c’è qualcosa che hanno dimostrato lungo tutta questa storia è che sono popoli con una profonda vocazione di difesa della sovranità, dell’indipendenza, dell’autodeterminazione. Prima o poi, i fiumi torneranno al loro corso e quei governi che hanno deciso di sottomettersi agli interessi imperialisti, la storia li espellerà dalle sue pagine. E lì non rimarrà che un pessimo ricordo di quei governi che hanno ceduto o hanno preteso di cedere i loro paesi a interessi stranieri. I popoli dell’America Latina, dei Caraibi, ricorderanno, invece, i presidenti che hanno saputo proteggere gli interessi del loro popolo. Nessuno, assolutamente nessuno parlerà dei leader di estrema destra nella regione. Ma sono sicuro che passeranno 300, 400, 500 anni e tutti parleranno di Hugo Chávez, di Fidel Castro, dei nostri dirigenti e delle nostre dirigenti: di Nicolás Maduro, di Raúl Castro, di Daniel Ortega. Insomma, questa è la storia. Ognuno decide come vivere la propria vita. Noi abbiamo deciso di viverla in coerenza con il desiderio, con l’anelito dei nostri popoli e lo stiamo facendo. Difendiamo a ogni costo gli interessi del popolo venezuelano. Per questo siamo tanto attaccati dall’imperialismo nordamericano. Perché se Nicolás Maduro si fosse arreso agli interessi imperiali, avrebbe sicuramente un tappeto rosso a Washington, ma il popolo in questo momento starebbe soffrendo. Abbiamo deciso di unire la nostra sorte a quella del nostro popolo, all’interesse del nostro popolo, all’anelito del nostro popolo, al desiderio del nostro popolo e lo stiamo facendo. Come quadro politico socialista, come vede questo piano di Trump, che non riguarda solo la Patria Grande, ma una ricerca di nuova egemonia da parte di un imperialismo che è in una crisi di modello conclamata? Come vede il futuro dell’Alba e quali sono le contromisure a livello generale che il Venezuela può mettere in campo? Vediamo chiaramente quali siano gli interessi imperialisti, che cercano sempre di fare, commettere o intraprendere azioni atte a raggiungere i loro obiettivi. In America Latina agiscono due dottrine antagoniste tra loro, che hanno combattuto storicamente e che combattono anche ora, la dottrina bolivariana e la dottrina monroista. Il nuovo monroismo intende l’America Latina come un territorio che deve essere disarticolato per far sì che l’imperialismo nordamericano possa realizzare i suoi desideri e interessi nella regione. Il bolivarianismo propone tutto il contrario. Intende che l’America Latina debba essere unita, rafforzata. Crediamo nell’unione latinoamericana come principio fondamentale per poter raggiungere gli obiettivi e i grandi aneliti dei popoli dell’America Latina, dei Caraibi. E questi scontri fanno sì che ci siano posizioni inconciliabili tra l’imperialismo nordamericano e i desideri e le aspirazioni del popolo latinoamericano. Quell’anelito continuerà, con loro là con i soliti piani di aggressione, noi qui con la nostra agenda: un’agenda di pace, di sovranità, di autodeterminazione, un’agenda di pace con giustizia sociale. Loro, invece, intendono la pace attraverso la forza, lo hanno dichiarato, e agiscono in questo senso, e sembrano sentirsi orgogliosi di usare il termine pace attraverso l’uso della forza. Noi no, noi crediamo nella pace attraverso la giustizia sociale, attraverso l’incontro con l’altro, nella pace, accompagnata sempre dalla felicità, utilizzando la massima bolivariana della ricerca della maggiore somma di felicità possibile per tutti e tutte. Lei ha organizzato l’Internazionale Antifascista. Una proposta di estrema attualità per il mondo. Che bilancio fa fino ad oggi e come proseguirà questa proposta? L’Internazionale Antifascista è un potente movimento che si è formato in tutto il mondo. Più di 77 paesi stanno formando l’Internazionale Antifascista con diversi capitoli, con un chiaro messaggio, che è condannare quello che sta cercando di essere la rinascita di nuove forme del fascismo, e neofascismo come si definisce. E i neofascisti stanno usando diversi strumenti, ma per fare ciò che hanno sempre fatto in passato: sterminare l’avversario, uccidere l’altro, fare i propri comodi attraverso l’odio e la violenza. Noi non possiamo permettere la rinascita di cose maligne per l’umanità. Se c’è qualcosa in cui crediamo e di cui siamo convinti, è che dobbiamo mettere a disposizione tutto ciò che abbiamo per difendere l’esistenza stessa dell’umanità. Ed è quello che stiamo facendo. L’Internazionale Antifascista, se ha uno scopo, è impedire che il neofascismo possa avanzare, perché l’avanzare del neofascismo è il regresso dell’umanità. Ed è quello che noi ci proponiamo e che stiamo facendo: impediamo che il neofascista avanzi, perché il neofascismo fa regredire l’umanità, e può arrivare fino allo sterminio completo di un’intera civiltà, come vediamo con il genocidio in Palestina. Quello che vediamo in Palestina fa parte di quelle azioni sioniste, neofasciste, che riuniscono il peggio che ci possa essere, o i peggiori orrori dell’umanità e tentano di applicarlo. Questo è per noi inammissibile. Per questo, se c’è qualcosa di molto attuale, oggi, è l’Internazionale Antifascista. Fonte Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
Cosa è el Toque?
El Toque è uno strumento di manipolazione progettato per deteriorare l’economia cubana. Nel corso delle indagini sulla piattaforma El Toque, è emerso che sono coinvolti 18 dirigenti dell’organizzazione, residenti in diversi paesi, oltre a un gruppo di collaboratori. L’economia cubana risente di squilibri accumulati nel tempo, che incidono su settori chiave quali la produzione, l’approvvigionamento energetico, la logistica interna, il funzionamento del sistema finanziario e l’accesso alle valute estere, a cui si aggiungono errori interni che aggravano ulteriormente le difficoltà. Tuttavia, il fattore più determinante in questo scenario rimane l’impatto prolungato dell’embargo statunitense, che limita le entrate estere, aumenta i costi finanziari, limita le possibilità di pagamento internazionale ed esercita pressioni sul Paese su più fronti. In questo contesto avverso, la piattaforma El Toque amplifica qualsiasi perturbazione economica e aumenta la dipendenza dal mercato informale, che a sua volta riproduce distorsioni e danneggia direttamente la popolazione. Secondo la seconda edizione del programma televisivo Razones de Cuba: Denuncia del pueblo de Cuba contra El Toque, le indagini rivelano che questo mezzo di comunicazione è nato sotto l’egida dell’emittente olandese Radio Nederland – inizialmente creata con scopi sovversivi contro l’allora Unione Sovietica – che riceveva finanziamenti dal governo statunitense per organizzare e attuare un’escalation di azioni terroristiche contro l’isola. Secondo il giornalista Raúl Antonio Capote, Radio Nederland aveva come obiettivo fondamentale la formazione di una leadership controculturale di nuovo tipo, per la quale venivano tenuti corsi di formazione per leader in Europa, perché «avevano bisogno di giornalisti laureati nelle università cubane, persone che potessero identificarsi con la popolazione e che fossero in grado di esercitare la professione». Così, nell’aprile 2017, sotto la direzione di José Jasán Nieves Cárdenas, è stata costituita la Fondazione Colectivo Más Voces, formalmente presentata come «una fondazione pubblica senza scopo di lucro, ma che, in pratica, riceveva fondi dalle strutture del governo degli Stati Uniti, dal Dipartimento di Stato, dall’Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid) e dalla Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED), con l’obiettivo di lavorare contro il sistema socialista cubano”, ha spiegato il colonnello Francisco Estrada Portales, capo del dipartimento dell’Organo di Istruzione dei Reati contro la Sicurezza dello Stato, del Ministero dell’Interno (Minint). Il processo investigativo, ha aggiunto, dimostra anche che, dopo l’accreditamento della Fondazione e la creazione della società Media Plux Experience da parte di Nieves Cárdenas, hanno cominciato a diffondersi attività apertamente allineate agli interessi dei finanziatori, «perché all’inizio era in qualche modo mascherata». SABOTAGGIO ECONOMICO Il governo degli Stati Uniti paga stipendi con lo scopo di minare la pace interna a Cuba, e «questo costituisce un reato, una violazione delle leggi. «L’attuale direttore di El Toque, Nieves Cárdenas, ammette di essere un dipendente con l’esplicito scopo di distruggere la Rivoluzione Cubana». Siamo di fronte a una persona che commette, spudoratamente, atti «che potrebbero essere classificati come diversi reati previsti dalle nostre leggi, con l’aggravante che lo sta facendo contro il suo Paese natale e per denaro. Sta commettendo sabotaggio economico, agendo in modo aggressivo contro il popolo», ha precisato Estrada Portales. In questo contesto, si riconosce allo stesso modo che Nieves Cárdenas ha compiuto operazioni illegali all’interno della Grande Antille, con il denaro assegnato. Un esempio concreto è Xavier Billingsley, ex vicecapo della sezione Relazioni pubbliche dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Cuba, che ha offerto denaro a cittadini cubani affinché presentassero progetti di sovversione contro il Paese, con pagamenti convogliati attraverso El Toque. PIATTAFORMA INDIPENDENTE? El Toque, la stessa piattaforma che impone tassi di cambio informali e che è diventata uno strumento di manipolazione, non sarà mai un’alternativa al giornalismo indipendente. Secondo il capo del dipartimento dell’organo di istruzione dei reati contro la sicurezza dello Stato del Minint, è attualmente in corso un’indagine penale che individua le attività criminali commesse dai suoi membri. Ad oggi, ha aggiunto, sono coinvolti 18 dirigenti, residenti in diversi paesi, oltre a un gruppo di collaboratori. «El Toque è indagato come organizzazione delle entità che utilizza per la sua attività e per il suo coinvolgimento nella guerra non convenzionale contro Cuba». Inoltre, gli esperti stanno analizzando i vari modi in cui manipola il tasso di cambio, falsifica i dati che pubblica e altera le informazioni ricevute per adeguare quotidianamente un tasso illegale. «Tutta questa presunta trasparenza è una farsa. Truccano i dati per legittimare una quotazione che incide direttamente sull’economia nazionale e sul benessere della popolazione», ha concluso. Fonte: Granma Traduzione: italiacuba.it Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
Come si organizza una campagna contro Cuba? Una nuova “invenzione cinese”
Tutto inizia con un’immagine radar meteorologica di Cuba del 13 novembre pubblicata da ClearCast Communiqué, in cui si osserva solo un modello atipico generato da artefatti radar. Il sito afferma che si notano “modelli circolari irregolari” e apparenti “anelli concentrici”. Non viene affermato nulla di militare o geopolitico. Successivamente, l’account Falcon @FlconEYES ritwitta il contenuto di ClearCast e trasforma questa osservazione neutra in un’interpretazione geopolitica priva di prove, affermando che Cuba starebbe utilizzando antenne, probabilmente cinesi, per monitorare l’attività militare nella regione. Infine, UHN Plus, una pubblicazione anticubana residuale, co-diretta da Yulier Suárez (un collaboratore di Rosa María Payá), riprende questa speculazione e la presenta come un allarme informativo, citando “analisti” non identificati e attribuendo i modelli a un sistema di sorveglianza militare regionale, senza fornire ulteriori prove. Nessuno degli attori aggiunge dati tecnici verificabili, ma piuttosto amplifica la narrazione fino a trasformare un’anomalia meteorologica in un presunto atto di spionaggio. Il contenuto è una fake news perché le conclusioni diffuse non hanno alcun fondamento tecnico o fattuale. I modelli circolari osservati sono artefatti comuni nei radar meteorologici pubblici — causati da interferenze, condizioni atmosferiche o errori di rendering — e non corrispondono a emissioni di radar militari o antenne di sorveglianza. Inoltre, i radar meteorologici non sono in grado di rilevare sistemi di spionaggio o antenne terrestri, quindi l’interpretazione militare è priva di fondamento.     Le pubblicazioni si basano esclusivamente su una lettura sensazionalistica di un’immagine meteorologica senza consultare fonti specializzate, senza prove indipendenti e senza convalida tecnica, il che conferma che si tratta di disinformazione costruita su un’apparenza visiva che è stata deliberatamente fraintesa. Su di essa si è immediatamente scatenata la muta politica della Florida per alimentare la sua feroce campagna anticubana. La congressista Maria Elvira Salazar, nota per le sue apparizioni televisive, basa su queste speculazioni infondate l’affermazione che Cuba è il più grande avversario degli Stati Uniti a sole 90 miglia di distanza e una minaccia alla loro sicurezza nazionale contro la quale è necessario agire.   Così, sulla base di supposizioni e menzogne, si articola una campagna contro Cuba. Resta da vedere se qualche mezzo di comunicazione di estrema destra statunitense si unirà per amplificare questo nuovo ciclo di bufale, il cui scopo non è altro che quello di alimentare le forze che oggi incoraggiano lo schieramento militare imperiale nei Caraibi.   Fonte: CUBADEBATE Traduzione: italiacuba.it Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
Invasione-suicidio: ecco perché Trump fallirà col Venezuela
di Pino Arlacchi* Tra le false narrative dei fatti del mondo che imperversano in Occidente, quella sul Venezuela è la più oltraggiosa. Non credete a una parola di ciò che i padroni dei mezzi globali d’informazione dicono sul paese, Maduro e l’aggressione iniziata dagli Usa 27 anni fa, con l’elezione a presidente di Hugo Chávez, e tuttora in corso. Gli eventi quotidiani smentiscono le menzogne che tentano di coprire una guerra di rapina e sopraffazione coloniale condotta da una potenza giunta all’ultima tappa del suo declino. Il Venezuela è un un paese forte, stabile, e deciso a non piegarsi. Un paese che vincerà, pur pagando duramente il prezzo della sua sovranità. La sconfitta Usa sarà la 65ª dall’inizio della Guerra fredda (la 66ª è in dirittura di arrivo, in Ucraina). E ciò avverrà sulla scia di quanto accaduto a quasi tutte le loro guerre, invasioni e tentativi di cambio di regime. Controllate le cifre sfogliando lo studio appena pubblicato su Foreign Affairs, bibbia dell’establishment Usa. La domanda giusta da porsi, allora, non è quella su quanto durerà Maduro, ma quella su quanto durerà Trump. L’aggressione è un’ulteriore tacca anti-Trump che il deep state ha segnato sulla cintura. Pentagono e intelligence s’oppongono a questa pantomima dello sbarco in Normandia voluta da Rubio e sottoscritta dal presidente. Il deep state, vero padrone dell’America, subisce, abbozza, di fronte a una mossa di politica estera sconsiderata, contraria all’interesse nazionale e decisa da un presidente eletto, per giunta, con il mandato di porre fine alle guerre (e alle sconfitte) infinite. Non c’è un solo dirigente dell’apparato militare, poliziesco e dei servizi di sicurezza che si sia pronunciato a favore dell’attacco. Ci sono invece le dimissioni dell’ammiraglio Hollsey, comandante delle operazioni militari in America Latina e Caraibi. C’è il dissenso fatto filtrare da decine di militari d’ogni grado, tra cui gli avvocati del Pentagono. E c’è la clamorosa notizia, minimizzata dai media, della dissociazione delle forze armate del Regno Unito da una operazione definita illegale perché portatrice di responsabilità personali per i suoi esecutori. Tradotto in linguaggio comune: l’esecuzione senza processo di sospetti trafficanti di narcotici è un assassinio, come lo è quello di una autorità politica straniera accusata senza la minima prova di compiere o di favorire le stesse attività. Per non parlare dell’aggressione armata a un intero paese senza solide evidenze di minacce alla propria sicurezza nazionale. Quasi tutte fattispecie punibili da tribunali ordinari, in parallelo agli organi della giustizia internazionale. L’unico successo finora ottenuto dall’aggressione al Venezuela è la sua sostanziale approvazione da parte del circo mediatico-politico dominante in Europa. Quello che da decenni ci somministra dosi da cavallo di disinformazione su Maduro e il Venezuela. E che non si scomoda a inviare osservatori indipendenti sul terreno né a dare spazio a voci fuori dal coro. Proprio come nel caso di Ucraina, Russia e Cina, demonizzate senza ritegno e senza rispetto della decenza. Dal 1999 i tentativi di destabilizzazione sono stati eclatanti insuccessi, culminati con quello d’abbattere il chavismo tramite soggetti ultra-eversivi e controproducenti come Guaidó e Machado. Personaggi che sembrano studiati per far vincere Maduro e le cui azioni hanno finito col mettere fuori gioco l’opposizione costituzionale e rafforzare il governo: dal 2015 in poi i chavisti hanno vinto tutte le elezioni, incluse comunali e regionali di quest’anno, alle quali nessuno in Occidente ha prestato attenzione perché la disinformazione è rimasta concentrata sulle Presidenziali dell’anno scorso, vinte da Maduro nonostante l’establishment atlantico avesse deciso di far vincere Machado. Dal 1999 in poi i chavisti hanno prevalso in 25 tornate elettorali su 29. E continuano a vincere per la semplice ragione che i poveri del Venezuela votano per chi li rappresenta meglio, cioè per chi distribuisce all’interno i proventi del petrolio invece di trasformarli in depositi privati presso le banche di Miami. I chavisti restano al potere grazie alle loro politiche sociali, anzi socialiste. Misure che hanno consentito al paese di sopravvivere alle più barbare sanzioni mai viste e tornare addirittura a crescere negli ultimi 4 anni. Contro un’opposizione appesa al solo slogan di mandare via Maduro e privatizzare il petrolio, affidandolo a mani Usa e riportare così il Venezuela ai tempi della miseria e dell’umiliazione. Il chavismo ha certo compiuto molti errori. La corruzione è molto diffusa e la “maledizione del petrolio” continua a incombere. Ma la domanda è che cosa abbia reso possibile una continuità di governo così lunga, senza precedenti in America Latina, mantenutasi dopo un crollo del Pil dell’80% che avrebbe abbattuto qualsiasi governo. La spiegazione più sensata è che la stragrande maggioranza dei venezuelani ha riconosciuto la causa del crollo nelle sanzioni americane e nella débâcle dei prezzi del petrolio, invece d’imputarla al malgoverno d’una feroce dittatura, come suggerito dalla narrativa corrente. Maduro è sopravvissuto ed è più forte di prima perché ha saputo superare la catastrofe del 2015 con politiche d’emergenza radicali, cui è oggi destinato l’80% del bilancio dello Stato, accrescendo e non limitando, inoltre, la partecipazione popolare ai processi decisionali. Il Venezuela di oggi è una democrazia popolare che ha saputo guidare una rinascita economica del paese vergognosamente oscurata dai mezzi di informazione occidentali. La rinascita è documentata da tutti gli enti internazionali, dal Fondo Monetario all’Onu. È iniziata nel 2021, è in pieno svolgimento e quantificata da un balzo del Pil di quasi il 30% in quattro anni. Il consenso a Maduro è aumentato anche presso gli strati benestanti prima sostenitori ferventi dell’opposizione. Ciò spiega perché i deliri della Machado vengano trattati come tali anche dall’opposizione. Sono stato di recente in Venezuela invitato a un Forum internazionale di 56 paesi: ho constatato la totale irrilevanza di questa signora, i cui progetti eversivi l’avrebbero condotta in galera in qualsiasi paese europeo. Ho visto solo manifestazioni patriottiche imponenti, composte da chavisti mescolati per la prima volta a gente che qualche anno fa animava le proteste di Guaidó-Lopez-Machado, comunque autori d’un capolavoro: lavorando al servizio di Rubio e Trump, sono riusciti a stimolare una reazione di rigetto anti-imperiale tale da trasformare una milizia cittadina d’autodifesa, formata da “soli” 5 milioni di chavisti, in una forza d’urto di 8 milioni di patrioti ben armati e che s’addestrano ogni settimana. Affiancando un esercito leale al governo e privo di malcontento e rischi di defezione. Il 95% dei venezuelani è contrarissimo a un’invasione americana. Che non avverrà. Perché inizierebbe come in Iraq e finirebbe come in Vietnam. E con tempi molto ristretti. *Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2025 L'Antidiplomatico
Cuba, Relatrice ONU Douhan: “L’applicazione e il recente rafforzamento delle sanzioni statunitensi aggravano le difficoltà della popolazione cubana”
La Sig.ra Alena Douhan, Relatrice Speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani (1), ha terminato ieri – 21 novembre – la sua visita ufficiale a Cuba, dopo essere arrivata l’11 novembre 2025. Ieri, al termine della sua visita ufficiale a Cuba, ha affermato in una dichiarazione: “Gli Stati Uniti devono revocare le sanzioni unilaterali imposte a Cuba, che stanno causando effetti significativi in tutti gli aspetti della vita sull’isola. (…) Per oltre 60 anni, gli Stati Uniti hanno mantenuto un ampio regime di restrizioni economiche, commerciali e finanziarie contro Cuba, la più lunga politica di sanzioni unilaterali nelle relazioni estere degli Stati Uniti”. “Di conseguenza, generazioni di cubani hanno vissuto sotto misure coercitive unilaterali, che hanno plasmato il panorama economico e sociale del Paese”. Douhan ha affermato di aver sentito dire che le restrizioni sono state progressivamente inasprite dal 2018, con ulteriori misure imposte a quelle già esistenti e un’intensificazione significativa nel 2021, in seguito alla nuova designazione di Cuba come “Stato sponsor del terrorismo”. Queste e molte altre restrizioni, aggravate dalla riduzione del rischio e dall’eccessiva conformità da parte di terzi, limitano la capacità del Governo e dei cittadini di pianificare a lungo termine e stanno soffocando il tessuto sociale della società cubana. Nonostante l’ampio sostegno costantemente espresso alla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “Necessità di porre fine all’embargo economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America contro Cuba” e la sua inequivocabile richiesta di porre fine al blocco, le misure non solo continuano a rimanere in vigore, ma i loro impatti vengono intensificati dagli Stati Uniti, ha affermato l’esperto. “La carenza di macchinari essenziali, pezzi di ricambio, elettricità, acqua, carburante, cibo e medicine, insieme alla crescente emigrazione di lavoratori qualificati, tra cui personale medico, ingegneri e insegnanti, hanno gravi conseguenze sul godimento dei diritti umani, tra cui il diritto alla vita, al cibo, alla salute e allo sviluppo”, ha affermato. Le iniziative sociali ed economiche sono spesso ostacolate da cancellazioni improvvise, ostacoli amministrativi e incertezza. Le procedure di appalto diventano lunghe e imprevedibili, con cancellazioni dell’ultimo minuto che aumentano i costi, ritardano l’assistenza e ostacolano l’implementazione dei progetti. Douhan ha inoltre osservato che l’imprevedibilità delle misure coercitive unilaterali degli Stati Uniti e le elevate sanzioni imposte a chi le aggira creano diffidenza tra le aziende straniere. Anche in caso di licenze ed esenzioni, gli investitori rimangono diffidenti nell’impegnarsi in progetti a lungo termine, data la possibilità di cambiamenti politici negli Stati Uniti. Per valutare la portata completa della situazione, Douhan ha incontrato un’ampia gamma di stakeholder, tra cui funzionari governativi, diplomatici, agenzie internazionali, organizzazioni non governative, rappresentanti della Chiesa, membri del mondo accademico, personale medico e rappresentanti del settore privato. Ha inoltre ricevuto un numero record di contributi che andranno ad arricchire il rapporto. “Esorto tutti gli Stati ad aderire ai principi e alle norme del diritto internazionale e a garantire che le preoccupazioni umanitarie siano pienamente rispettate, fondate sui principi di rispetto reciproco, solidarietà, cooperazione e multilateralismo”, ha affermato il Relatore speciale. Un rapporto sulla visita, contenente le sue conclusioni e raccomandazioni, sarà presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel settembre 2026. https://www.ohchr.org/en/press-releases/2025/11/enforcement-and-recent-strengthening-us-sanctions-deepen-hardships-cuban   (1) Il ruolo di Relatore Speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani è stato creato da una risoluzione del 2014 al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite presentata dall’Iran per conto del Movimento dei Paesi Non-Allineati, e Alena Douhan è la seconda a ricoprire il ruolo. Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione per creare il suo ruolo mentre Russia, Cina, Venezuela e Arabia Saudita hanno votato a favore della risoluzione. (2) I Relatori Speciali/Esperti Indipendenti/Gruppi di Lavoro sono esperti indipendenti in materia di diritti umani nominati dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Insieme, questi esperti sono denominati Procedure Speciali del Consiglio per i Diritti Umani. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non fanno parte del personale delle Nazioni Unite e non ricevono alcun compenso per il loro lavoro. Sebbene l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani funga da segretariato per le Procedure Speciali, gli esperti prestano servizio a titolo individuale e sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione, inclusi l’OHCHR e le Nazioni Unite. Qualsiasi punto di vista o opinione presentata è esclusivamente quella dell’autore e non rappresenta necessariamente quella delle Nazioni Unite o dell’OHCHR. Le osservazioni e le raccomandazioni specifiche per Paese formulate dai meccanismi delle Nazioni Unite per i diritti umani, tra cui le procedure speciali, gli organi dei trattati e la Revisione periodica universale, sono reperibili nell’Indice universale dei diritti umani .   Lorenzo Poli
In Cile 13 partiti politici perdono il loro status legale
Il Servel (Servizio elettorale cileno) ha confermato che 13 partiti non hanno raggiunto la soglia legale per sopravvivere dopo le elezioni tenutesi il 16 novembre. La notte elettorale ha lasciato nell’oscurità i partiti minori e con scarsa rappresentanza parlamentare, riducendo notevolmente le future opzioni democratiche e concentrando il potere nelle mani delle forze maggioritarie dello spettro politico nazionale. Tredici partiti non sono riusciti a superare i requisiti richiesti dalla legge per mantenere la loro esistenza: ottenere almeno il 5% dei voti nelle elezioni dei deputati o eleggere quattro parlamentari in due regioni diverse. Con i risultati del Servizio Elettorale (Servel) sotto gli occhi, la maggior parte di queste forze politiche rimane fuori dal gioco nonostante gli sforzi compiuti durante la campagna elettorale per evitare lo scioglimento. Tra i partiti colpiti figurano il Partido Acción Humanista e la Federación Regionalista Verde Social (FRVS), che avevano avvertito dei rischi di competere al di fuori della lista maggioritaria della sinistra. Acción Humanista ha ottenuto un solo seggio alla Camera, quello di Ana María Gazmuri, mentre la FRVS ha eletto Jaime Mulet, René Alinco e Miguel Ángel Calisto, quest’ultimo ora entrato al Senato. Tuttavia, nessuno dei due partiti ha raggiunto i requisiti minimi legali. A questo gruppo si aggiungono il Partido Humanista, Igualdad, il Partido Trabajadores Revolucionarios, Alianza Verde Popular, il Partido Popular e l’Ecologista Verde. Inoltre, ha perso la sua personalità giuridica il Partido Radical, uno dei più antichi del Paese, che affonda le sue radici nel XIX secolo e che ha governato il Cile per 14 anni con tre presidenze consecutive. Anche Demócratas non è riuscito a superare la soglia. Amarillos por Chile non ha ottenuto alcun seggio e ha raccolto solo lo 0,72% dei voti a livello nazionale. Nello spettro politico di destra, Evópoli e il Partido Social Cristiano sono stati esclusi dalla scena legale. In questo modo, in Cile si riduce la gamma di possibilità, lasciando spazio solo alle formazioni dominanti del sistema politico. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Redacción Chile
Lula torna nella Zona Blu della 30ª Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici nella fase finale dei negoziati
Si prevede che il primo pacchetto di decisioni venga annunciato oggi e che la presenza del Presidente contribuisca a sbloccare alcune questioni all’ordine del giorno. 19.nov.2025 – 11:23 Belém (PA) Afonso Bezerra Ad oggi, 118 Paesi hanno presentato i loro NDCD (acronimo di Contributi Determinati a Livello Nazionale), ovvero gli obiettivi che i Paesi stessi si impegnano a raggiungere per ridurre le emissioni e raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. L’ordine del giorno del decimo giorno della Conferenza include il ruolo delle donne nella lotta al cambiamento climatico, soluzioni per i sistemi agroalimentari e una Riunione di Alto Livello sull’Azione Globale per il Clima, un momento cruciale della giornata incentrato sulla presentazione di proposte e annunci da parte dei leader. Un giorno prima dell’arrivo del presidente, decine di paesi che hanno formato la cosiddetta Alleanza Oltre il Petrolio e il Gas si sono incontrati in una conferenza stampa per dimostrare il loro sostegno all’appello del leader brasiliano e della Ministra dell’Ambiente e dei Cambiamenti Climatici, Marina Silva, per l’elaborazione di una “Roadmap” per la transizione dai combustibili fossili. “Il Brasile non ha paura di discutere di transizione energetica. Sappiamo già che non è necessario spegnere macchinari e motori, né chiudere fabbriche in tutto il mondo dall’oggi al domani. La scienza e la tecnologia ci consentono di evolvere in sicurezza verso un modello incentrato sull’energia pulita”, ha affermato il presidente al Summit dei leader, un evento che ha preceduto la Conferenza sul clima. > Lula retorna a Belém para ‘destravar negociações’ na reta final da COP30 Redazione Italia