Gaza e il clima

Comune-info - Sunday, October 19, 2025
Foto Riccardo Troisi

Nei molti articoli di “geopolitica” sul futuro di Israele, della Palestina, dell’Ucraina, della Russia, dell’Europa, dell’Occidente, che ho avuto occasione di leggere manca un dato di fondo: come sarà il mondo dal punto di vista fisico, climatico, sociale, di qui a 10-20 anni? Avremo tempo e risorse per continuare a fare guerre, fabbricare armi sempre più micidiali, promuovere conflitti, oppure ci dovremo occupare di salvare le nostre case, le nostre città, i nostri territori dai disastri ambientali che si verificheranno sempre più spesso, sempre più intensamente, sempre più diffusamente, con conseguenze, anche economiche, sempre più gravi?

Tutti, compresi i negazionisti climatici – e quelli che prestano fede o si lasciano ingannare da loro – sanno che il pianeta tutto e i singoli territori in cui ciascuno di noi vive non saranno più quelli di ora; ma non vogliono occuparsene perché lo considerano un problema troppo grande o troppo difficile da affrontare. Alcuni di noi, abitanti di questo pianeta, ne risentiranno in modo drammatico (alluvioni, tornado, incendi, siccità, ondate di calore, crisi idriche e di approvvigionamenti, innalzamento del livello dei mari e delle temperature, ecc.), altri in modo più lieve. Ma alcuni in misura tanto forte da costringerli a cercare la propria sopravvivenza altrove: secondo le previsioni più accreditate, nel corso del secolo, ma a partire da ora (la deadline, quando ancora se ne parlava, era stata posta intorno al 2030…) e dai prossimi decenni, circa la metà degli abitanti del pianeta – 4-5 miliardi di esseri umani – dovrà emigrare verso altri territori; per lo più verso l’emisfero settentrionale, liberato dai ghiacci e dal gelo dal riscaldamento globale. Siamo pronti ad affrontare queste migrazioni epocali? E in che modo?

Questo è ciò che manca dalle mappe dei futurologi di governo e dei media, ma che è ben presente alle menti dei pochi membri dell’élite – soprattutto militari, soprattutto del Pentagono – che si misurano con i dati di fatto. Gli stessi che stanno imponendo una svolta radicale ai bilanci degli Stati, trasferendo quantità sterminate, e apparentemente insensate, di risorse dal sostegno all’esistenza delle rispettive popolazioni alle armi, alla guerra, allo sterminio. Quelle risorse economiche e “umane” oggi indirizzate al “riarmo” (come se non fossimo già abbastanza armati), ma soprattutto alla militarizzazione delle istituzioni e della società, e composte in misura crescente da strumenti di sorveglianza dual-use, domani saranno utilizzate per cercare di fermare i flussi incontrollati di migranti in cerca della propria sopravvivenza in altre regioni del pianeta. Che fare?

Gaza ci ha mostrato tutta la determinazione con cui si è cercato di eliminare da un territorio piccolissimo come “la Striscia”, con una politica di sterminio programmato, una popolazione giudicata superflua o nemica. Ma quello era, e forse è ancora, solo un laboratorio. Domani quegli stessi mezzi, sempre più sofisticati e micidiali, potranno essere impiegati per cercare di fermare il flusso dei migranti ambientali e sociali in fuga dalle aree del nostro pianeta diventate invivibili. Se il genocidio del popolo di Gaza ha suscitato l’indignazione e una reazione di massa in molti paesi, ha dimostrato però di lasciare indifferenti, anzi, accondiscendenti, i loro Governi. Ed è di questo che dobbiamo preoccuparci.

Per questo c’è stata, e dovrà continuare ad esserci, una mobilitazione così ampia per Gaza; soprattutto da parte di una generazione, quella di Greta, già impegnata con alterne vicende nella difesa del clima: una generazione che, a differenza di quelle precedenti, percepisce qual è la posta in gioco di questa tremenda aggressione. Grottesco quindi utilizzare la presenza di uno striscione che inneggiava al 7 Ottobre per attribuirne la condivisione alle decine e centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che si sono mobilitati contro il genocidio in atto. Ancora più grotteschi gli autodafè dei giornalisti che fino a ieri irridevano i giovani attaccati tutto il giorno ai cellulari e che oggi si accorgono che in tutto il mondo quei giovani i cellulari li usano per informarsi su ciò di cui i massmedia non parlano e per convocare le loro manifestazioni.

A novembre si svolgerà a Belém la COP30 per il clima: nient’altro che una sfilata di decine di migliaia (fino a 100mila, come a Sharm-El-Sheikh tre anni fa) di “delegati” – molti della grande industria del petrolio e affini, molti diplomatici ignari dei problemi, ma anche molti esperti della materia resi impotenti dai primi – per fare finta di occuparsi del clima. Ma se non metteranno all’ordine del giorno quello che è il problema centrale dei prossimi decenni, prendendo innanzitutto una netta posizione contro le guerre e le armi che hanno offuscato l’urgenza della lotta per i clima, quell’incontro sarà nient’altro che una stanca ripetizione delle inutili COP che l’hanno preceduto.

Il fatto è che i Governi di tutto il mondo si sono dimostrati incapaci di prendere sul serio la minaccia climatica che incombe su tutta l’umanità. Minaccia che può essere affrontata, – all’inizio sicuramente in modo inadeguato, ma via via in modo sempre più drastico, e replicabile, mano a mano che i disastri ambientali lo imporranno – solo se verrà presa in mano dalle popolazioni che ne sono colpite: con misure di adattamento alle condizioni sempre più ostiche in cui si verranno a trovare, come si è visto nel corso di molti dei disastri climatici che hanno colpito un territorio negli ultimi tempi. Ma poi anche con misure di prevenzione: tutte – dalla generazione energetica da fonti rinnovabili e diffuse all’alimentazione e all’agricoltura di prossimità, dall’edilizia all’assetto del territorio, dalla mobilità condivisa al contenimento del turismo e dello sport-spettacolo – che potranno avere effetti positivi anche sulla mitigazione, cioè sulla riduzione del ricorso ai combustibili fossili che i Governi – e chi li governa – non sanno accettare. E chi, di quelle popolazioni, potrà o si vedrà costretto a prendere l’iniziativa? Sicuramente le nuove generazioni: quelle solo l’altro ieri mobilitate per il clima e oggi per Gaza, ben consapevoli delle ragioni di fondo che le spingono a farlo.

Inviato anche a Granello di sabbia

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