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Lampedusa, 13 agosto: un’altra strage di frontiera
Il 13 agosto, al largo di Lampedusa, un’imbarcazione si è capovolta causando 23 morti accertati e tra le 15 e le 20 persone disperse. Non è un evento ineluttabile: è l’effetto diretto delle politiche europee di chiusura e di controllo, che continuano a negare la libertà di movimento nel Mediterraneo centrale 1. Notizie UN’ALTRA STRAGE NEL MEDITERRANEO, LO STESSO CINISMO Meloni e Piantedosi usano la strage per accusare i trafficanti e coprire le proprie responsabilità Redazione 15 Agosto 2025 Le persone che hanno perso la vita erano in cammino da Somalia, Egitto ed Etiopia. Non solo vittime di un naufragio, ma viaggiatori e viaggiatrici che affermavano, attraverso la traversata, il diritto a cercare una vita diversa, a muoversi liberamente, a resistere al regime di frontiera. Mem.Med ha affiancato le famiglie nei processi di identificazione, resi complessi dal sistema dei visti e dalla dispersione dei corpi nei cimiteri della provincia di Agrigento. Tra il 16 e il 19 agosto sono stati trasferiti 20 corpi, mentre gli ultimi 3 sono stati spostati il 25 agosto in un cimitero di un paese in provincia di Agrigento. Nei giorni successivi al naufragio del 13 agosto, il veliero Nadir della ONG tedesca RESQSHIP ha recuperato in mare i corpi di tre sorelle – di 9, 11 e 17 anni – successivamente sbarcati a Lampedusa insieme ai 71 sopravvissuti tratti da un gommone in difficoltà. Le bambine sono state identificate dalla madre e dal fratello, entrambi sopravvissuti al naufragio. Anche per loro non è garantita la sepoltura secondo il rito islamico. Le famiglie hanno espresso chiaramente il desiderio che i loro cari ricevano sepoltura secondo i riti islamici, in cimiteri musulmani o, quando non disponibili, almeno nella terra – secondo fede e tradizione. È un atto di dignità e di resistenza, che contrasta la volontà istituzionale di cancellare memoria e legami. Alle famiglie vengono imposti ostacoli nell’accesso ai processi di ricerca, identificazione e sepoltura. La dispersione dei corpi in diversi cimiteri rende difficile conoscere dove riposino i propri morti e impedisce un lutto collettivo. Questi non sono incidenti burocratici, ma atti di violenza sistemica, con cui il regime di frontiera mira a normalizzare la morte e a produrre oblio attorno alle stragi in mare. In continuità con questo impegno, il comunicato congiunto di metà luglio, firmato da Memoria Mediterranea insieme ad ASGI, Emergency e Sea-Watch, rilancia una richiesta urgente: “dare un nome alle vittime della migrazione recuperate nel Mediterraneo centrale”. Non si tratta solo di riconoscere identità, ma di restituire dignità ai morti e conforto ai loro cari, interrompendo la logica dell’oblio che le politiche di frontiera impongono. Questo appello, rivolto alle istituzioni e alla società civile, ribadisce che la memoria non è un rito astratto, ma un atto politico che restituisce soggettività e umanità a chi è stato ridotto al silenzio. Le pratiche suggerite comprendono esami forensi approfonditi, catalogazione accurata di oggetti, dati fisionomici e segni particolari, assegnazione di codici identificativi unici e sepoltura in luoghi rintracciabili, secondo le raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 2024. Questa strage è il risultato delle politiche europee in materia di migrazione e asilo: respingimenti, assenza di canali di ingresso sicuri, gestione securitaria delle frontiere e sistema dei visti sono scelte deliberate che producono morte e sofferenza. Ma le persone migranti che attraversano il mare non sono soltanto vittime di queste violenze: sono soggetti politici che affermano il diritto a muoversi, resistono ai confini e rivendicano la propria libertà. In questo contesto, l’operato di Mem.Med è un lavoro di riconoscimento, memoria e affiancamento alle lotte dei familiari e dei sopravvissuti, contro l’oblio imposto dalle istituzioni e dai governi europei. «Vogliamo ringraziare» – scrive l’associazione – «due fratelli somali che hanno perso i loro cari, nostri compagni di lotta in queste ore. Con loro abbiamo guardato frammenti di morte e di vita, memorizzando volti e nomi. Lasciandoci con una promessa: Né perdono, né oblio». 1. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) 370 persone hanno perso la vita e 300 risultano disperse fino al 9 agosto del 2025 nel Mediterraneo centrale ↩︎
Un’altra strage nel Mediterraneo, lo stesso cinismo
Un’altra strage di persone migranti a sud di Lampedusa. Ventisette morti, tra cui una neonata e tre ragazzini. Novantasette persone partite, sessanta arrivate vive. Lo ricorda con chiarezza «Osservatorio Repressione»: è l’onda lunga della “dottrina Piantedosi”. Aspettare, calcolare, trasformare il soccorso in un’operazione di polizia. Il naufragio è avvenuto a 14 miglia a sud-ovest dell’isola, a due miglia dalle acque territoriali italiane. Due barconi partiti dalla costa libica, forse da Tripoli scrive nel suo comunicato la Guardia costiera italiana. Uno si riempie d’acqua, le persone si spostano sull’altro, che si ribalta a sua volta. Quando Guardia costiera e Guardia di finanza arrivano, lo scafo è già capovolto, i corpi già in mare. Eppure un aereo di Frontex sorvolava quell’area la sera prima. Non li ha visti? O le autorità italiane stavano preparando l’ennesima «operazione di contrasto all’immigrazione irregolare» in attesa che le barche entrassero nelle acque nazionali? Oppure le autorità si attendevano l’ennesimo respingimento? Come mai le due imbarcazioni sono passate inosservate?  Il giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura lo scrive senza mezzi termini: «Strage senza immagini: zero dalla Guardia Costiera in mare, zero dal porto di Lampedusa. Serve far passare “in cavalleria” questo ennesimo dramma. Parlarne al massimo mezza giornata, nascondere i corpi dei vivi e dei morti: evitare al governo un altro incubo stile Cutro». Il Comando della Guardia costiera si limita a un comunicato stringato, in violazione delle stesse procedure Sar nazionali che impongono la comunicazione pubblica delle operazioni di soccorso. Sapere se qualcuno era a conoscenza della situazione e non è intervenuto subito non è un dettaglio: significa stabilire se ci troviamo davanti a un’ennesima omissione di soccorso mascherata da «prontezza operativa». Nella serata del 14 agosto, la GC ha poi diffuso alle redazioni un comunicato con due brevi video: il primo mostra le operazioni di soccorso di ieri, con l’imbarcazione in vetroresina rovesciata; il secondo documenta i pattugliamenti di oggi alla ricerca dei dispersi. Immagini che arrivano solo a posteriori, quando il racconto e la percezione pubblica della strage sono già stati neutralizzati. Francesca Saccomandi di Mediterranean Hope è diretta: «Non sono tragedie ma morti annunciate, frutto di politiche di respingimento di cui i governi europei sono responsabili». Tra le salme ci sono un bambino di quattro anni e uno di appena un anno e mezzo. La madre di quest’ultimo ha perso nello stesso giorno marito e figlio. Un ragazzo ha visto morire il suo migliore amico, dopo otto anni di attesa in Libia. Perfino Flavio Di Giacomo dell’Oim è netto: «È inadeguato il pattugliamento, il soccorso, il salvataggio. Serve rafforzare il sistema europeo di pattugliamento, perché salva vite e porta le persone in un porto sicuro, non in Libia».  Sea Watch aggiunge: «Rabbia e frustrazione. È quello che sentiamo per l’ennesimo naufragio a poche miglia da Lampedusa. La nostra Aurora e altre Ong se indirizzate avrebbero potuto soccorrere le persone in pochi minuti. Qualcuno sapeva della presenza di quella barca?». E intanto l’aereo Seabird resta bloccato: avrebbe potuto avvistare le imbarcazioni e dare tempestivamente l’allarme, ma sarebbe stato un testimone scomodo del mancato soccorso. Le ultime notizie riportano che la procura di Agrigento ha aperto un fascicolo di indagine per “per naufragio colposo”. Per il governo Meloni, invece, la colpa è sempre e solo dei «trafficanti di esseri umani». Piantedosi ribadisce la necessità di «prevenire i viaggi in mare sin dai territori di partenza», mentre Meloni denuncia l’«inumano cinismo con cui i trafficanti organizzano questi loschi viaggi». Parole già pronte, buone per coprire le proprie responsabilità politiche. Ma quando il governo un vero trafficante e torturatore ce l’ha sotto mano, come nel caso Almasri, ricorda ancora «Osservatorio Repressione», lo rimanda velocemente in Libia con un volo di Stato. Il bollettino di guerra ha superato le 700 vittime nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno ad oggi. E si continuerà a contarle finché il mare resterà un confine da militarizzare e uno spazio di non soccorso, finché questo regime dei confini italiano ed europeo continuerà ad avvantaggiare altri amici trafficanti e a lasciare come unica via per arrivare in Europa quella del mare. Il resto è propaganda. E ipocrisia di chi è colpevole di queste morti.
Naufragio di Cutro: quattro finanzieri e due militari della guardia costiera rinviati a giudizio
A due anni e mezzo dal naufragio di Steccato di Cutro, che costò la vita ad almeno 94 persone – tra cui 35 minori – arriva un primo passo concreto per la ricerca di verità e giustizia: sei militari, quattro appartenenti alla Guardia di Finanza e due alla Guardia Costiera, sono stati rinviati a giudizio con le accuse di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Lo ha deciso la giudice per l’udienza preliminare di Crotone, Elisa Marchetto, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Pasquale Festa. Secondo quanto riporta l’ANSA, tra gli imputati figurano Giuseppe Grillo, capo turno della sala operativa del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia; Alberto Lippolis, comandante del Roan; Antonino Lopresti, ufficiale in comando tattico; Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto. Con loro, a processo andranno anche Francesca Perfido, ufficiale in servizio a Roma, e Nicola Nania, che era di turno nel Comando regionale della Capitaneria di porto di Reggio Calabria la notte della strage. L’avvio del processo è previsto per il 14 gennaio 2026 davanti al Tribunale di Crotone. Il procedimento giudiziario ruota attorno alla mancata attivazione del Piano Sar (Search and Rescue) nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, quando il caicco Summer Love si spezzò a pochi metri dalla costa calabrese con a bordo persone provenienti perlopiù da Afghanistan, Iran, Siria e Pakistan. Le trasmissioni di Radio Melting Pot (Non) È Stato il mare. A un anno dalla strage di Cutro Play Episode Pause Episode Mute/Unmute Episode Rewind 10 Seconds 1x Fast Forward 10 seconds 00:00 / 29:00 Subscribe Share RSS Feed Share Link Embed Scarica file | Ascolta in una nuova finestra | Durata: 29:00 | Registrato il 26 Febbraio 2024 A salutare con favore il rinvio a giudizio sono le sei Ong Emergency, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS Mediterranee, tutte ammesse parte civile nel processo. In una dichiarazione congiunta affermano: «Con il rinvio a giudizio si avvicina la possibilità di ottenere verità e giustizia». Le organizzazioni fin dal primo momento avevano denunciato una catena di gravi omissioni nelle operazioni di salvataggio: «I tempi sono fondamentali per la buona riuscita delle operazioni di soccorso, per questo i ritardi nell’attivare interventi di salvataggio non sono un incidente ma una negligenza, che non può restare impunita. In questo caso specifico le autorità italiane hanno ignorato il loro dovere di soccorso e l’omissione ha avuto conseguenze drammatiche». Soprattutto, oggi, chiamano in causa anche i livelli superiori della catena di comando e rilanciano un appello: «Non è accettabile e non si deve più consentire che i responsabili di questo come di altri naufragi restino impuniti mentre le persone continuano ad annegare. Il diritto internazionale, la tutela della vita e il dovere di soccorrere chi è in difficoltà in mare devono essere rispettati sempre, anche nel Mediterraneo». Infine, chiedono «di porre immediatamente fine alla criminalizzazione delle persone in movimento e di ripristinare efficaci operazioni di ricerca e soccorso in mare, auspicabilmente anche con una missione europea dedicata». Le prossime udienze rappresentano quindi un momento cruciale non solo per accertare le responsabilità individuali, ma anche per far luce sulle responsabilità politiche e sulle pressioni esercitate dall’alto su un sistema generale di soccorso ormai da anni ostaggio di scelte politiche che ne hanno progressivamente limitato capacità e volontà di intervento.