Trieste, gli spazi occupati dalle persone migranti brucianoCause incerte, strumentalizzazione e accoglienza insufficiente: il quadro di una
fragilità strutturale
Giovedì 13 novembre, verso sera, è divampato un incendio nei magazzini
abbandonati del Porto Vecchio di Trieste, l’ultimo di una serie di episodi
verificatisi nelle scorse due settimane. Il precedente risale a lunedì,
pressoché alla stessa ora, e un altro ancora a dieci giorni prima. Questi
edifici, affacciati sul mare e a pochi passi dalla stazione, rappresentano un
frammento dimenticato della città: una zona in parte riqualificata, in parte
lasciata al degrado.
Nonostante le condizioni strutturali critiche, questi spazi sono abitati dalle
persone che hanno appena concluso il lungo viaggio lungo la rotta balcanica. Gli
ambienti sono fatiscenti, le finestre isolate con coperte che tentano invano di
trattenere il freddo che penetra nei saloni vuoti. Le vecchie dispense
metalliche custodiscono gli unici beni a disposizione degli occupanti: un
sapone, un deodorante, un cambio di pantaloni per i più fortunati, qualche
scorta di cibo. A terra, coperte e sacchi a pelo provano a scaldare l’ambiente –
con scarsi risultati –, evocando immagini che ricordano scenari di frontiera.
Qui si cucina, si beve chai, si sopravvive.
Nella geografia cittadina, per raggiungere questi spazi esiste un’unica via che
costeggia la piazza della stazione, lo stesso luogo in cui ogni sera avviene la
distribuzione della cena. Quando il rumore delle sirene dei vigili del fuoco si
avvicina e le camionette sfilano una dopo l’altra lungo la strada, l’intera
piazza si agita. I volontari si scambiano sguardi carichi di apprensione,
sperando che nessuno si sia fatto male; i ragazzi, invece, fremono e si chiamano
tra loro per capire chi di loro abbia perso tutto, ancora una volta. In quei
minuti sospesi, la piazza intera trattiene il fiato.
Alcuni ritengono che a innescare gli incendi possano essere i fornelli a gas
utilizzati per cucinare. Altri sottolineano l’anomalia della frequenza con cui
questi episodi si stanno ripetendo, così ravvicinati nel tempo. Altri ancora
osservano come gli abitanti di questi luoghi siano spesso percepiti come
indesiderati. Risale a questo stesso periodo una manifestazione lungo il viale
alberato della città, significativamente intitolata “Remigrazione”.
Al momento non è possibile stabilire la causa dell’ultimo incendio, né sono
state chiarite le dinamiche degli episodi precedenti. Sulla stampa locale,
questi eventi vengono spesso strumentalizzati e raccontati quasi esclusivamente
per alimentare indignazione e rabbia nell’opinione pubblica, mentre resta in
ombra la condizione reale delle persone coinvolte. Si tratta, in definitiva, di
esseri umani costretti a dormire in edifici abbandonati, in condizioni di
sporcizia e degrado, che vedono andare in fumo quel poco che possiedono:
materiali raccolti facendo la fila o sperando di incrociare lo sguardo di un
volontario durante la distribuzione.
Qualunque sia l’origine di questi roghi, un fatto appare evidente: se queste
persone vivono nascoste in edifici instabili, lontane dallo sguardo pubblico e
dalla coscienza collettiva, è perché così vengono di fatto “accolte” dalle
istituzioni.
Dopo lo sgombero dell’ex Silos, avvenuto verso la fine dell’estate, alcuni
avevano dichiarato – invano – di aver “ripulito” la zona, dimenticando che gli
spazi abitati da esseri umani non sono una variabile del decoro urbano. La
realtà è che le strutture destinate all’accoglienza non sono mai state
sufficienti. Ogni sera, alla distribuzione dei pasti davanti alla stazione
ferroviaria, segue quella delle coperte, resa possibile solo grazie a un impegno
dal basso, a partire dall’associazione Linea d’Ombra e grazie a un’ampia rete di
sostegno proveniente da tutta Italia. Quando la notte avvolge la città, i
volontari lasciano la piazza e ciascuno cerca riparo dove può.
Per chi ogni giorno tenta di offrire sostegno morale, materiale o finanziario,
voltarsi dall’altra parte è impossibile. Restare in silenzio di fronte alla
precarietà estrema delle condizioni di vita di queste persone – e soprattutto
davanti a ciò che sembra un modo di spingerle a non sentirsi mai “bene”, nel
senso più umano del termine – è altrettanto impossibile. Per questo la speranza
è che questi episodi non vengano normalizzati né relegati al rumore di fondo
dell’informazione, ma trovino finalmente spazio per essere compresi e
affrontati. Solo così sarà possibile fare luce sulla situazione che una parte
consistente della città di Trieste continua a ignorare.
D. Lorenzoni – F. Costantini
Redazione Friuli Venezia Giulia