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La nave Oyvon soccorre 27 persone in stato di shock
Questa notte il team a bordo della nave Oyvon di Medici senza Frontiere ha effettuato un altro soccorso. 27 persone sono state messe in salvo, mentre viaggiavano in condizioni di estrema insicurezza in un gommone non adatto alla navigazione. Erano tutte in stato di shock, hanno ripetuto più volte ai nostri operatori che sarebbero morte, se loro non fossero arrivati in tempo. Tra le persone soccorse, c’erano 12 minori, di cui 9 non accompagnati, e 3 donne. Questa stamattina sono sbarcati tutti a Lampedusa. Medecins sans Frontieres
Primo salvataggio della nave Oyvon di Medici senza Frontiere
Questa mattina il team a bordo di Oyvon ha effettuato il suo primo salvataggio. Qurantun persone sono state soccorse, con il supporto della nave di ricerca e soccorso Louise Michel. Tutti i sopravvissuti sono sbarcati a Lampedusa. Tra loro ci sono tre donne e quattordici minori, di cui nove non accompagnati. Medecins sans Frontieres
«Ripristinare la libertà di movimento è l’unica risposta politica alle migrazioni»
Dalla cronaca ai palcoscenici, Del Grande sfida pregiudizi e silenzi politici, proponendo una riflessione sulla libertà di movimento, il razzismo strutturale e le trasformazioni della società europea. In questa intervista, ci guida attraverso storie di viaggiatori respinti, sogni di un’Europa più aperta e l’arte come strumento di cambiamento e riflessione. Il secolo è mobile – La storia delle migrazioni in Europa vista dal futuro, monologo multimediale di Gabriele Del Grande. Un viaggio tra immagini, parole e archivi storici che racconta un secolo di migrazioni e propone una visione futura. Prodotto da Zalab in collaborazione con Cinema Zero IN QUESTO PERIODO SEI IN TOURNÉE IN NUMEROSI TEATRI ITALIANI CON IL MONOLOGO MULTIMEDIALE “IL SECOLO È MOBILE – LA STORIA DELLE MIGRAZIONI IN EUROPA VISTA DAL FUTURO”. COME STA ANDANDO QUESTA ESPERIENZA? COME STA RISPONDENDO IL PUBBLICO? Ottanta date in poco più di un anno. Teatri, cinema, piazze, scuole. Quasi ovunque sold-out. Finalmente un passaggio televisivo. Non male per uno spettacolo che parla del ripristino della libera circolazione fra le due sponde del Mediterraneo. Sono molto contento. Il pubblico porta a casa una storia, tante emozioni e una proposta visionaria. Che poi è il punto forte dello spettacolo: restituire una visione del futuro. Unica pecca? Il silenzio assordante della politica. IN CHE MODO IL RAZZISMO, INTESO COME FENOMENO STRUTTURALE RADICATO NELLE SOCIETÀ EUROPEE, CONTINUA A MANIFESTARSI OGGI E QUALI TRASFORMAZIONI HANNO CARATTERIZZATO LE SUE FORME DI ESPRESSIONE NEGLI ULTIMI DECENNI? Cinque secoli di colonialismo non evaporano dall’oggi al domani. I fantasmi del razzismo scientifico, mai elaborati, hanno determinato le politiche migratorie europee degli ultimi decenni. Sin dal 1990 la strategia del trattato di Schengen – aprire ad Est per chiudere a Sud – punta dichiaratamente a scoraggiare l’immigrazione afroasiatica per sostituirla con quella bianca e cristiana dell’Europa orientale, ritenuta più facilmente assimilabile. L’apartheid in frontiera è l’ultima forma di segregazione razziale ancora in vigore nel mondo occidentale. O davvero pensiamo ancora che sui barconi diretti a Lampedusa viaggi l’avanguardia dei disperati in fuga dal Terzo Mondo? Smettiamo di chiamarli profughi, migranti o rifugiati. Chiamiamoli viaggiatori senza visto. Perché su quei barconi viaggiano le persone respinte dalle nostre ambasciate. E perché nel ventunesimo secolo la mobilità non è più un’esclusiva della disperazione. NEGLI ULTIMI ANNI SI PARLA SPESSO DI CAMBIAMENTI CLIMATICI. SECONDO TE LE PROBLEMATICHE AMBIENTALI E I CAMBIAMENTI CLIMATICI STANNO INFLUENZANDO I MOVIMENTI MIGRATORI E, SE SÌ, IN CHE MODO? Dietro l’allarme migranti climatici si cela spesso la stessa grande paura dell’invasione. Lo ripeto: in frontiera non arrivano i disperati in fuga ma i viaggiatori respinti dalle ambasciate. Il punto è politico. Il tema non sono i drammi da cui si scappa ma l’impossibilità di viaggiare in aereo per tre quarti dell’umanità: ovvero le classi popolari di Africa, Asia e Caraibi. Possibile che ai ventenni di qua dal mare tocchi in destino l’Erasmus e ai ventenni di là una tomba sul fondo del mare? Dopodiché certo che cambiamenti climatici e crisi ambientali provocano graduali spostamenti di popolazioni, ma il grosso sono movimenti interni ai paesi, dalle campagne alle città. L’Europa non è nella testa di tutti. Basta con questa idea che là fuori c’è il Terzo mondo in fiamme, l’apocalisse dietro l’angolo e le masse di barbari pronte a partire. Tra vent’anni India e Cina saranno i paesi più ricchi del mondo. L’Indonesia siederà al G7. L’Unione africana sarà in pieno boom economico. Per non parlare della Turchia o dei paesi arabi trainati dagli investimenti delle petromonarchie del Golfo. Le cose sono più complesse delle paure della vecchia Europa. IN CHE MISURA PERSISTONO OGGI FORME DI SESSUALIZZAZIONE E RAZZISMO SESSUALE NEI CONFRONTI DELLE PERSONE NON BIANCHE E ATTRAVERSO QUALI MODALITÀ SI ESPRIMONO? È un tema di cui non mi sono mai occupato. Risparmio ai lettori commenti banali e me ne esco con una provocazione: paradossalmente talvolta anche l’esotizzazione dei corpi non bianchi può scatenare un incontro. Quante storie nascono così. Poi ci si ri-conosce e si ride dei propri pregiudizi. In fondo i rapporti aiutano più di tanti articoli o conferenze. Ahimè quanti attivisti ed esperti conosco che non hanno mai avuto un amico o un amante al di fuori dalla comfort zone della propria bianchezza. Mescolatevi ragazzi, Comincia tutto da lì. LA TUA PROPOSTA PER AFFRONTARE LE MIGRAZIONI VERSO L’EUROPA CONSISTE, IN BREVE, NEL RIPRISTINARE LA PIENA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE, ATTRAVERSO IL RILASCIO DI VISTI E PERMESSI CHE CONSENTANO DI SPOSTARSI LIBERAMENTE TRA I PAESI DI TUTTO IL MONDO. COME CREDI CHE QUESTO POSSA AVVENIRE? Ripristino della libertà di movimento (come era fino agli anni Novanta), immigrazione circolare, politiche di inserimento dei nuovi arrivati con i miliardi risparmiati smilitarizzando le frontiere. I concetti sono semplici. Prima però bisogna accettare il cambiamento. Anche perché è già accaduto. Basta affacciarsi in una scuola qualsiasi. L’Italia del futuro è quella delle classi miste delle nostre elementari. La politica non è pronta ad ammetterlo? Poco importa. > I cambiamenti non arrivano dall’alto. Sono il risultato di lotte che pian > piano si fanno egemoni. Tre milioni e mezzo di persone salite su quei barconi negli ultimi trent’anni formano un movimento di massa di disobbedienza civile. Una sorta di minoranza combattiva. Alla quale appartengono anche quanti fra noi non ne possono più di contare i morti innocenti dopo ogni naufragio. Insieme dobbiamo provare a contrapporre la visione della libera circolazione alla narrazione egemone dell’apartheid in frontiera che non soltanto non è più al passo coi tempi ma ha fatto 50mila morti nel Mediterraneo! Oggi sembrano discorsi visionari ma fra trent’anni avremo tutti un pezzetto di famiglia in Nigeria, India o Marocco e saremo finalmente pronti ad aprire. Accadrà inevitabilmente ma dobbiamo darci da fare per anticipare i tempi. Perché ogni anno perduto costa migliaia di vite in mare e indicibili sofferenze per i viaggiatori arrestati sull’altra sponda come nelle nostre città. PER QUANTO RIGUARDA INVECE LA REALIZZAZIONE DELLO SPETTACOLO TRATTO DAL TUO LIBRO, CHE COSA TI HA PORTATO A SCEGLIERE IL TEATRO COME MEZZO ATTRAVERSO IL QUALE PARLARE DI MIGRAZIONI? PENSI CHE SIA UN AMBIENTE ADATTO ED EFFICACE PER NARRARE QUESTO FENOMENO ALLA SOCIETÀ? C’è sempre meno gente che legge libri e allora un libro devi imparare a raccontarlo, a usare nuovi linguaggi, in questo caso le immagini, gli archivi, lo storytelling. L’obiettivo è sempre lo stesso: dare al pubblico uno strumento in più per capire il presente e immaginare il futuro. SECONDO TE, IN CHE MODO PUÒ L’ARTE AIUTARE A RAPPRESENTARE LE MIGRAZIONI E PIÙ IN GENERALE LE DISUGUAGLIANZE? CREDI CHE POSSA DAVVERO FAR APRIRE GLI OCCHI ALLE PERSONE, PROPONENDO UN PUNTO DI VISTA DIVERSO? L’arte non soltanto ha il potere di raccontare il reale ma anche quello di immaginare mondi che ancora non esistono e di farceli desiderare. Il problema è che spesso gli artisti, così come i giornalisti, si limitano a riprodurre cliché. Specie su questi temi che richiedono un lungo lavoro di decolonizzazione del proprio immaginario. Fortunatamente però ormai si sta affacciando sulla scena una nuova generazione di artisti e giornalisti figli delle migrazioni, con una sensibilità tutta nuova e molte lingue in testa. Il rimescolamento delle carte è in atto. Serviranno una o due generazioni. Ma alla fine accadrà inevitabilmente anche qua ciò che sta accadendo in Francia, Gran Bretagna o Germania. Benvenuti nella nuova Europa.
3 ottobre: XII Giornata della Memoria e dell’Accoglienza
Il 3 ottobre di 12 anni fa si consumava il naufragio di Lampedusa. Furono 368 le vittime, tante tra loro ancora quelle senza nome. Dal 2016 questo giorno è riconosciuto come Giornata nazionale della Memoria e dell’Accoglienza. Oggi celebriamo il 3 ottobre facendo memoria e ricordando come coloro che fuggono da guerre e persecuzioni non dovrebbero trovarsi nelle condizioni di essere soccorsi ma accolti. Per questo il Centro Astalli continua a chiedere che siano priorità per le istituzioni nazionali ed europee: attivare vie legali per garantire accesso alla protezione e sconfiggere così il traffico di migranti; accogliere dignitosamente, attraverso progettualità diffuse volte a una reale inclusione, le persone richiedenti asilo e rifugiate sul territorio italiano, secondo le leggi nazionali e internazionali, garantendo a tutti maggiori diritti e non alimentando odio e conflittualità. Celebriamo il 3 ottobre eliminando i discorsi di odio, razzismo e xenofobia. Dopo quella tragica notte sono continuate a morire migliaia di persone davanti alle coste del Mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa per chiedere asilo. Uomini, donne e bambini, “morti di frontiera” che toccano la nostra attenzione per tempi sempre più brevi. Tragedie che rimangono tali in un generalizzato atteggiamento di complice indifferenza piuttosto che agire affinché non si ripetano mai più. Mentre, sempre più spesso, chi si mette in viaggio in cerca di una vita degna diventa vittima di una vera e propria colpevolizzazione, se non addirittura di criminalizzazione. Oggi celebriamo il 3 ottobre ricordando che fare memoria è un atto dovuto, ma se non diviene atto di responsabilità è vano. Molte delle politiche adottate da quel tragico giorno ad oggi vanno invece in una direzione che preoccupa, perché non di rado in aperta violazione dei diritti umani e delle principali convenzioni in materia di asilo. Occorre un’assunzione sostanziale di responsabilità da parte di tutti gli Stati dell’Unione Europea, che metta fine ad avvilenti contrattazioni in cui i diritti e la dignità di ciascuna persona migrante – compresi anche famiglie con bambini e minori stranieri non accompagnati – non sembrano avere alcun valore. Celebriamo il 3 ottobre ricordando che fare memoria dei morti vuole dire anche rispettare la dignità e i diritti dei vivi. È necessario agire in fretta per ricostruire un mondo pacificato e solidale, dove le minacce, le violenze, la guerra e la distruzione lascino il passo alla concordia, al rispetto dei diritti umani universali e al dialogo. È impegno comune e quotidiano fare in modo che questo domani sia prossimo. Sottolinea p. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli: “Oggi celebriamo il 3 ottobre mentre continuano a infuriare guerre che costringono migliaia di persone a fuggire e non blocchiamo, ipocritamente, il traffico di armi. Oggi celebriamo il 3 ottobre mentre migliaia di persone non riescono a lasciare la propria terra, teatro di morte, e non le si aiuta neppure “a casa loro”, impedendo che aiuti umanitari arrivino a destinazione. Oggi, 3 ottobre, dobbiamo fare memoria perché non si ceda alla logica dell’indifferenza globale”.   Centro Astalli per l’assistenza agli immigrati ODV   Redazione Italia
3 ottobre: dodici anni fa, la tragedia di Lampedusa
Dodici anni fa, la tragedia di Lampedusa: 368 giovani vite spezzate a poche centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano ormai a un passo. Il dodicesimo anniversario di questa tragedia arriva proprio nel clima e nelle prassi che erigono l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se esponenti di questo governo e di questa maggioranza o, più in generale, altri protagonisti della politica degli ultimi anni intendano promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria di quanto è accaduto. Ma se è vero, come è vero, che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione che la data del 3 ottobre richiama con chi da anni costruisce muri e distrugge ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo. Se anche loro vogliono “ricordare Lampedusa”, che lo facciano da soli. Che restino soli. Perché in questi 10 anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e umana pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo. Che cosa resta, infatti, dello “spirito” e degli impegni di allora? Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le indagini fatte da parte della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 368 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul posto in pochi minuti. La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione, con la forza enorme di 368 vite perdute, su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma dell’Eritrea, perché tutti quei morti erano eritrei. Al primo “punto” si rispose con Mare Nostrum, il mandato alla Marina italiana di pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche, per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quell’operazione è stata un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate. A cinque anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica la consideri uno spreco o addirittura un aiuto dato ai trafficanti. Sta di fatto che esattamente dopo dodici mesi, nel novembre 2014, Mare Nostrum è stato “cancellato”, moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 18 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio. E, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e restrizioni che neanche l’escalation delle vittime è valsa ad arrestare, fino ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le frontiere della Fortezza Europa, attraverso tutta una serie di trattati internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, “lontano dai riflettori”, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud del Mediterraneo. Questo hanno fatto e stanno facendo trattati come il Processo di Khartoum (fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli accordi di Malta, il trattato con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto all’Afghanistan (costretto a “riprendersi” 80mila profughi), il memorandum firmato con la Libia nel febbraio 2017 e gli ultimi provvedimenti di questo Governo. Per non dire della criminalizzazione delle Ong, alle quali si deve circa il 40 per cento delle migliaia di vite salvate, ma che sono state costrette a sospendere la loro attività. Oggi assistiamo a navi soccorritrici costrette a navigare lunghe miglia in cerca di porti assegnati lontani dai luoghi di intervento. Il porto più vicino e sicuro previsto dal diritto internazionale marittimo è ormai lettera morta. Le stragi si susseguono negli ultimi 12 anni come nulla fosse, il cinismo ha soppiantato l’Umanitario. Con i rifugiati eritrei, il secondo “punto”, si è passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli – nelle parole di autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza di governo – “profughi vacanzieri” o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di Asmara. È un processo iniziato subito, già all’indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime ad Agrigento il Governo ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a scappare dal paese. Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il dittatore che ha schiavizzato il suo popolo, facendolo uscire dall’isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di fatto, gendarme anti-immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa. Fino al recente documentario La grande bugia – Eritrea andata e ritorno, mandato in onda dalla RAI. Sia per quanto riguarda i migranti in generale che per l’Eritrea, allora, a 12 anni di distanza dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, resta l’amaro sapore di un tradimento. * Traditi la memoria e il rispetto per le 368 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici. Il caso del generale libico Al-Masri è lampante: un atto che ha calpestato la memoria e la dignità di tutti migranti e profughi. * Traditi le migliaia di giovani che con la loro stessa fuga denunciano la feroce, terribile realtà del regime di Asmara, che resta una dittatura anche dopo la firma della pace con l’Etiopia per la lunghissima guerra di confine iniziata nel 1998. Il recente documentario mandato in onda da RAI3 La grande bugia – Eritrea andata e ritorno è un tentativo di denigrare e sminuire il dramma dei profughi eritrei, riabilitare il regime al potere ed è utile anche alle politiche anti-accoglienza e di chiusura in atto in Italia e in Europa. Ci addolora che RAI3 si sia prestata a questo pessimo atto che veicola un messaggio profondamente distorto e fuorviante sulla realtà eritrea e sulla fuga dei giovani dal paese. * Tradito il grido di dolore che sale dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Italia e l’Europa, da parte di un intero popolo di migranti e profughi costretti ad abbandonare la propria terra: una fuga per la vita che nasce spesso da situazioni create dalla politica e dagli interessi economici e geostrategici proprio di quegli Stati del Nord del mondo che ora alzano barriere. Tradito, questo grido di dolore, nel momento stesso in cui si finge di non vedere una realtà evidente: “…lasci la casa solo / quando la casa non ti lascia più stare / Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci / fuoco sotto i piedi / sangue caldo in pancia / qualcosa che non avresti mai pensato di fare / finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…” (da Home, monologo di Giuseppe Cederna). Ecco: ovunque si voglia ricordare in questi giorni la tragedia di Lampedusa, sull’isola stessa o da qualsiasi altra parte, non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta in questi 12 anni nei confronti di migranti e rifugiati. Gli “ultimi della terra”. Ricordatevi sempre che il diritto dei più deboli non è un diritto debole!
Lampedusa, 13 agosto 2025: la strage che non deve diventare oblio
Il 13 agosto, al largo di Lampedusa, circa cento persone provenienti da Somalia, Eritrea, Etiopia, Egitto e Pakistan hanno affrontato il mare su due imbarcazioni partite dalla Libia. Per quaranta di loro – tra dispersi e morti – la traversata si è conclusa nel silenzio delle onde. Sessanta sono sopravvissutə, ventitré corpi sono stati recuperati, mentre più di quindici restano senza nome né destino. Notizie/In mare LAMPEDUSA, 13 AGOSTO: UN’ALTRA STRAGE DI FRONTIERA Mem.Med: «Saremo al fianco di familiari e sopravvissuti che rivendicano verità, giustizia e memoria» Redazione 28 Agosto 2025 Il nuovo report di MEM.MED (Memoria Mediterranea), “Strage di Lampedusa del 13.08.2025. Memoria dal margine contro l’oblio di frontiera” 1, ricostruisce non solo le circostanze del naufragio ma anche le omissioni istituzionali e le ferite inflitte ai familiari dalle procedure di gestione dei corpi. È un lavoro che chiede verità, giustizia e memoria per quelle vite spezzate. Secondo le testimonianze raccolte, le due barche partite dalla Libia hanno navigato insieme fino a quando una ha iniziato a imbarcare acqua. Le persone si sono spostate sull’altra, più grande, che si è poi ribaltata a 14 miglia da Lampedusa. Alcuni sopravvissutə parlano di un’onda improvvisa, altri di instabilità dovuta al sovraccarico. Ma il vero enigma resta la mancata individuazione delle imbarcazioni. In un’area pattugliata da Frontex e Guardia Costiera, – sottolinea l’associazione Maldusa 2 – come è possibile che due scafi restino invisibili? Perché i soccorsi non sono arrivati in tempo? Inoltre, le ordinarie procedure di sbarco sono state stravolte. Le associazioni della società civile, solitamente avvisate in anticipo per poter accogliere le persone al loro arrivo, non hanno ricevuto alcuna comunicazione. Questa esclusione ha impedito loro di essere presenti al molo, privando i sopravvissuti di un primo sostegno umano e immediato. A Lampedusa la morte viene confinata. I ventitré corpi recuperati sono stati disposti a terra, all’aperto, in un deposito cimiteriale inadeguato, sotto il sole d’agosto. Sigillati in bare contrassegnate da lettere, hanno atteso giorni prima di essere trasferiti in Sicilia. PH: Silvia Di Meo, Porto Empedocle I familiari sopravvissuti, reclusi nell’hotspot, non hanno potuto vegliare i propri cari. Il diritto al cordoglio e al rito religioso è stato violato. La gestione dei morti di frontiera si è tradotta, ancora una volta, in un atto di disumanizzazione. Mentre le autorità tacevano, le famiglie – in Italia, in Europa e nei paesi d’origine – hanno iniziato a cercare informazioni attraverso reti di solidarietà. MEM.MED ha raccolto decine di segnalazioni e, in dialogo con la Procura di Agrigento, ha reso possibile un percorso di identificazione delle salme, spesso a distanza, tramite videochiamata. Grazie a questa mediazione, ventuno corpi hanno ritrovato un nome. Un ragazzo somalo, Mo, giunto sull’isola in cerca del fratello disperso, ha svolto un ruolo decisivo aiutando le famiglie connazionali. Ma senza l’intervento delle associazioni, la comunicazione tra istituzioni e familiari non si sarebbe mai attivata. Per molte famiglie la sepoltura è stata un ulteriore trauma. La scarsità di cimiteri islamici e l’assenza di un quadro normativo hanno portato a una dispersione dei corpi in undici comuni siciliani 3, spesso senza garanzia di inumazione a terra, come richiesto dalle famiglie musulmane. Questa frammentazione ha reso difficile conoscere gli spostamenti delle salme e impedito di vivere il lutto in maniera collettiva e politica. Alle barriere burocratiche e logistiche si è aggiunta la riduzione dei riti a mere pratiche amministrative: le bare divise, le volontà dei familiari ignorate, la possibilità di pregare e commemorare insieme negata. Così si ostacola la restituzione di un nome, il diritto di vegliare e la trasformazione del dolore in memoria condivisa. Come scrive MEM.MED, non si tratta di semplici negligenze ma di «razzismo e colonialismo strutturali che attraversano la nostra società, le nostre istituzioni e che attribuiscono valore diverso alle vite delle persone razzializzate e in movimento, anche da morte». PH: Silvia Di Meo, Castelvetrano La strage del 13 agosto non è un episodio isolato. Pochi giorni dopo, il 22 agosto, a Lampedusa sono arrivati i corpi di tre bambine di 9, 11 e 17 anni, morte in mare insieme alla madre sopravvissuta, oggi rinchiusa nell’hotspot. «Ad oggi» – denuncia Mem.Med – «le bambine si trovano nel cimitero di Cala Pisana e non sappiamo dove verranno sepolte». Ogni corpo restituito, ogni famiglia che chiede giustizia, ricorda che i confini non sono linee neutre ma dispositivi di morte. Per questo la memoria non può essere lasciata al caso: deve diventare pratica politica, resistenza collettiva all’oblio. Il Mediterraneo continua a essere attraversato da rotte che non solo uccidono, ma cancellano: nomi, volti, legami. A contrastare questa cancellazione restano le famiglie, le associazioni e chi decide di guardare in faccia la violenza del confine, senza normalizzarla. > Per le tre bambine ancora non sepolte, per la loro madre che lotta. > Per le vite disperse in mare. E per i volti di quelle ventitré persone in > cerca di libertà che noi non dimenticheremo mai. (Ultima pagina del rapporto) PH: Silvia Di Meo 1. Scarica il rapporto ↩︎ 2. Ancora una strage. Fino a quando? Maldusa (30 agosto 2025) ↩︎ 3. Le salme infatti sono state distribuite nei cimiteri di: Canicattì, Villafranca Sicula, Ribera, Grotte, Palma di Montechiaro, San Biagio Platani, Calamonaci, Santo Stefano di Quisquina, Castrofilippo, San Margherita del Belice, Campobello di Licata e Joppolo Giancaxio ↩︎
f.Lotta: occupare il Mediterraneo per la libertà di movimento
IL CONTESTO E LE RAGIONI Dal 14 al 16 settembre 2025, ci sarà un  appuntamento in mare per partecipare ad un’azione il cui nome contiene il programma:  f.Lotta, un gioco di parole tra “flotta di mare” e “lotta“ ad “indicare la natura politica e intransigente dell’iniziativa”. Notizie F.LOTTA: UN’OCCUPAZIONE MARITTIMA CONTRO IL SISTEMA DEI CONFINI Dal 10 al 20 settembre a sud di Lampedusa 28 Luglio 2025 Un movimento indipendente, orizzontale e auto-organizzato che prevede una massiccia occupazione del Mediterraneo Centrale, a sud di Lampedusa per rivendicare la libertà di movimento per ogni cittadino del mondo. Questa “critical mass” del mare, nata dal basso, vuole contrastare il modello di controllo e esternalizzazione – razzista, capitalista e neocoloniale – proposto dalla Fortezza Europa. Per tre giorni, in un “spazio” sempre attraversato da soggetti diversi -persone che cercano di passare da una sponda all’altra, cosiddette guardie costiere libiche e tunisine, droni, aerei e navi di Frontex, flotte civili che operano il salvataggio e barche di pescatori – una quindicina di barche si danno appuntamento. Da Lampedusa al cuore del central Med, con l’idea di abitare questa frontiera liquida. Il messaggio generale di f.Lotta è la libertà di movimento, ma, accanto ad esso, si declinano 15 campagne politiche specifiche 1 di cui ogni barca sarà portavoce e testimone. A questa f.Lotta partecipa anche Tanimar, il cui progetto nasce nel 2022: da marinaie e marinai, da ricercatrici e ricercatori che hanno deciso di entrare in relazione con il Mediterraneo, provando a realizzare un’etnografia del mare e nel mare, a cominciare dallo stretto di Sicilia, per continuare con la Tunisia (2023) e con l’Egeo (2025).  Fotografia tratta da Linosa. Isolitudine. Equipaggio della Tanimar (2022) Durante le precedenti navigazioni, hanno tentato di disegnare un percorso che si intreccia con le rotte delle persone in movimento: per ricomporre memorie e analisi, per rendere più visibile la polifonia di voci e la pluralità di visioni sul futuro del Mediterraneo. Per questa nuova navigazione, saliranno a bordo persone e organizzazioni diverse, che, pur con linguaggio e strumenti diversi, hanno un comune fondamentale denominatore: considerano le migrazioni come fenomeni che attraversano confini – geografici, culturali, giuridici – e implicano memorie, diritti e immaginari condivisi. A bordo una fotografa e una filmaker, due professori di sociologia dei processi culturali e migrazioni a Genova e Parma, un mediatore culturale per The Routes Journal, volontari attivisti legati a OnBorders e Mem.Med. E poi il Progetto Melting Pot che ha una storia comune con Tanimar e ne ha già amplificato la voce che questa volta affida a me questa il racconto. Avremo un equipaggio di terra, con gli studenti delle radio universitarie, ma soprattutto coi testimoni del rapporto RRx che aspettano, nascosti negli uliveti e in qualche hangar tra Tunisia e Libia, di poter partire.  In questa prospettiva Tanimar ha deciso di aderire alla campagna lanciata da f.Lotta, organizzazione dal basso che promuove “un’occupazione massiccia del Mediterraneo Centrale, con un’iniziativa orizzontale, dal basso, spontanea”. Le ragioni di questa scelta sono evidenti per l’equipaggio che sale a bordo durante l’iniziativa, dal 14 al 16 settembre. Innanzitutto, perché il discorso politico e mediatico in Italia descrive il Mediterraneo come una barriera naturale tra mondi distanti, una frontiera liquida da controllare, setacciare, luogo in cui si scontrano le politiche europee di sorveglianza e repressione della mobilità e la volontà delle persone migranti di continuare a muoversi. Ma il Central Med non è solo questo. Questo mare, il cui confine che separa non si vede all’orizzonte ma su radar a bordo di barche, ha una storia che racconta di incontri, attraversamenti, scambi. PH: Roberta Derosas Nelle sue acque fatte di incroci si intrecciano persone migranti, pescatori, marinai, guardacoste, funzionari europei e statali, operatori umanitari e solidali, ciascuno portatore di interessi e prospettive diverse. Politiche migratorie europee basate sulla militarizzazione delle frontiere marittime e terrestri hanno contribuito, come conseguenza diretta, a trasformare il Mediterraneo in un confine mortale. Da una sponda all’altra, viene criminalizzato chi offre sostegno e solidarietà a chi è in transito, ma anche chi migra nel tentativo di raggiungere l’Europa: l’assenza di vie legali di accesso all’Europa lascia alle persone che partono l’unica possibilità di intraprendere viaggi rischiosi, su imbarcazioni di fortuna. Eppure, lo spazio mediterraneo continua a generare relazioni e pratiche che superano le dicotomie sociali, intrecciando storie e vissuti in un tessuto complesso. Luogo di incontro e campo di battaglia, spazio cruciale della contemporaneità in cui si riproducono processi di razzializzazione legati alla governance migratoria, il Mediterraneo è ugualmente orizzonte di desiderio e possibilità. Viverlo, percorrerlo, osservarlo è l’unico modo per comprenderlo davvero. Questo Mediterraneo, che si tenta di chiudere con blocchi navali, fermi amministrativi alle navi dei soccorritori civili, respingimenti operati dalle cd. guardie costiere libiche e tunisine e accordi bilaterali che lasciano dietro di sé una scia di sangue e morti, resta comunque aperto e poroso: continua ad essere attraversato con ogni mezzo da chi esercita il proprio diritto alla fuga. Ci sono molti modi di “stare” nel  Mediterraneo: pattugliare, controllare, soccorrere, osservare, accogliere, respingere, affondare, tessere, raccontare sono tutte azioni possibili. Tanimar, ancora una volta, vuole essere testimone civile di ciò che altrove viene nascosto o ridotto a spettacolo.  Per l’azione proposta da f.lotta, con il suo invito a “occupare in modo massiccio il Mediterraneo”, l’equipaggio di Tanimar sarà composto da cittadini provenienti da Africa ed Europa, filmaker, artist3, lavoratori sociali, rifugiat3,  ricercatrici e ricercatori, navigatrici e navigatori: al di là del background, delle funzioni e delle professioni, li unisce credere alle leggi del mare, all’obbligo di rendere soccorso, al doveroso diritto  di ogni singolo essere umano di poter scegliere dove vivere e di non essere respinto, violato, mercificato, soggiogato, torturato. Accanto al suo equipaggio di mare, ne avrà anche a terra: in Tunisia e in Libia, grazie al contributo dei corrispondenti del Giornale delle Rotte (un progetto di comunicazione alternativa sul tema della mobilità impedita animato da persone in viaggio o bloccate in attesa di partire) e ai testimoni del rapporto RR[X]  sul fenomeno della  tratta di Stato, ma anche grazie agli studenti delle radio universitarie di Parma e Bologna e ai volontari che agiscono in altre frontiere, di terra, che arrivano dopo l’approdo a Lampedusa.  Intrecciando attivismo, arte, nautica ed etnografia, Tanimar e i suoi equipaggi vogliono continuare a raccontare l’incontro con il Mediterraneo attraverso parole e immagini, suoni e visioni, in una tessitura che sia insieme politica e poetica. Il desiderio e la volontà dell’equipaggio sono di amplificare le voci di chi è privato del diritto al movimento sulla sponda sud del Mediterraneo, partendo dalle loro stesse parole, per non sostituirsi ad esse, ma condividere con chi vive l’attraversamento, il diritto al racconto, costruendo narrazioni che devono e possono essere incrocio di sguardi, parole, fili tessuti, patchwork a colori che formano una sola coperta. Ed è anche per questo che a bordo sarà portata quella di Yousuf, che è nata e continua a crescere per creare un legame tra le storie dei singoli, primo passo verso la nascita di una comunità. Partecipare a f.Lotta nella navigazione dello spazio mediterraneo significa anche diventare portabandiera e testimone di una specifica campagna nel contesto globale della lotta per la libertà di movimento. La Tanimar Anche Tanimar ne porta una: Stop State trafficking of human beings between Tunisia and Libya. Fermare la tratta di stato di esseri umani tra Tunisia e Libia.  Come rivelato dal Rapporto 2 di RR[X] (un gruppo di ricerca  internazionale che ha deciso di anonimizzarsi sotto uno pseudonimo collettivo per proteggere le proprie fonti), presentato al Parlamento europeo il 25 febbraio, il progressivo inasprimento delle politiche di frontiera dell’UE ha generato una conseguenza inquietante: la vendita e lo riduzione in schiavitù delle persone migranti subsahariani ad opera degli apparati militari e di polizia tunisini. Rapporti e dossier STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il rapporto Tratta di Stato, accompagnato da un accurato sommario delle violazioni dei diritti umani nel corso delle operazioni di espulsione e deportazione curato da ASGI, intende riaprire il dibattito sulla responsabilità dell’Unione e dei singoli stati nell’esposizione alla morte e alla schiavitù delle persone in viaggio, così come sullo statuto di “paese sicuro” assegnato alla Tunisia, al suo ruolo di partner e beneficiario economico nella gestione della frontiera esterna della UE.  L’equipaggio di Tanimar è potuto entrare in relazione con i testimoni del rapporto RR[X]  sulla Tratta di Stato fra Tunisia e Libia e ha deciso di contribuire ad amplificare le loro storie e le loro richieste.   I testimoni di RR[X] dopo la presentazione del rapporto al parlamento europeo, e in Italia al Senato e alla Camera dei deputati, hanno presentato numerose interrogazioni parlamentari  senza ricevere risposta alcuna dalle istituzioni a cui si sono rivolti. La richiesta principale di questo collettivo che l’equipaggio di Tanimar vuole veicolare è l’apertura di un corridoio legale-umanitario affinché le voci delle vittime della tratta di Stato possano arrivare di fronte a un tribunale europeo. Durante i giorni dell’imbarco, testimoni e corrispondenti ancora in Libia e Tunisia racconteranno non solo la loro esperienza di vendita e deportazione alla frontiera, ma anche la loro lotta per il diritto alla mobilità e per avere giustizia e riparazione.   Attraverso diversi canali – la pagina Instagram del Giornale delle Rotte, una rete di radio universitarie studentesche, il progetto Melting Pot – l’equipaggio di Tanimar intende così contribuire ad amplificare la consapevolezza su un fenomeno recente e ancora poco conosciuto.  Nonostante la retorica europea della lotta ai trafficanti, le politiche di esternalizzazione della frontiera hanno generato un effetto paradossale: alla frontiera tunisino-libica, il trafficante di esseri umani indossa ora un’uniforme. In questo mare che è insieme luogo di transito, crocevia di esistenze, spazio di azione e di resistenza, gli equipaggi di Tanimar navigheranno ascoltando, osservando, raccogliendo, raccontando. Portare a bordo la coperta di Yousuf, amplificare la voce dei testimoni della Tratta di Stato, intrecciare saperi e pratiche dal mare e dalla terra, significa parlare di un altro Mediterraneo: aperto, solidale, plurale, fondato non sul possesso o sul controllo, ma sull’incontro, sulla cura e sulla responsabilità collettiva e condivisa. 1. Tutte le informazioni sulle campagne ↩︎ 2. Consulta il sito del rapporto ↩︎
Anatomia di un approdo qualsiasi
Lampedusa, agosto. Il giorno dopo l’ennesimo naufragio. Attraverso la descrizione delle pratiche di sbarco al molo Favaloro, spazio liminale e metonimia del confine europeo, il testo mette in luce la tensione costante tra accoglienza e controllo, tra salvataggio e classificazione. Il molo appare come luogo fisico di approdo, ma anche come dispositivo politico e simbolico, in cui il “naufrago” diventa “migrante ufficiale” e i corpi, ridotti a numeri, vengono gestiti secondo logiche amministrative e securitarie. Al tempo stesso, negli interstizi di questo limine, si collocano forme di riconoscimento reciproco: gesti minimi che aprono spazi di relazione volti a restituire dignità e soggettività. In un contesto dominato dall’urgenza e dalle cifre, è possibile interrompere la “circolarità della violenza”: questo accade quando si trasforma il molo da luogo di pura gestione a spazio di resistenza e un corpo migrante da numero torna ad essere persona. PH: Tanja Boukal È agosto, l’indomani dell’ennesima strage evitabile, e quello che si compie stasera è un normalissimo arrivo, il secondo della giornata. Ci sono stati tempi, sull’isola, in cui gli approdi si susseguivano senza sosta, ma le politiche europee e gli accordi con Libia e Tunisia stanno ottenendo il loro effetto nella riduzione dei numeri di persone migranti che approdano qui. Anche la tipologia degli arrivi pare diversa: ai grandi gruppi paiono stranamente sostituirsi i piccoli. Se non fosse per la presenza dei giornalisti, passerebbe inosservato ciò sta accadendo in questa calda serata d’estate, accanto ad una delle spiagge più turistiche dell’isola, la Guitgia: vacanzieri spensierati alla ricerca di mare e divertimento e cittadini stranieri non autorizzati, i primi attesi con impazienza, i secondi fermati, schedati, soccorsi, respinti, salvati e, in qualche modo, comunque accolti. Stasera partecipo come volontaria a uno sbarco, per usare un termine poco amato da chi interviene al molo per il suo richiamo al linguaggio militare. Evento marittimo numero 2 (EV. 2), lo definiscono le forze dell’ordine o la Croce Rossa (CRI). Tuttavia, molti, nelle conversazioni informali, ritornano all’uso della parola militare. Già: un Mediterraneo in assetto di guerra, eserciti e flotte civili che dispiegano i propri equipaggi in questa frontiera liquida. E poi quella terrestre, coi moli: due a Lampedusa, il Favaloro – più noto – e il Commerciale. PH: Tanja Boukal Spazio liminale, soglia giuridica, emotiva e politica. Non luogo, primo spazio di relazione e di accoglienza a terra, ma anche di trasformazione perché qui il “naufrago” diventa “migrante ufficiale”. Spazio di osservazione, di azione, ma anche di potere delle diverse agenzie i cui operatori (sia istituzionali e governativi che non) occupano un territorio che definisce anche la loro importanza in ordine di intervento e di decisione 1. Mai accesso libero, il molo diventa metonimia del confine: geografico, cronologico, politico, esistenziale. Rappresenta il trait d’union di tutte le contraddizioni: luogo di soccorso e accoglienza, ma anche spazio di cesura in cui si definisce chi può restare e chi deve essere respinto, chi è potenzialmente legale e chi non lo è, chi deve essere protetto e chi no, chi è vulnerabile e chi appare ancora dotato di forze e capacità, chi è vittima e chi è carnefice. La funzione del molo, come luogo di transito e di organizzazione delle operazioni di sbarco, non può essere separata dalla sua carica simbolica e neppure dalla violenza che lo abita, perché qui le politiche migratorie si concretizzano e si traducono nella classificazione e gestione delle persone che fanno parte di un evento. Al molo, le dinamiche di intervento ed azione sono continuamente ridisegnate, discusse e ristabilite durante il tempo dello sbarco, in una sorta di danza fluttuante, a seconda del momento in cui le persone migranti arrivano, le loro condizioni fisiche, il loro numero, la presenza di donne o minori non accompagnati, i tempi di trasferimento, ma anche a seconda delle competenze e del saper essere degli operatori e della loro disponibilità emotiva al tempo X dell’approdo. È un giorno d’agosto.  Al molo, stanotte, tutti i presenti sono in attesa: medico e infermiere per effettuare una prima verifica delle condizioni fisiche delle persone, due agenti di Frontex accompagnati da un mediatore linguistico dell’OIM, una persona di Save the Children, un’operatrice di International Rescue Committee (IRC), quattro operatori della CRI e poi noi volontari del Forum solidale di Lampedusa. Le forze dell’ordine sono dispiegate ai nostri lati. Ognuno al suo posto. PH: Tanja Boukal La nave della Guardia Costiera entra in porto poco dopo le 21.00, con a bordo il suo carico di naufraghi. Partiti da Tripoli due giorni fa, sono quarantuno persone a sbarcare: uomini provenienti da Bangladesh ed Egitto, cinque bambini, tre donne, almeno tre minori – o forse di più – ma solo questi confermati. Dal ponte della CP le persone scendono e cominciano a camminare lungo la striscia di cemento che li separa dal cancello, dove li attende il furgone della Croce Rossa, pronto a trasportarli all’hotspot. Il personale medico provvede subito a mettere una fascetta attorno al polso, a indicare se un qualunque tipo di patologia affligga queste persone. In genere, si tratta di scabbia. Stanotte una persona viene trasportata al poliambulatorio in barella: si è sentita male poco prima dell’arrivo a terra. Nulla di grave: è “solo” l’effetto di un viaggio estenuante in mare, senza acque, sotto il sole, in balia della corrente e delle preghiere che forse stavolta sono state ascoltate. Durante i primi scambi, il corpo si impone: ferite, piedi nudi, sguardi, movimenti raccontano in silenzio. L’odore arriva prima delle parole: un miscuglio acre di urina, sale marino e vomito. I vestiti sono zuppi, impregnati d’acqua e di viaggio. I piedi scalzi, bianchi di macerazione per le ore trascorse in acqua, raccontano di chilometri camminati e di ore immobili. Sfilano, timidi, esitanti. Stanotte, come sempre, mi sembrano vergognarsi dei nostri sguardi, dei vestiti bagnati, della miseria dei loro corpi. Noi volontari del forum lampedusano siamo in ultima postazione sul molo. PH: Tanja Boukal Siamo in quattro: proviamo ad accogliere in questo spazio ristretto, in un tempo che anche lui è di limite- limine, queste persone sfiancate dal viaggio, da quello che le ha precedute, dal deserto che hanno attraversato, dalle prigioni in cui sono stati forse detenute, dalle connection house che hanno incontrato nel percorso, e così a ritroso, fino ad arrivare al paese che li ha visti nascere. Distribuiamo the, acqua e ciabatte: il gesto si ripete, meccanico, ma ogni volta diverso perché tentiamo di lasciare loro spazio, di incontrarle, una per una. Un giovane egiziano fa da interprete improvvisato: non un mediatore ufficiale, ma un membro del gruppo che, per istinto, si mette a fare da ponte linguistico e culturale. Questa mediazione spontanea mostra come, anche in un contesto di vulnerabilità estrema come questo, possano emergere forme di auto-organizzazione e solidarietà interna. C’è una donna con un bambino piccolo portata subito al punto medico per accertamenti; sembra stare bene. I minori non accompagnati, egiziani, attendono in silenzio, scalzi come la maggior parte del gruppo. Sorridono, di risposta a un sorriso, dicono “grazie” a un semplice “Benvenuto. Sei al sicuro”. Una sicurezza momentanea, ma consolazione al viaggio appena lasciato alle spalle, in attesa di un altro che ricomincia. Parlo con un uomo. Dice di venire dall’Egitto. Alla domanda da dove sia partito, la risposta è secca: “Tripoli”. Poi il silenzio. Gli chiedo se sa dove si trovi. “Lapadusa”, pronuncia. Gli spiego il percorso che lo attende: da quest’isola alla Sicilia, poi un centro in Italia. Anche lui, come molti altri, non sa se vuole restare, parla di un altrove in Europa, dove ci sono familiari, connazionali, o solo un futuro immaginato che qui, sul molo, stanotte non si può spiegare. Un ragazzo chiede di sedersi. Fa segno che sta male e prima di poterlo allontanare dal gruppo, vomita bile. Il corpo si piega su se stesso. Cerchiamo di portarlo in un angolo protetto, lontano dagli sguardi perché la vergogna, in questi momenti, è quasi tangibile. Osservo altri che massaggiano le gambe. So che le traversate avvengono in posizioni forzate, con corpi incastrati tra loro, spesso dai trafficanti stessi. Muoversi durante il tragitto in mare è pericoloso: basta alterare l’equilibrio della barca per rischiarne il capovolgimento. Così le persone restano immobili per ore: l’assenza di movimento diventa dolore. Molti hanno lo sguardo perso, un’assenza che sembra protezione. Ma basta cercare i loro occhi perché, quasi sempre, succeda qualcosa: lo sguardo ritorna e spesso si allarga in un sorriso. Nel primo luogo di procedure e controlli, il contatto visivo agisce come atto di riconoscimento reciproco, interrompe la logica amministrativa dello sbarco, apre uno spazio di relazione tra chi arriva e chi accoglie. Stanotte, in risposta al freddo di questi uomini e in mancanza di vere coperte, tiriamo fuori quelle termiche: mantelline ripiegate con cui li copriamo. Lo facciamo per scelta: le apriamo, li avvolgiamo. Uno per uno: perché si mantenga un contatto autentico, perché sentano che sono persone e non numeri, perché la cura dell’altro questo prevede. In attesa di salire sul bus della Croce Rossa per il trasporto all’hotspot, alcune chiedono di andare in bagno. Non possono andarci sole, devono essere accompagnate per questioni di sicurezza, di controllo e gestione e per questo andiamo noi volontari del forum: per interrompere la circolarità di una violenza che ci è imposta e che obbliga uomini a tornare bambini, privati persino dell’autonomia di un gesto elementare come andare in bagno. Stanotte non ci autorizzano, perché le persone stanno per essere trasportate all’hotspot. “Possono aspettare. Avrebbero dovuto chiedere prima”. Corpi obbligati a un’attesa che un altro decide per loro. PH: Tanja Boukal Quando le persone sono in attesa di essere caricate sul pulmino della CRI per il trasferimento all’hotspot, le fila si rompono e l’ordine è meno evidente. Lo spazio è occupato in modo meno armonico e ordinato, nonostante la sorveglianza della polizia non si abbassi mai. Gli operatori, invece, si muovono in questo spazio. Il clima, generalmente si distende. Sono molte le persone in attesa che chiedono “Wi- Fi”: il bisogno evidente è quello di comunicare a chi è rimasto a casa di essere arrivato a destinazione ed essere sopravvissuto. Un uomo ci chiede di chiamare la famiglia: non ha il telefono. Parla un inglese stentato. Racconta in lacrime che ha lasciato sua figlia in Bangladesh, appena nata e che non ha potuto chiamare in questi mesi. Vuole avvisare per dire che ce l’ha fatta a bruciare queste frontiere, ad arrivare. La conversazione si chiude: il trasferimento all’hotspot non aspetta i tempi di una conversazione, di un bagno, una preghiera, di una confessione. Uno sbarco ha il tempo di cifre e urgenze vitali. Tutto il resto deve attendere. Solo negli interstizi di questo limine la relazione ha spazio per fiorire. Ed è lì, nella frontiera fragile tra controllo e accoglienza, che un operatore agisce perché un corpo migrante da numero diventi persona, perché uno sbarco si trasformi in approdo e la relazione, anche solo per un istante di confine, interrompa la catena della violenza. 1. In M. MARCHETTI, Il fondamento territoriale del potere di fronte alle trasformazioni spaziali globali, pubblicato sulla rivista Diritti fondamentali il territorio è condizione di esistenza delle strutture di potere; è forma spaziale ove l’uomo orienta i propri sensi, colloca, individua ed organizza le strutture della vita comune; esso ha un’intima essenza antropologica, essendo l’uomo stesso “un essere terrestre, un essere che calca la terra”, avvinto ad essa da un legame simbiotico che imprime unità ed identità al gruppo stesso. Gli antropologi definiscono tale legame ricorrendo all’espressione “imperativo territoriale”, per intendere quell’istinto o quella pulsione primordiale che spinge gli uomini (come anche gli animali) a difendere il territorio in forza di un sentimento possessivo, esclusivo ed escludente ↩︎
Un’altra strage nel Mediterraneo, lo stesso cinismo
Un’altra strage di persone migranti a sud di Lampedusa. Ventisette morti, tra cui una neonata e tre ragazzini. Novantasette persone partite, sessanta arrivate vive. Lo ricorda con chiarezza «Osservatorio Repressione»: è l’onda lunga della “dottrina Piantedosi”. Aspettare, calcolare, trasformare il soccorso in un’operazione di polizia. Il naufragio è avvenuto a 14 miglia a sud-ovest dell’isola, a due miglia dalle acque territoriali italiane. Due barconi partiti dalla costa libica, forse da Tripoli scrive nel suo comunicato la Guardia costiera italiana. Uno si riempie d’acqua, le persone si spostano sull’altro, che si ribalta a sua volta. Quando Guardia costiera e Guardia di finanza arrivano, lo scafo è già capovolto, i corpi già in mare. Eppure un aereo di Frontex sorvolava quell’area la sera prima. Non li ha visti? O le autorità italiane stavano preparando l’ennesima «operazione di contrasto all’immigrazione irregolare» in attesa che le barche entrassero nelle acque nazionali? Oppure le autorità si attendevano l’ennesimo respingimento? Come mai le due imbarcazioni sono passate inosservate?  Il giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura lo scrive senza mezzi termini: «Strage senza immagini: zero dalla Guardia Costiera in mare, zero dal porto di Lampedusa. Serve far passare “in cavalleria” questo ennesimo dramma. Parlarne al massimo mezza giornata, nascondere i corpi dei vivi e dei morti: evitare al governo un altro incubo stile Cutro». Il Comando della Guardia costiera si limita a un comunicato stringato, in violazione delle stesse procedure Sar nazionali che impongono la comunicazione pubblica delle operazioni di soccorso. Sapere se qualcuno era a conoscenza della situazione e non è intervenuto subito non è un dettaglio: significa stabilire se ci troviamo davanti a un’ennesima omissione di soccorso mascherata da «prontezza operativa». Nella serata del 14 agosto, la GC ha poi diffuso alle redazioni un comunicato con due brevi video: il primo mostra le operazioni di soccorso di ieri, con l’imbarcazione in vetroresina rovesciata; il secondo documenta i pattugliamenti di oggi alla ricerca dei dispersi. Immagini che arrivano solo a posteriori, quando il racconto e la percezione pubblica della strage sono già stati neutralizzati. Francesca Saccomandi di Mediterranean Hope è diretta: «Non sono tragedie ma morti annunciate, frutto di politiche di respingimento di cui i governi europei sono responsabili». Tra le salme ci sono un bambino di quattro anni e uno di appena un anno e mezzo. La madre di quest’ultimo ha perso nello stesso giorno marito e figlio. Un ragazzo ha visto morire il suo migliore amico, dopo otto anni di attesa in Libia. Perfino Flavio Di Giacomo dell’Oim è netto: «È inadeguato il pattugliamento, il soccorso, il salvataggio. Serve rafforzare il sistema europeo di pattugliamento, perché salva vite e porta le persone in un porto sicuro, non in Libia».  Sea Watch aggiunge: «Rabbia e frustrazione. È quello che sentiamo per l’ennesimo naufragio a poche miglia da Lampedusa. La nostra Aurora e altre Ong se indirizzate avrebbero potuto soccorrere le persone in pochi minuti. Qualcuno sapeva della presenza di quella barca?». E intanto l’aereo Seabird resta bloccato: avrebbe potuto avvistare le imbarcazioni e dare tempestivamente l’allarme, ma sarebbe stato un testimone scomodo del mancato soccorso. Le ultime notizie riportano che la procura di Agrigento ha aperto un fascicolo di indagine per “per naufragio colposo”. Per il governo Meloni, invece, la colpa è sempre e solo dei «trafficanti di esseri umani». Piantedosi ribadisce la necessità di «prevenire i viaggi in mare sin dai territori di partenza», mentre Meloni denuncia l’«inumano cinismo con cui i trafficanti organizzano questi loschi viaggi». Parole già pronte, buone per coprire le proprie responsabilità politiche. Ma quando il governo un vero trafficante e torturatore ce l’ha sotto mano, come nel caso Almasri, ricorda ancora «Osservatorio Repressione», lo rimanda velocemente in Libia con un volo di Stato. Il bollettino di guerra ha superato le 700 vittime nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno ad oggi. E si continuerà a contarle finché il mare resterà un confine da militarizzare e uno spazio di non soccorso, finché questo regime dei confini italiano ed europeo continuerà ad avvantaggiare altri amici trafficanti e a lasciare come unica via per arrivare in Europa quella del mare. Il resto è propaganda. E ipocrisia di chi è colpevole di queste morti.
f.Lotta: un’occupazione marittima contro il sistema dei confini
IL DESERTO DEL MEDITERRANEO CENTRALE Il Mediterraneo centrale è una delle rotte migratorie più letali al mondo, dove il razzismo delle politiche di frontiera dell’Unione Europea appare in modo evidente: oltre 25.000 persone sono morte dal 2014 1. I soldi dell’Unione Europea finanziano il controllo del confine, costruiscono centri di detenzione in Nord Africa e ostacolano gli sforzi delle navi ONG. La strategia ha dato i suoi frutti: lo stato ha espanso il proprio controllo in questa zona di frontiera, irregimentando la solidarietà in un quadro operativo che si conclude quasi sempre con la detenzione o l’assegnazione di un porto lontano per lo sbarco. Peggio ancora: la violenza frontaliera dello stato sta diventando invisibile. F.LOTTA f.Lotta è una chiamata dal basso a rifiutare questa situazione e il sistema mondo che l’ha normalizzata.  f.Lotta organizzerà una protesta in mare a sud di Lampedusa, riunendo il maggior numero possibile di imbarcazioni, per ripoliticizzare quello che oggi è un cimitero a cielo aperto. Vogliamo occupare il Mediterraneo centrale con la nostra solidarietà e resistenza collettiva, vogliamo riscattarlo dal regime dei confini. Barche provenienti da molti porti d’Italia e d’Europa convergeranno verso Lampedusa attraverso tappe logistico-politiche in diversi porti, per diffondere le idee di f.Lotta e creare connessioni con le realtà locali e le reti di solidarietà. La protesta in mare a sud di Lampedusa durerà 3 giorni, in un periodo compreso tra il 10 e il 20 settembre. Comprenderà due momenti di concentrazione vicino all’isola, una navigazione collettiva attraverso il confine meridionale dell’Unione Europea e commemorActions. OCOB: ONE CAMPAIGN ONE BOAT f.Lotta è una campagna di campagne. L’orizzonte politico comune di f.Lotta è la libertà di movimento. Gruppi politici e collettive a terra sostengono f.Lotta sviluppando campagne specifiche che arricchiscono una piattaforma politica condivisa a favore di un sistema diverso. Ogni barca di f.Lotta diventa testimone e portabandiera di una specifica campagna, portandola simbolicamente con sé durante l’azione in mare: se f.Lotta fosse un manifesto, ogni barca sarebbe una rivendicazione. Potete scoprire le campagne sul nostro sito web. F.LOTTINE E F.LOTTA DI TERRA f.Lotta vuole contrastare l’espansione dell’estrema destra e non si esaurisce con la protesta in mare a sud di Lampedusa. Le f.Lottine e la f.Lotta di terra sono ulteriori articolazioni dell’iniziativa, azioni di protesta parallele che collegano lo spazio del Mediterraneo centrale con altre città europee e altre aree di confine. Una f.Lottina è un’altra occupazione marittima o fluviale, mentre un’azione di f.Lotta di terra può assumere diverse forme: un’occupazione, una marcia, un sit-in davanti a un centro di deportazione. Crediamo che molteplici occupazioni di mare, di fiume e di terra siano necessarie per creare connessioni con realtà e lotte già esistenti, raggiungendo quante più persone possibile. Da quando l’Europa ha deciso di diventare una fortezza, ha accettato il rischio di un assedio collettivo. LA MARCIA DELLA SPERANZA f.Lotta rende omaggio e trae ispirazione da un momento che 10 anni fa sconvolse i rapporti di forza all’interno del sistema dei confini. A settembre 2015, migliaia di rifugiate iniziarono a camminare sulle autostrade dall’Ungheria verso la Germania. La loro azione spontanea e diretta aprì i confini interni dell’Unione Europea. Alcuni anniversari devono essere rumorosi. CHI SIAMO f.Lotta federa un gruppo molteplice di persone unite dalla convinzione che un orizzonte politico diverso sia possibile. Non siamo un’organizzazione istituzionalizzata. La protesta in mare apre il Mediterraneo centrale a forme di solidarietà e resistenza diverse rispetto al soccorso marittimo professionalizzato, riunendo persone, collettive, gruppi con o senza barche. Invita la società civile a rigettare ovunque il regime di frontiera, fino alle sue fondamenta: razzismo, colonialismo, capitalismo e patriarcato. CON O SENZA BARCA Qui potete leggere la nostra chiamata, con diversi modi per sostenere f.Lotta. Squattiamo il mare assieme! Contatti: https://flotta.noblogs.org F_Lotta@inventati.org https://www.instagram.com/f.lotta_ 1. Si veda: Missing Migrant Project ↩︎