È venuto il momento di rovesciare il tavoloI PAESI EUROPEI ADERENTI ALLA NATO SI SONO IMPEGNATI A SPENDERE MILLE MILIARDI
OGNI ANNI DAL 2035 PER IL SETTORE MILITARE. UN MALLOPPO CHE FA IMPALLIDIRE IL
GIÀ MOSTRUOSO REARM EUROPE DI URSULA VON DER LAYEN. HANNO UTILIZZATO LA PAURA
DELL’INVASIONE PER GIUSTIFICARE UNA GIGANTESCA OPERAZIONE DI DISOLOCAMENTO DELLA
RICCHEZZA SOCIALE DALLA CITTADINANZA ALLA FINANZA. DEL RESTO I PRINCIPALI
DECISORI PUBBLICI EUROPEI HANNO TUTTI COLLABORATO CON LA GRANDE FINANZA. “LA
DOMANDA CHE SORGE SPONTANEA A QUESTO PUNTO È: HA ANCORA SENSO PARLARE DI
DEMOCRAZIA? – SCRIVE MARCO REVELLI – NOI CHE ALMENO IN PARTE ABBIAMO COMINCIATO
A INTRAVVEDERE, TRA LE NEBBIE DI UN’INFORMAZIONE ALLINEATA, I MECCANISMI
DELL’INGANNO, QUANTO A LUNGO POTREMO CONTINUARE A ILLUDERE E A ILLUDERCI CHE IN
FONDO NON TUTTO È PERDUTO… FORSE È VENUTO IL MOMENTO DI ROVESCIARE IL TAVOLO. DI
SPOSTARE IL TERRENO DELLA SFIDA PIÙ IN ALTO E PIÙ IN PROFONDO. DI METTERE IN
DISCUSSIONE NON SOLO LE FORME DELL’ESISTENTE MA LA SOSTANZA DELL’ESISTENZA… E
LAVORARE ALLA RICOSTRUZIONE DELL’HOMO VIVENS, CHE PONGA LA FORZA NON ALIENATA
DEL PROPRIO VIVERE AL VERTICE DELLE PROPRIE ASPIRAZIONI…”
Il cinque per cento del Pil! Quando al vertice NATO dell’Aja del 24 e 25 giugno
il Segretario Generale dell’Alleanza Mark Rutte ha sparato quella cifra
iperbolica, in molti hanno pensato che fosse una sorta di scherzo, come dire? Un
corollario dell’imbarazzante messaggio grondante servilismo da lui indirizzato,
la vigilia, a Donald Trump, da prendere come la captatio benevolentiae di un
maggiordomo zelante priva di valore reale. Un grido nel buio per confermarsi di
esistere…
Quella percentuale corrisponde a una cifra terrificante: quasi un trilione di
euro. Mille miliardi che ogni anno i Paesi europei aderenti alla Nato si
impegnano a spendere dal 2035 per il settore militare. Un malloppo che fa
impallidire il già mostruoso ReArm Europe di Ursula von der Layen. E che
costituisce più del triplo dell’attuale spesa militare dei Paesi UE consistente
in circa 330 miliardi, mica poco dal momento che già ora (!) rappresentano il
doppio della spesa militare russa, la quale nel 2024, in piena guerra con
l’Ucraina, non ha superato i 150 miliardi.
Basterebbe anche solo un’occhiata a queste ultime cifre per smontare la roboante
macchina argomentativa che vorrebbe descrivere un’Europa disarmata, nuda di
fronte alla minaccia incombente di un Putin armato fino ai denti e assetato di
conquista. Non ci sarebbe neppur bisogno di scomodare la geopolitica e la storia
delle culture per dimostrare che l’immagine di una Russia assetata di conquista
verso le disarmate pianure dell’Ovest non sta in piedi. Dovrebbe bastare
l’aritmetica. Il banale calcolo delle risorse (sproporzionate) già da ora
disponibili tra i due campi, per dissipare la paura. Ma Rutte non scherzava
affatto. E nemmeno i suoi servizievoli ascoltatori hanno fatto un plissé davanti
a quel pozzo senza fondo prospettato all’Aja. Tutti, tranne l’ardimentoso Pedro
Sanchez, hanno piegato il capo e aperto i portafogli. Non perché credano davvero
alla fola dell’imminente “invasione” (l’intelligenza non è certo il loro forte,
ma stupidi fino a quel punto non sono), quanto piuttosto perché, per
quell’animal istinct che caratterizza le leadership postmoderne, fiutano la
grande occasione per poter finalmente rastrellare la (residua, e sudata)
ricchezza dei loro sudditi per convogliarla con facilità nei circuiti finanziari
che sono i loro veri committenti.
La paura come espediente narrativo
Per dirla nel modo più brutale, quella che è andata in scena all’Aja, e pochi
giorni dopo a Bruxelles, è stata una grande rappresentazione che ha utilizzato
il più elementare sentimento umano da quando esiste la Storia, ovvero la Paura –
e quella paura per eccellenza che è la paura dell’invasione nemica e della
sottomissione violenta -, come espediente narrativo per mascherare e
giustificare una gigantesca operazione di disolocamento della ricchezza sociale
dalla cittadinanza alla finanza. Mille miliardi di euro di gettito fiscale
sottratti ogni anno ai servizi ai cittadini europei (sanità, istruzione,
welfare, manutenzione del territorio, ecc.) e convogliati nelle disponibilità
dei grandi fondi d’investimento internazionali e nel mercato borsistico
all’interno del quale le società produttrici di armi e il loro immenso indotto
saranno sempre più centrali.
I grandi predatori globali – sempre i soliti – si sono già attrezzati. Dall’anno
scorso “gira” sulla piattaforma HANetf un ETF (ovvero uno strumento finanziario
per chi vuole partecipare al grande gioco di Borsa) che replica esattamente un
indice NATO costituito dalla spesa militare dei paesi membri (più questi
investono in armi, più il titolo cresce di valore). Si chiama Global Defence ETF
(NATO) e viene caldamente suggerito con la motivazione secondo cui “si prevede
che il mercato della difesa crescerà a un CAGR del 5,6% a 718,12 miliardi di
dollari entro il 2027 e il mercato della sicurezza informatica di un CAGR
dell’8,9% nello stesso periodo” [il CAGR, per chi non lo sapesse, è il Tasso
Annuale di Crescita Composto]. Una vera “galupperia” avrebbe detto mio nonno,
pensata per rastrellare soprattutto investitori europei. Ma non è l’unico. Il
più grande gestore patrimoniale del mondo, la statunitense Black Rock, ha
introdotto da pochissimo l’iShares Defense Industrials Active ETF, “un nuovo
fondo a gestione attiva progettato per coloro che sono interessati ad allineare
i portafogli con la mutevole configurazione della difesa e della sicurezza
globale”. Si aggiunge ai già attivi come l’iShares U.S. Aerospace & Defense ETF
e l’iShares Cybersecurity and Tech ETF. Vanguard, per parte sua, il secondo
gestore globale di fondi, propone almeno un ventina di ETF sul colosso tedesco
delle armi Rheinmetall (in media hanno fatto segnare nell’ultimo anno una
crescita oscillante tra il 240% e il 270%) e una decina sul nostro Leonardo
(performance nell’ultimo anno intorno al 100%).
Il meccanismo su cui è strutturata questa grande operazione di spoliazione dei
cittadini europei è tutto sommato semplice, anche se sufficientemente articolato
per sfuggire allo sguardo delle sue potenziali vittime. Funziona più o meno
così: i governi dirottano fiumi di denaro proveniente dal gettito fiscale o dal
prestito pubblico verso le grandi industrie degli armamenti (compresa security e
tutto quanto può essere ficcato nell’indotto militare); queste vedono gonfiarsi
il fatturato e di conseguenza il valore delle proprie azioni; ciò attira sui
rispettivi titoli ampi flussi di capitali in cerca d’investimento i quali
accrescono ulteriormente il valore di quegli assets e soprattutto il volume di
capitale controllato dalle grandi piattaforme di gestione degli investimenti
globali che li commercializzano e dunque dilatano il loro potere già di per sé
smisurato.
In tre mosse les jeux sont fait! I normali cittadini che si erano illusi di
pagarsi con le tasse versate servizi decenti relativi alla salute,
all’istruzione dei loro figli, alla sicurezza pubblica e alla tutela del
territorio si troveranno in braghe di tela. La minoranza ricca a sufficienza per
destinare parte del proprio reddito agli investimenti di borsa si potrà
arricchire ulteriormente anche se moderatamente. Il capitale finanziario vedrà
il tetto della sua bolla, che sembrava giunta al limite, spostato verso l’alto
per almeno un’altra decina di anni grazie all’afflusso di capitali prima
indisponibili. Gli undici trilioni di dollari amministrati da Black Rock, i 9 di
Vanguard, i quasi 4 di Morgan Stanley, i quasi 3 di Goldman Sachs potranno
dilatarsi ancora un bel po’. E noi sappiamo bene quanto vitale sia, per questi
mostruosi plantigradi dell’antropocene, continuare a crescere, perché se si
dovessero mai fermare (o, dio non voglia, dimagrire un po’) si sgonfierebbero
come una vescica di maiale.
Quelle biografie professionali di alcuni dei decisori pubblici europei
A questo punto proviamo a fare un piccolo esperimento, così, tanto per cercare
di capire come funziona la democrazia nel nostro intristito Occidente. Proviamo
a dare un’occhiata alle biografie professionali di alcuni tra i principali
decisori pubblici europei che si son fatti fautori di questa “operazione”.
Prendiamo Merz, ad esempio, l’uomo alla guida della locomotiva che traina il
riarmo europeo. Beh, il nuovo Cancelliere tedesco ha lavorato, dal 2016, il
periodo in cui Angela Merkel riuscì a metterlo ai margini nella CDU, come
presidente di Black Rock Deutschland. Ne diede notizia il Wall Street Journal
del 17 gennaio di quell’anno con un ampio articolo intitolato BlackRock Hires
Former Merkel Deputy for Its German Operations (“BlackRock assume l’ex vice
della Merkel per le sue operazioni in Germania”). Nel testo si affermava che
“avendo una fitta rete politica, ci si aspetta che Merz sostenga le relazioni di
BlackRock con i politici e i grandi clienti in Germania”. Non stupisce che oggi
sia lui – la notizia è fresca fresca – a proclamare che non solo la Russia ci
attaccherà entro il 2029 ma addirittura che l’attacco è già in corso
(Deutschland werde von Russland angegriffen). Ne da ampia notizia il settimanale
tedesco Der Spiegel, il quale commenta osservando che per la verità “chi vede le
immagini dall’Ucraina, chi guarda il documentario di Netflix sulla seconda
guerra mondiale, non arriva a questa conclusione”, ma da buoni tedeschi, avendo
parlato il Capo, e avendo egli addotto alcune prove del suo dire (cavi
sottomarini distrutti nel Mar Baltico, caserme dell’esercito tedesco spiate con
droni, fake news generate dall’intelligenza artificiale”…), sospendono il
giudizio e prudentemente dedicano la copertina a un disegno di droni
sfarfalleggianti nel cielo sopra Berlino.
Oppure prendiamo la stessa Ursula von der Layen, che quattro anni fa era finita
sotto attacco per aver fatto assegnare dalla Commissione Europea alla stessa
Black Rock una ricca consulenza diretta a orientare le politiche green
dell’Unione (allora era quello il campo da mietere per intercettare i grandi
flussi di denaro, poi avrebbero scoperto la Guerra…). E d’altra parte è ben noto
che Emmanuel Macron, prima di mettersi a giocare a monsieur le President, aveva
lavorato dal 2008 come managing director presso la banca d’affari Rothschild &
Co la quale non avrà le dimensioni abnormi delle equivalenti statunitensi ma ha
comunque un robusto ramo dedicato all’asset management e quindi, di recente,
alla promozione nel campo degli investimenti militari. Né possiamo trascurare
Keir Starmer, la terza gamba del club dei “volonterosi”. I suoi spin doctors
amano ricordarne le umili origini, il padre operaio che gli diede il nome del
fondatore del Labour, i diritti civili nella cui difesa si era dedicato come
avvocato, ma la sua metamorfosi verso il blairismo è piuttosto precoce, la sua
conversione alla linea dura come giurista di Stato ampiamente conclamata, la
scorrettezza con cui si dedicò alla liquidazione di Jeremy Corbyn e della
sinistra laburista con la falsa e vergognosa accusa di “antisionismo” ben nota.
Soprattutto, Starmer passerà alla storia come colui che ha consegnato il Labour
alle lobbies – in particolare quelle legate agli armamenti – a cui ha dato come
mai prima “la penna per scrivere la politica”. Il programma con cui il partito
ha affrontato le ultime elezioni è stato elaborato, infatti, attraverso uno
stretto, quotidiano e sistematico lavoro di collaborazione con i lobbisti della
“City di Londra e del più ampio settore dei servizi finanziari di cui la City è
al centro”. OpenDemocracy – la piattaforma mediatica internazionale indipendente
dedicata alla promozione dei diritti umani e della democrazia – al termine di
una lunga, meticolosa indagine, ha documentato come nell’anno precedente alle
ultime elezioni politiche grandi gruppi economico-finanziari come “BlackRock,
Macquarie, HSBC, Bloomberg, Lloyds, Brookfield Asset Management e Blackstone […]
si sono assicurati l’accesso ai principali membri del nuovo governo, tra cui
Starmer, Reeves, Reynolds e il cancelliere del Ducato di Lancaster,
PatMcFadden”. Il Rapporto cita, tra gli altri, un incontro riservato in una sala
riunioni nelle Churchill War Rooms, nel marzo del ’24, dell’allora segretario
ombra alla Difesa del Labour, John Healey e del ministro per gli appalti della
Difesa Chris Evans, “con i dirigenti di venti dei maggiori produttori di armi
del mondo, tra cui BAE Systems, Leonardo, Lockheed Martin, RTX, Rheinmetall e
Rolls Royce”. E ricorda come da allora “gli esponenti del Labour hanno
incontrato i rappresentanti delle aziende della difesa in almeno tredici
occasioni, tra cui due visite ai siti gestiti da BAE Systems e dall’appaltatore
tedesco della difesa Rheinmetall”.
E che dire di Rutte? Dell’ineffabile Segretario generale della NATO Mark Rutte,
che sembra un vermicello quando si prosterna davanti a Donald Trump e tira fuori
gli artigli quando si tratta di piegare gli altri membri dell’Alleanza? Lui
viene da Unilever, del cui top management ha fatto parte dall’inizio degli anni
’90. E a chi appartiene Unilever? A Black Rock e a Vanguard, manco a dirlo, che
ne controllano circa 150 miliardi di capitalizzazione (85 miliardi e mezzo The
Vanguard Group e quasi 71 miliardi Black Rock Fund Advaisors: sono i primi due
controllanti). Gira e rigira, in questo gran tour de’ quattrini, da qualunque
parte lo si percorra si incontrano sempre le stesse stazioni di posta, con gli
stessi ufficiali pagatori, per conto del solito “covo d’assassini”…
Ha ancora senso parlare di democrazia?
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: ha ancora senso parlare di
democrazia a proposito dello stato di cose presente? A cosa si è ridotta quella
parola magica che questo esausto Occidente continua a inalberare come bandiera
di una propria presunta superiorità morale? Norberto Bobbio, circa mezzo secolo
fa, quando il processo degenerativo stava per muovere i primi passi, in un denso
volumetto dal titolo Il futuro della democrazia, invitava a riflettere sulla
distanza possibile, quando si tratta dei grandi temi della modernità politica,
tra “gli ideali e la rozza materia”, ovvero tra i principi fondamentali e la
pratica quotidiana. Ebbene oggi dobbiamo constatare che quella distanza si è
fatta tanto abissale che i primi sono diventati ormai invisibili tra le pieghe
fangose di una materia tanto rozza dall’essere diventata improponibile: un gioco
truccato in cui le vittime della grande spoliazione sono chiamate a scegliere
non i rappresentanti propri ma di coloro che li depredano.
E noi, noi che almeno in parte abbiamo incominciato a intravvedere, tra le
nebbie di un’informazione allineata, i meccanismi dell’inganno, quanto a lungo
potremo continuare a illudere e a illuderci che in fondo non tutto è perduto.
Che si può – anzi, per dovere civico si deve – partecipare a quel gioco in cui
il banco vince sempre, stretti tra l’esercito di chi (ormai una buona metà della
platea), forse avendo intuito la vanità dell’esserci, si chiama fuori e diserta
il voto e quanti, per inerzia, per antichi valori, per orrore della
“diserzione”, continuano a partecipare al rito legittimando di fatto il
meccanismo che li tradisce.
Rebus sic stantibus la partita appare (è) disperata. Abbiamo di fronte
l’infinita potenza del denaro, che decide i nostri destini nell’alto dei cieli,
impalpabile e intoccabile da noi che stiamo con i piedi sulla terra, invisibile
se non nei numeretti verdi e rossi degli indici di borsa indecifrabili dai più.
Affrontarla con le armi tradizionali della Politica appare una mission
impossible. Forse è venuto il momento di rovesciare il tavolo. Di spostare il
terreno della sfida più in alto e più in profondo. Di mettere in discussione non
solo le forme dell’esistente ma la sostanza dell’esistenza. Di passare a una
critica radicale di quell’antropologia sconvolta che dalla Rivoluzione
industriale in poi – attraverso la catena alienante che va dall’homo faber e
dall’homo oeconomicus dell’epoca del ferro e del cemento, passando per l’homo
ludens e dall’homo videns di quella della grande smaterializzazione delle cose e
del lavoro, per arrivare fino all’homo necans di oggi -, ci ha portato a essere
nemici di noi stessi. E lavorare alla ricostruzione dell’homo vivens, che ponga
la forza non alienata del proprio vivere (e sopravvivere) al vertice delle
proprie aspirazioni. Compito più simile a quello del miglior pensiero religioso
che ormai non vive più qui, in Occidente, che non del consumato pensiero
politico. Ma tant’è. Forse, al punto in cui siamo, davvero “solo un dio ci può
salvare”. O, quantomeno, una parola che abbia la potenza di rottura dell’antica
voce visionaria dei profeti.
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Pubblicato su Volere la luna (e qui con il consenso dell’autore)
Tra gli ultimi libri di Marco Revelli Democrazia tradita. Dal G8 di Genova al
governo Meloni: la pandemia antidemocratica che ha travolto l’Italia (scritto
con R. Bertoni per PaperFIRST) e Questa Sinistra inspiegabile a mia figlia.
Dialogo immaginario con un’adolescente (Einaudi).
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