«Ripristinare la libertà di movimento è l’unica risposta politica alle migrazioni»

Progetto Melting Pot Europa - Monday, November 3, 2025

Dalla cronaca ai palcoscenici, Del Grande sfida pregiudizi e silenzi politici, proponendo una riflessione sulla libertà di movimento, il razzismo strutturale e le trasformazioni della società europea. In questa intervista, ci guida attraverso storie di viaggiatori respinti, sogni di un’Europa più aperta e l’arte come strumento di cambiamento e riflessione.

Il secolo è mobile – La storia delle migrazioni in Europa vista dal futuro, monologo multimediale di Gabriele Del Grande.
Un viaggio tra immagini, parole e archivi storici che racconta un secolo di migrazioni e propone una visione futura.
Prodotto da Zalab in collaborazione con Cinema Zero

In questo periodo sei in tournée in numerosi teatri italiani con il monologo multimediale “Il secolo è mobile – La storia delle migrazioni in Europa vista dal futuro”. Come sta andando questa esperienza? Come sta rispondendo il pubblico?

Ottanta date in poco più di un anno. Teatri, cinema, piazze, scuole. Quasi ovunque sold-out. Finalmente un passaggio televisivo. Non male per uno spettacolo che parla del ripristino della libera circolazione fra le due sponde del Mediterraneo. Sono molto contento. Il pubblico porta a casa una storia, tante emozioni e una proposta visionaria. Che poi è il punto forte dello spettacolo: restituire una visione del futuro. Unica pecca? Il silenzio assordante della politica.

In che modo il razzismo, inteso come fenomeno strutturale radicato nelle società europee, continua a manifestarsi oggi e quali trasformazioni hanno caratterizzato le sue forme di espressione negli ultimi decenni?

Cinque secoli di colonialismo non evaporano dall’oggi al domani. I fantasmi del razzismo scientifico, mai elaborati, hanno determinato le politiche migratorie europee degli ultimi decenni. Sin dal 1990 la strategia del trattato di Schengen – aprire ad Est per chiudere a Sud – punta dichiaratamente a scoraggiare l’immigrazione afroasiatica per sostituirla con quella bianca e cristiana dell’Europa orientale, ritenuta più facilmente assimilabile.

L’apartheid in frontiera è l’ultima forma di segregazione razziale ancora in vigore nel mondo occidentale. O davvero pensiamo ancora che sui barconi diretti a Lampedusa viaggi l’avanguardia dei disperati in fuga dal Terzo Mondo?

Smettiamo di chiamarli profughi, migranti o rifugiati. Chiamiamoli viaggiatori senza visto.

Perché su quei barconi viaggiano le persone respinte dalle nostre ambasciate. E perché nel ventunesimo secolo la mobilità non è più un’esclusiva della disperazione.

Negli ultimi anni si parla spesso di cambiamenti climatici. Secondo te le problematiche ambientali e i cambiamenti climatici stanno influenzando i movimenti migratori e, se sì, in che modo?

Dietro l’allarme migranti climatici si cela spesso la stessa grande paura dell’invasione. Lo ripeto: in frontiera non arrivano i disperati in fuga ma i viaggiatori respinti dalle ambasciate. Il punto è politico.

Il tema non sono i drammi da cui si scappa ma l’impossibilità di viaggiare in aereo per tre quarti dell’umanità: ovvero le classi popolari di Africa, Asia e Caraibi.

Possibile che ai ventenni di qua dal mare tocchi in destino l’Erasmus e ai ventenni di là una tomba sul fondo del mare?

Dopodiché certo che cambiamenti climatici e crisi ambientali provocano graduali spostamenti di popolazioni, ma il grosso sono movimenti interni ai paesi, dalle campagne alle città. L’Europa non è nella testa di tutti. Basta con questa idea che là fuori c’è il Terzo mondo in fiamme, l’apocalisse dietro l’angolo e le masse di barbari pronte a partire.

Tra vent’anni India e Cina saranno i paesi più ricchi del mondo. L’Indonesia siederà al G7. L’Unione africana sarà in pieno boom economico. Per non parlare della Turchia o dei paesi arabi trainati dagli investimenti delle petromonarchie del Golfo. Le cose sono più complesse delle paure della vecchia Europa.

In che misura persistono oggi forme di sessualizzazione e razzismo sessuale nei confronti delle persone non bianche e attraverso quali modalità si esprimono?

È un tema di cui non mi sono mai occupato. Risparmio ai lettori commenti banali e me ne esco con una provocazione: paradossalmente talvolta anche l’esotizzazione dei corpi non bianchi può scatenare un incontro. Quante storie nascono così. Poi ci si ri-conosce e si ride dei propri pregiudizi. In fondo i rapporti aiutano più di tanti articoli o conferenze. Ahimè quanti attivisti ed esperti conosco che non hanno mai avuto un amico o un amante al di fuori dalla comfort zone della propria bianchezza. Mescolatevi ragazzi, Comincia tutto da lì.

La tua proposta per affrontare le migrazioni verso l’Europa consiste, in breve, nel ripristinare la piena libertà di circolazione, attraverso il rilascio di visti e permessi che consentano di spostarsi liberamente tra i paesi di tutto il mondo. Come credi che questo possa avvenire?

Ripristino della libertà di movimento (come era fino agli anni Novanta), immigrazione circolare, politiche di inserimento dei nuovi arrivati con i miliardi risparmiati smilitarizzando le frontiere. I concetti sono semplici. Prima però bisogna accettare il cambiamento. Anche perché è già accaduto. Basta affacciarsi in una scuola qualsiasi. L’Italia del futuro è quella delle classi miste delle nostre elementari. La politica non è pronta ad ammetterlo? Poco importa.

I cambiamenti non arrivano dall’alto. Sono il risultato di lotte che pian piano si fanno egemoni.

Tre milioni e mezzo di persone salite su quei barconi negli ultimi trent’anni formano un movimento di massa di disobbedienza civile.

Una sorta di minoranza combattiva. Alla quale appartengono anche quanti fra noi non ne possono più di contare i morti innocenti dopo ogni naufragio. Insieme dobbiamo provare a contrapporre la visione della libera circolazione alla narrazione egemone dell’apartheid in frontiera che non soltanto non è più al passo coi tempi ma ha fatto 50mila morti nel Mediterraneo!

Oggi sembrano discorsi visionari ma fra trent’anni avremo tutti un pezzetto di famiglia in Nigeria, India o Marocco e saremo finalmente pronti ad aprire. Accadrà inevitabilmente ma dobbiamo darci da fare per anticipare i tempi. Perché ogni anno perduto costa migliaia di vite in mare e indicibili sofferenze per i viaggiatori arrestati sull’altra sponda come nelle nostre città.

Per quanto riguarda invece la realizzazione dello spettacolo tratto dal tuo libro, che cosa ti ha portato a scegliere il teatro come mezzo attraverso il quale parlare di migrazioni? Pensi che sia un ambiente adatto ed efficace per narrare questo fenomeno alla società?

C’è sempre meno gente che legge libri e allora un libro devi imparare a raccontarlo, a usare nuovi linguaggi, in questo caso le immagini, gli archivi, lo storytelling. L’obiettivo è sempre lo stesso: dare al pubblico uno strumento in più per capire il presente e immaginare il futuro.

Secondo te, in che modo può l’arte aiutare a rappresentare le migrazioni e più in generale le disuguaglianze? Credi che possa davvero far aprire gli occhi alle persone, proponendo un punto di vista diverso?

L’arte non soltanto ha il potere di raccontare il reale ma anche quello di immaginare mondi che ancora non esistono e di farceli desiderare. Il problema è che spesso gli artisti, così come i giornalisti, si limitano a riprodurre cliché. Specie su questi temi che richiedono un lungo lavoro di decolonizzazione del proprio immaginario.

Fortunatamente però ormai si sta affacciando sulla scena una nuova generazione di artisti e giornalisti figli delle migrazioni, con una sensibilità tutta nuova e molte lingue in testa. Il rimescolamento delle carte è in atto. Serviranno una o due generazioni. Ma alla fine accadrà inevitabilmente anche qua ciò che sta accadendo in Francia, Gran Bretagna o Germania. Benvenuti nella nuova Europa.