Trieste, gli spazi occupati dalle persone migranti bruciano

Pressenza - Sunday, November 16, 2025

Cause incerte, strumentalizzazione e accoglienza insufficiente: il quadro di una fragilità strutturale

Giovedì 13 novembre, verso sera, è divampato un incendio nei magazzini abbandonati del Porto Vecchio di Trieste, l’ultimo di una serie di episodi verificatisi nelle scorse due settimane. Il precedente risale a lunedì, pressoché alla stessa ora, e un altro ancora a dieci giorni prima. Questi edifici, affacciati sul mare e a pochi passi dalla stazione, rappresentano un frammento dimenticato della città: una zona in parte riqualificata, in parte lasciata al degrado.

Nonostante le condizioni strutturali critiche, questi spazi sono abitati dalle persone che hanno appena concluso il lungo viaggio lungo la rotta balcanica. Gli ambienti sono fatiscenti, le finestre isolate con coperte che tentano invano di trattenere il freddo che penetra nei saloni vuoti. Le vecchie dispense metalliche custodiscono gli unici beni a disposizione degli occupanti: un sapone, un deodorante, un cambio di pantaloni per i più fortunati, qualche scorta di cibo. A terra, coperte e sacchi a pelo provano a scaldare l’ambiente – con scarsi risultati –, evocando immagini che ricordano scenari di frontiera. Qui si cucina, si beve chai, si sopravvive.

Nella geografia cittadina, per raggiungere questi spazi esiste un’unica via che costeggia la piazza della stazione, lo stesso luogo in cui ogni sera avviene la distribuzione della cena. Quando il rumore delle sirene dei vigili del fuoco si avvicina e le camionette sfilano una dopo l’altra lungo la strada, l’intera piazza si agita. I volontari si scambiano sguardi carichi di apprensione, sperando che nessuno si sia fatto male; i ragazzi, invece, fremono e si chiamano tra loro per capire chi di loro abbia perso tutto, ancora una volta. In quei minuti sospesi, la piazza intera trattiene il fiato.

Alcuni ritengono che a innescare gli incendi possano essere i fornelli a gas utilizzati per cucinare. Altri sottolineano l’anomalia della frequenza con cui questi episodi si stanno ripetendo, così ravvicinati nel tempo. Altri ancora osservano come gli abitanti di questi luoghi siano spesso percepiti come indesiderati. Risale a questo stesso periodo una manifestazione lungo il viale alberato della città, significativamente intitolata “Remigrazione”.

Al momento non è possibile stabilire la causa dell’ultimo incendio, né sono state chiarite le dinamiche degli episodi precedenti. Sulla stampa locale, questi eventi vengono spesso strumentalizzati e raccontati quasi esclusivamente per alimentare indignazione e rabbia nell’opinione pubblica, mentre resta in ombra la condizione reale delle persone coinvolte. Si tratta, in definitiva, di esseri umani costretti a dormire in edifici abbandonati, in condizioni di sporcizia e degrado, che vedono andare in fumo quel poco che possiedono: materiali raccolti facendo la fila o sperando di incrociare lo sguardo di un volontario durante la distribuzione.

Qualunque sia l’origine di questi roghi, un fatto appare evidente: se queste persone vivono nascoste in edifici instabili, lontane dallo sguardo pubblico e dalla coscienza collettiva, è perché così vengono di fatto “accolte” dalle istituzioni.

Dopo lo sgombero dell’ex Silos, avvenuto verso la fine dell’estate, alcuni avevano dichiarato – invano – di aver “ripulito” la zona, dimenticando che gli spazi abitati da esseri umani non sono una variabile del decoro urbano. La realtà è che le strutture destinate all’accoglienza non sono mai state sufficienti. Ogni sera, alla distribuzione dei pasti davanti alla stazione ferroviaria, segue quella delle coperte, resa possibile solo grazie a un impegno dal basso, a partire dall’associazione Linea d’Ombra e grazie a un’ampia rete di sostegno proveniente da tutta Italia. Quando la notte avvolge la città, i volontari lasciano la piazza e ciascuno cerca riparo dove può.

Per chi ogni giorno tenta di offrire sostegno morale, materiale o finanziario, voltarsi dall’altra parte è impossibile. Restare in silenzio di fronte alla precarietà estrema delle condizioni di vita di queste persone – e soprattutto davanti a ciò che sembra un modo di spingerle a non sentirsi mai “bene”, nel senso più umano del termine – è altrettanto impossibile. Per questo la speranza è che questi episodi non vengano normalizzati né relegati al rumore di fondo dell’informazione, ma trovino finalmente spazio per essere compresi e affrontati. Solo così sarà possibile fare luce sulla situazione che una parte consistente della città di Trieste continua a ignorare.

D. Lorenzoni – F. Costantini

Redazione Friuli Venezia Giulia