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Il dilemma della cautela: l’inerzia del Cile di fronte al genocidio a Gaza e il coraggio del Brasile
Mi rivolgo a Lei, Signor Presidente. Mentre il Brasile fa un passo avanti con sanzioni decise, la classica cautela del presidente Boric si rivela un’inerzia che condanna il Cile a essere un semplice spettatore di fronte al passaggio storico del genocidio. Questo editoriale analizza criticamente la differenza tra le risposte di Cile e Brasile di fronte al genocidio a Gaza. Sostiene che, mentre il Brasile impone sanzioni militari e diplomatiche come espressione di una leadership audace e pragmatica, la posizione cilena, ancorata a una cautela divenuta inerzia, rappresenta una rinuncia al dovere morale. L’inazione del Cile non è una strategia diplomatica sostenibile. La recente apertura al dibattito sul riconoscimento della Palestina nei Paesi occidentali evidenzia l’inutilità di tale cautela. Il governo Boric e il Parlamento cileno devono rispondere all’imperativo storico e unirsi a un fronte comune in grado di fermare il genocidio. Lo stesso presidente Boric ha formalmente definito i fatti di Gaza un “genocidio”. Questo riconoscimento verbale colloca il Cile, almeno a parole, dalla parte giusta della storia, ma tale atto politico e morale, inizialmente coraggioso, impone una conseguenza logica: agire con coerenza. Non c’è più spazio per invocare la cautela tradizionale come giustificazione dell’inazione o dell’eccessiva moderazione. Una volta nominato il crimine, viene tracciata una linea che obbliga ad agire con i fatti. La notizia che il Brasile ha imposto sanzioni decise contro Israele — sospendendo le esportazioni militari, ritirando il proprio ambasciatore e aderendo al caso presso la Corte Internazionale di Giustizia — è un faro che illumina l’oscurità dell’inazione e uno specchio in cui il Cile deve guardarsi. Il Brasile non si è limitato alla condanna verbale. Le sue azioni — la sospensione delle esportazioni militari, la rottura dei canali diplomatici e la partecipazione attiva alla Corte — dimostrano una leadership disposta a sostenere costi concreti per esercitare una pressione reale. Il Brasile pone la vita di migliaia di palestinesi al di sopra della convenienza politica e del profitto commerciale. Chiama l’America Latina a unirsi per fermare ciò che è stato chiaramente definito un genocidio. Il Cile ha compiuto alcuni passi, come il ritiro temporaneo del proprio ambasciatore, il sostegno a iniziative parlamentari che mettono in discussione il commercio con prodotti provenienti da insediamenti illegali, nonché dichiarazioni forti in forum multilaterali. Ma quando chi governa ha definito i fatti come genocidio, queste risposte risultano chiaramente insufficienti. La responsabilità principale ricade sul presidente Boric e sul Congresso, che devono superare i calcoli politici ed economici che finora hanno frenato un’azione più incisiva. Paesi tradizionalmente allineati all’Occidente — compresi alcuni con stretti legami con Israele — stanno inviando segnali inequivocabili che lo status quo non è più sostenibile. Il dibattito sul riconoscimento dello Stato di Palestina non è più un tabù nemmeno in nazioni come il Canada, il che sottolinea l’inconsistenza della cautela cilena. L’unica “perdita” reale sarebbero tensioni diplomatiche e alcuni costi commerciali che impallidiscono di fronte alla gravità del crimine. La storia giudicherà duramente coloro che sono rimasti nella comoda zona dell’inazione mentre continuava la barbarie. La cautela, in questo contesto, non è prudenza ma rinuncia e il suo prezzo sarà storico e morale. Signor Presidente, lei ha già riconosciuto che ciò che accade a Gaza è un genocidio. E quella parola cambia tutto. Ogni successiva cautela — per pressioni economiche, calcolo elettorale o timore di ritorsioni — diventa indifendibile di fronte a quell’azione. La storia non giudicherà il suo bilancio diplomatico, ma se è stato all’altezza del crimine che lei stesso ha denunciato. Questo editoriale non chiede impulsività, ma coerenza. Non si tratta di agire per pressione, ma di fare ciò che è giusto — perché è già stato detto che ciò che accade è inaccettabile. Il Congresso, che ha giustamente ascoltato il grido della società civile, deve comprendere che la paralisi è anch’essa una forma di complicità. In questo passaggio storico, alcune ambiguità costano vite. Se il Cile, dopo aver ammesso il genocidio, continua a scegliere la cautela, sarà l’umanità intera a pagare questo passaggio storico con il sangue — come è sempre accaduto quando si è taciuto di fronte all’orrore. Rispettosamente, Claudia Aranda Claudia Aranda
La Bolivia e il litio, tra orgoglio e pazienza
> Non c’è Paese senza destino se si prende cura delle proprie radici. Il litio è > la radice del XXI secolo. E la Bolivia ce l’ha già nelle sue mani. Le riserve della Bolivia stimate di 23 milioni di tonnellate (33,6% del totale mondiale) sono le prime al mondo. Produzione 2023 quasi nulla (0,0% della produzione mondiale). Valore stimato: oltre 460.000 milioni di dollari. Dati del Servizio Geologico degli Stati Uniti. La Bolivia possiede le maggiori riserve di litio del pianeta, ma ancora non ha una produzione industriale rilevante né una catena di valore consolidata. Non è un Paese povero, è un Paese saccheggiato con una dignità intatta. Ha le risorse, ha la storia e soprattutto ha il litio. Ma mentre il mondo corre dietro il minerale bianco come se fosse sangue per le auto elettriche, la Bolivia cammina al proprio ritmo. Questa pazienza, che per alcuni è arretratezza, potrebbe essere la sua più grande forza. Il cosiddetto triangolo del litio (Cile, Argentina, Bolivia) concentra oltre il 60% delle riserve globali. La Bolivia, con il Salar de Uyuni come epicentro. Esiste un potenziale anche nelle saline di Coipasa a Oruro e di Pastos Grandes a Potosí. Salar de Uyuni: ≈ 21 milioni di tonnellate. Proporzione del “Salar de Uyuni” sul totale del Paese: ≈ 91%. Ciò significa che praticamente tutta la ricchezza di litio della Bolivia si trova sotto la superficie del “Salar de Uyuni”, rendendolo il più grande giacimento singolo del pianeta. Eppure nel 2023 la Bolivia ha fatturato solo circa 180 milioni di dollari per il litio e i suoi derivati. La produzione è stata bassa. Ma il 100% di questa cifra rimane nelle mani dello Stato. Non esistono concessioni private. L’intera catena è sotto il controllo di Yacimientos de Litio Bolivianos (YLB). Un modello sovrano sì, ma ancora in fase di sviluppo. E in disputa perché ogni passo compiuto dallo Stato dà fastidio a coloro che vorrebbero gestire il litio come hanno gestito l’argento o il rame. Il litio boliviano è più difficile da lavorare. È mescolato con il magnesio, il che rende più costosa la separazione. Richiede tecnologia, investimenti e sovranità. E la Bolivia ha preferito costruire questa sovranità piuttosto che ripetere la storia dello stagno, del gas o dell’argento. Ecco perché il litio è al 100% di proprietà dello Stato. Non ci sono SQM o Albemarle (aziende chimiche, la prima cilena, la seconda statunitense, N.d.R). Nessun privato può sfruttarlo senza associarsi con YLB. Non ci sono concessioni aperte. Solo uno Stato che ha scelto di essere proprietario del proprio sottosuolo. Oggi YLB gestisce tre impianti chiave: 1. Impianto Pilota di Carbonato di Litio a Llipi, Potosí 2. Impianto Industriale di Cloruro di Potassio, inaugurato nel 2018 3. Impianto Industriale di Carbonato di Litio, entrato in funzione nel 2023 Nel 2023, la Bolivia ha prodotto soltanto 1.400 tonnellate di carbonato di litio. Molto al di sotto delle 40.000-60.000 tonnellate che producono Argentina o Cile. L’obiettivo ufficiale è di raggiungere 100.000 tonnellate annue entro il 2030, con impianti moderni e tecnologia DLE (estrazione diretta). Per accelerare questo percorso, la Bolivia ha firmato due accordi strategici: uno con il consorzio cinese CATL BRUNP CMOC per 1.400 milioni di dollari  per la costruzione di due impianti con tecnologia DLE, e un altro con la società russa Uranium One Group, parte del colosso statale Rosatom, per lo sviluppo di nuovi progetti. Entrambi gli accordi rispettano la sovranità nazionale. YLB mantiene il controllo delle risorse e partecipa ai profitti. Cina e Russia forniscono la tecnologia, ma non si prendono né le saline né la proprietà. Ogni impianto previsto avrà una capacità di 25.000 tonnellate all’anno, avvicinando la Bolivia ai maggiori produttori entro il 2026-2027. Ma la Bolivia non vuole essere solo esportatrice di salamoia. Il suo obiettivo è creare una catena di valore completa, dalla salamoia alle batterie e alle auto elettriche. Nel 2019 ha inaugurato il suo primo impianto pilota per la produzione di batterie. Oggi, punta ad attrarre fabbriche di catodi, elettroliti, componenti strategici e assemblaggio completo di batterie. AMBIZIOSO? SÌ. LENTO? ANCHE. DEGNO? DECISAMENTE. La Bolivia vuole che il litio generi occupazione, tecnologia e sovranità. E che non finisca nelle mani di multinazionali che operano da paradisi fiscali. E questo dà fastidio. Perché ci sono Paesi e aziende che preferiscono il litio senza la Bolivia. O una Bolivia senza Stato. COSA MANCA? 1. Aumentare l’efficienza degli impianti esistenti 2. Superare i colli di bottiglia tecnologici nell’estrazione. 3. Ampliare le infrastrutture logistiche. 4. Formare un maggior numero di tecnici e scienziati nazionali 5. Accelerare la messa in funzione di nuovi impianti E soprattutto blindare politicamente la sovranità sul litio. Perché ogni volta che la Bolivia fa dei progressi, emerge una crisi, un sabotaggio, un colpo di Stato o una campagna internazionale. È già successo nel 2019. Il litio non è solo un minerale. È geopolitica. La salina tace, ma non dimentica. A ogni alba bianca su Uyuni, il litio ricorda che è stato evaporato mille volte dal sole, ma mai dall’oblio. La Bolivia ha le risorse. Ha la dignità. Ha la storia. Manca solo il tempo. E il tempo a volte è dalla parte di chi non tradisce le proprie radici. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mauricio Herrera Kahn
Cuba ha bisogno di 800.000 nuove abitazioni, ostacolate dal bloqueo
“La mancanza di produzione locale di materiali da costruzione, l’accesso limitato a cemento e acciaio, nonché la carenza di carburante, tecnologie obsolete e la chiusura di oltre il 30% dei centri di produzione sono tutti segnali degli insufficienti risultati del programma Vivienda.” – è ciò che ha scritto  Carmen Maturell Senon su Granma Cuba il 14 luglio 2025. Nell’analisi realizzata dalla Commissione Industria, Edilizia ed Energia, prima della V Sessione Ordinaria della X Legislatura dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare, la deputata Maritza Gé Torres, segretaria della commissione, ha affermato che tutte le province hanno segnalato restrizioni all’accesso al cemento e all’acciaio, sebbene alcuni territori come Guantánamo, Holguín e Villa Clara abbiano dato priorità allo sfruttamento delle materie prime locali come argilla, pietra, legno e plastica riciclata. Per quanto riguarda l’attuazione del Programma per l’edilizia abitativa, Delilah Díaz Fernández, Direttore generale per l’edilizia abitativa presso il Ministero delle Costruzioni (Micons), ha riferito che gli standard di costruzione non sono stati aumentati perché, nonostante la pianificazione sia inferiore rispetto agli anni precedenti, non si riesce a rispettarli. Rispetto al 2024, il numero di abitazioni di qualità media e scadente è aumentato di 6.520 unità, determinando una crescita piatta del fondo. Fernandez ha sottolineato che il deficit abitativo alla fine di marzo 2025 ammontava a 805.583 case, di cui 398.364 dovevano essere ristrutturate e 407.219 dovevano ancora essere costruite. Allo stesso modo, il piano di completamento dello Stato copre solo il 22%; per quanto riguarda la risposta alle dinamiche demografiche, è stato completato il 13% di tutte le abitazioni. Díaz Fernández ha affermato che ci sono fasce della popolazione che necessitano di assistenza abitativa e che i piani non sono sufficienti per soddisfare le esigenze sia di coloro le cui condizioni abitative stanno peggiorando, sia di coloro che cercano un alloggio a causa della carenza di alloggi. Nel corso dell’evento, a cui ha partecipato il Comandante della Rivoluzione e Vice Primo Ministro Ramiro Valdés Menéndez, si è appreso che queste limitazioni rendono impossibile implementare soluzioni abitative per le persone in situazioni vulnerabili attraverso il programma di sussidi e l’autonomia produttiva dei comuni. Pertanto, è necessario rafforzare la pianificazione e la gestione locale della produzione dei materiali, integrando efficacemente le capacità produttive delle istituzioni e le capacità locali di produzione di carpenteria, ceramica rossa, calce ed elementi in plastica. L’analisi sulla situazione abitativa, presentata nella Commissione dell’Industria, dell’Edilizia e dell’Energia e che sarà discussa in questi giorni dal Parlamento di Cuba (Asamblea Nacional) ha messo in evidenza che Cuba ha bisogno di 805.583 unità abitative, divise tra le 407.219 che mancano del tutto e le 398.364 da ristrutturare urgentemente. Su 4,1 milioni di case, solo il 65% è in buono stato tecnico. Il resto – circa 1,4 milioni – si trova in condizioni definite “regolari” o addirittura “pessime”. Cuba ha difficoltà a compiere i piani annuali di nuove costruzioni. Per l’anno in corso il piano prevede la costruzione di 10.795 nuove abitazioni. Al momento ne sono state realizzate solo 2.382. La causa principale è la carenza di materiale a seguito di una limitata capacità produttiva dovuta alle criminali sanzioni, al Bloqueo e alla guerra economica e commerciale contro Cuba, imposte illegalmente dagli Stati Uniti. Sul tutto grava il deficit energetico. Come scrive Senon: “Insomma, una sfida immane che si aggiunge alle altre. Ma Cuba non sia arrende e non si vende e continua al sua lotta, aiutata da nuovi paesi internazionali, per garantire a tutti/e il necessario, nel limite  delle difficoltà economiche e non lasciando indietro nessuno.” A questo proposito, e per colmare le lacune evidenti, è stata elaborata una serie di linee guida per l’uso intensivo ed estensivo del potenziale di risorse naturali e riciclabili disponibili in ogni territorio.   Fonte: * Collettivo Viva Cuba Libre * https://www.granma.cu/cuba/2025-07-14/comision-de-industria-contrucciones-y-energia-urge-desarrollar-estrategias-efectivas-para-solucionar-el-programa-de-la-vivienda   Lorenzo Poli
Cerro de Pasco, tra estrattivismo e negligenza: la voce dei giovani contro l’ingiustizia ambientale
Un’enorme voragine lunga circa due chilometri e profonda quasi mille metri viene quotidianamente scavata per estrarre rame, piombo e zinco. Si tratta di El Tajo, una gigantesca miniera a cielo aperto situata a Cerro de Pasco, oltre i 4.500 metri di altitudine. Nonostante secoli di sfruttamento delle sue risorse da parte di multinazionali e gli ingenti profitti generati, questa città resta tra le più povere del Perù. Attualmente, più di 70.000 persone vivono a Cerro de Pasco in condizioni di profondo disagio sociale ed economico, intrappolate in una realtà segnata da gravi conseguenze ambientali. La miniera ha contaminato l’area in modo critico, mettendo a rischio la salute della popolazione. I servizi sanitari sono quasi assenti, il sistema educativo è al limite del collasso e gli aiuti statali scarseggiano. Secondo i dati, l’intera comunità presenta tracce di metalli pesanti nel sangue e necessita urgentemente di cure mediche per evitare danni irreversibili. Nonostante le indagini condotte da organizzazioni come Source International e gli studi realizzati dai ricercatori della Columbia University, poi pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento ambientale a Cerro de Pasco continua a rappresentare una minaccia concreta. La responsabilità principale ricade sulla compagnia mineraria, mentre lo Stato peruviano resta assente, incapace di garantire ai cittadini i diritti fondamentali. Diritti come quello di vivere in un ambiente salubre, avere accesso ad acqua potabile in quantità adeguata, un’alimentazione sicura e priva di sostanze tossiche e godere di buona salute. I metalli pesanti contenuti nelle enormi discariche minerarie attorno alla città si diffondono attraverso l’aria e l’acqua, penetrando nel corpo umano. I dati più allarmanti riguardano i bambini e i ragazzi, che risultano i più colpiti da questa esposizione costante. I bambini tra i 5 e i 14 anni, la fascia d’età più vulnerabile a questo tipo di esposizione, hanno sviluppato deficit cognitivi e fisici, oltre a disturbi mentali. Gli adulti, in particolare i genitori, a causa dell’elevata presenza di metalli pesanti nel loro organismo, hanno manifestato comportamenti violenti all’interno del nucleo familiare, soprattutto nei confronti dei figli. In questa città fantasma, vittima delle devastanti conseguenze di anni di estrattivismo e negligenza da parte delle istituzioni peruviane, sono le piccole realtà di resistenza locali che cercano, seppur a fatica, di accendere uno spiraglio di speranza per il cambiamento. Una di queste è l’associazione Red Interquorum Cusco, gestita da ragazzi di licei e università di Cerro de Pasco, uniti dalla lotta per i diritti umani e dalla denuncia delle condizioni ambientali in cui si ritrovano a vivere. Sono loro i vincitori del premio per i diritti umani dell’organizzazione Operation Daywork, basata a Bolzano. Questa realtà permette proprio ai giovani di battersi in prima persona per fare rete con altri gruppi di ragazzi in giro per il mondo, scegliendo ogni anno un progetto da sostenere a livello finanziario. Quest’anno il lavoro è stato svolto con i giovani di Red Interquorum, con l’obiettivo ultimo di ampliare le loro voci e sostenerli nel loro importante lavoro di sensibilizzazione per i diritti umani. Da qui nasce il progetto A.G.I.R.E., promosso dalla ong Future Rights, organizzazione basata in Italia e che fa della partecipazione giovanile il suo focus principale. Tramite la collaborazione tra queste organizzazioni e grazie alla preziosa partecipazione dei ragazzi di Red Interquorum, si sta costruendo un piano di azione condiviso, volto a portare il grave caso di Cerro de Pasco all’attenzione di tutti. A.G.I.R.E. ha come obiettivo quello di promuovere la partecipazione giovanile, la giustizia ambientale e la solidarietà globale, costruendo legami concreti tra giovani italiani e attivisti di Cerro de Pasco (Perù). L’idea è quella di dare ai ragazzi di Red Interquorum sempre più piattaforme internazionali da cui diffondere le proprie storie, ma anche di sostenerli nel denunciare il loro caso a livello legale, con l’obiettivo di produrre effetti concreti nel prossimo futuro. In un contesto in cui lo sfruttamento delle risorse continua a prevalere sui diritti delle persone, l’esperienza dei giovani di Cerro de Pasco dimostra che la resistenza è ancora possibile, anche nei luoghi più marginalizzati del mondo. Attraverso il lavoro di realtà come Operation Daywork e Future Rights, le nuove generazioni non solo alzano la voce contro l’ingiustizia ambientale e sociale, ma costruiscono ponti di solidarietà internazionale capaci di generare consapevolezza e, soprattutto, azione concreta.   Alice Lucchini
Tomás Hirsch: “Jeannette Jara rappresenta la speranza che in Cile sia possibile cambiare le cose in modo profondo”
Il 29 giugno in Cile Jeannette Jara ha vinto le primarie della sinistra e sarà la candidata delle forze democratiche, progressiste, indipendenti e umaniste alle elezioni presidenziali che si terranno a novembre, dove dovrà affrontare i rappresentanti della destra e dell’estrema destra. Discutiamo della situazione politica e sociale del Paese, delle prospettive aperte da questa vittoria e delle proposte della coalizione di sinistra con Tomás Hirsch, deputato e presidente di Acción Humanista, che ha partecipato con entusiasmo alla campagna elettorale che ha portato alla schiacciante vittoria di Jeannette Jara. Dopo quasi quattro anni di governo Boric, come vedi la situazione politica e sociale in Cile? Quali sono stati i principali progressi in questo periodo e quali le sconfitte? Indubbiamente in questi quasi quattro anni di governo del presidente Gabriel Boric, a cui abbiamo partecipato come Acción Humanista, sono stati compiuti importanti progressi, ma non abbastanza da poter dire che il Cile è un Paese in cui esistono una vera giustizia sociale e diritti sociali garantiti come quelli a cui aspiriamo. Sono stati fatti dei progressi, ma c’è ancora molta strada da fare. Perché c’è ancora molta strada da fare? Fondamentalmente perché, pur stando al governo, non avevamo la maggioranza al Congresso e questo ha significato un impedimento permanente da parte della destra a realizzare le principali trasformazioni proposte nel nostro programma di governo. Si trattava di trasformazioni strutturali nei settori della sanità, dell’istruzione, della casa, del lavoro e delle pensioni. Allo stesso tempo, la sconfitta subita nel plebiscito per l’approvazione di una nuova Costituzione è stata un colpo durissimo, che ha generato frustrazione e smobilitazione in molte persone. Da quel momento in poi c’è stato un cambiamento nelle priorità del governo, con una forte enfasi sulla sicurezza e su altre questioni che non erano incluse nel programma iniziale. In breve, credo che ci siano stati grandi progressi nei diritti delle donne, nei diritti del lavoro, nella riforma del sistema pensionistico e in quella del sistema educativo, per finire con il sistema di crediti e pagamenti per gli studenti, ma c’è ancora molta strada da fare e questa è la possibilità che si apre con un governo guidato da Jeannette Jara. Jeannette Jara ha sconfitto Carolina Tohá, la candidata del Socialismo Democratico, che fino a pochi mesi fa i sondaggi davano per sicura vincitrice. Quali sono stati, secondo te, gli elementi che l’hanno portata alla vittoria?   Credo che ci siano diversi elementi che hanno contribuito alla vittoria di Jeannette Jara. In primo luogo, le sue caratteristiche personali. La gente la percepisce come una persona genuina, sincera, vera, che non finge di essere ciò che non è, riconoscibile come una persona che viene dal popolo, con una madre che era una donna delle pulizie, con lei stessa che è stata una lavoratrice stagionale in gioventù, una bracciante agricola, ma allo stesso tempo come una persona che come Ministra del Lavoro è riuscita a far approvare importanti leggi come la riduzione della giornata lavorativa, l’aumento del salario minimo e la riforma del sistema pensionistico. In breve, direi che c’è un rifiuto dell’élite politica, un rifiuto di un ritorno alla vecchia Concertación, espresso nel voto molto basso per Carolina Tohá, che è stata percepita come un membro dell’élite, come una persona “distante”, che spiegava come dovrebbero essere le cose. La gente è stanca di quelli che vengono a pontificare, che vengono a spiegare dall’alto come dovrebbero essere le cose. Allo stesso tempo, credo che ci sia un’aspirazione a muoversi verso trasformazioni profonde come quelle proposte da Jeannette Jara e un rifiuto, una distanza da ciò che si percepiva di Carolina Tohá, come una politica che voleva rifondare, riprendere quella che era la vecchia Concertación. C’è stato anche un voto punitivo per il Frente Amplio, che credo rifletta anche la frustrazione per ciò che questo governo non ha fatto, per tutte le promesse e gli impegni non mantenuti, anche se in molti casi questo mancato adempimento è dovuto al fatto che l’opposizione di destra ha la maggioranza al Congresso. Jeannette Jara rappresenta quindi la speranza, il ritorno della speranza che sia possibile cambiare le cose in modo profondo. Credo che questo elemento abbia avuto una forte influenza, rafforzato anche dalle sue caratteristiche personali. Jeannette viene percepita come una persona molto semplice, comunicativa, che vive e conosce davvero i problemi di cui soffre la stragrande maggioranza della gente. In un certo senso queste elezioni primarie sono state definite come una scelta tra “popolo ed élite”. Vedi delle analogie con un’altra vittoria inaspettata e incoraggiante, quella di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per il candidato sindaco di New York?  Si possono certamente riconoscere delle analogie con la vittoria molto incoraggiante di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per la candidatura a sindaco di New York. In Cile e negli USA queste vittorie esprimono una ribellione alle vecchie proposte conservatrici che promettono, ma alla fine non cambiano nulla. Credo che entrambi rappresentino la freschezza del nuovo, la possibilità di cambiare, le speranze delle nuove generazioni. In breve, mi sembra che ci siano delle analogie e che ci siano anche delle somiglianze con quanto abbiamo visto in Messico con l’elezione e le politiche portate avanti da Claudia Sheinbaum, l’attuale presidente del Paese. Che cosa ha spinto Acción Humanista a sostenere la candidatura di Jeannette Jara? In Acción Humanista abbiamo deciso di sostenere Jeannette Jara diversi mesi fa, quando nessuno la vedeva come una candidata con possibilità di vincere le elezioni primarie. La decisione è stata presa in un ampio consiglio generale all’unanimità e grazie a un registro di coerenza. Abbiamo ritenuto che fosse la cosa giusta da fare, che non si trattava di un calcolo elettorale, ma che dovevamo fare la nostra scelta sulla base di un registro di coerenza, che lei rappresentava le aspirazioni più sentite del mondo dell’umanesimo, che la sua proposta rifletteva le nostre priorità, le nostre lotte fondamentali. Va sottolineato che, oltre ai comunisti, il suo partito, Acción Humanista è stata l’unico altro partito a sostenerla alle primarie. Da questo punto di vista, tralasciando tutti i calcoli, e pensando all’epoca che molto probabilmente non avrebbe vinto, c’è stato un consenso per appoggiare la sua candidatura. Lo abbiamo fatto in modo molto attivo, ci siamo uniti al suo direttivo, siamo stati tra i principali portavoce della sua campagna, sia la deputata e vicepresidente di Acción Humanista, Ana María Gazmuri, sia il nostro sindaco Joel Olmos, sia io, come deputato e presidente di Acción Humanista. La nostra gente ha partecipato molto attivamente in tutte le regioni e i Comuni in cui siamo presenti. Abbiamo anche creato un legame umano molto stretto con Jeannette e credo che siamo riusciti a dare un contributo in termini di sguardo, di stile, di atteggiamento, di collocazione dell’umanesimo nel rapporto che stavamo costruendo con lei, che andava avanti già da prima e che ora è proiettato verso il primo turno delle elezioni,  a novembre. Valutando la nostra decisione ora che Jeannette ha vinto con una maggioranza schiacciante alle primarie, crediamo che sia stato un atto molto valido, che ci permette di guardare al futuro con grande speranza. Come umanisti siamo molto impegnati a continuare a lavorare insieme, a contribuire con uomini e donne ai rispettivi team di lavoro, a collaborare negli aspetti programmatici, editoriali, organizzativi e comunicativi. Sappiamo che in questa nuova fase confluiranno anche le équipe degli altri partiti progressisti che hanno perso alle primarie e hanno promesso il loro sostegno, per cui si formerà un direttivo molto più ampio e diversificato e continueremo a contribuire con la visione e le proposte dell’umanesimo. Quali sono i punti principali del programma della sinistra? I punti principali del programma sono, in primo luogo, passare da un salario minimo, che è già cresciuto molto con questo governo, a quello che noi chiamiamo un salario vitale, cioè un salario che permetta a una famiglia di vivere in modo decente e dignitoso.  In secondo luogo, portare avanti e approfondire la riforma del sistema pensionistico, auspicabilmente fino a porre fine alle “Administradoras de Fondos de Pensiones” ( AFP)[1].  In terzo luogo, portare avanti un modello di sviluppo e crescita con una migliore distribuzione del reddito, dando priorità ai progressi verso un maggiore valore aggiunto nell’economia del Paese, che è fondamentalmente un’economia estrattivista ed esportatrice di materie prime. Quarto, migliorare le condizioni nello sfruttamento dei nostri minerali, aumentando le royalties e puntando a recuperare l’industria del litio come industria strategica per il nostro Paese. Quinto, fare progressi nella riforma del sistema sanitario, rafforzando la sanità pubblica, che oggi soffre ancora di enormi carenze a causa della mancanza di finanziamenti adeguati che le permettano di competere meglio con i sistemi sanitari privati. In sesto luogo, una politica che ponga l’accento sulla protezione dell’ambiente, tenendo conto delle crisi climatiche, del riscaldamento globale e dei rischi che queste crisi climatiche comportano oggi per il nostro Paese. Pertanto, i criteri ambientali costituiscono un aspetto strategico e fondamentale del nostro programma di governo. Settimo, rafforzare e far progredire le relazioni internazionali con la nostra regione, mantenendo i legami con i Paesi dei cinque continenti, ma promuovendo una politica di pace, soprattutto nella nostra regione latinoamericana. Questi sono alcuni degli aspetti del programma di governo, che in questa fase sarà arricchito con le proposte programmatiche degli altri candidati che hanno partecipato alle primarie e hanno perso. Ci siamo impegnati a includere anche le loro proposte, per elaborare un programma comune a tutto il progressismo e l’umanesimo. Quali prospettive vedi per le elezioni presidenziali di novembre? Qualche tempo fa si dava per scontato che le elezioni di novembre sarebbero state vinte dalla candidata di destra Evelyn Matthei e c’era anche il rischio che vincesse un candidato di estrema destra come José Antonio Kast. Oggi direi che questo scenario è cambiato. I primi sondaggi dopo le primarie danno un ottimo primo posto a Jeannette Jara, molto più avanti di Matthei e Kast. Naturalmente il panorama è ancora aperto, mancano cinque mesi e possono succedere molte cose, ma credo che oggi sia un’elezione aperta e che il mondo della sinistra, del progressismo e dell’umanesimo possa vincere. Metteremo tutto in gioco per ottenere questa vittoria, che probabilmente non sarà al primo turno di novembre, ma al secondo turno di dicembre. Oggi Jeannette Jara è chiaramente una candidata molto competitiva, che sta generando una grande speranza in molte persone, soprattutto tra i giovani. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo [1] Un sistema istituito nel 1981 dal regime militare di Pinochet, affidando le pensioni a società finanziarie private che gestivano i contributi dei lavoratori senza alcun intervento statale o contributo da parte dei datori di lavoro. Anna Polo
Cooperazione del sud, mito e redenzione
In un periodo che va dal 12 ottobre 1492 fino alla fine del II millennio l’espansionismo occidentale ha avuto molta influenza sulla comunità mondiale. Gli imperi europei originari di terre povere di materie prime hanno sviluppato un sistema per trovare altrove le risorse naturali con le quali alimentare la propria crescita. Il colonialismo. https://it.wikipedia.org/wiki/Conferenza_di_Berlino_(1884) Di fronte all’egemonia occidentale negli ultimi decenni si è vista aumentare la cooperazione tra le regioni del sud globale. Per esempio durante i governi dei presidenti Hugo Chavez e Muammar Gheddafi si sono svolti tre vertici America del Sud – Africa (ASA), con l’obiettivo di unire gli sforzi dei due continenti, per emanciparsi dai vecchi schemi di dominazione esterna e decidere il proprio futuro con crescente libertà. https://es.wikipedia.org/wiki/ASA Il governo bolivariano del Venezuela ha promosso con altri Paesi del sudamerica diverse iniziative di integrazione tra cui la CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici), che aspira a una crescente indipendenza dall’influenza occidentale in particolare dagli USA. https://it.wikipedia.org/wiki/Comunit%C3%A0_di_Stati_Latinoamericani_e_dei_Caraibi In Africa il governo della Giamahiria Araba Popolare con le riserve auree della Libia aveva promosso la creazione della banca panafricana, che emancipasse i popoli d’Africa dall’indebitamento sistemico con le istituzioni finanziarie occidentali (Banca mondiale, Fondo monetario, ecc.) https://it.wikipedia.org/wiki/Accordi_di_Bretton_Woods Il governo libico proponeva inoltre la creazione degli Stati Uniti d’Africa con progetti infrastutturali che avrebbero accelerato la crescita del benessere per i popoli del continente culla dell’umanità. https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_Uniti_d%27Africa L’avvicinamento reciproco tra questi progetti emancipatori ha però preoccupato i poteri neocoloniali a volte definiti come “Neo compagnia delle indie orientali”. https://it.wikipedia.org/wiki/Compagnia_britannica_delle_Indie_orientali Quando i paesi del sud cercano di emanciparsi dalle vecchie egemonie di solito i loro rappresentanti vengono accusati di ogni male e demonizzati dal mainstream occidentale fino a giustificare la loro uscita di scena o la loro eliminazione. L’occidente non ha risparmiato sforzi per fermare la crescita dell’Africa. Gheddafi è stato ucciso nel 2011 a seguito di un intervento militare della NATO fuori dalle risoluzioni ONU e in violazione del diritto internazionale, utilizzando l’argomento dei diritti umani. L’emancipazione dell’Africa tanto temuta dalle elites dei Paesi NATO era momentaneamente scongiurata. https://it.wikipedia.org/wiki/Intervento_militare_internazionale_in_Libia_del_2011 Da parte sua il presidente Chavez morì nel 2013 di una malattia non ben identificata. https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/05/venezuela-morto-hugo-chavez-malattia-indotta-nemici-storic/520662/ Dopo la morte delle due figure chiave della cooperazione Sudamerica-Africa i progetti della banca panafricana e degli Stati uniti d’Africa furono momentaneamente bloccati e anche la realizzazione dei vertici ASA si fermò dopo tre edizioni: Novembre 2006 ad Abuya (Nigeria), Settembre 2009 sull’Isla de Margarita (Venezuela), Febbraio 2013: Malabo (Guinea Ecuatoriale). La quarta edizione prevista nel 2017 a Quito (Ecuador) non si realizzò. Ma l’avvicinamento tra i popoli del sud non si è fermato. Dodici anni dopo l’ultimo vertice ASA due nuovi esponenti di Sudamerica e Africa si sono incontrati per ridare slancio alla cooperazione sud-sud. Ciò è avvenuto il 9 maggio 2025 durante le celebrazioni della vittoria sul nazismo, per le quali numerosi rappresentanti di stato si sono recati a Mosca. In questa occasione il presidente del Venezuela Nicolas Maduro ha reso visita al suo omologo del Burkina Faso Ibrahima Traore presso l’Ambasciata burkinabè a Mosca. Attualmente tra Venezuela e Burkina esistono 27 accordi bilaterali in politica, sicurezza, scienza e agricoltura. Di recente i due Paesi hanno varato 14 nuovi accordi su energia, settore minerario, estrazione aurifera e petrolio. Il Venezuela bolivariano promuove nei riguardi dei Paesi africani l’approccio praticato dal presidente Chavez conosciuto come: “La diplomazia della Madre Africa ”. https://www.youtube.com/watch?v=IF1npfofZ4I Parlando della tendenza dei popoli del sud alla cooperazione reciproca non possiamo tralasciare che dal 1° gennaio 2025, i BRICS hanno formalmente accolto nove nuovi Stati “partner”. Considerati nel loro insieme, i membri e i partner del gruppo rappresentano oggi il 51% della popolazione mondiale e il 40% del PIL, senza contare la lista di Paesi che aspirano a partecipare. https://it.wikipedia.org/wiki/BRICS In definitiva la pratica della NATO di neutralizzare capi di stato indipendentisti e patrioti non ha fermato la crescita del sud, probabilmente la sta accellerando. Per esempio Thomas Sankara è stato ucciso nel 1987, ma il suo messaggio di libertà e indipendenza si moltiplica oggi tra i giovani africani per i quali rappresenta un mito. https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Sankara Nel settembre 2023 i governi di Mali, Burkina Faso e Niger, in riposta ai tentativi esterni di destabilizzazione, hanno creato la Confederazione del Sahel. Questi Paesi con un appoggio massivo della popolazione hanno messo fuori le basi NATO dal proprio territorio, creano una propria moneta, sviluppano l’industria e recuperano le risorse naturali a favore dei rispettivi popoli. https://fr.wikipedia.org/wiki/Alliance_des_%C3%89tats_du_Sahel I Paesi occidentali godono ancora oggi delle ricchezze d’Africa a basso costo e sono preoccupatissimi per la sua emancipazione. Basti pensare per quanti anni società energetiche occidentali come Areva hanno alimentato le centrali atomiche in Europa e nel mondo con’uranio estratto in Niger a prezzi risibili. Secondo le gravissime accuse del presidente nigerino Abdourahmane Tiani l’occidente ricorre anche al terrorismo per preservare i propri privilegi in Africa. https://www.youtube.com/watch?v=ixd-2X9yTMk A metà aprile il comandante dell’AFRICOM Michael Langley, in una audizione al Senato USA, ha accusato indebitamente il presidente del Burkina Ibrahim Traoré di irregolarità nel suo esercizio di presidente. Va ribadito, che simili accuse vengono mosse spesso per demonizzare patrioti scomodi, prima di procedere al loro allontanamento o neutralizzazione. In risposta il 30 aprile con l’aiuto delle reti sociali centinaia di manifestazioni nonviolente si sono propagate in Africa e nelle diaspore africane nel mondo. Insiemi panafricanisti in connessione tra loro hanno esortato la NATO a “non toccare il presidente Traore”, avvisando che nel caso gli succeda qualcosa “le rappresentanze delle multinazionali occidentali in Africa e altrove potrebbero a breve diventare luoghi meno sicuri”. https://www.youtube.com/watch?v=NSXYtdh6_CI Un aspetto di cui tener conto è che i popoli del sud – nonostante secoli di ingiustizie subite – non nutrono un particolare spirito vendicativo. Semplicemente desiderano recuperare la libera direzione del proprio destino e permettere a figli e nipoti di godere delle ricchezze presenti nel suolo dei loro Paesi. Alcune domande sorgono circa l’occidente e il suo braccio armato, la NATO. L’occidente supererà la sindrome di superiorità riubicandosi come normali membri dell’umanità? Riuscirà a procurarsi le ricchezze naturali di cui ha bisogno in modo onesto? Potrà riconoscere il male inflitto ad altri popoli, riconciliarsi, scusarsi e riparare i torti procurati? Stabilirà relazioni di reciprocità con altri invece di scatenare continue guerre per le risorse? Assumerà un ruolo evolutivo nel nuovo assetto multicentrico e federativo del mondo verso una Nazione umana universale? Non ci sarà vero progresso nel mondo, se esso non sarà di tutti e per tutti.   Toni Antonucci
Riflessioni sul Capodanno Andino
“CIÒ CHE ACCADE NELLA NOTTE DEL SOLSTIZIO D’INVERNO AUSTRALE RIGUARDA IL SIGNIFICATO DELLA MATRICE CULTURALE ANDINO-AMAZZONICA IN CUI TUTTO CIÒ CHE ESISTE NEL ‘PACHA’ (UNIVERSO) HA VITA. SIAMO TUTTI PARTE DI ESSO, SIAMO TUTTI SOGGETTI E TUTTO È IN RELAZIONE CON TUTTO”. La messa in scena dell’Inti Raymi (Festa del Sole) di Cusco si svolge ogni 24 giugno dalla metà degli anni ’40 del secolo scorso. A quanto pare, i promotori del festival hanno combinato la ricorrenza del solstizio d’inverno australe con la festa cattolica di San Giovanni Battista. Lo segnalo perché nel 1621 Ramos Gavilán (1), tra gli altri cronisti, afferma che “Questa festa di Intirayme si celebrava quasi contemporaneamente a quella del Corpus Christi”. Tuttavia, negli ultimi decenni, a Puno e anche in Bolivia, ogni 21 giugno, data del solstizio d’inverno nell’emisfero sud, è diventato consuetudine celebrare il “Capodanno Andino”. Esaminiamo la sua coerenza ontologica per determinare se questo nuovo significato gli corrisponde o se si tratta di una folclorizzazione del rituale. Il tempo nel senso andino della vita è ciclico, come sottolineato da diversi studiosi; Estermann (2006), nel suo lavoro sulla “Filosofia andina”, si riferisce ad esso come a un presente permanente perché avviene in un “tempo-spazio” espresso con un unico termine “Pacha”. Nella lingua, sia quechua che aymara, la semplificazione di “futuro” è espressa anche come “presente progressivo” e si posiziona grammaticalmente dietro i nostri occhi, perché il futuro “non si vede” ed è dal passato, che si posiziona davanti ai nostri occhi, che dobbiamo imparare. Questo orizzonte di senso configura una razionalità diversa da quella del tempo lineare della cultura egemonica (occidentale-moderna). Allo stesso modo, sulla base di questa razionalità andina, molti pensatori ritengono che la cultura andina, come tante altre culture indigene, sia una cultura della vita. La vita, nel caso andino, ha due momenti: uno fertile e l’altro sterile, che per analogia si possono identificare con il ciclo agricolo nella sua stagione estiva (piovosa e rigogliosa) e nella sua stagione invernale (secca e fredda). La morte è solo un intervallo di transito tra questi due momenti. Come si può vedere, la differenziazione tra le due vite, nell’orizzonte di senso andino, è funzionale al loro ciclo produttivo. Un’altra differenza ontologica da considerare è la nostra posizione in quanto soggetto sociale. Nell’orizzonte andino, il soggetto è collettivo. Siamo nella misura in cui facciamo parte o apparteniamo a una comunità, ayllu, villaggio, nazione. La nascita che dà origine a questa appartenenza è il momento in cui si forma la coppia che permetterà la continuità della vita e la sostenibilità del collettivo. La parità (2) è il nucleo di base della relazione e configura i principi etici della reciprocità, della corrispondenza, della complementarietà. La relazione è sacra, è curata religiosamente attraverso questi principi. Per l’antropocentrismo, ontologicamente situato nella cultura dominante (“occidentale moderna”), l’essere, l’individuo, l’io, l’ego, è il nucleo centrale. Pertanto, la nascita di un nuovo individuo è estremamente importante. Diversi pensatori critici hanno dimostrato l’incongruenza di questa configurazione della cultura. La più evidente è che essendo l’essere umano parte di una specie gregaria, la cui caratteristica biologica è che l’individuo da solo non può esistere, il suo orizzonte di senso si riduce all’essere umano come centro dell’esistenza, aggravato dalla modernità, perché il centro è maschile. Questo comporta come conseguenza, per la sopravvivenza della specie, la cosificazione della donna. Vediamo chiaramente che la “nascita” ha significati diversi a seconda del “nostro luogo di enunciazione” e la riflessione ruota attorno alla questione se continuare a considerare il 21 giugno, giorno del solstizio d’inverno, freddo, secco, “sterile”, come il “capodanno andino” perché il “sole sta nascendo”  o se dobbiamo rivendicare il solstizio d’estate, caldo, piovoso e fertile, come ”capodanno andino“. Nella traduzione in quest’ultima data i chiwchis/coros (infanti in quechua/aymara) avendo raggiunto lo stadio di adolescenti maschili o femminili diventano, una volta formata la coppia (chacha/warmi), runa/jaqi (parte del soggetto collettivo: comunità, ayllu, popolo, nazione). Probabilmente, con l’imposizione del cristianesimo, i rituali del solstizio d’estate nel mondo andino (21 dicembre, nel nostro emisfero) sono stati sostituiti dalla “nascita del figlio di Dio” (Pasqua, Natale) e la colonizzazione ha imposto il calendario gregoriano, quello che ci governa oggi. Ho lavorato per diversi anni con le comunità contadine della zona aymara. Uno dei compiti degli awki e degli achachila (autorità naturali) era quello di salire sulla collina verso la mezzanotte del 20 giugno per l’incontro con il jawira (fiume di stelle) che, in quella data, mostra tutto il suo splendore e si possono apprezzare le costellazioni. Durante l’alba del 21, conversando con le stelle, chiedevano ciò che dovevano sapere per la loro annata agricola (se sarebbe stata un’annata precoce o tardiva, piovosa o secca, quando avrebbero dovuto seminare le patate, la quinoa, se ci sarebbero state grandinate e quando, ecc.). Queste rispondevano attraverso il loro linguaggio del colore (rossastro, bluastro), della luminosità (intensa, tremolante, opaca) e del momento della notte o dell’alba. Aspettavano il sorgere del sole perché era l’ultima stella ad apparire ed era loro dovere salutarlo e anche ascoltarlo. Con ogni probabilità – non l’ho percepito in quel momento – il rituale era eseguito dalle autorità prima di salire sulla collina, affinché l’incontro e la conversazione con le stelle onorassero e rafforzassero la loro relazione. Ciò che accade tra la notte del 20 giugno e il primo mattino del 21 sarebbe coerente con il senso della loro matrice culturale (andino-amazzonica) in cui tutto ciò che esiste nel “Pacha” (universo) ha vita. Ne facciamo tutti parte, siamo tutti soggetti e tutto è in relazione con tutto (3).   NOTE: (1) Ramos Gavilán, Alonso. HISTORIA DEL SANTUARIO DE NUESTRA SEÑORA DE COPACABANA. Lima, Perú: Ignacio PRADO PASTOR. Editore, 1988. 618 [147-157] Pp. In: https://www.casadelcorregidor.pe/d-interes/_biblio_Ramos-Gavilan.php (2) Si parla anche di “dualità” perché è l’insieme di due unità necessarie per stabilire una relazione. (3) Pino J. Ana M. e Riquelme M. Ivar R. “Coexistencia en ‘sociedades paralelas’. Una búsqueda para su diálogo con-vivencial”. In: Pluralidades. Revista para el diálogo intercultural. Vol. 4. Puno, Perù, 2015. Pp. 25-55. (https://www.pluralidades.casadelcorregidor.pe/pluralidades_4/Pino-Riquel…) -------------------------------------------------------------------------------- L’autrice:  Ana María Pino Jordán è ingegnere zootecnico dell’ “Universidad Nacional Agraria La Molina” in Perù, con oltre 25 anni di esperienza di lavoro con i contadini. Attualmente è promotrice culturale, intellettuale, accademica ed editorialista. Ha conseguito un diploma in Interculturalismo presso l’ “Instituto Ética y Desarrollo de la Universidad Antonio Ruiz de Montoya”. Membro del “Consiglio di Ricerca del Instituto de Estudios de las Culturas Andinas (IDECA)”. Promotrice della “Biblioteca Casa del Corregidor” e membro del “Gruppo Pluralidades (Puno)”, che pubblica l’omonima rivista. Email: promotora@casadelcorregidor.pe -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. SERVINDI
Cile, Jeanette Jara vince le primarie della sinistra per le elezioni presidenziali
La vittoria alle primarie di Jeannette Jara Román ha avuto due aspetti fondamentali: una percentuale schiacciante di voti e una chiara affermazione del suo messaggio. A novembre, al primo turno delle elezioni presidenziali, rappresenterà le forze democratiche, progressiste, umaniste e di sinistra e ampi settori della cittadinanza. Jeannette Jara Román inizia ora il cammino verso La Moneda. La sera di domenica 29 giugno Jeannette Jara aveva ottenuto circa il 60% dei voti, con circa 30 punti di vantaggio sulla sua più vicina sfidante, Carolina Tohá, candidata di Socialismo Democratico (SD). Il voto per Jeannette Jara ha mostrato un ampio sostegno a livello nazionale, che avrà un impatto sulla competizione presidenziale del prossimo novembre. Ha vinto in più di 330 Comuni in tutto il Paese, un successo enorme. La candidata del Partito Comunista (PC), di Azione Umanista (AH), della Sinistra Cristiana (IC) e degli indipendenti ha infranto le previsioni di un paio di mesi fa, che davano per sicura la vittoria della candidata di Socialismo Democratico (SD). Jeannette Jara ha guadagnato terreno, ha presentato misure concrete, si è dimostrata aperta al dialogo e vicina al popolo e ha ottenuto quello che oggi è un trionfo per la sinistra cilena. Un elemento non del tutto riuscito è stato il numero di votanti, che non ha superato il milione e mezzo alla chiusura dei seggi, quando si era detto che l’optimum sarebbero stati due milioni di votanti. In ogni caso, la cifra rientra nei margini stabiliti dal partito al governo. È già chiaro che Jeannette Jara sarà la principale contendente contro i candidati di destra e di estrema destra, rappresentando ampi settori democratici, progressisti e di sinistra e diventando un’opzione per la cittadinanza. In molti settori della politica, della società civile e dei media, si è ribadito che la vittoria di Jara è stata un importante risultato politico ed elettorale per il Partito Comunista, che alcuni hanno definito “storico”, un fatto senza precedenti anche in America Latina e a livello internazionale negli ultimi decenni. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo     El Siglo
L’oro bianco che divora la vita
> La corsa al litio, chiave per la transizione energetica, sta devastando > ecosistemi unici e violando i diritti delle popolazioni indigene in Cile, > Argentina e Bolivia. Per estrarre una tonnellata di litio sono necessari due > milioni di litri d’acqua, in aree in cui questa risorsa è sia sacra che > scarsa. Il litio viene venduto come energia pulita, ma il vero costo viene > pagato dalle comunità indigene e dalla biodiversità. È tempo di chiedere una > transizione giusta, in cui il futuro non sia costruito su nuove ingiustizie. Nel cuore del cosiddetto “triangolo del litio”, formato da Argentina, Bolivia e Cile, si trova oltre il 60% delle riserve mondiali di questa risorsa, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, dei telefoni cellulari e dei sistemi di accumulo dell’energia rinnovabile. Il litio è stato definito l’oro bianco del XXI secolo, una promessa energetica che, lungi dall’essere pulita e giusta, sta portando a una nuova forma di estrattivismo predatorio. Per produrre una sola tonnellata di litio sono necessari due milioni di litri d’acqua. Si tratta di una cifra spropositata in regioni dove l’acqua è già scarsa e dove le alte paludi andine, le saline e i fragili ecosistemi dipendono da un equilibrio idrico estremamente sensibile. Ma ben più drammatico è il prezzo umano: ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime invisibili del progresso altrui. In Cile, le comunità degli Atacameño hanno alzato la voce contro la devastazione delle loro saline ancestrali e la riduzione delle loro fonti di acqua dolce, fondamentali per la vita, l’agricoltura e la loro visione del mondo. In Argentina, i popoli Kolla, Atacama e Likan Antai, tra gli altri, denunciano che i loro territori vengono occupati o venduti senza una consultazione preventiva, libera e informata, violando i diritti sanciti da convenzioni internazionali come la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Sotto la pressione delle multinazionali e il discorso della transizione energetica verde, i governi vendono il litio come un futuro rinnovabile. Ma dietro questa facciata, si perpetua il modello coloniale di saccheggio, dove il profitto va lontano e il danno rimane in patria. Le promesse di sviluppo locale si dissolvono in contratti opachi, territori inquinati e corsi d‘acqua secchi. È ironico che una cosiddetta energia “pulita” nasca da una ferita aperta nella terra. La biodiversità delle saline – fenicotteri andini, microrganismi unici, specie endemiche – sta scomparendo. Il silenzio del deserto è rotto da macchinari, strade e trivellazioni, mentre le voci di coloro che si sono presi cura di questi ecosistemi per secoli vengono ignorate o soppresse. A cosa serve una batteria pulita se è costruita sull’ingiustizia? Chi definisce che cosa è progresso? E quante volte ancora i popoli indigeni dovranno pagare il prezzo per il futuro di altri? La transizione energetica non può essere costruita su nuove ingiustizie. Sostituire i combustibili fossili con batterie al litio non è un progresso se si limita a spostarne la vittima: dal pianeta al deserto, dal clima all’acqua, dal petrolio ai popoli indigeni. Le multinazionali, in combutta con i governi nazionali e provinciali, sono sbarcate nel nord dell’Argentina, del Cile e della Bolivia con la promessa di lavoro e sviluppo. Ma in molti casi i posti di lavoro sono precari, i salari irrisori mentre i contratti firmati ignorano completamente le comunità locali. I veri custodi del territorio non partecipano alle decisioni che lo riguardano. La Convenzione 169 dell’OIL, ratificata da questi Paesi, richiede la consultazione preventiva, libera e informata delle popolazioni indigene prima che vengano avviati progetti sulle loro terre. Ma questo obbligo legale viene sistematicamente ignorato. La giustizia, quando interviene, di solito arriva tardi e con timore. PROPOSTE E PERCORSI ALTERNATIVI 1. Consultazione e consenso vincolante: qualsiasi progetto estrattivo deve essere consultato in modo reale e rispettoso con le comunità indigene, garantendo che la loro decisione sia vincolante. Non si tratta di “ informare” le comunità, ma di rispettare la loro autodeterminazione. 2. Controllo comunitario delle risorse: le comunità dovrebbero possedere e gestire le risorse nei loro territori. Invece di essere emarginate, dovrebbero essere al centro del modello produttivo, con benefici diretti e sostenibili. 3. Tecnologie alternative: è urgente investire in batterie senza litio basate sul sodio, sul grafene o su altre alternative meno distruttive. Alcune esistono già, ma le pressioni del mercato ne frenano lo sviluppo. 4. Miniere urbane: il recupero dei metalli dai dispositivi elettronici usati – il cosiddetto “urban mining” – può ridurre significativamente la necessità di sfruttare nuovi territori. 5. Responsabilità internazionale delle imprese: le imprese che estraggono litio nel Sud Globale devono essere soggette a rigorosi norme internazionali in materia di diritti umani e ambiente, sotto il controllo di organismi indipendenti. 6. Corridoi bioculturali protetti: escludere le aree sacre, gli ecosistemi fragili e i territori indigeni da qualsiasi sfruttamento. Trasformarli in corridoi di conservazione con il sostegno internazionale. Nelle comunità Kolla, Atacama, Diaguita e Likan Antai, le nonne insegnano ai bambini a parlare con l’acqua, a prendersi cura della terra come se fosse parte del corpo. Si tratta di popoli che non hanno “risorse”, ma relazioni sacre con il loro ambiente. Vedere il litio come una “risorsa” da estrarre e vendere è una visione estranea, imposta e violenta. Come è già successo per il petrolio, il coltan e l’oro, la corsa al litio rischia di lasciare una scia di distruzione e di oblio. Ma siamo ancora in tempo per evitare che la storia si ripeta. Questo “oro bianco”, che abbaglia le grandi potenze e le multinazionali, non deve continuare a macchiare le mani di chi non è mai stato ascoltato. Non ci può essere transizione ecologica senza giustizia climatica, sociale e culturale. E questa giustizia inizia con l’ascolto, il rispetto e la protezione di coloro che da millenni vivono in armonia con la Terra. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Pedro Pozas Terrados
Partito Comunista di Cuba: “Le forze di sinistra e progressiste devono unirsi per salvare l’umanità dal conflitto nucleare”
Di seguito riportiamo la dichiarazione del Partito Comunista di Cuba contro i bombardamenti effettuai dal governo USA contro gli impianti nucleari civili di Fordow, Natanz e Isfahan. Il Partito Comunista di Cuba condanna con la massima fermezza i brutali bombardamenti effettuati dal governo degli Stati Uniti contro gli impianti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan. Questi atti criminali, contrari al diritto internazionale e agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite, costituiscono una grave minaccia globale, le cui conseguenze per l’umanità potrebbero essere imprevedibili. In questo momento cruciale, il Partito Comunista di Cuba ribadisce la sua piena solidarietà al popolo e al governo della Repubblica Islamica dell’Iran, che, in quanto Stato sovrano, gode del diritto all’autodeterminazione e allo sviluppo. Il Partito Comunista di Cuba, storico difensore della pace, invita i partiti politici, i movimenti sociali e le forze politiche di sinistra e progressiste a mobilitarsi per denunciare queste azioni illegali commesse dal governo fascista degli Stati Uniti, che compromettono gli sforzi per una soluzione negoziata del conflitto in Medio Oriente e confermano il suo pieno appoggio alle ambizioni genocide di Israele nella regione. I fatti parlano chiaro e hanno dimostrato fino a che punto l’impero yankee è disposto a spingersi per imporre le sue politiche espansionistiche e di dominio, mettendo a repentaglio il futuro dell’umanità. È imperativo unirci per salvare il nostro popolo da una conflagrazione nucleare. Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba