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Strage di Pylos: al via l’azione penale contro i vertici della Guardia Costiera greca
Un comunicato congiunto di sei importanti organizzazioni greche 1 ha annunciato una svolta decisiva nell’inchiesta sul naufragio di Pylos: la Procura d’appello ha accolto i ricorsi presentati dai sopravvissuti e ha aperto un procedimento penale contro quattro alti ufficiali della Hellenic Coast Guard, tra cui l’attuale comandante. Secondo le organizzazioni firmatarie, «la decisione della Procura d’appello ribalta l’archiviazione disposta dal procuratore del Tribunale Navale del Pireo e riconosce la gravità delle omissioni denunciate dai sopravvissuti che avevano presentato ricorso contro l’archiviazione». Gli indagati dovranno rispondere di omissione di soccorso, esposizione a pericolo e omicidio colposo. Il provvedimento stabilisce che saranno contestati «reati gravi e ripetuti» e nello specifico: «a) esposizione seriale per mancato adempimento dell’obbligo legale di soccorrere e assistere persone in pericolo, che ha causato la morte delle vittime; b) esposizione seriale di altre persone per mancato adempimento dell’obbligo legale di soccorrerle e lasciarle indifese; c) omicidio colposo per negligenza per mancato adempimento seriale degli obblighi legali». Le organizzazioni ricordano inoltre che il 16 maggio 2025 era già stato avviato un procedimento penale «contro 17 membri della Guardia Costiera, tra cui alti ufficiali del comando e l’ex capo», un’inchiesta che era stata trasmessa al giudice istruttore competente. Notizie STRAGE DI PYLOS: INDAGATI 17 MEMBRI DELLA GUARDIA COSTIERA GRECA «A due anni dal naufragio, un primo, sostanziale passo verso la giustizia» Redazione 19 Giugno 2025 La nuova decisione conferma molti dei punti sollevati sia nelle denunce sia nei ricorsi dei sopravvissuti, che hanno più volte affermato che «le autorità non solo non sono intervenute tempestivamente, ma hanno messo ulteriormente a rischio le persone a bordo». Secondo l’ordinanza del Procuratore della Corte d’Appello e come sottolineato dai sopravvissuti nelle loro denunce e ricorsi: “[…] è chiaro che le condizioni del peschereccio Adriana erano precarie fin dall’inizio […] la situazione è gradualmente peggiorata e, per quanto riguarda i passeggeri, questi fatti sono stati confermati e sono apparsi chiari fin dall’inizio dell’incidente a tutti coloro che prestavano servizio nel Centro di coordinamento congiunto delle operazioni di soccorso (JRCC) e a tutta la gerarchia (coinvolta nella sua gestione), tuttavia non è stata attivata alcuna operazione di soccorso o di prevenzione dei rischi (l’incidente non è stato nemmeno classificato come “allerta”, ovvero al secondo livello di rischio previsto dalla Convenzione internazionale SAR) durante la prima fase dell’incidente, ovvero dalle ore 11:00 del 13-06-2023 (quando il Centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano ha segnalato per la prima volta l’esistenza della nave sovraccarica) fino all’arrivo della nave P.P.L.S.-920 nella zona […]“. Nel frattempo: “[…] si può dedurre che tra la nuova immobilizzazione del peschereccio e il suo capovolgimento, ci sia stato un intervallo di mezz’ora durante il quale il JRCC non ha emesso l’ordine di inviare un MAYDAY, attenendosi alla sua decisione, durante tutta la gestione dell’incidente, che non fosse necessaria un’operazione di soccorso immediata. In questo modo, si è perso tempo prezioso, compromettendo le possibilità di sopravvivenza dei naufraghi, in un momento in cui le azioni del Centro e della nave PPLS 920 rivelano la consapevolezza dell’imminente pericolo di capovolgimento […]”. “[…] i quattro (4) ufficiali […] hanno partecipato attivamente alla gestione dell’incidente, poiché sono stati costantemente e personalmente informati dei suoi sviluppi, hanno partecipato alle riunioni per valutare e pianificare le azioni necessarie e, infine, hanno approvato (come essi stessi ammettono) le decisioni che sono state prese, ciascuno di loro avendo [….] un obbligo giuridico indipendente di proteggere la vita in mare e, per estensione, un obbligo giuridico specifico di soccorso (dato che hanno concordato o almeno condiviso le decisioni specifiche che sono state prese), e qualsiasi deviazione o mancato adempimento di tale obbligo stabilisce la loro responsabilità penale indipendente […], mentre, in altre parole, “[…] avrebbero dovuto rendersi conto, sulla base della loro esperienza, del loro ruolo, delle loro conoscenze specialistiche e delle informazioni a loro disposizione, che si trattava di una nave in pericolo, ma non hanno intrapreso le azioni necessarie e prescritte per classificare la nave come nave in pericolo e attivare i piani operativi prescritti e appropriati [come, ad esempio, Memoranda/Schede operative n. 1 “Nave in pericolo (indipendentemente dalla bandiera) all’interno della SRR greca” e n. 13 “Incidente grave”, ecc.] per il salvataggio delle persone a bordo della nave [….]“. Le organizzazioni fanno notare la valutazione inclusa nella disposizione relativa alla causa del ribaltamento e dell’affondamento della nave, secondo la quale: ”[…] Questa versione del traino (in combinazione con l’ammissione da parte dei membri della nave P.P.L.S. 920 di aver utilizzato una fune – indipendentemente dal fatto che non ammettano che ciò sia stato fatto a scopo di traino o che non sia stato menzionato dai presenti al JRCC nella fatidica notte) è più convincente e plausibile, dato che, d’altra parte (la Guardia Costiera), non viene fornita alcuna spiegazione dettagliata e convincente per l’improvviso (altrimenti) capovolgimento e affondamento del peschereccio. [….] Dato che il mare era calmo, non c’erano navi commerciali di passaggio (che avrebbero potuto causare grandi onde), i movimenti improvvisi e massicci dei passeggeri all’interno del peschereccio (sia verso l’alto che orizzontalmente, a destra o a sinistra) erano quasi impossibili (a causa del sovraffollamento e del relativo divieto di movimento, come spiegato sopra) ma anche ingiustificati, l’improvviso e potente traino da parte della nave della Guardia Costiera sembra essere l’unica causa possibile e attiva che ha portato il peschereccio a compiere (in quel particolare momento) le due brusche virate (a sinistra e a destra), impedendogli di riprendersi e causandone il ribaltamento. […]”. Gli avvocati delle organizzazioni e dei collettivi che rappresentano i sopravvissuti e le famiglie delle vittime della strage hanno espresso «piena soddisfazione per l’accoglimento dei ricorsi e per l’estensione del procedimento penale nei confronti dei quattro alti ufficiali della Guardia Costiera, il cui caso era stato inizialmente archiviato». Infine, considerano «il rinvio a giudizio per reati gravi di 21 membri della Guardia Costiera, compresi i suoi attuali e precedenti capi e altri alti ufficiali, nonché le conclusioni della Procura della Corte d’Appello, uno sviluppo sostanziale e evidente nel processo di rivendicazione delle vittime e di giustizia». 1. Le organizzazioni: Network for the Social Support of Refugees and Migrants; Greek League for Human Rights; Greek Council for Refugees (GCR); Initiative of Lawyers and Jurists for the shipwreck of Pylos; Refugee Support Aegean (RSA); Legal Centre Lesvos ↩︎
“Desaparecer” in gruppo: le rotte migratorie marittime del Chiapas
Il 21 dicembre del 2024, 40 persone migranti di varie nazionalità sono state fatte desaparecer in mare aperto, di fronte alle coste del Chiapas, nel sud del Messico. La rotta marittima che doveva portarle varie centinaia di chilometri più a nord, si è rivelata una trappola “che le/li ha inghiottiti” senza lasciarne traccia. 10 mesi di vuoto da parte delle istituzioni hanno convinto madri, nonne, sorelle ad alzare le loro voci, perché risuonino al di là di tutte le frontiere, in una conferenza stampa che si è tenuta il 25 ottobre 2025. Le madri delle persone desaparecidas LE AUTORITÀ MESSICANE: UN MURO DI INDIFFERENZA, SILENZIO E NEGLIGENZA «Dopo la desaparición dei nostri figli, ci siamo scontrate con un muro di indifferenza, silenzio e negligenza da parte delle autorità messicane… Per vari mesi ci siamo sentite sole, prive di protezione e disperate… Siamo andate di ufficio in ufficio, abbiamo presentato denunce, ma le nostre voci non sono state ascoltate… L’immobilismo delle Procure non solo ci impedisce di trovare i nostri figli, ma perpetua l’impunità e permette che si continuino a commettere ingiustizie… La vita di un migrante non vale, la sua desaparición non merita un’investigazione… Quanti altri sogni devono sparire perché qualcuno faccia qualcosa? … Esigiamo l’immediato inizio di ricerche esaustive e trasparenti, sulla desaparición dei nostri figli e di tutti gli altri migranti fatti sparire in Messico» Sono i frammenti di un solo discorso corale, pronunciati da Alicia, Margarita, Lázara, Isis, Elizabeth, Graciela, Lilian, 7 donne familiari di persone migranti cubane e un honduregno, vittime di una desaparición in massa in Chiapas, Messico, in un tratto marittimo della rotta verso gli USA. Per loro è arrivato il momento della denuncia pubblica, con dolore, rabbia e con indignazione. Parlano anche a nome di altre madri dell’Ecuador y del Perù che si stanno appena scoprendo e riconoscendo come parte del gruppo. DESAPARECER LONTANO, CERCARE “A DISTANZA“ Come si fa la ricerca “a distanza”? È la domanda che attraversa, come un filo invisibile, la conferenza stampa organizzata lo scorso 25 ottobre da sei madri e nonne cubane e da una sorella honduregna. Collegate da Cuba e dagli Stati Uniti, con computer, videocamere, schermi e un link di Meet, hanno dato una risposta concreta a quella domanda, dialogando con giornalisti, giornaliste e persone solidali riunite in Messico, Spagna e Italia. Hanno raccontato il loro calvario, iniziato il 21 dicembre 2024: la disperata ricerca dei propri cari scomparsi a migliaia di chilometri di distanza, in un paese che da decenni rappresenta la frontiera verticale degli Stati Uniti. Un paese latinoamericano in cui, paradossalmente, a chi proviene dal resto dell’America Latina è “vietato l’accesso”, perché – secondo la logica del suprematismo bianco al potere negli USA – rappresenterebbe una minaccia per la sicurezza nazionale. È il 21 dicembre 2024, a San José el Hueyate, un’oasi tropicale sulla costa del Chiapas. Alle 8:14 del mattino, un gruppo di 23 persone – che ha trascorso la notte in una casa di sicurezza a pochi metri dal mare – viene condotto sulla spiaggia e fatto salire su un motoscafo diretto verso il mare aperto. L’imbarcazione attraversa la “barra”, il punto in cui si scontrano la forza delle correnti marine e quella del fiume che preme per uscire. Poco dopo, un secondo motoscafo accoglie un’altra ventina di persone, anche loro provenienti dallo stesso villaggio. In tutto, più di quaranta persone imbarcate. La rotta marittima era stata scelta per evitare i numerosi posti di blocco lungo i 400 chilometri di strada che separano Tapachula da Juchitán, nello stato di Oaxaca: una decisione apparentemente prudente, ma che per molti si rivelerà una brusca e inquietante sorpresa, poiché avevano pattuito un viaggio via terra, in un veicolo considerato sicuro. Sin dalla mattina presto ognuno ha aggiornato la propria famiglia. Le mamme, rimaste a casa, ricordano: «Mamma, va tutto bene, sto aspettando» mamma, abbi cura di Lulú (la cagnetta)» Frasi semplici, quotidiane, come in una qualunque mattina di viaggio: un saluto, una rassicurazione, un piccolo frammento di normalità. «Mamma, Lorena ed io partiamo con gli ultimi 20» «Mamma, facciamo colazione e poi speriamo di andarcene da qui» E sì, se ne sono andati. Hanno lasciato quelle spiagge tra lagune e mangrovie – paesaggi da dépliant di vacanze ai tropici – che però sono tristemente note per essere un nodo strategico dei traffici dei cartelli in questa zona di frontiera. L’INUTILITÀ DELLA TECNOLOGIA Una delle persone migranti aveva sul telefono un’app che permetteva ai familiari di seguirne, passo dopo passo, gli spostamenti. Grazie a questo, si conoscono i movimenti del gruppo negli ultimi giorni prima della desaparición. Alle 8:25 si registra l’ultima geolocalizzazione: il segnale li colloca in mare aperto. Poi, all’improvviso, la tecnologia diventa inutile – il segnale svanisce, i telefoni tacciono. Se ne sono andati, ma nessuno sa dove. Come dice Graciela, “Sembra che la terra li abbia ingoiati”. I cellulari non si riaccendono più, e alle famiglie restano soltanto quelle ultime parole. Samei è il più giovane: ha solo 14 anni. Sua nonna paterna, Lázara, racconta che “è l’unico ricordo che mi rimane di mio figlio Santiago, morto tre anni e cinque mesi fa”. Viaggia insieme a sua madre, Meiling, 41 anni. Elianis ha appena compiuto 18 anni, ma mostra una determinazione sorprendente. Jorge Alejandro ha 23 anni, Dayranis 31, Lorena 28. Tutti sognano di raggiungere gli Stati Uniti, dove qualcuno li attende per riprendere progetti di vita sospesi da tempo, a volte per anni. Provengono da diversi angoli di Cuba – da L’Avana, dalla provincia di Matanzas, da Santiago de Cuba, l’antica capitale, e da Camagüey. Ma non ci sono solo cubani tra loro: c’è anche Ricardo, 32 anni, originario del dipartimento honduregno di Yoro; Karla, 28 anni, anche lei honduregna; e Jefferson Stalin, 21 anni, dell’Ecuador. Tutte e tutti sono vittime del trumpfascismo. Alcune persone del gruppo avevano richiesto il “parole” umanitario 1, una delle poche vie ancora possibili per entrare negli Stati Uniti in modo “regolare”, ma avevano ricevuto solo silenzio o un secco rifiuto. Avevano fretta, consapevoli che, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, ogni tentativo di raggiungere gli Stati Uniti – per vie legali o irregolari – sarebbe diventato impossibile. Sapevano anche che il diritto di chiedere asilo, un tempo relativamente accessibile almeno per chi proveniva da Cuba, sarebbe stato spazzato via dalla nuova amministrazione. MESSICO SELVAGGIO Il loro viaggio si è svolto lungo una delle nuove rotte migratorie, che cambiano di continuo. Un percorso tortuoso, fatto di voli alternati a lunghi tratti via terra, attraverso numerosi paesi del Sud e del Centro America, fino a raggiungere Tapachula, in Chiapas. Fino a quel punto, per tutte e tutti, il viaggio procede senza grandi ostacoli. Ma a Tapachula l’atmosfera si fa più tesa: si avverte la presenza dei cartelli, anche se i gesti quotidiani – a volte persino gentili – di alcuni operatori che controllano o spostano i migranti riescono a bilanciare, almeno in parte, le paure e le inquietudini che affiorano nei messaggi inviati ai familiari. Il gruppo cubano, unito e solidale, rappresenta per ciascuno una fonte di forza e di rassicurazione. All’inizio, l’interruzione del contatto telefonico non desta troppa preoccupazione: capita spesso, durante viaggi così incerti. Ma con il passare delle ore, e soprattutto la sera, il nervosismo delle famiglie cresce. Le rassicurazioni dei coyotes non bastano più a placare l’ansia, e le versioni che circolano nei giorni successivi, invece di portare sollievo, aumentano la paura: il gruppo sarebbe stato fermato dall’Istituto Nazionale di Migrazione (INM), o dalla Marina, o dalla polizia nazionale; oppure – si dice – sarebbe caduto nelle mani della delinquenza organizzata, o avrebbe persino naufragato. Poi, poco a poco, i coyotes smettono di rispondere a chiamate e messaggi, recidendo l’unico filo che sembrava poter ricondurre alle persone scomparse. Quando le famiglie iniziano le ricerche attraverso i social network, scatta la trappola crudele delle estorsioni. Per circa un mese ricevono chiamate continue, minacce di ogni tipo, manipolazioni del dolore e della disperazione: tutto per spingerle a pagare migliaia di dollari, senza mai una prova di vita. È stato un processo durissimo, imparato da sole e in fretta. “All’inizio – racconta una delle madri – non sapevamo cosa fare né a chi rivolgerci, eravamo completamente sole.” Eppure, fin dall’inizio, l’iniziativa è rimasta nelle mani delle madri e delle famiglie, che solo in un secondo momento hanno trovato sostegno in alcune organizzazioni della società civile. RICONOSCERSI ED AGIRE IN COLLETTIVO Già a dicembre, nella ricerca sulle reti sociali, madri, sorelle, mariti, padri iniziano ad incontrarsi, a riconoscersi come parte dello stesso incubo ed a pensare ed agire insieme. Si cominciano ad organizzare creando un gruppo di whatsapp. Il 31 dicembre viene contattata per la prima volta la console di Cuba a Veracruz che, in seguito, informerà la Procura Speciale delle persone migranti di Chiapas dei fatti avvenuti il 21 dicembre, ma senza ricevere alcuna risposta. Da quel momento le famiglie hanno utilizzato tutti i mezzi possibili per denunciare e chiedere sostegno. Hanno intrapreso lunghi viaggi dalle proprie comunità per recarsi di persona presso gli uffici competenti dei loro paesi – dai Ministeri degli Esteri alle direzioni consolari – e hanno inviato innumerevoli email e fatto altrettante telefonate alle istituzioni messicane, nonostante le enormi difficoltà di comunicazione 2. Hanno presentato denunce e richiesto l’attivazione delle Commissioni di Ricerca: quella nazionale (Comisión Nacional de Búsqueda, CNB) e quella statale del Chiapas (Comisión Estatal de Búsqueda, CEB). Le segnalazioni sono partite da Cuba, dal Brasile, dagli Stati Uniti e dal Messico. Si sono rivolte anche alla Procura statale del Chiapas e successivamente alla Commissione Nazionale per i Diritti Umani (CNDH). Hanno contattato una corrispondente del quotidiano spagnolo El País, che ha pubblicato un ampio reportage sulla desaparición di massa del 21 dicembre 2024 3. Con l’assistenza legale della Fondazione per la Giustizia e per lo Stato Democratico di Diritto (Fiscalía Especial de investigación de delitos relacionados con personas migrantes y refugiadas de la Fiscalía General de la República – FJEDD), l’11 aprile 2025 hanno presentato una denuncia collettiva alla Procura Speciale per i delitti contro persone migranti e rifugiate, all’interno della Procura Generale della Repubblica (FGR). Di fronte al silenzio e all’inerzia delle istituzioni nazionali, le famiglie si sono rivolte al Comitato delle Nazioni Unite contro la Sparizione Forzata (CED), chiedendo l’attivazione di azioni urgenti e sollecitando i governi del Messico e dei paesi d’origine ad avviare indagini e ricerche effettive. In questi dieci mesi interminabili, le madri non hanno mai smesso di cercare. Prive di protezione istituzionale, si sono esposte a rischi enormi e hanno affrontato da sole ogni tipo di difficoltà logistica ed economica. Grazie al loro impegno instancabile, hanno fornito nelle denunce informazioni dettagliate e preziose sugli ultimi giorni trascorsi in Chiapas – fino alle fatidiche 8:25 del mattino del 21 dicembre – dati che, purtroppo, le autorità hanno ignorato, rendendoli oggi, a quasi un anno di distanza, praticamente inutilizzabili. LA RETE REGIONALE DI FAMIGLIE MIGRANTI Il contatto con la Red Regional de Familias Migrantes 4 è più recente ed è servito prima di tutto a fare un bilancio della situazione: la mancanza di un’indagine efficace, di collaborazione tra le autorità coinvolte, e di comunicazione con le famiglie. Ne sta prendendo corpo una nuova strategia che ha già dato luogo a varie iniziative. Per la prima volta, le madri e altri familiari si sono riuniti con rappresentanti della Procura Generale della Repubblica (FGR) e della Commissione Nazionale di Ricerca (CNB), per chiarire se esista un’indagine ufficiale e conoscerne gli esiti aggiornati. Hanno inoltre chiesto nuove azioni di ricerca e d’investigazione, una reale coordinazione tra tutte le istituzioni coinvolte – a livello nazionale e internazionale – e la partecipazione diretta e costante delle famiglie. Su questi punti, la FGR e la CNB hanno assunto impegni espliciti. LE DESAPARICIONES DI MASSA DI MIGRANTI: UNA PRATICA ORMAI COMUNE SULLE COSTE DEL CHIAPAS? La conferenza stampa del 25 ottobre nasce all’interno di questa strategia collettiva: un momento in cui le madri hanno deciso di prendere la parola pubblicamente, per squarciare il velo di silenzio che ancora nasconde all’opinione pubblica fatti tanto gravi. Fatti che avvengono in un territorio, quello del Chiapas, dove la presenza della delinquenza organizzata e la violenza sistematica contro le persone migranti sono realtà note da decenni – ma dove, fino a poco tempo fa, le desapariciones di massa erano un fenomeno inedito. Questi episodi segnano una svolta nella gestione criminale delle rotte migratorie alla frontiera sud del Messico. Negli ultimi mesi, infatti, sono emerse nuove segnalazioni di sparizioni collettive nella stessa area costiera del Chiapas, come quella di 23 migranti scomparsi il 5 settembre 2025. Tutto lascia pensare che si tratti ormai di una pratica ricorrente nella regione. Le madri chiedono l’appoggio della presidenta del Messico, Claudia Sheinbaum, affinché si assuma la responsabilità politica di quanto sta accadendo. Ana Enamorado, fondatrice della Red de Familias de Personas Desaparecidas, commenta: > «Claudia Sheinbaum deve sapere che qui stanno facendo desaparecer le persone > in gruppo», forse alludendo ai 133.427 casi ufficialmente registrati di sparizione forzata 5, un numero che il governo sembra intenzionato, se non a occultare, quantomeno a minimizzare. Enamorado aggiunge: «Ma il messaggio deve arrivare anche a chi sa dove sono le persone scomparse, a chi oggi controlla le loro vite». TROVARE I NOMI CHE MANCANO La conferenza stampa del 25 ottobre coincide con il quarto anniversario della Red, celebrato il 15 e il 23 ottobre. A questo proposito, Sandra Odette Gerardo, collaboratrice solidale della rete sin dalla sua fondazione, afferma: «Non vorremmo nemmeno che la Rete esistesse, invece ogni anno le desapariciones aumentano… e sono sempre di più le persone che si avvicinano al nostro collettivo». Il gruppo iniziale del 21 dicembre 2024 – già cresciuto con le famiglie provenienti da Honduras, Ecuador e Perù – sa che resta un passo fondamentale da compiere: identificare una trentina di giovani migranti tuttora senza nome, scomparsi nello stesso episodio. Un lavoro necessario per spezzare la maledizione che colpisce le persone migranti, costrette a desaparecer due volte: la prima in mare o lungo la rotta, la seconda nel silenzio, quando nessuno notifica la loro assenza e nessun registro ufficiale ne riconosce la scomparsa. Il prossimo passo sarà rintracciare le loro famiglie e coinvolgerle in questa battaglia per la verità e la giustizia, per – come dicono le madri – «…obbligare le autorità messicane, ma anche quelle dei paesi d’origine delle persone scomparse, a fare il loro lavoro e ad assumersi le proprie responsabilità». IL DIRITTO DELLE FAMIGLIE A CERCARE A una domanda sul possibile coinvolgimento delle famiglie nella ricerca sul terreno, la prima risposta, spontanea, di diverse madri è netta: non vogliono farlo. > «Non vogliamo che sia necessario. Vogliamo che le nostre ragazze e i nostri > ragazzi compaiano subito…» Poi, dopo un silenzio, Lilian aggiunge: «…ma se questo non succederà, siamo disposte ad andare fino in capo al mondo per cercarlə». Perché questo sia possibile, spiega Sandra Odette Gerardo, le autorità devono riconoscere alle famiglie il diritto di cercare le persone scomparse, senza alcuna distinzione di nazionalità o status migratorio – così come stabilito dal diritto internazionale e dalle leggi messicane. In concreto, è necessario che le madri e gli altri familiari del gruppo del 21 dicembre vengano riconosciuti come vittime indirette, affinché nel 2026 si possa organizzare una brigata internazionale di ricerca in Chiapas, con l’appoggio del governo. Solo così potranno recarsi nei luoghi dove le persone amate hanno trascorso gli ultimi giorni prima di essere inghiottite dalla rotta migratoria, per raccogliere informazioni, tracce, nuove piste su cui spingere le autorità a indagare – fino a trovare e riportare a casa chi oggi manca all’appello. LE VITE DELLE PERSONE MIGRANTI DESAPARECIDAS VALGONO Le madri sanno che la loro lotta va ben oltre la ricerca dei propri familiari. È una battaglia contro le politiche migratorie che producono morti e sparizioni di frontiera in tutto il mondo. Hanno chiaro che gli obiettivi di verità e giustizia sono inseparabili dal principio della non ripetizione: «La desaparición dei nostri figli e di tanti altri migranti è una tragedia che non possiamo ignorare. Non è un caso individuale, ma il riflesso della grave crisi umanitaria che vivono i migranti in Messico e nel resto del mondo. Non possiamo permettere che altre famiglie soffrano questa agonia». Le madri promettono una tenacia instancabile, per difendere e affermare i valori più profondi e radicali della solidarietà e dell’umanità: > “…Non permetteremo che i loro sogni diventino statistiche dimenticate. > La loro assenza è una ferita aperta nel cuore delle loro famiglie e > dell’umanità.” La logica dei governi e delle istituzioni deve cambiare. Perché le nostre vite valgono. Notizie IL DIRITTO DI MIGRARE NELL’ERA TRUMP Le riflessioni di Gabriela Hernández, direttrice di “Tochan, Nostra Casa“ di Città del Messico Mara Girardi 26 Febbraio 2025 1. Il programma di “Parole humanitario”, ovvero la libertà condizionata umanitaria (CHNV, acronimo di Cuba, Haiti, Nicaragua, Venezuela), era stato istituito dall’amministrazione Biden nell’ottobre 2022. Permetteva a migranti provenienti da questi quattro paesi di entrare regolarmente negli Stati Uniti e di viverci e lavorare per un periodo di due anni. Con l’ordine esecutivo “Proteggere i nostri confini”, firmato da Trump il giorno stesso del suo insediamento (20 gennaio 2025), questo programma di libertà vigilata è stato abolito, cancellando una delle poche vie legali di accesso al territorio statunitense per migliaia di persone in fuga da crisi economiche e politiche ↩︎ 2. Le istituzioni non mettono a disposizione numeri con whatsapp, e alle famiglie mancano le risorse per fare lunghe telefonate internazionali ↩︎ 3. Anatomía de una desaparición masiva en México: “Mamá, caí en manos de la mafia”, El Pais (22 giugno 2025); Intervista di Adela Micha a Beatriz Guillén ↩︎ 4. Collettivo di familiari di migranti centro e sudamericani desaparecidas nelle rotte migratorie del Messico ↩︎ 5. Al 5 novembre 2025, secondo la base di dati del Registro Nacional de Personas Desaparecidas y No Localizadas, RNPDNO della CNB ↩︎
Nel Mediterraneo si continua a morire mentre chi salva vite è criminalizzato
Nel Mediterraneo si continua a morire, mentre chi salva vite continua a essere criminalizzato. È uno stesso tragico e odioso copione che ormai si ripete da tempo. Da una parte sempre più persone muoiono nell’indifferenza e nel silenzio istituzionale, dall’altra il governo italiano, nonostante le sentenze dei tribunali, non mostra segni di ravvedimento e prosegue nella sua opera di attacco alle organizzazioni di soccorso: l’ultima è Mediterranea Saving Humans, colpita da un nuovo blocco amministrativo dopo l’ultimo salvataggio e approdo a Porto Empedocle. Notizie/In mare «ABBIAMO AGITO PER SALVARE VITE»: SBARCATE LE 92 PERSONE SOCCORSE DA MEDITERRANEA Lo Stato minaccia nuove sanzioni per aver scelto Porto Empedocle Redazione 5 Novembre 2025 L’associazione, che rivendica giustamente di aver salvato la vita a 92 persone, ha replicato alle accuse del ministro dell’Interno Piantedosi, che sui social ha diffuso false informazioni sull’operato della nave.  «Siamo indignati dalle menzogne del ministro: da parte nostra c’è sempre stata la massima collaborazione con la Sanità marittima», ha dichiarato MSH. A bordo, ha raccontato il medico Gabriele Risica, «abbiamo accolto la medica dell’USMAF, le abbiamo messo a disposizione l’ospedale di bordo e visitato insieme le persone soccorse». Anche la capomissione Sheila Melosu ha denunciato «la vergogna di un ministro che parla di sicurezza delle persone mentre è indagato per aver protetto un torturatore di migranti, e che voleva far viaggiare fino a Livorno persone malate e bisognose di cure immediate». Un episodio che si inserisce nella costante strategia di criminalizzazione delle ONG, con la nave Mediterranea che subisce un altro fermo illegittimo nel porto siciliano per violazione del Decreto Piantedosi, mentre le autorità italiane continuano a ostacolare chi salva vite in mare e a finanziare chi le intercetta e le imprigiona. Il 2 novembre, infatti, si è rinnovato automaticamente il Memorandum tra Italia e Libia, che resterà in vigore fino al 2026, assicurando nuovi fondi e mezzi alla guardia costiera libica, la stessa che cattura e riporta nei lager migliaia di persone e che attacca le navi della flotta civile. Approfondimenti/In mare MEMORANDUM ITALIA-LIBIA, UN PATTO DI VIOLAZIONI E ABUSI Il 2 novembre l’accordo sarà rinnovato. Refugees in Libya: manifestiamo a Roma il 18 ottobre Carlotta Zaccarelli 29 Settembre 2025 Nel frattempo, solo negli ultimi 30 giorni, cinque naufragi hanno aggiornato il conto delle vittime e dei dispersi lungo le rotte del Mediterraneo. Il 18 ottobre, Sea-Watch ha denunciato un naufragio ignorato dalle autorità: un morto accertato e 22 persone disperse, mentre le navi umanitarie venivano tenute lontane dall’area dei soccorsi. “Abbiamo chiesto aiuto per ore, nessuno è intervenuto”, ha riferito l’Ong, accusando Roma e La Valletta di omissione di soccorso. Il 22 ottobre, al largo di Salakta, in Tunisia, almeno 40 persone migranti, tra cui diversi neonati, sono morte dopo che la loro imbarcazione si è capovolta. Solo 30 persone sono state salvate. Le vittime provenivano da Paesi dell’Africa subsahariana e cercavano di raggiungere l’Italia da una delle rotte più brevi e più letali del Mediterraneo. Diverse inchieste hanno evidenziato come la Tunisia sia un Paese non sicuro nel garantire i diritti fondamentali e come le persone nere siano sottoposte a violenze e tratta gestite dalle stesse autorità. Rapporti e dossier/In mare STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il 24 ottobre, 14 persone migranti sono annegate nel mar Egeo, al largo di Bodrum, in Turchia. Solo due si sono salvate, tra cui un giovane afgano che ha nuotato per sei ore fino a riva. Tre giorni dopo, il 27 ottobre, quattro migranti sono morti al largo della Grecia, dopo l’affondamento di un gommone. E il 28 ottobre un altro barcone è affondato davanti a Surman, in Libia: 18 morti e oltre 60 sopravvissuti, secondo la Croce Rossa libica e l’OIM. Le vittime erano in gran parte uomini sudanesi, bengalesi e pakistani in fuga da guerre e povertà. Cinque naufragi in dieci giorni: più di 70 morti accertati, decine di dispersi e un mare che continua a inghiottire vite nell’indifferenza politica. Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), al 25 ottobre 2025 sono 472 le persone morte e 479 quelle disperse sulla rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno. A questo bollettino di guerra vanno aggiunti gli ultimi naufragi: nel 2025 si può stimare che circa 550 persone abbiano perso la vita, senza contare i naufragi cosiddetti “fantasma” che non finiscono nei conteggi ufficiali. Nello stesso periodo, 22.509 persone migranti – tra cui 832 minori – sono state intercettate e riportate in Libia, dove finiscono spesso in centri di detenzione, subendo torture, violenze sessuali, estorsioni, privazione di cibo e cure. Nemmeno l’arresto del generale libico Al Masri cambia la sostanza: la Libia rimane un Paese diviso e controllato da milizie e trafficanti che si arricchiscono sulla pelle dei migranti. Nonostante la situazione sia nota e denunciata da anni, resta un alleato politico e operativo dell’Europa, che continua a esternalizzare il controllo delle proprie frontiere. Come ha rivelato un’inchiesta di Irpimedia, la Commissione europea e Frontex hanno ospitato a metà ottobre una delegazione tecnica libica, con esponenti provenienti sia dall’est sia dall’ovest del Paese: per la prima volta anche funzionari della Cirenaica, sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, sono stati invitati presso la sede di Frontex a Varsavia e a Bruxelles. Il Mediterraneo centrale continua a essere la rotta migratoria più mortale del mondo. Ma ogni nuovo naufragio rimane a sé stante, invisibilizzato e velocemente archiviato come un fatto di cronaca. I media fanno sempre più fatica ad andare oltre la notizia flash e a costruire una narrazione diversa, e così queste stragi scompaiono in fretta. Dove sono le storie che danno dignità ai numeri, ai volti, alle famiglie, ai sogni interrotti, al dolore? Cosa serve perché si trovi finalmente una risposta a quella domanda che da anni viene ripetuta e mai ascoltata: quante morti ancora serviranno prima che l’Europa apra vie legali e sicure di accesso, affinché si affronti il tema politico e sociale della libertà di movimento? Finché la risposta sarà il rinnovo di accordi come quello con la Libia e il blocco delle navi umanitarie, il Mediterraneo continuerà a essere una tomba. E l’Italia, insieme all’Unione Europea, continuerà a chiamare “cooperazione” ciò che è in realtà complicità nelle stragi. Fonti: InfoMigrants, OIM, UNHCR, ANSA, Reuters, Sea-Watch, Mediterranea Saving Humans, Mosaique FM. Interviste/In mare «RIPRISTINARE LA LIBERTÀ DI MOVIMENTO È L’UNICA RISPOSTA POLITICA ALLE MIGRAZIONI» Intervista a Gabriele Del Grande, giornalista e documentarista Laura Pauletto 3 Novembre 2025
«Ripristinare la libertà di movimento è l’unica risposta politica alle migrazioni»
Dalla cronaca ai palcoscenici, Del Grande sfida pregiudizi e silenzi politici, proponendo una riflessione sulla libertà di movimento, il razzismo strutturale e le trasformazioni della società europea. In questa intervista, ci guida attraverso storie di viaggiatori respinti, sogni di un’Europa più aperta e l’arte come strumento di cambiamento e riflessione. Il secolo è mobile – La storia delle migrazioni in Europa vista dal futuro, monologo multimediale di Gabriele Del Grande. Un viaggio tra immagini, parole e archivi storici che racconta un secolo di migrazioni e propone una visione futura. Prodotto da Zalab in collaborazione con Cinema Zero IN QUESTO PERIODO SEI IN TOURNÉE IN NUMEROSI TEATRI ITALIANI CON IL MONOLOGO MULTIMEDIALE “IL SECOLO È MOBILE – LA STORIA DELLE MIGRAZIONI IN EUROPA VISTA DAL FUTURO”. COME STA ANDANDO QUESTA ESPERIENZA? COME STA RISPONDENDO IL PUBBLICO? Ottanta date in poco più di un anno. Teatri, cinema, piazze, scuole. Quasi ovunque sold-out. Finalmente un passaggio televisivo. Non male per uno spettacolo che parla del ripristino della libera circolazione fra le due sponde del Mediterraneo. Sono molto contento. Il pubblico porta a casa una storia, tante emozioni e una proposta visionaria. Che poi è il punto forte dello spettacolo: restituire una visione del futuro. Unica pecca? Il silenzio assordante della politica. IN CHE MODO IL RAZZISMO, INTESO COME FENOMENO STRUTTURALE RADICATO NELLE SOCIETÀ EUROPEE, CONTINUA A MANIFESTARSI OGGI E QUALI TRASFORMAZIONI HANNO CARATTERIZZATO LE SUE FORME DI ESPRESSIONE NEGLI ULTIMI DECENNI? Cinque secoli di colonialismo non evaporano dall’oggi al domani. I fantasmi del razzismo scientifico, mai elaborati, hanno determinato le politiche migratorie europee degli ultimi decenni. Sin dal 1990 la strategia del trattato di Schengen – aprire ad Est per chiudere a Sud – punta dichiaratamente a scoraggiare l’immigrazione afroasiatica per sostituirla con quella bianca e cristiana dell’Europa orientale, ritenuta più facilmente assimilabile. L’apartheid in frontiera è l’ultima forma di segregazione razziale ancora in vigore nel mondo occidentale. O davvero pensiamo ancora che sui barconi diretti a Lampedusa viaggi l’avanguardia dei disperati in fuga dal Terzo Mondo? Smettiamo di chiamarli profughi, migranti o rifugiati. Chiamiamoli viaggiatori senza visto. Perché su quei barconi viaggiano le persone respinte dalle nostre ambasciate. E perché nel ventunesimo secolo la mobilità non è più un’esclusiva della disperazione. NEGLI ULTIMI ANNI SI PARLA SPESSO DI CAMBIAMENTI CLIMATICI. SECONDO TE LE PROBLEMATICHE AMBIENTALI E I CAMBIAMENTI CLIMATICI STANNO INFLUENZANDO I MOVIMENTI MIGRATORI E, SE SÌ, IN CHE MODO? Dietro l’allarme migranti climatici si cela spesso la stessa grande paura dell’invasione. Lo ripeto: in frontiera non arrivano i disperati in fuga ma i viaggiatori respinti dalle ambasciate. Il punto è politico. Il tema non sono i drammi da cui si scappa ma l’impossibilità di viaggiare in aereo per tre quarti dell’umanità: ovvero le classi popolari di Africa, Asia e Caraibi. Possibile che ai ventenni di qua dal mare tocchi in destino l’Erasmus e ai ventenni di là una tomba sul fondo del mare? Dopodiché certo che cambiamenti climatici e crisi ambientali provocano graduali spostamenti di popolazioni, ma il grosso sono movimenti interni ai paesi, dalle campagne alle città. L’Europa non è nella testa di tutti. Basta con questa idea che là fuori c’è il Terzo mondo in fiamme, l’apocalisse dietro l’angolo e le masse di barbari pronte a partire. Tra vent’anni India e Cina saranno i paesi più ricchi del mondo. L’Indonesia siederà al G7. L’Unione africana sarà in pieno boom economico. Per non parlare della Turchia o dei paesi arabi trainati dagli investimenti delle petromonarchie del Golfo. Le cose sono più complesse delle paure della vecchia Europa. IN CHE MISURA PERSISTONO OGGI FORME DI SESSUALIZZAZIONE E RAZZISMO SESSUALE NEI CONFRONTI DELLE PERSONE NON BIANCHE E ATTRAVERSO QUALI MODALITÀ SI ESPRIMONO? È un tema di cui non mi sono mai occupato. Risparmio ai lettori commenti banali e me ne esco con una provocazione: paradossalmente talvolta anche l’esotizzazione dei corpi non bianchi può scatenare un incontro. Quante storie nascono così. Poi ci si ri-conosce e si ride dei propri pregiudizi. In fondo i rapporti aiutano più di tanti articoli o conferenze. Ahimè quanti attivisti ed esperti conosco che non hanno mai avuto un amico o un amante al di fuori dalla comfort zone della propria bianchezza. Mescolatevi ragazzi, Comincia tutto da lì. LA TUA PROPOSTA PER AFFRONTARE LE MIGRAZIONI VERSO L’EUROPA CONSISTE, IN BREVE, NEL RIPRISTINARE LA PIENA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE, ATTRAVERSO IL RILASCIO DI VISTI E PERMESSI CHE CONSENTANO DI SPOSTARSI LIBERAMENTE TRA I PAESI DI TUTTO IL MONDO. COME CREDI CHE QUESTO POSSA AVVENIRE? Ripristino della libertà di movimento (come era fino agli anni Novanta), immigrazione circolare, politiche di inserimento dei nuovi arrivati con i miliardi risparmiati smilitarizzando le frontiere. I concetti sono semplici. Prima però bisogna accettare il cambiamento. Anche perché è già accaduto. Basta affacciarsi in una scuola qualsiasi. L’Italia del futuro è quella delle classi miste delle nostre elementari. La politica non è pronta ad ammetterlo? Poco importa. > I cambiamenti non arrivano dall’alto. Sono il risultato di lotte che pian > piano si fanno egemoni. Tre milioni e mezzo di persone salite su quei barconi negli ultimi trent’anni formano un movimento di massa di disobbedienza civile. Una sorta di minoranza combattiva. Alla quale appartengono anche quanti fra noi non ne possono più di contare i morti innocenti dopo ogni naufragio. Insieme dobbiamo provare a contrapporre la visione della libera circolazione alla narrazione egemone dell’apartheid in frontiera che non soltanto non è più al passo coi tempi ma ha fatto 50mila morti nel Mediterraneo! Oggi sembrano discorsi visionari ma fra trent’anni avremo tutti un pezzetto di famiglia in Nigeria, India o Marocco e saremo finalmente pronti ad aprire. Accadrà inevitabilmente ma dobbiamo darci da fare per anticipare i tempi. Perché ogni anno perduto costa migliaia di vite in mare e indicibili sofferenze per i viaggiatori arrestati sull’altra sponda come nelle nostre città. PER QUANTO RIGUARDA INVECE LA REALIZZAZIONE DELLO SPETTACOLO TRATTO DAL TUO LIBRO, CHE COSA TI HA PORTATO A SCEGLIERE IL TEATRO COME MEZZO ATTRAVERSO IL QUALE PARLARE DI MIGRAZIONI? PENSI CHE SIA UN AMBIENTE ADATTO ED EFFICACE PER NARRARE QUESTO FENOMENO ALLA SOCIETÀ? C’è sempre meno gente che legge libri e allora un libro devi imparare a raccontarlo, a usare nuovi linguaggi, in questo caso le immagini, gli archivi, lo storytelling. L’obiettivo è sempre lo stesso: dare al pubblico uno strumento in più per capire il presente e immaginare il futuro. SECONDO TE, IN CHE MODO PUÒ L’ARTE AIUTARE A RAPPRESENTARE LE MIGRAZIONI E PIÙ IN GENERALE LE DISUGUAGLIANZE? CREDI CHE POSSA DAVVERO FAR APRIRE GLI OCCHI ALLE PERSONE, PROPONENDO UN PUNTO DI VISTA DIVERSO? L’arte non soltanto ha il potere di raccontare il reale ma anche quello di immaginare mondi che ancora non esistono e di farceli desiderare. Il problema è che spesso gli artisti, così come i giornalisti, si limitano a riprodurre cliché. Specie su questi temi che richiedono un lungo lavoro di decolonizzazione del proprio immaginario. Fortunatamente però ormai si sta affacciando sulla scena una nuova generazione di artisti e giornalisti figli delle migrazioni, con una sensibilità tutta nuova e molte lingue in testa. Il rimescolamento delle carte è in atto. Serviranno una o due generazioni. Ma alla fine accadrà inevitabilmente anche qua ciò che sta accadendo in Francia, Gran Bretagna o Germania. Benvenuti nella nuova Europa.
Il confine come laboratorio di impunità: il Policy Memo del BVMN sui Balcani
Il 22 settembre, il Border Violence Monitoring Network (BVMN) ha pubblicato Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans 1, un documento politico che ha preso forma nel corso della consultazione con l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani. Rispondendo alla Risoluzione 57/14 del Consiglio dei diritti umani, l’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR) ha realizzato un’indagine sulla possibilità di monitorare gli effetti pratici delle politiche migratorie europee. In questo contesto, le Nazioni Unite hanno consultato organizzazioni della società civile per rispondere a una domanda complessa: è possibile trovare strumenti per rilevare e controllare le pratiche usate nella gestione dei flussi migratori? La relazione finale dell’OHCHR 2 nominava in modo esplicito il Border Violence Migration Network (BVMN) come soggetto in grado di svolgere questa funzione, specialmente nei contesti caratterizzati da scarsa accessibilità e ostacolo al monitoraggio (delle aree più remote, ma non solo), criminalizzazione e difficoltà nel contatto coi i decisori politici. Il Network è stato quindi una delle organizzazioni più ascoltate dell’OHCHR stessa nel corso dei suoi lavori. Nel contesto di questi, il BVNM ha consegnato alle Nazioni Unite una nota politica e risposte scritte alle domande più critiche sollevate sulle tecnologie usate per il controllo delle persone migranti. Nel Policy Memo, i Balcani in particolare sono individuati come zona di grave mancanza di accountability degli attori statali e di confini segnati da violenza e violazioni dei diritti umani 3. Gli unici soggetti che qui agiscono per cercare un cambiamento positivo sono organizzazioni della società civile, spesso criminalizzate e in difficoltà per la mancanza cronica di fondi e di spazi (reali e virtuali) dove diffondere il proprio lavoro e portare avanti azioni di sensibilizzazione del contesto sociale. In generale, gli Stati europei usano sparizioni forzate e pushback istantanei per nascondere i propri abusi sui migranti. Il Network e i suoi membri hanno rilevato 25.000 pushback da parte di 14 Paesi. Spesso le persone migranti vengono detenute in segreto in luoghi inadatti al fermo di qualsiasi soggetto: garage, caravan, stalle, edifici abbandonati e pericolanti, container di metallo e addirittura canili. Nel 2021 il 20% delle detenzioni dimostrate di persone migranti non erano comunicate formalmente, non seguivano le normali procedure per la detenzione di individui. Nel 2024, il BVMN ha raccolto prove di 19 detenzioni irregolari. In totale continuità con questa pratica è evitare di registrare le persone migranti detenute: diventano fantasmi che passano attraverso carceri (veri o improvvisati) senza lasciare traccia. Tra 2022 e 2024, il 96% delle persone migranti soggette a pushback in Grecia non era stata registrata dalle autorità. Questo meccanismo alimenta l’impossibilità di obbligare gli attori statali a rispondere del destino delle persone migranti sul loro territorio. Per creare poi maggior danno alle persone migranti e insieme nascondere meglio gli abusi da loro subiti, le autorità distruggono i loro beni personali (e sopratutto dei telefoni cellulari). Significa distruggere la loro possibilità di geolocalizzarsi, comunicare con la famiglia, dimostrare la loro identità, provare l’eventuale passaggio attraverso diversi Stati e raccogliere prove di violazioni dei loro diritti. In Croazia, il Network ha documentato vere e proprie pire di oggetti “migranti”. Questa pratica si inserisce all’interno di un contesto legislativo, amministrativo e spesso sociale che criminalizza la migrazione nel tentativo (mai riuscito) di scoraggiarla. Nel 2022, ad esempio, la Turchia ha deportato una ragazza siriana verso il Nord della Siria dopo che, per proteggerla, il fratello ha denunciato gli abusi fisici e verbali che lei subiva a scuola. Rispetto alla società civile, il BVMN ha rilevato che gli Stati costruiscono ostacoli (legislativi e di fatto) per impedire alle organizzazioni non-governative di monitorare la gestione dei flussi migratori e di effettuare operazioni di search and rescue a terra. In più, si impegnano nella criminalizzazione dei difensori dei diritti umani attraverso strumenti più o meno formali: ostacoli burocratici e amministrativi alla loro vita quotidiana, legislazioni sempre più restrittive, sorveglianza (non dichiarata), inchieste e procedimenti giudiziari non giustificati, campagne diffamatorie, aggressioni, atti di vandalismo, furti. Il tutto nella quasi completa impunità, perché anche in questo contesto le autorità continuano a sfuggire a qualsiasi meccanismo di controllo e di ottemperanza a politiche rispettose dei diritti umani. Nel Policy Memo, il Border Violence Migration Network suggerisce buone pratiche. Sottolinea particolarmente la necessità di integrare il lavoro di investigazione della società civile, delle ONG e dei difensori dei diritti umani nelle riflessioni e procedure delle grandi istituzioni (come l’ONU) per portare alla luce in modo più completo e capillare le violazioni dei diritti umani che gli Stati perpetrano (quasi) indisturbati ai danni delle persone migranti e per responsabilizzare in modo inderogabile i decisori politici. Suggerisce anche l’uso delle nuove tecnologie per verificare il destino e/o la posizione delle persone migranti scomparse. Ma proprio la tecnologia, sottolinea ancora il BVMN, ha una doppia valenza. Chiamato dal Consiglio ONU sui diritti umani a rispondere ad alcune domande riguardanti l’uso di nuove tecnologie nelle politiche migratorie da parte degli Stati, il Network ha infatti messo in luce alcune pratiche molto pericolose. Innanzitutto, la mancanza di trasparenza nell’implementazione di tecnologie per la consapevolezza situazionale nei sistemi di sorveglianza dei confini: i Governi non rendono noto in maniera completa quali strumenti tecnologici usano, in che quantità e modalità, dove lungo i confini li posizionano. La scusa è la “sicurezza nazionale”, spesso usata nei discorsi giustificanti la violenza contro le persone migranti e chi le aiuta e difende. Complesso è pure l’accesso a dati, fotografie, filmati raccolti da droni, radar e camere: spesso sono fatti scomparire, cancellati o nascosti, per evitare che servano in processi di denuncia e rivendicazione di diritti umani. A ciò si aggiunge l’evoluzione materiale di queste tecnologie, che ne rende molto difficile l’identificazione: a fronte di una sempre crescente precisione e velocità di rilevamento dati, hanno dimensioni sempre più piccole e aspetto sempre più anonimo. Infine, c’è l’uso allarmante di spyware per colpire organizzazioni e individui che difendono i diritti delle persone migranti. A febbraio 2025, diversi quotidiani italiani hanno riportato che i cellulari di circa 90 attiviste italiane e non sono stati infettati da Graphite, un software di spionaggio creato a scopi militari dall’azienda israeliana Paragon. In merito alla questione, il presidente esecutivo di Parago John Fleming ha dichiarato: la società «concede in licenza la sua tecnologia a un gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati Uniti e ai suoi alleati». Non ha fatto alcuna ulteriore specifica. Il Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans contiene un’ulteriore prova che il sistema di impunità costruito, alimentato e difeso da “democrazie” violatrici di diritti umani, discriminatorie e razziste è consistente e si sta evolvendo utilizzando strumenti di ultima generazione, pratiche che tendono alla “violazione invisibile” dei diritti umani e politiche che de-umanizzano le persone migranti mentre squalificano socialmente chi le aiuta. Il lavoro del Border Violence Migration Network dimostra anche che l’unico ostacolo a questa corruzione è la reazione della società civile. 1. Qui il documento ↩︎ 2. Leggi il documento ↩︎ 3. BVMN Monthly Report – August 2025 ↩︎
Giustizia per le vittime della fortezza Europa
122 funzionari dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri potrebbero essere indagati dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità a causa del trattamento dei richiedenti asilo nel Mediterraneo Centrale, in base al report presentato da Front-LEX. Dopo sei anni di indagini, gli avvocati Juan Branco – uno dei difensori di Julian Assange – e Omer Shatz – direttore della ONG front-LEX 1,- insieme al team dell’organizzazione e la clinica legale “International Law in Action” dell’università parigina Sciences Po, hanno presentato 2 alla Corte Penale Internazionale un report di 700 pagine che denuncia come i membri dell’apparato di potere europeo siano direttamente ed individualmente responsabili per crimini contro l’umanità, avendo ideato ed implementato politiche restrittive contro i flussi migratori nel Mediterraneo Centrale 3. Questo rapporto rappresenta il punto d’arrivo di un percorso quasi decennale. front‑LEX è un’organizzazione legale indipendente, focalizzata sulla difesa dei diritti umani attraverso la litigazione strategica contro le politiche migratorie dell’UE, in particolare quelle gestite da Frontex 4. Utilizzando il diritto come strumento di cambiamento sociale, agisce in contesti legali complessi per sfidare pratiche come i respingimenti illegali e la cooperazione con regimi autoritari. Dopo i grandi naufragi del 2013, l’Unione Europea e gli Stati Membri potenziano i loro accordi con i Paesi di transito, primo tra tutti la Libia, e viene dato inizio ad una campagna di diffamazione contro le ONG che lavorano nel Mediterraneo sopperendo alle mancanze dei governi europei. L’8 maggio 2017 la Procuratrice della Corte Penale Internazionale (CPI) riporta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che «seri e diffusi» crimini contro l’umanità – tra cui omicidi, stupri, e torture – vengono commessi contro «migliaia di persone migranti vulnerabili, inclusi donne e bambini». È un momento storico, la prima volta in cui viene formalmente riconosciuta la possibilità di crimini internazionali 5 lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Tuttavia, dopo 8 anni, più di 25mila morti e 150mila deportati in Libia, le parole della Procuratrice sono rimaste parole: la CPI non ha ancora aperto né l’istruttoria né formulato un’accusa. La Corte Penale Internazionale (CPI), con sede all’Aia, è un tribunale permanente che giudica individui accusati di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e di aggressione. Istituita dallo Statuto di Roma del 1998, interviene solo quando gli Stati non possono o non vogliono perseguire tali crimini. È indipendente dalle Nazioni Unite, ma collabora con esse. La società civile ha però continuato a lavorare. Nel 2019, l’avv. Shatz e l’avv. Branco hanno inviato una comunicazione4, in base all’Articolo 15 dello Statuto di Roma 6, il cui contenuto dimostra che i crimini “seri e diffusi” di cui aveva parlato la Procuratrice sono sistematici, e commessi in base alle politiche migratorie dell’Unione Europea, elaborate con lo scopo preciso di impedire a qualunque costo ai richiedenti asilo di raggiungere il suolo europeo. In particolare, sono state individuate due politiche di deterrenza: la prima, uccisioni di massa per annegamento, iniziata con la chiusura dell’Operazione Mare Nostrum 7, inquadrata nel crimine contro l’umanità di omicidio; la seconda, adottata proprio contro le ONG che hanno tentato di riempire questo vuoto letale creato nel Mediterraneo, respingimenti di massa per procura grazie alla conclusione di accordi con la Libia 8 inquadrata nei crimini contro l’umanità di deportazione, sparizione forzata di persone, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, reclusione, e altri atti inumani diretti contro civili 9. Confermando questo inquadramento, nel 2020 il caso è stato ammesso dalla Procuratrice della CPI. Questa ha così affermato la propria giurisdizione: la CPI, in base all’articolo 13 dello Statuto di Roma, ha infatti giurisdizione non solo su deferimento dei procuratori nazionali o del Consiglio di Sicurezza, ma anche in caso di indagine aperta proprio motu, per cui è necessaria l’autorizzazione della Camera preliminare della Corte (Pre-trial Chamber). Afferma anche il fatto che ci sia una base ragionevole per credere che tali crimini fossero effettivamente stati commessi. Ulteriore conferma è giunta nel 2023, quando una Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, istituita dal Consiglio dei diritti umani ha concluso che l’UE e gli Stati Membri stanno partecipando in crimini contro l’umanità commessi lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Tuttavia, in un’audizione davanti al Parlamento Europeo del maggio 2020, la Procuratrice della CPI ha sottolineato che la prima comunicazione di Front-lex riguardava la responsabilità degli Stati, elemento alieno alla giurisdizione della CPI, che si occupa invece di responsabilità individuale. A luglio 2020, la comunicazione è stata aggiunta al dossier riguardante la situazione in Libia; secondo gli autori della comunicazione, erroneamente, considerando che le vicende analizzate sono diverse e concettualmente slegate dal conflitto civile libico. Vista l’inerzia della CPI, il team di Front-lex ha presentato una seconda comunicazione, il 6 ottobre 2025 10. Questa è concentrata sull’apparato di potere che ha progettato e implementato i crimini descritti nella prima comunicazione e sull’identificazione degli individui che li hanno ideati, ordinati, ed eseguiti. Sono stati analizzati i sistemi di 28 Stati (i 27 Stati UE e il Regno Unito) e le istituzioni europee, mappando ogni organo ed agenzia coinvolta, estraendo i nomi dei funzionari, e valutando la responsabilità penale individuale di ognuno. A tal fine, sono stati intervistati 77 testimoni e potenziali sospetti, sono stati analizzati documenti interni e verbali di riunioni confidenziali, nonché documenti pubblici. Il risultato è una lista di 122 responsabili, nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che i sospettati abbiano partecipato alla commissione dei reati contestati. Quello che si richiede alla CPI è di chiedere l’autorizzazione per aprire un’indagine ed esaminare la responsabilità penale dei sospetti individuati, coordinarsi con i rappresentanti legali delle vittime per ottenere ulteriori prove, e di ri-nominare la popolazione civile colpita come «richiedenti asilo di diverse nazionalità transitanti lungo la rotta del Mediterraneo centrale» (e non più come “migranti libici”). I 122 responsabili sono stati suddivisi in quattro categorie, in base al grado di responsabilità (highest, high, medium e low). Nella prima, alti funzionari delle istituzioni e delle agenzie europee (il Consiglio dell’Unione Europea, la Commissione, Frontex, l’EEAS, e l’Agenzia Europea per la Sicurezza Marittima), e Ministri e Capi di Stato europei. Spiccano Angela Merkel, Joseph Muscat (primo ministro maltese dal 2013 al 2020), e Viktor Orban. I nomi italiani sono 32, un quarto del totale, cifra vertiginosa se si considera che la lista include cittadini di altri 27 Paesi e funzionari UE. Tra questi, tre Presidenti del Consiglio dei Ministri (Paolo Gentiloni, Matteo Renzi e Giuseppe Conte), tre ministri degli interni (Angelino Alfano, Marco Minniti e Matteo Salvini), Andrea Orlando (ministro della Giustizia dal 2014 al 2018), Danilo Toninelli (ministro dei trasporti nel 2018), Elisabetta Trenta (ministra per la difesa nel 2018), Enzo Milanese (ministro per gli affari esterni nel 2018), membri di gabinetto, PM di Trapani e Catania, ufficiali della Guardia Costiera. I rappresentanti legali delle vittime hanno presentato alla CPI anche un’altra lista, “the officials database”, contenente i nomi di individui che hanno ricoperto cariche ufficiali durante il periodo esaminato, il cui coinvolgimento merita ulteriori analisi. La lista contiene 384 nomi, tra cui l’ex Primo Ministro greco Tsipras e l’ex PM inglese David Cameron. Anche qui, l’Italia è sovra rappresentata: 108 italiani, tra cui Luciana Lamorgese, Luigi di Maio e Matteo Piantedosi. In quanto paese primario d’arrivo delle persone migranti, l’Italia ha avuto un ruolo centrale nell’implementazione delle politiche UE nel Mediterraneo Centrale, richiedendo e introducendo regole sempre più restrittive contro i richiedenti asilo e contro le ONG. Il report analizza in particolare il coinvolgimento delle istituzioni italiane nella conclusione del Memorandum Italia – Libia, stabilito nel 2017 e rinnovato per la terza volta il 17 ottobre 2025 11, e nell’istituzione del Fondo Africa, nella collaborazione con Frontex e la “guardia costiera” libica per respingimenti in acque italiane e internazionali. Approfondimenti MEMORANDUM ITALIA-LIBIA, UN PATTO DI VIOLAZIONI E ABUSI Il 2 novembre l’accordo sarà rinnovato. Refugees in Libya: manifestiamo a Roma il 18 ottobre Carlotta Zaccarelli 29 Settembre 2025 L’azione di Front-lex e degli avvocati Branco e Shatz è innovativa. Giuridicamente, è una strada mai provata prima: non esistono al momento cause intentate contro gli Stati europei o l’Unione Europea davanti alla CPI o alla Corte di Giustizia Internazionale per crimini commessi contro le persone migranti. È invece consolidata la giurisprudenza della CEDU sul punto – tanto che è stato richiesto alla Corte di riconsiderare il proprio orientamento, considerato da diversi leader europei, Italia e Danimarca in primis, troppo garantista 12. Anche a livello nazionale ci sono state delle evoluzioni: le corti penali italiani hanno emesso condanne concernenti naufragi o deportazioni forzate in Libia, e il Servizio Scientifico tedesco ha nel 2023 indicato come respingere i richiedenti asilo verso la Libia potesse dare adito a responsabilità penale individuale in base al Codice Penale tedesco. Nel 2024 la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che la Libia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo, e che i respingimenti costituiscono un crimine in base alla legge internazionale 13. Approfondimenti/Guida legislativa CORTE DI CASSAZIONE: LA LIBIA NON È UN PORTO SICURO Chiunque consegni alle autorità libiche le persone soccorse è perseguibile Avv. Arturo Raffaele Covella 28 Febbraio 2024 L’incisività della CPI è stata fino ad ora piuttosto limitata, e questo anche sul fronte delle indagini sulle azioni di Gheddafi e il conflitto libico. Ad ottobre 2024 la Camera preliminare ha desecretato sei mandati d’arresto contro membri della milizia al Kaniyat per crimini di guerra, ma i responsabili sono tuttora in libertà; nonostante ciò, la Corte ha annunciato la propria intenzione di chiudere il dossier nel 2026. Il 18 gennaio 2025 la CPI emette un mandato d’arresto contro Osama Almasri Njeem. Poco dopo il suo arresto in Italia, viene rimpatriato in Libia a bordo di un aereo di Stato italiano. Gli avvocati Shatz e Branco presentano una mozione alla CPI richiedendo di indagare sull’accaduto, prospettando una responsabilità di Giorgia Meloni, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi per ostruzione della giustizia in base all’articolo 70 dello Statuto di Roma. Notizie CASO ALMASRI: LAM MAGOK CHIEDE ALLA CORTE COSTITUZIONALE DI FARE LUCE SULL’OPERATO DEI MINISTRI «L’Italia è sotto ricatto e il Governo lo rivendica come scelta politica» Redazione 21 Ottobre 2025 Il 17 ottobre 2025 la Camera preliminare della CPI 14 ha individuato nel comportamento italiano una violazione dello Statuto di Roma. Secondo la CPI infatti rimpatriare Almasri senza informare la Corte dell’esito del procedimento davanti alla Corte d’appello né tanto meno del rimpatrio stesso costituisce una violazione dell’obbligo di cooperazione, in base all’articolo 97 dello Statuto di Roma. La CPI parla di comunicazioni interrotte dall’Italia dopo l’arresto, e di spiegazioni “contraddittorie e giuridicamente infondate” fornite riguardo alla vicenda. La CPI ha differito il rinvio al Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea ONU, ma ha esplicitato come l’Italia abbia impedito alla Corte stessa di esercitare le sue funzioni e i suoi poteri 15. CI si chiede se l’impressionante lavoro di Front-lex e degli avvocati Branco e Shatz porterà un risultato concreto. Negli ultimi mesi, davanti al genocidio in corso a Gaza, i dubbi riguardo l’efficacia e la stessa ragion d’essere del diritto internazionale sono cresciuti. Diversi Stati firmatari dello Statuto di Roma hanno dimostrato grande noncuranza per le decisioni della CPI: nel 2025 l’Ungheria ha annunciato il proprio recesso dallo Statuto di Roma, e sia Putin – oggetto di un mandato d’arresto da parte della CPI – che Netanyahu – per cui il mandato è stato richiesto, si sono recati in Stati membri. L’Italia, membro fondatore della Corte, ha dimostrato un particolare disinteresse per i contenuti dello Statuto, permettendo a Netanyahu l’accesso al proprio spazio aereo e direttamente ostacolando la Corte nell’arresto di Almasri. Nel frattempo, la “guardia costiera” libica usa la violenza sempre più frequentemente, anche contro le navi di soccorso delle ONG; le persone morte cercando di raggiungere l’Italia sono almeno 738 solo nel 2025, e dalla presentazione della comunicazione di Front-lex i naufragi documentati almeno due. Il Mediterraneo centrale resta la frontiera più letale al mondo. 1. ONG che si occupa di strategic litigation davanti alla Corte di Giustizia dell’UE, alla CEDU e alla CPI ↩︎ 2. Press Release ↩︎ 3. Per un riassunto completo del caso, l’elenco dei presunti responsabili, delle vittime e delle prove presentate alla CPI, si rimanda qui ↩︎ 4. Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, un’agenzia dell’Unione Europea che si occupa del controllo e della gestione delle frontiere esterne degli stati membri dell’UE e dell’area Schengen ↩︎ 5. Ossia quelli su cui esercita giurisdizione la CPI: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione. ↩︎ 6. Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, che definisce i crimini internazionali più gravi (genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, aggressione), adottato a Roma nel 1998 ↩︎ 7. Operazione militare e umanitaria italiana (2013–2014) nel Mediterraneo centrale, volta al soccorso in mare e al contrasto del traffico di esseri umani. Sostituita dall’operazione Triton di Frontex nel 2014 ↩︎ 8. Il Memorandum Italia-Libia, firmato il 2 febbraio 2017 e ufficialmente rivolto a fermare i flussi irregolari, e la Dichiarazione di Malta, del 3 febbraio 2017, con cui l’UE impegna 200 milioni € per formare e finanziare la Guardia Costiera Libica e migliorare le strutture di accoglienza in Libia ↩︎ 9. In base all’articolo 7 dello Statuto di Roma, i crimini contro l’umanità sono atti commessi “nell’ambito di un attacco esteso o sistematico contro una popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco” ↩︎ 10. Leggi la comunicazione ↩︎ 11. Il governo Meloni ha deciso di mantenere in vigore il Memorandum con la Libia, che prevede collaborazione nel controllo delle frontiere e sostegno alla guardia costiera libica, nonostante le richieste di opposizioni e ONG di interromperlo. L’accordo dura tre anni e si rinnova automaticamente se una delle due parti non ne chiede la cessazione entro tre mesi dalla scadenza ↩︎ 12. Leggi la comunicazione ↩︎ 13. Per i riferimenti delle sentenze e delle comunicazioni clicca qui ↩︎ 14. Caso Almasri la Corte Penale Internazionale ricostruisce la sequela di omissioni. Entro venerdì 31 ottobre l’Italia deve fornire ulteriori informazioni, Giustizia Insieme (24 ottobre 2025) ↩︎ 15. La decisione completa è disponibile qui ↩︎
Dodici anni dopo Lampedusa, nel Mediterraneo si continua a morire
Il 3 ottobre 2013 centinaia di persone persero la vita a poche miglia da Lampedusa. Dodici anni dopo, nel giorno di quell’anniversario, la cronaca restituisce l’ennesima strage: nel Mediterraneo centrale la violenza del confine continua a uccidere. L’equipaggio della nave Humanity 1 di SOS Humanity ha, infatti, soccorso 41 persone da un gommone sovraffollato alla deriva a sud-est dell’isola, nella zona di soccorso maltese. Ma i sopravvissuti hanno raccontato che almeno sette persone erano cadute in mare prima dell’arrivo della nave, mentre durante la notte altre due persone soccorse a bordo sono decedute. Secondo SOS Humanity, “diverse persone erano incoscienti quando sono state portate a bordo, molte riuscivano a malapena a stare in piedi o a camminare, e tutte erano disidratate, ipotermiche ed estremamente esauste”. L’operazione di soccorso è avvenuta in condizioni proibitive, con onde fino a tre metri e forti venti. Una madre e un bambino hanno riportato gravi ustioni causate dalla miscela di benzina e acqua salata presente nel gommone. I tentativi di evacuazione d’emergenza in elicottero sono falliti a causa delle condizioni meteorologiche; solo al terzo tentativo la Guardia Costiera italiana è riuscita a trasferire cinque persone direttamente al largo di Lampedusa. Nonostante la situazione medica critica a bordo e le cattive condizioni del mare, le autorità italiane avevano inizialmente assegnato Bari come porto di sbarco, a oltre mille chilometri di distanza dalla zona del soccorso. Dopo ripetute richieste dell’equipaggio, il porto è stato cambiato in Porto Empedocle, in Sicilia. SOS Humanity ha definito l’assegnazione di un porto lontano “non solo una violazione del diritto marittimo, ma anche disumana”. Queste morti seguono una lunga sequela di naufragi e omissioni di soccorso, nonché una serie di azioni violente della guardia costieri libica nei confronti delle Ong del mare. Il 13 agosto 2025, a 14 miglia da Lampedusa, un’imbarcazione si è capovolta provocando almeno 23 morti e oltre 15 dispersi. Nonostante la presenza della Guardia Costiera e di Frontex, i soccorsi non sono arrivati in tempo, mentre la gestione dello sbarco dei sopravvissuti è stata problematica, evidenziando ancora una volta la piena responsabilità delle politiche europee nelle morti del Mediterraneo centrale. Pochi giorni dopo, il 22 agosto, a Lampedusa sono arrivati i corpi di tre bambine di 9, 11 e 17 anni, morte in mare insieme alla madre sopravvissuta, oggi rinchiusa nell’hotspot. Rapporti e dossier/In mare LAMPEDUSA, 13 AGOSTO 2025: LA STRAGE CHE NON DEVE DIVENTARE OBLIO Nel rapporto di Mem.Med la denuncia: omissioni istituzionali, corpi dispersi e lutti negati Redazione 1 Ottobre 2025 Dodici anni dopo il naufragio di Lampedusa, una media di tre persone al giorno continuano a morire sulla rotta centrale del Mediterraneo, denuncia SOS Humanity. Non esiste un programma europeo di ricerca e soccorso coordinato, nonostante il diritto internazionale obblighi gli Stati a intervenire. SOS Humanity e le altre organizzazioni della flotta civile restano gli unici attori capaci di garantire un presidio in mare, cercando di colmare un vuoto che continua a costare troppe vite. Le stragi nel Mediterraneo hanno responsabilità precise, e la storia ne chiederà conto. Continueranno finché non saranno garantiti canali legali e sicuri per l’ingresso in Europa, finché il diritto alla libertà di circolazione non sarà riconosciuto a tutte e tutti. Il Mar Mediterraneo potrebbe tornare a essere un luogo di incontro e di scambio, ma è stato trasformato in una frontiera liquida, una fossa comune, un teatro di violenza contro le persone in movimento. E nessuno dovrebbe accettare la “normalizzazione della morte“.
3 ottobre: dodici anni fa, la tragedia di Lampedusa
Dodici anni fa, la tragedia di Lampedusa: 368 giovani vite spezzate a poche centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano ormai a un passo. Il dodicesimo anniversario di questa tragedia arriva proprio nel clima e nelle prassi che erigono l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se esponenti di questo governo e di questa maggioranza o, più in generale, altri protagonisti della politica degli ultimi anni intendano promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria di quanto è accaduto. Ma se è vero, come è vero, che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione che la data del 3 ottobre richiama con chi da anni costruisce muri e distrugge ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo. Se anche loro vogliono “ricordare Lampedusa”, che lo facciano da soli. Che restino soli. Perché in questi 10 anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e umana pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo. Che cosa resta, infatti, dello “spirito” e degli impegni di allora? Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le indagini fatte da parte della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 368 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul posto in pochi minuti. La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione, con la forza enorme di 368 vite perdute, su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma dell’Eritrea, perché tutti quei morti erano eritrei. Al primo “punto” si rispose con Mare Nostrum, il mandato alla Marina italiana di pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche, per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quell’operazione è stata un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate. A cinque anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica la consideri uno spreco o addirittura un aiuto dato ai trafficanti. Sta di fatto che esattamente dopo dodici mesi, nel novembre 2014, Mare Nostrum è stato “cancellato”, moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 18 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio. E, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e restrizioni che neanche l’escalation delle vittime è valsa ad arrestare, fino ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le frontiere della Fortezza Europa, attraverso tutta una serie di trattati internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, “lontano dai riflettori”, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud del Mediterraneo. Questo hanno fatto e stanno facendo trattati come il Processo di Khartoum (fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli accordi di Malta, il trattato con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto all’Afghanistan (costretto a “riprendersi” 80mila profughi), il memorandum firmato con la Libia nel febbraio 2017 e gli ultimi provvedimenti di questo Governo. Per non dire della criminalizzazione delle Ong, alle quali si deve circa il 40 per cento delle migliaia di vite salvate, ma che sono state costrette a sospendere la loro attività. Oggi assistiamo a navi soccorritrici costrette a navigare lunghe miglia in cerca di porti assegnati lontani dai luoghi di intervento. Il porto più vicino e sicuro previsto dal diritto internazionale marittimo è ormai lettera morta. Le stragi si susseguono negli ultimi 12 anni come nulla fosse, il cinismo ha soppiantato l’Umanitario. Con i rifugiati eritrei, il secondo “punto”, si è passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli – nelle parole di autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza di governo – “profughi vacanzieri” o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di Asmara. È un processo iniziato subito, già all’indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime ad Agrigento il Governo ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a scappare dal paese. Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il dittatore che ha schiavizzato il suo popolo, facendolo uscire dall’isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di fatto, gendarme anti-immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa. Fino al recente documentario La grande bugia – Eritrea andata e ritorno, mandato in onda dalla RAI. Sia per quanto riguarda i migranti in generale che per l’Eritrea, allora, a 12 anni di distanza dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, resta l’amaro sapore di un tradimento. * Traditi la memoria e il rispetto per le 368 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici. Il caso del generale libico Al-Masri è lampante: un atto che ha calpestato la memoria e la dignità di tutti migranti e profughi. * Traditi le migliaia di giovani che con la loro stessa fuga denunciano la feroce, terribile realtà del regime di Asmara, che resta una dittatura anche dopo la firma della pace con l’Etiopia per la lunghissima guerra di confine iniziata nel 1998. Il recente documentario mandato in onda da RAI3 La grande bugia – Eritrea andata e ritorno è un tentativo di denigrare e sminuire il dramma dei profughi eritrei, riabilitare il regime al potere ed è utile anche alle politiche anti-accoglienza e di chiusura in atto in Italia e in Europa. Ci addolora che RAI3 si sia prestata a questo pessimo atto che veicola un messaggio profondamente distorto e fuorviante sulla realtà eritrea e sulla fuga dei giovani dal paese. * Tradito il grido di dolore che sale dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Italia e l’Europa, da parte di un intero popolo di migranti e profughi costretti ad abbandonare la propria terra: una fuga per la vita che nasce spesso da situazioni create dalla politica e dagli interessi economici e geostrategici proprio di quegli Stati del Nord del mondo che ora alzano barriere. Tradito, questo grido di dolore, nel momento stesso in cui si finge di non vedere una realtà evidente: “…lasci la casa solo / quando la casa non ti lascia più stare / Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci / fuoco sotto i piedi / sangue caldo in pancia / qualcosa che non avresti mai pensato di fare / finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…” (da Home, monologo di Giuseppe Cederna). Ecco: ovunque si voglia ricordare in questi giorni la tragedia di Lampedusa, sull’isola stessa o da qualsiasi altra parte, non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta in questi 12 anni nei confronti di migranti e rifugiati. Gli “ultimi della terra”. Ricordatevi sempre che il diritto dei più deboli non è un diritto debole!
Lampedusa, 13 agosto 2025: la strage che non deve diventare oblio
Il 13 agosto, al largo di Lampedusa, circa cento persone provenienti da Somalia, Eritrea, Etiopia, Egitto e Pakistan hanno affrontato il mare su due imbarcazioni partite dalla Libia. Per quaranta di loro – tra dispersi e morti – la traversata si è conclusa nel silenzio delle onde. Sessanta sono sopravvissutə, ventitré corpi sono stati recuperati, mentre più di quindici restano senza nome né destino. Notizie/In mare LAMPEDUSA, 13 AGOSTO: UN’ALTRA STRAGE DI FRONTIERA Mem.Med: «Saremo al fianco di familiari e sopravvissuti che rivendicano verità, giustizia e memoria» Redazione 28 Agosto 2025 Il nuovo report di MEM.MED (Memoria Mediterranea), “Strage di Lampedusa del 13.08.2025. Memoria dal margine contro l’oblio di frontiera” 1, ricostruisce non solo le circostanze del naufragio ma anche le omissioni istituzionali e le ferite inflitte ai familiari dalle procedure di gestione dei corpi. È un lavoro che chiede verità, giustizia e memoria per quelle vite spezzate. Secondo le testimonianze raccolte, le due barche partite dalla Libia hanno navigato insieme fino a quando una ha iniziato a imbarcare acqua. Le persone si sono spostate sull’altra, più grande, che si è poi ribaltata a 14 miglia da Lampedusa. Alcuni sopravvissutə parlano di un’onda improvvisa, altri di instabilità dovuta al sovraccarico. Ma il vero enigma resta la mancata individuazione delle imbarcazioni. In un’area pattugliata da Frontex e Guardia Costiera, – sottolinea l’associazione Maldusa 2 – come è possibile che due scafi restino invisibili? Perché i soccorsi non sono arrivati in tempo? Inoltre, le ordinarie procedure di sbarco sono state stravolte. Le associazioni della società civile, solitamente avvisate in anticipo per poter accogliere le persone al loro arrivo, non hanno ricevuto alcuna comunicazione. Questa esclusione ha impedito loro di essere presenti al molo, privando i sopravvissuti di un primo sostegno umano e immediato. A Lampedusa la morte viene confinata. I ventitré corpi recuperati sono stati disposti a terra, all’aperto, in un deposito cimiteriale inadeguato, sotto il sole d’agosto. Sigillati in bare contrassegnate da lettere, hanno atteso giorni prima di essere trasferiti in Sicilia. PH: Silvia Di Meo, Porto Empedocle I familiari sopravvissuti, reclusi nell’hotspot, non hanno potuto vegliare i propri cari. Il diritto al cordoglio e al rito religioso è stato violato. La gestione dei morti di frontiera si è tradotta, ancora una volta, in un atto di disumanizzazione. Mentre le autorità tacevano, le famiglie – in Italia, in Europa e nei paesi d’origine – hanno iniziato a cercare informazioni attraverso reti di solidarietà. MEM.MED ha raccolto decine di segnalazioni e, in dialogo con la Procura di Agrigento, ha reso possibile un percorso di identificazione delle salme, spesso a distanza, tramite videochiamata. Grazie a questa mediazione, ventuno corpi hanno ritrovato un nome. Un ragazzo somalo, Mo, giunto sull’isola in cerca del fratello disperso, ha svolto un ruolo decisivo aiutando le famiglie connazionali. Ma senza l’intervento delle associazioni, la comunicazione tra istituzioni e familiari non si sarebbe mai attivata. Per molte famiglie la sepoltura è stata un ulteriore trauma. La scarsità di cimiteri islamici e l’assenza di un quadro normativo hanno portato a una dispersione dei corpi in undici comuni siciliani 3, spesso senza garanzia di inumazione a terra, come richiesto dalle famiglie musulmane. Questa frammentazione ha reso difficile conoscere gli spostamenti delle salme e impedito di vivere il lutto in maniera collettiva e politica. Alle barriere burocratiche e logistiche si è aggiunta la riduzione dei riti a mere pratiche amministrative: le bare divise, le volontà dei familiari ignorate, la possibilità di pregare e commemorare insieme negata. Così si ostacola la restituzione di un nome, il diritto di vegliare e la trasformazione del dolore in memoria condivisa. Come scrive MEM.MED, non si tratta di semplici negligenze ma di «razzismo e colonialismo strutturali che attraversano la nostra società, le nostre istituzioni e che attribuiscono valore diverso alle vite delle persone razzializzate e in movimento, anche da morte». PH: Silvia Di Meo, Castelvetrano La strage del 13 agosto non è un episodio isolato. Pochi giorni dopo, il 22 agosto, a Lampedusa sono arrivati i corpi di tre bambine di 9, 11 e 17 anni, morte in mare insieme alla madre sopravvissuta, oggi rinchiusa nell’hotspot. «Ad oggi» – denuncia Mem.Med – «le bambine si trovano nel cimitero di Cala Pisana e non sappiamo dove verranno sepolte». Ogni corpo restituito, ogni famiglia che chiede giustizia, ricorda che i confini non sono linee neutre ma dispositivi di morte. Per questo la memoria non può essere lasciata al caso: deve diventare pratica politica, resistenza collettiva all’oblio. Il Mediterraneo continua a essere attraversato da rotte che non solo uccidono, ma cancellano: nomi, volti, legami. A contrastare questa cancellazione restano le famiglie, le associazioni e chi decide di guardare in faccia la violenza del confine, senza normalizzarla. > Per le tre bambine ancora non sepolte, per la loro madre che lotta. > Per le vite disperse in mare. E per i volti di quelle ventitré persone in > cerca di libertà che noi non dimenticheremo mai. (Ultima pagina del rapporto) PH: Silvia Di Meo 1. Scarica il rapporto ↩︎ 2. Ancora una strage. Fino a quando? Maldusa (30 agosto 2025) ↩︎ 3. Le salme infatti sono state distribuite nei cimiteri di: Canicattì, Villafranca Sicula, Ribera, Grotte, Palma di Montechiaro, San Biagio Platani, Calamonaci, Santo Stefano di Quisquina, Castrofilippo, San Margherita del Belice, Campobello di Licata e Joppolo Giancaxio ↩︎
Mem.Med: presentazione della guida per le famiglie delle persone morte o scomparse in mare e alle frontiere italiane
Ogni anno il Mediterraneo diventa teatro non solo di arrivi, speranze e nuove partenze, ma anche di stragi troppo spesso invisibili: naufragi di cui si sa poco o nulla, persone che scompaiono tra le onde o spariscono dietro i confini istituzionali, nei CPR, negli hotspot, nelle zone di frontiera. Accanto al dolore di chi resta, cresce un’assenza insopportabile: quella delle risposte, delle certezze, dei riconoscimenti. È in questo vuoto che nasce l’iniziativa di Memoria Mediterranea, che ha realizzato la guida “Cosa fare quando una persona cara scompare nel Mediterraneo centrale e nei luoghi di frontiera”, pensata per le famiglie delle persone morte o scomparse in mare o alle frontiere italiane. La guida verrà presentata ufficialmente in un evento online lunedì 29 settembre 2025 e nasce dal lavoro con Mem.Med, CLEDU e le famiglie coinvolte, che ne sono i principali destinatari e hanno condiviso informazioni essenziali per la sua stesura. Memoria Mediterranea presenta questa guida non solo come uno strumento utile, ma come un atto politico e civile: riaffermare il diritto alla verità, alla memoria, al riconoscimento. Nessuna vita dovrebbe restare senza nome, nessuna famiglia senza risposte. Offre informazioni su come attivare ricerche, ottenere atti, contattare le autorità, organizzare un rimpatrio. Include anche contatti di realtà associative e reti di supporto che possono accompagnare i familiari dal punto di vista legale, psicologico e pratico. Non pretende di essere esaustiva – le normative restano frammentarie – ma rappresenta un punto di partenza concreto per chi non vuole rimanere solo di fronte all’assenza e al dolore. Si tratta anche di una forma di pressione verso le istituzioni italiane, chiamate a garantire trasparenza, regole chiare, responsabilità condivise, e verso la società civile, invitata a riconoscere e sostenere chi affronta queste perdite. Quando: 29 settembre 2025, ore 18:00 Per partecipare alla presentazione clicca qui (ID de réunion: 910 8591 3459 Code secret: 100250) L’evento sarà in italiano con traduzioni in inglese e francese