Tag - Guerra

Quel dimenticato appello di Antigone
-------------------------------------------------------------------------------- Roma, 6 settembre. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Non sono nata per l’odio, ma per l’amore. Sono parole di duemila e cinquecento anni fa. Le scrisse Sofocle, per il personaggio di Antigone, la figlia di Edipo. Sono nata per condividere l’amore, non l’odio. Rilette oggi, risuonano di una sconvolgente contemporaneità.  Di fronte alle immagini che arrivano ormai da mesi e mesi dalla striscia di Gaza, e a quelle terribili di questi ultimi giorni, la trama di quell’antica tragedia rivive la sua ultima messinscena. Ma l’uso di questa parola, messinscena, è inappropriato, perché questa volta non si tratta di una rappresentazione ma della realtà. Il corpo del fratello di Antigone, condannato da Creonte, il re di Tebe, all’insepoltura, a essere cioè fatto a pezzi dai cani e dagli uccelli, è il corpo del popolo palestinese rinchiuso nella sua terra, senza vie di fuga, e costretto a morire di fame o a essere dilaniato dalle bombe e dai droni.  Creonte assume oggi le fattezze di Netanyahu, un despota intestardito nel male, che ascolta soltanto chi gli dà ragione, allontana ogni altro parere e oltraggia la saggezza e la condizione umana. È il campione del più volgare patriarcato, dice al figlio: “Proprio questo è il principio che devi tenere saldo dentro di te: assecondare in tutto la volontà paterna”. Un principio che è alla base di ogni regime totalitario e di ogni esercizio autoritario e sanguinario del potere. Anche per lui valgono le parole dell’indovino Tiresia: “Per tuo volere, la città è malata”. E valida è la profezia di una contaminazione morale che ricadrà sul suo popolo – è questo il suicidio di Israele – per i corpi insepolti o sfregiati dei bambini e delle donne palestinesi, dei vecchi e degli uomini, per tutta la carne innocente violentata. Prendere coscienza, ci ricorda il teatro greco, è un percorso tragico, costellato di lutto e di sofferenza, ma a cui non ci si può e non ci si deve sottrarre. Per tutto questo, la ribellione che Antigone porta già nel nome è la ribellione alla logica omicida del mondo, all’offesa e all’umiliazione insensate o mosse soltanto da fini economici o colonialisti o vendicativi. È in definitiva la ribellione alla mentalità della guerra, generatrice soltanto di sventura e di rovina, moltiplicatrice di altra violenza e innesco di altre guerre, all’infinito. Antigone è colei che si pone contro – contro il potere, contro la violenza, contro l’odio – perché già alla nascita è contronatura, essendo figlia di un incesto. Antigone è impura. Nasce dal lato della devianza. Antigone è la letteratura e la poesia. Ed è sola. Condannata a essere murata viva.  Se vogliamo uscire da questo circolo vizioso, dobbiamo accogliere il suo appello, l’appello di una donna, sorella di tutti, e provare ad avere il suo stesso coraggio nel difendere i diritti fondamentali che spettano a ogni persona, “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”, come recita la Dichiarazione Universale dei diritti umani. In nome di un senso condiviso di giustizia. In nome di un senso condiviso di giustizia. Siamo tutti liberi ed uguali, in dignità e diritti. Abbiamo tutti diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza. Nessun individuo può essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù. Nessun individuo può essere torturato.  Ogni essere umano, in ogni luogo, ha diritto ai suoi diritti. Perché siamo tutti uguali di fronte alla legge e protetti dalla legge. Nessun individuo può essere arbitrariamente detenuto o esiliato. Ogni individuo ha libertà di movimento e diritto a chiedere asilo in altri paesi. Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza.  E a formarsi una famiglia. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero e di espressione, alla libertà di riunione e di pubblica assemblea. Ogni individuo ha diritto alla democrazia. Al lavoro. A un letto. A un salario. All’istruzione. E al gioco, al riposo, allo svago. Ogni individuo ha diritto a un mondo più libero e più giusto. Nessuno, nemmeno il più potente tra i potenti, può togliere a un altro essere umano i suoi diritti. Ma la pace è il primo dei diritti, perché è la condizione necessaria in cui tutti gli altri diritti potranno essere rispettati. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Fabio Stassi Bebelplatz. La notte dei libri bruciati e Notturno francese, entrambi editi da Sellerio. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel dimenticato appello di Antigone proviene da Comune-info.
Che cos’è il Golden Dome, lo scudo spaziale di Donald Trump
Immagine in evidenza da White House.gov, licenza Creative Commons Raggi laser sparati dai satelliti. E altri satelliti “sentinella” a sorvegliare il cielo statunitense, oltre a batterie antimissile in allerta 24 ore su 24. Il Golden Dome Shield – la “Cupola d’oro” di Donald Trump — sarà una rivoluzione per la Difesa a stelle e strisce. E potrebbe anche sancire l’avvio di una nuova Guerra Fredda, questa volta combattuta in orbita. Il faraonico scudo spaziale del presidente degli Stati Uniti sta però dividendo il Paese, con una battaglia su un budget da 175 miliardi di dollari e con una raffica di critiche sull’efficacia militare di questo arsenale che “proteggerà la nostra patria”, come ha detto Trump a metà maggio dagli hangar della Al Udeid Air Base, nel deserto del Qatar. Per poi aggiungere, prima dallo Studio Ovale e poi al vertice Nato dell’Aja, che “avremo il miglior sistema mai costruito”. La Cupola d’oro intercetterà i missili “anche se vengono sparati dall’altra parte del mondo” e persino dallo spazio. Trump mira a realizzare oggi il sogno delle Star Wars di Ronald Reagan negli anni ’80: un “ombrello spaziale” che protegga gli Stati Uniti dalla grande paura di un attacco missilistico sferrato dai suoi nemici: Iran, Corea del Nord, Cina o Russia. Oltre al programma del suo predecessore, la Cupola d’oro ha un’altra fonte di ispirazione: l’Iron Dome, lo scudo di Israele che – nonostante i dubbi sollevati sulla sua reale efficacia – ha intercettato razzi e missili dall’Iran e dalle milizie proxy filo-iraniane. Secondo Jeffrey Lewis, esperto di Difesa del californiano Middlebury Institute, la differenza tra quest’ultimo e la proposta di Trump sarebbe pari a quella tra “un kayak (l’Iron Dome) e una corazzata (Il Golden Dome)”. L’ALLARME DEL PENTAGONO Da anni, il Pentagono sostiene che gli Stati Uniti non abbiano tenuto il passo con gli ultimi missili sviluppati da Cina e Russia, che tradotto vuol dire: sono necessarie nuove contromisure. I generali statunitensi hanno rivelato che Mosca e Pechino possiedono centinaia di missili balistici intercontinentali, oltre a migliaia di missili da crociera in grado di colpire la terraferma da New York a Los Angeles. I sistemi di difesa missilistica a terra statunitensi, in Alaska e in California, hanno fallito quasi la metà dei test. All’inizio dell’anno, un alto ufficiale ha avvertito che – in caso di conflitto, magari legato a un’invasione di Taiwan – i missili cinesi potrebbero colpire la base aerea di Edwards, in California. In un’analisi dettagliata sulla rivista Defense News, gli esperti Chuck de Caro e John Warden hanno spiegato perché la Cupola d’oro non è sufficiente per fermare un attacco cinese contro gli Stati Uniti: “Oggi gli Stati Uniti potrebbero trovarsi in una situazione simile a quella della Corea nell’ottobre 1950: sebbene il presidente Donald Trump stia compiendo sforzi intensi per rafforzare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, con iniziative che vanno dall’F-47 e dal B-21 Raider alla promessa di un sistema di difesa aerospaziale denominato Golden Dome, questi sistemi non sono ancora operativi”. Comunque, proseguono gli analisti, “la Cina ha costantemente aumentato il proprio potere offensivo sotto la guida del presidente Xi Jinping”. GOLDEN DOME: COME FUNZIONA Il Golden Dome Shield, sfruttando una costellazione di centinaia di satelliti e grazie a sensori e intercettori sofisticati, potrebbe neutralizzare i missili nemici in arrivo anche subito dopo il loro decollo e prima che raggiungano gli States. Un esempio? Proviamo a immaginare che un giorno la Cina decida di lanciare un missile contro gli Stati Uniti. Grazie al Golden Dome, i satelliti americani rileverebbero le sue scie luminose. E, mentre il missile sarebbe ancora nella sua fase di “spinta”, uno degli intercettori spaziali sparerebbe un laser, o una munizione alternativa, per far esplodere il missile ed eliminare la minaccia. Il nuovo sistema di difesa si estenderà su terra, mare e spazio. Servirà per neutralizzare un’ampia gamma di minacce aeree “di nuova generazione”, tra cui missili da crociera, balistici e ipersonici. Questi ultimi, in particolare, sono i più difficili da abbattere per la loro manovrabilità ad alta velocità.  Il Golden Dome dovrebbe fermare i missili in tutte e quattro le fasi di un potenziale attacco: rilevamento e distruzione prima di un’offensiva, intercettazione precoce, arresto a metà volo e arresto durante la discesa verso un obiettivo. E lo farà grazie a una flotta di satelliti di sorveglianza e a una rete separata di satelliti d’attacco. La “Cupola d’oro” fermerà anche i sistemi di fractional orbital bombardment (Fob, Sistema di Bombardamento Orbitale Frazionale) in grado sparare testate dallo spazio. IN CAMPO I GIGANTI DELLE ARMI Fiutando un’opportunità di business senza precedenti, i giganti dell’industria militare americana – L3Harris Technologies, Lockheed Martin e RTX Corp – si sono già schierati in prima fila. L3Harris ha investito 150 milioni di dollari nella costruzione di un nuovo stabilimento a Fort Wayne, nell’Indiana, dove produce satelliti per sensori spaziali che fanno parte degli sforzi del Pentagono per rilevare e tracciare le armi ipersoniche. Al 40esimo Space Symposium di Colorado Springs, Lockheed Martin ha invece diffuso un video promozionale che mostra una Cupola d’oro che scherma le strade deserte e notturne delle città americane. Per 25 miliardi di dollari, la Booz Allen Hamilton, società di consulenza tecnologica della Virginia, sostiene di poter lanciare in orbita duemila satelliti per rilevare ed eliminare i missili nemici. Mentre dall’US Space Force, in qualità di vicecapo delle operazioni, il generale Michael A. Guetlein, a cui Trump ha affidato la regia del mega progetto, ha assicurato che il Golden Dome sarà operativo entro la fine del suo mandato nel 2030. Il finanziamento di quest’opera, però, è una sfida enorme. Per ora sul piatto ci sono 25 miliardi di dollari: un settimo della spesa totale ipotizzata. Il governo stima infatti che la Cupola d’oro possa costare fino a 175 miliardi di dollari, una cifra che il Congressional Budget Office punta a far rientrare nel più corposo bilancio da 542 miliardi che gli Stati Uniti intendono spendere in progetti spaziali nei prossimi vent’anni. Un’iniziativa cara come l’oro, dunque. Anche perché Trump, sembra ossessionato dal prezioso metallo (il suo ufficio alla Casa Bianca è stato del resto letteralmente dorato: dalle tende al telecomando della Tv). UOMINI D’ORO E CONFLITTO DI INTERESSE Mentre i colossi della difesa e dello spazio fiutano l’affare, nel resto degli Stati Uniti divampano gli scontri su costi e appalti. Perché a costruire la Cupola d’oro si sono candidati uomini d’oro: in pole position c’è il miliardario Elon Musk, proprietario di SpaceX e della costellazione Starlink, ex braccio destro di Trump prima che la loro liaison finisse, con il magnate che ha lasciato la Casa Bianca sbattendo la porta.  Un voltafaccia che il presidente non ha digerito: sebbene SpaceX rimanga il frontrunner del settore, l’amministrazione USA è a caccia di nuovi partner spaziali da imbarcare nel progetto, a cominciare dal Project Kuiper di Amazon di Jeff Bezos, insieme alle startup Stoke Space e Rocket Lab, mentre la Northrop Grumman sta alla finestra consapevole di poter essere il vincitore nel lungo periodo. Siccome il Golden Dome sarà un concentrato tecnologico, in campo ci sono anche Palantir, società di analisi dei big data del tycoon conservatore Peter Thiel, e Anduril di Palmer Luckey, azienda specializzata in sistemi autonomi avanzati, dall’intelligenza artificiale alla robotica. Intanto un gruppo di 42 membri del partito Democratico ha scritto all’ispettore generale del Pentagono per aprire un’indagine, dopo che si è saputo che SpaceX potrebbe aggiudicarsi un maxi contratto per la costruzione del Golden Dome. Con in testa la senatrice Elizabeth Warren, i democratici chiedono trasparenza ed esprimono timori per possibili “conflitti di interesse” tra l’amministrazione Trump, Musk e le altre aziende americane. LO SCETTICISMO DEI MILITARI Passando dal fronte economico a quello militare, più di un esperto è scettico sull’efficacia del Golden Dome Shield: malgrado Trump continui a dire che frenerà le minacce al 97%, sul progetto aleggia più di un interrogativo. Anzitutto, come saranno gli intercettori? È ancora da decidere. Un dirigente della stessa Lockheed non ha nascosto, parlando con il sito Defense One, che intercettare un missile nella sua fase di spinta è “terribilmente difficile” e che si potrebbe metterlo fuori combattimento solo “nelle fasi relativamente lente dopo il suo lancio”.  Per Thomas Withington, esperto di electronic e cyber warfare del Royal United Services Institute, i raggi laser sono preferibili ai missili, pesano meno e riducono il costo di lancio dell’intercettore. Ma ammette che questa tecnologia non è mai stata testata nello spazio. Un gruppo indipendente dell’American Physical Society ha calcolato che servirebbero 16mila intercettori per mettere fuori uso 10 missili intercontinentali simili all’ipersonico Hwasong-18 nordcoreano. Per questo motivo, su The Spectator, Fabian Hoffmann, ricercatore di tecnologia missilistica del Centre for European Policy Analysis, ha definito il Golden Dome un “progetto mangiasoldi”. UNA NUOVA GUERRA FREDDA Negli Stati Uniti non mancano i perplessi. L’ufficio indipendente del bilancio del Congresso ha avvertito che il progetto potrebbe costare fino a 524 miliardi di dollari e richiedere 20 anni per essere realizzato. Ma i dubbi riguardano anche la validità e utilità dello scudo spaziale. Scienziati come Laura Grego, intervistata dal MIT Technology Review, definiscono il progetto, da sempre,  “tecnicamente irraggiungibile, economicamente insostenibile e strategicamente poco saggio”. E poi ci sono le conseguenze geopolitiche, che potrebbero minare gli equilibri delle superpotenze. La Cina ha già espresso la sua preoccupazione su questo progetto. Il Cremlino è pronto a parlare con Washington di armi tattiche e nucleari. Nel prossimo decennio, il pericolo è che si inneschi una spirale incontrollata, con una corsa agli armamenti anti-satellite per bucare il Golden Dome. Come all’inizio di una nuova Guerra Fredda, è possibile che Trump stia cercando di costringere i suoi nemici a investire in tecnologie costose al fine di indebolirne l’economia, così come le “guerre stellari” di Reagan avevano contribuito a mandare in bancarotta l’Unione Sovietica. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: se la prossima amministrazione statunitense decidesse di cancellare il Golden Dome, a quel punto a finire in un buco nero sarebbero decine di miliardi di dollari statunitensi. L'articolo Che cos’è il Golden Dome, lo scudo spaziale di Donald Trump proviene da Guerre di Rete.
You have no idea
SOLTANTO NEL 2024 LE SPARATORIE DI MASSA NEGLI USA SONO STATE 503, LE STRAGI 30 E I MORTI PER ARMA DA FUOCO 16.725. EPPURE ADESSO RACCONTANO CHE SI TRATTA DI UN OMICIDIO POLITICO. “NON HAI IDEA DI CIÒ CHE HAI SCATENATO” HA DETTO LA MOGLIE DI KIRK, RIVOLGENDOSI AL RESPONSABILE DELL’OMICIDIO. CIÒ CHE ACCADE NEGLI USA È UN COLLASSO PSICO-POLITICO DI CARATTERE SUICIDARIO. MA IL VERO PROBLEMA, SCRIVE BIFO, È CHE ORA QUEL SUICIDE BY COP SI STA PROIETTANDO SU SCALA MONDIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Ventiquattro anni dopo l’attentato al World Trade Organization che segnò l’inizio della guerra civile globale, siamo di fronte a un salto che potrebbe precipitare definitivamente nel caos gli Stati Uniti. “You have no idea of what you have unleashed”, ha detto la moglie di Charlie Kirk (rivolgendosi al responsabile dell’omicidio). Cerchiamo allora di farcene un’idea poiché la cosa non riguarda solo gli statunitensi, – che forse entrano in una sanguinosa agonia -, ma tutti gli abitanti del pianeta poiché sappiamo che la guerra civile statuntense ha e avrà sempre più una proiezione globale. Il collasso psico-politico del gigante imperialista ha carattere suicidario, ma si tratta di un suicidio micidiale (suicide by cop), come quello che da anni compiono migliaia di giovani statunitensi. Prendono il fucile e vanno a sparare davanti a una scuola nella speranza che arrivi qualcuno armato per aiutarli a uscire dall’incubo che è stata la loro esistenza. Da Columbine in poi abbiamo imparato a riconoscere questo tipo di suicidio delegato come una particolarità della vita interna a questo paese disgraziato. Ora il suicide by cop si sta proiettando su scala mondiale. 11 settembre 2025 La pallottola che ha ucciso Charlie Kirk (pace all’anima sua) è partita proprio mentre lui stava dicendo che le vittime innocenti che capitano durante i mass shooting sono un piccolo sacrificio che dobbiamo sopportare per difendere la libertà di portare armi. Questa volta la vittima dello shooting non è innocente, dal momento che ha sempre difeso la proliferazione di armi da fuoco. Perciò è difficile unirsi all’ipocrita rammarico generale: chi di spada ferisce di spada perisce, e qui la spada è un fucile di precisione che ha sparato dalla distanza di duecento metri. Per un giorno e mezzo ci siamo chiesti chi fosse lo sparatore. Qualcuno ha fatto l’ipotesi che l’assassino fosse un tiratore scelto dello stato profondo, poi ci hanno detto che si chiama Tyler Robinson, ha ventidue anni, e sui proiettili aveva scritto Bella Ciao e “beccati questa fascista”. Hanno trovato quello che stavano cercando, e adesso racconteranno che si tratta di un omicidio politico. Non so se Tyler ha scritto davvero quelle frasi, ma so che secondo il Gun Violence Archive nel 2024 le sparatorie di massa sono state 503, le stragi sono state trenta e i morti per arma da fuoco 16.725. Tyler Robinson, come Thomas Crooks, il ventenne che mancò la testa di Donald Trump, come innumerevoli altri da Columbine (1999) ha preso il fucile per partecipare a questo sport nazionale: una guerra civile psicotica. Un popolo di bambini incattiviti ha sostituito la ragione politica con la demenza aggressiva amplificata dai media. La crisi psicotica della più grande potenza militare di tutti i tempi iniziò l’11 settembre 2001 con l’abbattimento delle due torri simbolo. Seguirono due guerre inconcludenti e catastrofiche, poi il suprematismo umiliato trovò in Donald Trump la sua vendetta. Poi un’armata caricaturale diede l’assalto al Campidoglio, e la grande democrazia fu incapace di reagire alla violenza e soprattutto al ridicolo. Infine Trump ha vinto di nuovo, e questa volta fa sul serio: ha condotto e sta conducendo una guerra contro le città governate dal Partito democratico. Una guerra ridicola se volete, ma c’è poco da ridere. Al contempo l’Immigration and Custom enforcement (ICE) è stato trasformata in una milizia finanziata dai contribuenti direttamente al servizio del presidente: un corpo di agenti incappucciati e armati che vanno in giro a minacciare malmenare e sequestrare persone per poi deportarle in campi di concentramento sul territorio nazionale e fuori del territorio nazionale. Il Ku Klux Klan come guardia pretoriana dell’Imperatore. Ross Douthat del NYT (Will Trump’s Imperial Presidency Last?) parla del cesarismo di Trump e si chiede se le sue riforme autoritarie sono destinate a cambiare la natura dello stato sul lungo periodo. Io direi che la questione non è di lungo periodo, perché nel breve periodo assisteremo a una disintegrazione politica, sociale e soprattutto psichica, del paese che con Israele si contende il primato di più violento del mondo. È questa disintegrazione ormai in corso che cambierà il lungo periodo, forse cancellandolo anticipatamente. Che fare in una tempesta di merda? Nel 2001 l’Occidente entrò in una sorta di guerra civile che l’ha progressivamente travolto. Da quel momento la democrazia venne liquidata. Il 20 luglio del 2001, a Genova, il governo di Berlusconi e Fini scatenò la violenza armata contro una manifestazione pacifica di trecentomila persone. Da allora capimmo che la vita sociale non sarebbe più stata la stessa. Nel ventesimo secolo, in Europa, il potere politico funzionava secondo le regole della “democrazia”: la politica si fondava sul consenso, e conviveva con il dissenso: l’oggetto del contendere era il “senso” della relazione sociale. Nel nuovo secolo il “senso” della relazione sociale è perduto: la legge ha lasciato il posto alla forza. La persuasione ideologica ha ceduto il posto alla pervasione mediatica. La ragione ha ceduto il posto alla psicosi di massa. Nelle condizioni del secolo passato “dimostrare” aveva una funzione utile: parlare, gridare, manifestare erano modi per spostare il senso condiviso della società: esprimere dissenso serviva a spostare il consenso, poiché l’esercizio del potere si fondava sulla mediazione e sul consenso. A Genova capimmo che questa dinamica era finita. Da quel momento il potere ha modificato la sua forma e la fonte della sua legittimità. La società, investita da una tempesta mediatica sempre più intensa, non ruotava più intorno alla persuasione – ma intorno alla pervasione, al dominio bruto. La psicosi ha preso il posto della politica, e si tratta di una psicosi omicida, con una fortissima vocazione suicida. Ma la questione è: che fare in questa tempesta di merda? Possiamo continuare a dimostrare finché ce lo permettono: possiamo essere contenti di essere tanti a protestare nelle piazze, ma dobbiamo sapere che la forza non si piega alla ragione. Dimostrare non è inutile: in piazza incontriamo amiche e amici, e testimoniamo l’esistenza di una resistenza etica al genocidio. Ma la resistenza etica non cambia i rapporti di forza. Siamo costretti a guardare lo spettacolo, attendiamo che la psicosi armata conduca alla disintegrazione del mostro occidentale. Ma intanto quanto costa alla società questa guerra civile psicotica? Una crisi di gelosia Mentre a Pechino si incontrano quelli che preparano la vendetta e le armi ultra della vendetta, Trump e Vance fanno i bulli ammazzando undici persone su una barchetta davanti alla costa venezuelana. Trump rappresenta la maggioranza del popolo americano, ma questo vuol dire solo che la maggioranza del popolo statunitense ha perduto ogni contatto con la realtà e che gli US sono precipitati in un vortice di demenza autodistruttiva. Tradito e dileggiato dall’amato Putin Trump potrebbe reagire come fanno talora gli amanti traditi: con un’aggressione suicida ovvero suicidio aggressivo. “You’ll see things happen”, ha minacciato il presidente rivolgendosi a Putin. E ha scritto un messaggio stizzito, stizzitissimo a Xi Jin Ping: “Please give my warmest regards to Vladimir Putin, and Kim Jong Un, as you conspire against The United States of America”, “ti prego di rivolgere i miei più calorosi saluti a Vladimir Putin e Kin Jong Un, mentre cospirate insieme contro gli Stati Uniti d’America”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo You have no idea proviene da Comune-info.
Come difendersi dai droni
I DRONI SI SONO IMPADRONITI DEI CONFLITTI ARMATI. LA DIFESA DA QUESTI TERRIFICANTI OGGETTI TECNOLOGICI CARICHI PULSIONE DI MORTE CHE POSSONO ESSERE CONTROLLATI A DISTANZA NON PASSA PER STRATEGIE MILITARI O PER BUONE PRATICHE DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE. PER PROTEGGERCI IN PROFONDITÀ DALLA CULTURA DI GUERRA E DAGLI ALGORITMI DI DISTRUZIONE UMANIZZATA OCCORRE RIEMPIRE LA VITA DI OGNI GIORNO DI RELAZIONI VERE CON PERSONE IN CARNE E OSSA, RIPORTARE L’UMANITÀ OVUNQUE, IMMAGINARE E PRATICARE MODI DIVERSI DI VIVERE Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- I droni hanno ormai preso possesso delle notizie dei giornali. Viene considerato un successo il loro abbattimento, vedi i 221 droni ucraini neutralizzati dai russi, sono utilizzati in modo a dir poco incosciente per avvicinare ulteriormente la fiamma alla miccia della temuta fase di non ritorno nel conflitto mondiale, come è accaduto di recente in Polonia, sfruttati per un vile atto terroristico ai danni di iniziative del tutto pacifiche come quella della Global Sumud Flotilla, o addirittura esaltati per le loro potenzialità in tema di consegne rapide e precise. In ogni caso, a quanto si legge, i droni si sono impadroniti dei conflitti per alcune semplici ragioni: costano decisamente di meno rispetto ai tradizionali velivoli da combattimento, hanno un peso altrettanto inferiore e, soprattutto, si dimostrano letalmente efficaci. Dal punto di vista storico, i primi veicoli senza pilota furono sviluppati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale. Il prototipo britannico, un piccolo aereo radiocomandato, fu testato per la prima volta nel marzo del 1917, mentre il modello statunitense in pratica era un siluro, noto come Kettering Bug, e volò per la prima volta nell’ottobre del 1918. Anche se entrambi mostrarono risultati promettenti nei test di volo, nessuno dei due fu utilizzato operativamente durante la guerra. Considerando l’esponenziale e, a mio modesto parere, in parte inquietante diffusione di tali ordigni e la loro micidiale pericolosità qualora azionati con intenzioni ostili, mi sorge la seguente domanda: come difendersi dai droni? Da cui, il logico quanto interrogativo corollario: come ci si difende da ciò che non si conosce? Ebbene, facciamo un po’ di chiarezza, a cominciare dalla mia testa: cosa sono i droni? Sono per definizione dei velivoli senza pilota, formalmente noti come veicoli aerei senza equipaggio (dall’acronimo UAV, Unmanned Aerial Vehicle) o anche sistemi di aeromobili senza equipaggio (UAS, Unmanned Aerial System), che possono essere controllati a distanza o volare autonomamente utilizzando piani di volo guidati da software e sensori di bordo. Ora, aprendo una conversazione più approfondita su come proteggerci, o in generale controllare, gestire e contenere qualsiasi innovazione tecnologica, gli studi universitari e i testi letti nel tempo, suggeriscono – oltre che di acquisire consapevolezza dello strumento in sé – di ragionare sul significato più ampio della funzione che essa svolge. Mi riferisco in particolare all’approccio generale che in molti casi indirizza a vario titolo il progresso tecnico, industriale e ovviamente economico, e in seconda battuta quello sociale, e finanche ideologico e politico. Alla luce di ciò – divenuta parte quindi di un disegno assai più vasto – ripeto a me stesso la domanda: cosa sono davvero i droni? Ebbene, credo siano in sintesi macchine, come detto nell’incipit, economiche, leggere e mortali che possono essere azionate a distanza tramite un programma informatico da qualcuno che non vedi e che ignori, che a sua volta sarà in grado di arrecare sofferenza o addirittura causare la morte di qualcun altro che al contrario vede e conosce alla perfezione. O anche no, ed è quest’ultimo a mio umile avviso uno degli aspetti più inquietanti. Anche perché, tenendo conto della velocità, e al contempo l’assenza di un effettivo controllo da parte nostra, con cui l’intelligenza artificiale sta occupando sempre più i ruoli che un tempo erano svolti unicamente dagli esseri umani, dovremo aspettarci un domani – o forse è già realtà – nel quale ad azionare il velivolo robot ci sarà un altro robot. In parole povere, è come se l’umanità stia facendo di tutto pur di eliminare se stessa dall’equazione che regola in ogni campo la sua esistenza. A tal punto, non posso fare a meno di tornare nuovamente alla domanda iniziale: come difendersi dai droni? Ovvero, in generale, come proteggerci dal ben più grande, controverso e ormai inevitabile orientamento che da decenni hanno scelto l’industria e i governi da essa dipendenti, e che sempre più sta investendo nel sopra citato algoritmo di distruzione disumanizzata? Credo che non ci sia migliore alternativa che fare la scelta opposta: puntare sempre più sulle persone in carne e ossa. Riempire il nostro fare e possibilmente la nostra quotidianità di interazioni reali nell’accezione tradizionale. Per dirla in modo altrettanto semplice, sforzandoci di riportare a ogni occasione l’umanità all’interno della suddetta equazione. Mi sbaglierò, ma forse, oltre che la migliore, credo sia l’unica strada che ci resta. Iscriviti per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- 4 OTTOBRE: WORKSHOP TEATRALE E SPETTACOLO DI EDUCAZIONE ALLA PACE Alessandro Ghebreigziabiher, drammaturgo, attore, scrittore, ha studiato presso il Living Theatre di New York ed è autore di oltre venti libri, tra cui fiabe per ragazzi. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (ed. Bette). Sabato 4 ottobre (a partire dalle 14,30), nell’ambito del Festival della lettura “Pezzettini” promosso dall’Associazione AltraMente a Roma (presso l’IC Laparelli, via F. Laparelli 60, Torpignattara), Alessandro Ghebreigziabiher proporrà uno straordinario workshop teatrale con spettacolo di narrazione (gratuito), rivolto a tutte le età, dedicato ai temi della pace. Chi fosse interessato a partecipare al workshop e/o allo spettacolo può scrivere a: carmosino@comune-info.net. L’iniziativa fa parte del ciclo di appuntamenti “Partire dalla speranza e non dalla paura” realizzato dall’Ass. Persone comuni, editore di Comune, in quattro quartieri di Roma, in collaborazione con diverse realtà sociali (tra cui l’Associazione AltraMente). Il progetto, promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum – 2025, finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 – Investimento 4.3 – Caput Mundi”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come difendersi dai droni proviene da Comune-info.
Sumud, ora e sempre
di AUGUSTO ILLUMINATI. Sumud, resilienza un cazzo, resistenza piuttosto, sforzo di perseverare o, come si diceva quando una lingua comune dell’Occidente esprimeva l’impulso rivoluzionario marrano, conatus, per cui ogni cosa in suo esse perseverare conatur, fa valere la sua essenza attuale. La lenta e un po’ scompigliata partenza della Global Sumud Flotilla e il suo avvicinamento contrastato a Gaza segnano un salto di qualità nell’impegno solidale di un movimento internazionale e anticoloniale. Un balzo di scala non solo rispetto alla passività complice dei governi occidentali, in primo luogo di quello italiano, ma anche rispetto a precedenti manifestazioni di piazza, raccolta di aiuti e boicottaggio dei movimenti e dello stesso movimento italiano che solo a luglio aveva raggiunto livelli paragonabili con quelli europei, superando anteriori divisioni e incertezze. Naturalmente la spinta è venuta dal precipitare della situazione sul fronte di Gaza e della Cisgiordania, essendo la politica israeliana sempre più determinata dal ricatto parlamentare delle formazioni più estremiste e dalla spinta sociale dei coloni e delle bande dei “ragazzi delle colline”, feroci e disadattati che fanno da braccio armato sussidiario e provocatorio ai coloni inquadrati nell’esercito e nella polizia di Ben Gvir. La degenerazione profonda di Israele rispetto alle fasi precedenti del colonialismo sionista risulta dalla compattezza del voto parlamentare nel rigetto della soluzione “due popoli due Stati”, che cancella formalmente gli accordi di Oslo e di cui il permanente sostegno elettorale a una maggioranza di estrema destra è soltanto il coronamento. Inoltre, questa maggioranza parlamentare non fa che implementare il passaggio, sancito con atto costituzionale, di Israele da Stato ebraico e democratico (1948) a Stato ebraico (2018). A oggi i processi di radicalizzazione si intensificano, grazie anche allo sfacciato sostegno trumpiano, e si ha l’impressione che, nonostante il succedersi di importanti manifestazioni della società civile israeliana (che peraltro solo in forma minoritaria investono la condizione dei gazawi), tale deriva sia nel breve e medio periodo irreversibile e che si prospetti più una lenta emigrazione degli scontenti che uno scontro aperto fra tendenze. L’immediato futuro è fatto di finte trattative e stragi raddoppiate a Gaza, espropri e annessioni in Cisgiordania, stillicidio di attentati fai-da-te e rappresaglie in Israele, omicidi mirati all’interno e all’estero. PERCHÉ È UN PASSO DECISO IN AVANTI L’iniziativa della Sumud Flotilla allude per la prima volta, in questa fase, a un’interposizione o comunque a un coinvolgimento internazionale che sarebbe legittimo in caso di attacco piratesco israeliano in mare aperto ma anche lungo le coste di Gaza, che non è superficie acquatica israeliana de iure malgrado l’occupazione illegale de facto. Di ben altro che di tutela diplomatica o consolare si tratterebbe, qualora, come già è cominciato con il drone a Sidi Bou Said, le Idf tramutassero in azioni offensive le minacce di Ben Gvir contro i “terroristi” della Flotilla. La stessa Commissione Ue critica l’iniziativa umanitaria come escalation proprio perché teme di doversi far carico delle spropositate reazioni israeliane che smaschererebbero tutta la politica pilatesca di alcuni Stati e della Commissione del suo complesso. Adesso all’ordine del giorno è una tutela militare della libertà di navigazione nel Mediterraneo da parte degli Stati sovrani rivieraschi e di quelli cui appartengono gli equipaggi. Ma un compito primario spetta al c.d. “equipaggio di terra”, cioè alle forze che sostengono la Flotilla in mare e che hanno già minacciato (come i camalli di Genova) il blocco dei porti in caso di operazioni terroristiche di Israele – ciò vale tanto più per l’Italia, il cui governo, a differenza dalla Spagna, non ha preso nessuna iniziativa di boicottaggio o sanzione e dove quindi si è aperto un problema di supplenza dal basso. > Avremo anche noi nei prossimi giorni un bloquons tout! come in Francia, se la > situazione dovesse precipitare – e tutto lo lascia pensare. LE REAZIONI MEDIATICHE Il disastro di immagine di Israele è stato colto perfino dal suo complice-in-chief Donald Trump e viene ogni giorno amplificato su alcune fogne a cielo aperto della stampa italiana – “Il Foglio”, “Libero” “Il Tempo”, ”Il Riformista” – mentre sempre più circospette sono diventate le Tv nazionali e le pagine molinariane di “Repubblica” (per non parlare dei pensosi silenzi di Paolo Mieli e dei tormenti interiori di Adriano Sofri). La corporazione dei giornalisti ha sentito sulla schiena il brivido dei troppi reporter assassinati e quelli che si finanziano con le vendite e la pubblicità qualche conto se lo saranno pur fatto, visto l’orientamento dell’opinione pubblica. Una bella frotta di ipocriti e di umanisti a scoppio ritardato cerca di issarsi (a parole) sulle navi della Flotilla, ma siano i benvenuti, come ogni omaggio che il vizio concede alla virtù – meglio tardi che mai e ci siamo pure divertiti a vedere quanti, esitando a saltare, sono scivolati in acqua dalla sdrucciolevole banchina… In tenace obbrobrio sopravvive la Sinistra per Israele che abbraccia le ragioni imperscrutabili del colonialismo sionista deplorando al massimo gli eccessi di Netanyahu e Ben Gvir. Perfino in un’area un tempo sovversiva abbiamo anche noi, diciamolo di sfuggita, i nostri “ragazzi delle colline”, invero più miei coetanei che non ragazzi. Poveri coglioni da social che d’inverno scherzavano sul “gelicidio” a Gaza e d’estate invocano gli dei degli uragani per affondare i “croceristi” della Flotilla, ma anche più sofisticati ideologhi che si lanciano in prolisse disquisizioni sulla perfetta composizione di classe dei movimenti sovversivi – la sempiterna tentazione di insegnare ai gatti ad arrampicarsi. Oppure c’è chi contesta per impotente populismo la stessa indignazione spontanea per i misfatti degli oppressori, come Luca Sofri sul “Il Post”, che se la prende con il movimento pur così significativo e mondiale scaturito dall’opuscolo Indignez-vous del remoto 2011, insensibile perfino al fatto che il suo estensore, il 93-enne pubblicista ebreo Stéphane Hessel, fosse il figlio reale della coppia resa mitica come Jules e Catherine nel film di Truffaut Jules et Jim… FLUTTUAZIONI PERIODICHE Una volta spiegati i motivi razionali per cui è cresciuta in tutto il mondo l’indignazione e la protesta attiva di massa contro il genocidio israeliano (e perché il termine stesso di “genocidio” sia stato sdoganato, lasciando a combattere nella giungla il solo Galli della Loggia), una volta riconosciuto l’immenso lavoro da formichine che tutte e tutti noi abbiamo fatto – scrivendo, dibattendo sino alla sfinimento con ogni tendenza italiana e palestinese, documentando i soprusi e le uccisioni “sproporzionate”, i massacri e le pratiche di apartheid e pulizia etnica, gestendo le faticose e frustranti manifestazioni che, a differenza delle grandi capitali estere, si allargavano dalle mille alle 10.000 persone (e facevano festa) –, messo in conto l’effetto amplificatore dell’arroganza sionista e dei filo-sionisti, il sostegno controproducente di Trump con la grottesca operazione Riviera di Gaza e la sostituzione stragista e inefficiente della Gaza Humanitarian Foundation alle espulse agenzie Onu, scontato tutto questo e il consenso alla causa palestinese alimentato nel mondo cattolico dai gesti profetici di papa Bergoglio, non ritrattati dal suo successore, resta una domanda: perché proprio ora, quasi tutto d’un colpo, è diventato arduo sul piano morale e mediatico non dirsi pro-Pal e non agitare la bandiera rosso-verde-nera? Con tutti gli opportunisti e gli istrioni al seguito, grazie comunque e ancora. > Una risposta del tutto razionale non c’è, però altre volte ho visto fenomeni > simili, ondate internazionali più o meno estese, più o meno legate a momenti > di crisi sociale ed espressive di interessi di classe. È successo nel 1960 simultaneamente in Italia, Turchia, Giappone e Corea del sud, si è ripetuto su scala planetaria nel 1966 nei campus statunitensi e subito dopo in tutta Europa e in Cina, con lunghi strascichi e rimbalzi negli anni ’70. Abbiamo poi (solo in Italia) il movimento chiamato della Pantera (1989-1990), l’ondata mondiale no global di fine millennio, con gli episodi salienti di Seattle e Genova, e, dopo la dura repressione, ancora una stagione di lotte fra il 2008 e il 2011, che si salda alla fine con gli Indignados, Occupy Wall Street e primavere arabe, e confluisce con una seconda stagione del movimento femminista. Un andamento carsico, di volta in volta con motivazioni precise, con innovazioni strumentali decisive (il ciclostile – angeli inclusi -, le radio libere, il fax, il primo embrionale uso di Internet, Indymedia, i social), successi e sconfitte, e tuttavia resta una zona d’ombra nel capire il quando e il perché, il rapporto fra esplosione e durata, fra cause spesso limitate ed effetti strepitosi, eterogeneità di motivazioni e legame molto fluido con la composizione di classe che risultava invece evidente fra il 1960 e il 1978. Di qui le farneticazioni sulla deriva woke e il rimpianto della limpida struttura classista delle insorgenze novecentesche. Mais où sont les neiges d’antan, ovvero ginocchia, fiato e ormoni di allora? L’unica spiegazione plausibile è un periodico ricambio di generazioni, che riaccendono le lotte cambiandone composizione di genere, aspirazioni e pratiche e smaltendone come scorie nostalgia e reducismo. Tuttavia la carsicità e l’incertezza sulle cause scatenanti non tolgono il fatto essenziale. Che queste fratture tumultuarie periodiche sono “occasioni” che vanno colte al volo e, per quanto possibile, gestite, sedimentate in soggettività temporanee. Il movimento non può suscitare a piacere le rotture congiunturali, ma si costituisce nella misura in cui riesce ad afferrarle e organizzarle, garantendone tenuta ed efficacia. Ebbene, l’ondata pro-Pal si presenta con questi caratteri di sorpresa e irruenza, accompagnandosi ad altre tematiche conflittuali non direttamente connesse con la lotta anti-imperialistica e anti-coloniale. Basti vedere l’ampiezza che ha preso la difesa dei centri sociali dopo la provocazione milanese sul Leoncavallo. E non dubito che altri episodi ci saranno, con l’imminente riapertura delle scuole e la crisi economica che scuote l’Europa e su cui al momento galleggia la nostra stagnazione. Tira un buon vento e disporre bene le vele è affar nostro! questo articoo è stato pubblicato su Dinamo Press il 10 settembre 2025 L'articolo Sumud, ora e sempre proviene da EuroNomade.
La guerra, la forza dei numeri e il gioco giusto
LA GUERRA È ORMAI OVUNQUE SDOGANATA A CIELO APERTO, SENZA PIÙ ALCUNA ESITAZIONE O PUDORE. TRUMP HA DECISO ANCHE CHE CAMBIERÀ IL NOME DEL DIPARTIMENTO DELLA DIFESA IN DIPARTIMENTO DELLA GUERRA. COSA POSSIAMO FARE? DOVREMMO USCIRE DI CASA, CONFRONTARCI, ORGANIZZARCI? COS’È CHE ANCORA NON ABBIAMO FATTO? COSA CI MANCA PER TIRAR FUORI LA CONSAPEVOLEZZA E LA FORZA CHE NASCONO DAL PENSARE CHE COLORO CHE STANNO CONDUCENDO IL TRENO DELL’UMANITÀ VERSO IL PRECIPIZIO RESTANO UNA PARADOSSALE MINORANZA? Napoli, agosto 2025. Foto di Bruno Santoro -------------------------------------------------------------------------------- Rieccomi a bordo, più agguerrito che mai. Anzi, no, ma che dico? Tutto il contrario, altrimenti sarei davvero incoerente e questa spero sia una delle novità che mi mancava. A proposito di coerenza, leggo che Trump cambierà il nome del dipartimento della Difesa in dipartimento della Guerra. Questo dimostra ciò che penso da un bel po’: quelli, gli altri, hanno una strada più semplice davanti. I capitalisti e i guerrafondai hanno concetti facili in testa, tra tutti: occupare, conquistare, massacrare e rubare tutto ciò che possono, oppure non farlo, il che non è previsto. In un’era dove l’informatica ormai condiziona l’evoluzione del mondo con la sua natura binaria, costoro dimezzano le possibilità agevolandosi ulteriormente il compito. La variabile è una sola e se ci pensate è sempre stata la stessa, quella sopra citata. A parte il nostro governo con tutti gli storici servilismi e giravolte semantiche per restare sempre dalla parte del bullo più bullo nel cortile – il problema è quando ce n’è più di uno, ma nei decenni siamo diventati campioni del mondo nell’arte di barcamenarci tra controverse e antitetiche alleanze in tempo reale -, la guerra, giammai la difesa che era ed è ancora oggi alla base degli accordi delle nascenti Nazioni Unite nel secolo scorso, è al centro dell’orizzonte dei leader del mondo. Russia e Cina mostrano i muscoli al pianeta con un’inquietante parata militare, mentre i “volenterosi” – non ho ancora capito cosa voglia dire davvero questa parola – si riuniscono puntualmente per pianificare il Risiko che ci aspetta. Leggi pure come il gioco della guerra, ormai sdoganato a cielo aperto senza più alcuna esitazione o pudore. Questa è un’altra novità, a mio modesto parere, e la suddetta denominazione dipartimentale ne è prova conclamata. Al contempo, vi è un’altra guerra in corso: quella tra la Terra e coloro che vi abitano. O forse, visto che siamo in tema di onestà semantica, mi riferisco alla reazione di un pianeta da un enorme Stato canaglia multinazionale e si ribella in modo caotico e spietato contro chi gli capiti a tiro nei modi che ha a disposizione. Non che mi auguri che un cataclisma colpisca qualcuno in particolare, ma non posso che restare amareggiato notando che la natura infierisce spesso sugli ultimi del mondo, vedi il terzo terremoto che ha colpito l’Afghanistan, dove il bilancio delle vittime sale a 2.200 – a proposito sembra che questa tragedia non interessi a nessuno – e il mezzo milione di persone che sono in fuga dalle loro case nel Punjab pakistano a causa delle inondazioni. Nel mentre l’iceberg più grande del mondo si è rotto definitivamente e anche questo è un atto di guerra, ovvero difesa, che non abbiamo compreso. Aggressione, difesa, guerra, pace, e allora come tanti – parola cruciale – finisco puntualmente ad arenarmi sulla solita domanda: ma noi, singoli cittadini, cosa possiamo fare? È una strada che conosco ormai a menadito e mentre un tempo occorreva uscire di casa, parlare e confrontarsi con anime affini – e dovremmo farlo ancora a prescindere – oggi è sufficiente digitare la fatidica domanda nella casella del motore di ricerca e di risposte autorevoli da persone che da tempo si impegnano quotidianamente ne trovi a iosa. Non so voi, ma a me fa bene al cuore sapere che là fuori c’è tanta gente che non si arrende, che resiste all’apatia o la rassegnazione, oltre che dinanzi all’oppressione, e che si industria per fare qualcosa, qualsiasi cosa che risulti anche minimamente utile. Nondimeno, credo che l’espressione chiave sia “tanta gente”, adesso ci arrivo. Prima di ciò, sempre come molti cerco di rinfrescarmi la memoria su cosa possiamo, ovvero dovremmo smettere di fare e pure per questo la rete è stracolma di guide e consigli saggi e comprovati. Il fatto è che… diciamola tutta, okay? Vado per i sessanta e faccio e non faccio come detto la maggior parte delle azioni quotidiane suggerite. E allora perché ho l’impressione che il mondo stia comunque addirittura accelerando verso il baratro? Vi capita anche a voi? Chi ho ascoltato in queste settimane mi ha confermato qualcosa di molto simile, ma dal canto mio mi trovo in un punto in cui sono assillato da una frase. Una di quelle che per chi come il sottoscritto lavora da decenni con la salute mentale nei luoghi di cura è una sorta di pietra angolare: follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi. Viene attribuita a Einstein, invece è di Rita Mae Brown nel suo libro Sudden Death, 1983. Tipico errore della nostra specie quello di dar merito a un uomo, per quanto illustre, di ciò che invece aveva fatto una donna… A ogni modo, la domanda che segue è questa: cos’è che ancora non abbiamo fatto? Cos’è che non c’è in alcuna guida saggia o autorevole manuale di vita vissuta che ci sfugge? Voglio impegnarmi in questa ricerca da ora in poi. Certo, qualcuno potrebbe obiettare affermando che non c’è, punto, abbiamo già provato tutto, ma non sono d’accordo, perché ho premesso che l’espressione chiave è a mio umile avviso “tanta gente”. Nel mio piccolo, credo che ancora oggi sia questo l’elemento straordinario che non siamo riusciti a sfruttare appieno: la forza dei numeri. Questi individui che nei fatti stanno stoltamente conducendo il treno dell’umanità verso il precipizio sono una paradossale minoranza. Mentre tra chi si fa condizionare o manipolare, chi resta indifferente, chi subisce senza potersi difendere e chi cerca di opporsi vi è la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. In altre parole, pochissimi da un lato e miliardi dall’altro. Forse quello che ci manca è un modo per far valere tale eccezionale differenza a vantaggio della collettività. Ci vuole il gioco giusto con cui confrontarsi, pacifico ma decisivo. Come, il dondolo, l’altalena basculante o a bilico con cui ci si divertiva una volta… -------------------------------------------------------------------------------- Iscriviti per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- Alessandro Ghebreigziabiher, drammaturgo, attore, scrittore, è autore di oltre venti libri, tra cui fiabe per bambini. Ha studiato presso il Living Theatre di New York. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (ed. Bette). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra, la forza dei numeri e il gioco giusto proviene da Comune-info.
Nel laboratorio della guerra
IL RIARMO MONDIALE, A COMINCIARE DA QUELLO DELL’UE. L’ESERCIZIO AUTORITARIO DI GOVERNO IN MOLTI PAESI. LE TRASFORMAZIONI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE E I NUOVI MODI DI ESERCIZIO DEL POTERE, COME LA SECURIZZAZIONE DEI TERRITORI, IN RAPPORTO A UN DIRITTO CHE OCCUPA UNA POSIZIONE MARGINALE RISPETTO AL POTERE DI GUERRA E DI PACE. LA GUERRA È UN GRANDE LABORATORIO CON MOLTI VOLTI Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Pochi dati bastano per ricordare ciò che è di dominio pubblico. Il folle riarmo deciso dall’Unione Europea consta di 800 miliardi, reali o virtuali poco conta perché sottratti a sanità, conversione ecologica, istruzione e servizi sociali. E sono soldi a debito. Il piano “Re-arm Europe” (“Readiness 2030”) propone di mobilitare gli 800 miliardi attraverso un nuovo strumento di prestito da 150 miliardi di euro (SAFE), il riorientamento dei fondi di coesione, la mobilitazione di capitali privati e un maggior sostegno della Banca Europea degli Investimenti. L’effetto della proposta è stato il riarmo della Germania e l’idea della Francia di condividere la propria capacità nucleare nazionale. Dal 2021 i fondi destinati ai programmi militari sono aumentati di circa il 350%. Nel 2024 le spese nazionali aggregate dei paesi UE della NATO sono aumentati a più di 40 volte il totale dei fondi per il settore militare stanziati dall’Unione Europea. L’Ucraina ha ottenuto dal Fondo Europeo per la Pace (sic!), il più grande programma in ambito militare, 5,6 miliardi di euro di forniture militari (fonte Sbilanciamoci!). La pressione per sviluppare un profilo di difesa adeguato per l’UE è stata intensificata nel corso della prima elezione di Trump (2016) che ha messo in discussione il futuro della NATO in Europa e le politiche transatlantiche. D’altra parte la guerra in Ucraina ha accelerato l’espansione della NATO a est su richiesta di Svezia, Finlandia e paesi baltici, noti per le posizioni integraliste nei confronti della Russia. Nel 2024 la Svezia è entrata nella NATO e la spesa militare è aumentata del 34%, raggiungendo i 12 miliardi e il 2% del PIL. La Polonia ha raggiunto i 38 miliardi con aumento del 31% (4,2% del PIL). La crescita vertiginosa delle spese per le iniziative di difesa testimonia la trasformazione dell’Europa da progetto di pace ad attore militare. La Commissione è il principale attore del riarmo. Tra il 2017 e oggi ha speso 6,836 miliardi del bilancio europeo per la difesa. Dei 1200 miliardi del bilancio 2021-2027, il rapporto “Safer Together” propone di destinare 240 miliardi alla militarizzazione dell’UE. La gran parte di questi fondi è destinata alle principali aziende militari: Thales, Leonardo, Airbus, Indra, Saab, Diehl, Rheinmetall che sono tra le prime 25 imprese beneficiarie di progetti del Fondo Europeo di Difesa. Dopo l’invasione dell’Ucraina la Commissione ha sfruttato la situazione intervenendo per facilitare l’acquisto comune di materiale militare: munizioni, difesa aerea e sistemi d’arma. Secondo i piani della Commissione Europea, gli stati membri devono destinare almeno il 50% del loro budget per gli acquisti verso fornitori con sede nell’UE entro il 2030 e il 60% entro il 2035. La postura di politica militare dell’Unione Europea comporta diversi effetti: la mutazione rapida della geopolitica atlantica che archivia il mondo bipolare formato alla fine della seconda guerra mondiale. La riattivazione della guerra delle razze e del razzismo di stato come a-priori storico del XXI secolo. La trasformazione dei rapporti tra diritto e politica e tra diritto pubblico ed esercizio del potere. La fine del diritto internazionale in vigore nella seconda metà dello scorso secolo. Un discorso strategico di uso della ferocia e della crudeltà come arma di distruzione che giustifica il genocidio, la pulizia etnica, la detenzione, la deportazione e la securizzazione dei territori sottoposti a sorveglianza continua. Questa attuale costituzione dei rapporti tra gli stati non può essere interpretata esclusivamente in termini di sfruttamento e repressione. Accanto o al di sopra di questi effetti appare la trasformazione della governamentalità, cioè delle tecnologie di governo delle popolazioni… D’altra parte questa evidenza si articola su un insieme di discorsi che hanno molto poco a che fare con il potere di stato. Il discorso delle destre razziste, il discorso securitario, della deportazione e della criminalizzazione, non sembra essere il discorso del potere sovrano che dall’alto e da lontano impone, controlla e reprime. Sembra invece che un insieme di discorsi di società, discorsi di poteri sociali che provengono dal popolo e che rispondono a esigenze popolari sia il costituente primo di istanze di verità. La critica del mercato globale, la distruzione della cittadinanza acquisita, la destituzione del diritto internazionale e della giurisdizione dei crimini di guerra, la difesa della razza, del territorio, delle radici e della patria, la produzione di una verità mediata dalla comunicazione contro le false verità dell’informazione e le falsità sulla situazione economica; questo insieme di discorsi produce un valore sociale di verità che circola. Per un verso è una rivendicazione generale di provenienza delle società globalizzate da stati nazionali protetti da frontiere e costituiti in vista della concorrenza mondiale. Per altro verso è una denuncia dell’universalismo dei diritti e delle libertà, dei diritti innati universali e della falsa rappresentazione di un’umanità mondiale, ed è una denuncia delle reali condizioni sociali ed economiche di una maggioranza della popolazione mondiale; è la denuncia rabbiosa dell’impoverimento mondiale, della caduta nella povertà ad opera delle tecnologie liberali di governo e delle ricette neoliberali di distruzione dello stato sociale. Contro tutto questo negli Stati Uniti è stato eletto Trump e contro tutto questo le destre razziste e neonaziste aumentano i consensi. I trumpiani accusano le elite liberali di aver tradito il popolo americano e le accusano di essere responsabili di 30 anni di dissesto economico, sociale e strategico. Le accusano di essersi arricchite a spese della classe media. Lo storico Harry D. Harootunian rileva che l’esercizio autoritario di governo sulla popolazione è una risposta mutevole a specifiche congiunture storiche che hanno poco a che fare con un passato sepolto, o con repliche della storia. Gli attuali processi di distruzione delle libertà e delle differenze in nome della libertà trovano ragione nell’esercizio di un “non-stato” piuttosto che nell’eredità del fascismo storico. Kevin Roberts, presidente della Heritage Foundation, è l’artefice del “Project 2025”, 900 pagine di provvedimenti che Trump ha adottato. L’anno scorso Roberts ha scritto un libro, Le prime luci dell’alba. Riprendiamoci Washigton per salvare l’America, in cui invoca una seconda rivoluzione americana. La sua teoria si chiama “combattere il fuoco con il fuoco”. È in corso una cospirazione contro la natura. I liberali vogliono cancellare le tradizioni, gli affetti, la famiglia, il corpo umano. Per evitare questo bisogna appiccare un incendio controllato, per portare al potere quello che chiama il “partito della creazione”. Questo partito è un’alleanza tra tradizionalisti, evangelisti cattolici e tecnofuturisti. La nazione inizia “a cena”, in famiglia. La famiglia riunita è la nazione contro le minacce. Nella famiglia c’è la rigenerazione della nazione. Bisogna fare a meno degli immigrati, aumentare le entrate fiscali che ridurranno il debito pubblico; bisogna riattivare la propensione ad innovare; ci vogliono più reclute per le forze armate e bisogna costruire più edifici e infrastrutture. Roberts ha insegnato e ha fondato scuole cattoliche. Scuole e Università hanno deculturato l’America, forniscono un’istruzione materialista, addestrano attivisti e producono l’ideologia “gender”. Da questa idea vengono i tagli al Dipartimento dell’Istruzione ordinati da Trump. Nella sua agenda ci sono la modifica dei poteri del presidente, approvata di recente dalla Corte Suprema. Nel libro di Roberts troviamo i discorsi di società per una controrivoluzione in nome del popolo. Ma questi discorsi sono opera di un’altra elite che non si differenzia dall’elite democratica e finanziaria che ha governato i 25 anni del nuovo secolo e sono discorsi che articolano una potenza militare e tecnologica ingovernabile. Il regime di guerra, divenuto discorso di verità dei partiti reazionari e xenofobi, dei leader ultraliberisti contro la falsa rappresentazione del mondo del globalismo neoliberale e contro gli effetti devastanti di 50 anni di applicazione della lex mercatoria rivela gli effetti distruttivi del potere finanziario, oggi filtrato attraverso il discorso del leader, il discorso del “capo”, il suo volto, le sue parole truci, i gesti, le esibizioni di arroganza buffonesca. In questo senso il discorso di verità e di propaganda, il disprezzo truce e la vendetta contro il globalismo, le differenze, le identità e le alterità sono discorsi di società filtrati attraverso il presidente, che è la figura di una rivolta al fondo della quale c’è la guerra. La guerra delle razze disarticola la razionalità economica e le applicazioni del liberalismo e impone una transizione egemonica, secondo le parole del grande storico dell’economia Giovanni Arrighi, dagli esiti in gran parte imprevedibili. È dunque lungo la doppia linea dell’evoluzione del liberalismo e dell’intensificarsi del diritto penale che cerchiamo la provenienza delle attuali tecnologie di governo che operano nella crisi dell’egemonia statunitense… Nel Corso al Collège de France del 1977-’78, Nascita della biopolitica, Michel Foucault prende in esame il liberalismo che prima di essere un pensiero politico o una teoria economica, è una tecnologia di governo della società. Citando Polany, Foucault osserva che la funzione principale di una giurisdizione è governare l’ordine spontaneo della vita economica. Legge e ordine. “Law and order”. Legge e ordine prima di essere lo slogan delle destre e della polizia statunitense, è un’espressione il cui senso è che lo stato interviene nell’ordine economico solo sotto forma di legge… Questo insieme di effetti inaugura il neoliberismo statunitense che presenta alcune differenze rispetto a quello tedesco degli anni Cinquanta del ‘900 che si è esteso in Europa. Il neoliberismo americano si è affermato in contestazione al New Deal e alle politiche keynesiane. Nel 1934, il “padre” della “Scuola di Chicago”, Henry C. Simons scrive A positive program for laissez-faire, in cui propone politiche attive di costituzione del mercato e del mercato del lavoro, in opposizione alla passività delle politiche economiche dirette e regolate dallo stato. Il secondo elemento di contestazione della scuola di Chicago è il piano Beveridge elaborato in Inghilterra durante la guerra e che ha introdotto quelli che Foucault chiama “patti di guerra”, cioè “tu vai al fronte e ti fai uccidere con la promessa che conserverai il posto di lavoro fino alla morte”… In questa costruzione gli elementi distintivi del neoliberismo che alla fine degli scorsi anni Settanta si sono estesi in Europa, sono il “capitale umano” con il corredo della teoria della “forma-impresa” e dell’“imprenditore di sé” e la legislazione penale in rapporto alla criminalità. Il “capitale umano” per i neoliberali come Robbins, Schultz, Becker, è l’insieme dei comportamenti di un soggetto economico attivo. Questa definizione proviene da una generale rielaborazione del campo economico che agli inizi degli anni Trenta è definito da Robbins come il campo del comportamento umano inteso come una relazione tra fini e mezzi rari che hanno utilizzazioni che si escludono reciprocamente. Le teorie classiche, da Smith a Ricardo a Marx, affermano i neoliberali, non hanno considerato il lavoro nella sua concreta funzione. Ma se si considera il lavoro dal punto di vista del lavoratore in quanto soggetto attivo, il lavoro non è più l’elemento cardinale della produzione, ma è funzione di un reddito. Chi lavora percepisce un salario e un salario è un reddito. Si lavora per avere un reddito e un reddito è il prodotto o il rendimento di un capitale. Capitale umano. Il lavoro non è una merce ridotta a forza-lavoro e tempo impiegato, ma è un’attitudine, una competenza; come dicevano gli antichi liberali, è una “macchina”. La competenza «fa tutt’uno con il lavoratore; il lavoro è una macchina che produce flussi di reddito». La macchina ha una durata vitale fino all’obsolescenza, cioè alla vecchiaia. La macchina sarà remunerata con redditi bassi all’inizio quindi con redditi che aumentano nella fase di “miglior funzionamento, per diminuire con l’invecchiamento. Il lavoratore è capitale-competenza, non forza-lavoro e la sua attività è un’“impresa in sé”. L’individuo è un’impresa, il soggetto del lavoro è un’impresa, i lavoratori sono imprese. L’homo oeconomicus del neoliberismo è imprenditore di sé stesso. Non è in prima istanza il partener dello scambio come nel liberalismo classico, ma è il proprio capitale, la fonte dei propri redditi. Il consumatore è un produttore. Il consumo è un’attività di impresa che produce la soddisfazione dell’individuo… La forma-impresa si estende a campi e settori extraeconomici che diventano oggetto di mercato, di calcolo, di strategie, l’effetto sociale di questa estensione economica al non-economico è l’aumento delle discriminazioni, delle povertà, del razzismo. Così «nel neoliberalismo… il laissez faire viene rovesciato in un non lasciar fare il governo, in nome di una legge del mercato…». La seconda questione del neoliberismo statunitense riguarda la giustizia penale. Questa questione, che viene affrontata a partire circa dagli anni Sessanta in termini di costi economici della penalità, del crimine e dell’insieme dei reati, riverbera nelle azioni e nei provvedimenti attuali: ordini esecutivi, deportazione di immigrati, criminalizzazione delle proteste e delle critiche, militarizzazione delle metropoli, strutture di detenzione, esternalizzazione della detenzione amministrativa, blocchi navali e procedure accelerate di espulsione nella guerra ai migranti, agli irregolari, ai poveri, alle differenze di genere. Fino a ieri, la portata, l’oggetto e il fine dei sistemi penali consisteva nell’applicazione della legge improntata all’analisi dei fattori ambientali e della psicologia ambientale introdotta negli Stati Uniti negli anni Sessanta. Questo processo si è manifestato con la pratica politica delle Black Panters ed è ciò che George Jackson e Angela Davis chiamano “società carceraria”. La società carceraria statunitense è un insieme di spazi, tempi e località di controllo in cui l’esercizio del potere è esercitato in maniera più o meno intensa. Lo stato carcerario e il capitalismo razziale sono i modi articolati di includere nel territorio gli spazi esterni e le comunità più o meno integrate. Libertà e diritti interni alla costituzione, sono rinegoziati di continuo all’interno dello stato federale. A proposito delle lotte di liberazione delle comunità afroamericane, Angela Davis scrive che la presa autoritaria dello stato attraverso la detenzione è stato ed è il modo di impedire «l’autoriproduzione delle comunità nere autonome»… Soggettivazione del reato e calcolo di utilità nella struttura giuridica sono le due importanti trasformazioni che in epoca moderna dislocano la penalità all’interno della politica pubblica e d’altra parte limitano il diritto rispetto alla costituzione dell’homo oeconomicus e della legge del mercato. L’esteriorità del diritto rispetto al potere di stato che ha configurato il rapporto tra diritto e politica fino alla fine del XVIII secolo in Europa, si converte nell’integrazione del diritto all’interno dello stato nel corso del XIX secolo. La penalità subisce una decisiva trasformazione e da strumento di punizione del reato diviene mezzo di coercizione nei confronti di chi ha commesso il reato. Si giudica non il reato ma l’autore del reato. Per Foucault «nell’equivoco esistente tra una forma di legge che definisce un rapporto con l’atto, e l’applicazione effettiva della legge, che può riguardare soltanto un individuo», si costituisce il soggetto criminale. La produzione del criminale, la produzione di un sapere psichiatrico in campo penale e l’applicazione del calcolo di utilità all’insieme delle condizioni di possibilità dei reati (ambiente, numero dei reati, gestione delle differenze tra i reati) limita lo slittamento dall’homo oeconomicus all’homo legalis, all’homo penalis e all’homo criminalis. Dal momento in cui si definisce il crimine come «l’azione commessa da un individuo che accetta di correre il rischio di essere punito dalla legge», non ci sarà differenza tra un’infrazione del codice della strada e un omicidio premeditato. Il criminale è la persona qualunque. Chiunque può essere un criminale. Ciò di cui si occuperà il sistema penale è la condotta. Saranno punite le condotte e lo saranno in base ad un calcolo economico vigente all’interno e all’esterno del sistema penale. Ci sarà bisogno di un sistema di controllo permanente delle condotte; di un sistema penale che punisce la virtualità degli atti; e ci sarà bisogno di una serie di strumenti per l’esercizio effettivo della penalità: L’insieme di questi mezzi inaugura l’epoca dell’enforcement della legge. Per Foucault, l’enforcement della legge non è il semplice rafforzamento delle misure punitive; è l’insieme dei mezzi che dotano la legge di realtà sociale e politica: misure di polizia, zelo e competenza dell’apparato di prevenzione e investigativo, severità nell’applicazione della legge, efficacia della punizione, rigidità nella pena applicata che l’amministrazione penitenziaria potrà aggravare o attenuare. «L’enforcement della legge è l’insieme degli strumenti di azione sul mercato del crimine, che oppone all’offerta del crimine una domanda negativa». Attraverso un calcolo economico si stabiliscono così le migliori condizioni di esercizio della legalità. La legalità deve prevedere un certo tasso di illegalismi. La penalità non è l’insieme degli strumenti legali per punire il crimine, ma è l’insieme dei mezzi che regolano la soglia tra legale e illegale. A seconda di dove si colloca questa soglia, avremo una estremità di gestione degli illegalismi a cui risponde una estremità di controllo dei territori e una selezione dei soggetti da criminalizzare. Ruth Wilson Gilmore, docente di geografia, attivista e direttrice del Center for Place, Culture and Politics in un saggio del 1992 sulla rivolta di Watts a Los Angeles, rilevava che i programmi di “legge e ordine” segnano l’inizio del ciclo neoliberale. In riferimento alla crisi dell’egemonia statunitense, Gilmore osserva che l’attuale costituzione autoritaria e razziale degli Stati Uniti deve essere considerata in rapporto alla perdita di capacità egemonica e alla crisi di potere di gestione globale. L’insieme dei processi di razializzazione e dei provvedimenti di deportazione, detenzione ed esercizio della violenza di stato, ha la funzione di rinegoziare libertà e diritti lungo la linea di separazione sociale, razziale e di genere che regola i rapporti tra inclusione ed esclusione, tra popolazione e penalità, tra libertà della e per la ricchezza e criminalità delle povertà, delle differenze e delle anomalie “biologiche”, psichiche e sociali. Oggi, l’intensificarsi della penalità è l’esercizio di un potere di controllo e di sorveglianza che non coincide con lo stato. Si tratta di un potere pubblico che è piuttosto in rapporto con la dispersione dello stato, con la dislocazione autoritaria dei singoli stati e con le iniziative dei governatori, dei giudici e degli influencer. L’estensione della penalità al campo delle libertà ridefinisce i rapporti di potere tra governo e popolazione a partire dalla dispersione continua del potere di stato. Gilmore definisce questa pratica di governo, “stato anti-stato”, che è una forma di governamentalità che realizza la dismissione delle agenzie federali e dei programmi pubblici di sostegno alla sanità e all’istruzione; disarticola l’amministrazione statale; introduce nella società un’altra forma di stato non statale. «Lo stato cresce con la prospettiva di ridimensionarsi fino a scomparire». Nel caso degli Stati Uniti, la serie di ordini esecutivi, e nel caso dell’Italia i diversi “pacchetti sicurezza”, testimoniano uno stato di anomia in cui il diritto non è sospeso ma, al contrario, è implementato. Si tratta di un diritto che produce una legalità generalizzata che normalizza le condotte e disloca i diritti dei singoli all’esterno del bisogno di difesa e del bisogno di sicurezza… Le città militarizzate, la caccia ai migranti in terra e in mare, l’esternalizzazione delle strutture di detenzione, la tortura, il genocidio, la pulizia etnica, ­nonché le normative securitarie, sono i modi di esercizio del potere in rapporto ad un diritto che occupa una posizione marginale rispetto al potere di guerra e di pace. Questa posizione del diritto all’interno degli stati autorizza la sicurezza promuovendola in nome della della protezione del cittadino e regola la soglia di inclusione sociale con misure che eccedono la cornice costituzionale degli stati, rompono la costituzione pattizia all’interno degli stati, sfarinando la divisione dei poteri. In rapporto al potere di guerra, la realtà effettiva della guerra trasforma il diritto internazionale in due modi: subordinando il diritto al potere di guerra e subordinando al diritto l’autodeterminazione dei popoli. Questo cambiamento di posizione del diritto in rapporto al potere pubblico non ha a che fare con la realizzazione di un diritto di guerra sancito secondo norme di proporzionalità nell’uso della forza e non riguarda la limitazione dell’autonomia del diritto da parte del potere. Riguarda piuttosto l’estensione indiscriminata del potere di guerra da parte dei poteri che lasciano il diritto in una posizione residuale rispetto alle norme giuridiche, economiche e costituzionali. Il diritto internazionale costituito alla fine della seconda guerra mondiale fa prevalere i diritti umani sul diritto degli stati e subordina il diritto degli stati all’insieme dei diritti umani. Nel corso degli anni l’articolo 27 del divieto di ingerenza pacifica negli affari di uno stato è stato di fatto abrogato in favore dei diritti umani. Ma il diritto internazionale nato per limitare la guerra non assolve la propria funzione. Le guerre continuano al di sotto e al di là delle prerogative degli stati e delle relazioni tra stati. L’attuale regime di guerra rompe l’intento giuridico del diritto internazionale universalistico, – rottura che si produce subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. La sequenza della guerra fredda, le guerre imperialiste per procura, le guerre regionali ed etniche, le guerre “umanitarie” e la guerra permanente al terrorismo, hanno mobilitato il diritto internazionale non per rinforzarlo ma per adattarlo ai diversi regimi di guerra. Il secondo motivo della fine del diritto internazionale è l’evoluzione degli stati rispetto all’autodeterminazione dei popoli. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli è stato surclassato sia dal diritto degli stati nazionali che dalle norme del diritto internazionale che considerano i diritti umani individuali superiori alle decisioni eventuali delle popolazioni rispetto alla forma di governo. Il diritto internazionale e le agenzie internazionali hanno assunto i rapporti tra gli stati come base di intervento sulle popolazioni e il diritto dei popoli all’interno del diritto internazionale si è diluito fino a scomparire. L’effetto si è manifestato a est e a ovest, a nord e nel sud del mondo, malgrado i processi di decolonizzazione e le lotte di indipendenza. Rivoluzioni, indipendenza e lotte di liberazione sono state considerate al pari delle guerre tra stati, il cui esito è stato la costituzione di stati nazionali decolonizzati e l’imposizione del potere di stato sui processi di autodeterminazione e del potere di sfruttamento post-coloniale sui territori indipendenti. Evoluzione del diritto internazionale in diritto di guerra e subordinazione del principio di autodeterminazione dei popoli alla costituzione statale. Questi due elementi che hanno regolato i rapporti tra gli stati hanno progressivamente eroso le prerogative del diritto internazionale. I rapporti tra gli stati sanciti da guerre economiche e commerciali, lo sfruttamento di risorse naturali, sociali e tecniche, la rapina di beni naturali, di ricchezze e tecnologie a danno di popolazioni in teoria protette dal diritto internazionale umanitario, hanno prodotto l’arretramento del diritto dei popoli, hanno soppresso l’autodeterminazione e hanno innescato la crisi del diritto nei rapporti tra gli stati. L’insieme di questi effetti si può costatare nelle possibilità di azione della Corte Penale Internazionale e della Corte Internazionale di Giustizia. La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto contro il premier israeliano Netanyahu e contro l’ex-ministro degli esteri Gallant con l’accusa di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi a Gaza. La Corte Internazionale di Giustizia, che è il principale organo giurisdizionale dell’ONU, ha accolto la denuncia del Sudafrica contro Israele per atti di genocidio. Entrambe le Corti sono sotto attacco feroce da parte degli Stati Uniti e di Israele con pressioni e minacce ai singoli membri affinchè non procedano nella causa contro Israele. Per Monique Chemillié-Gendreau, avvocata presso la Corte Internazionale di Giustizia e docente di diritto pubblico, la Convenzione del 1948 sulla prevenzione e repressione del genocidio e delle “seconde intenzioni” delle grandi potenze è ambigua, benché contenga una clausola di accettazione della competenza della Corte per le controversie relative all’interpretazione. È così che il Sudafrica ha potuto adire alla Corte contro Israele. Ma i meccanismi di applicazione dei principi del diritto internazionale sono deboli e i comitati per i diritti umani formulano raccomandazioni che non sono vincolanti per gli stati. Per questo «il diritto internazionale è una disciplina che non esiste», dice Monique Chemillié ai suoi studenti. Si può scegliere «se considerare che non esiste ancora o che non esiste più». D’altra parte esistono oggi alleanze e associazioni tra stati, come i BRICS, che costituiscono un’alternativa virtuale alla governance mondiale. Ma sono paesi associati al livello degli stati nazionali che non costituiscono un’alternativa all’egemonia statunitense, come rilevava lo storico dell’economia Giovanni Arrighi a proposito della Cina. La Cina, unica potenza che contrasta gli Stati Uniti, non può architettare un nuovo diritto internazionale, anzitutto perchè mantiene ed estende le proprie reti commerciali asiatiche e non ha alcun interesse ad universalizzare le norme di scambio e le relazioni tra gli stati. Inoltre, il progetto di de-dollarizzazione e l’eventuale introduzione di una nuova valuta comune, di una criptovaluta o l’utilizzo di un paniere combinato di valute dei paesi membri, suppone la creazione di meccanismi troppo complessi: un’unione bancaria, un’unione fiscale e una convergenza macroeconomica generale che la posizione di forza nei confronti del dollaro non rende conveniente. D’altra parte, sostiene Monique Chemillé, «dovremo inventare una nuova organizzazione su basi veramente democratiche». Un nuovo diritto che mette capo all’autodeterminazione delle popolazioni, all’autonomia dei territori e alla costituzione di terre comuni e luoghi comuni. Questa esigenza richiede immaginazione; richiede la fuoriuscita dal realismo geopolitico e richiede eventualmente una nuova superficie di iscrizione del diritto nella microfisica dei poteri. Richiede la dissolvenza degli stati nazionali, la liberazione delle popolazioni dalla morsa del “popolo” in uno stato nazionale. Richiede che si faccia circolare un diritto internazionale alla condivisione e alla cooperazione non più universalista ma locale, costituito su un’economia delle risorse, non sulla lex mercatoria; un diritto che non sia basato sull’interesse nazionale, che non sia né un diritto cosmopolitico, né un diritto planetario, ma che sia un diritto cosmico, cioè un diritto in cui “grande è il disordine sotto il cielo”. In un testo inattuale, cioè contemporaneo, Foucault enunciava i principi di una vita non fascista che è un’arte di vivere in cui l’azione politica è libera da paranoie totalizzanti; cresce per proliferazione e disgiunzione, non per gerarchizzazione; preferisce la molteplicità, la differenza, i flussi, i concatenamenti mobili e il nomadismo; produce immaginazione desiderante e pratiche di pensiero; dis-individualizza e non si innamora del potere. Una pratica di vita nomade, in esodo permanente dalle identità, dai confini e dalla società degli individui; una diserzione dal mondo che crea un altro mondo in questo mondo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Nel laboratorio della guerra proviene da Comune-info.
La potenza di un movimento internazionale
-------------------------------------------------------------------------------- Manifestazione di domenica 31 agosto al Molosiglio di Napoli in sostegno alla Global Sumud Flotilla. Foto di Bruno Santoro -------------------------------------------------------------------------------- In questi giorni stiamo vedendo cos’è la potenza di un movimento internazionale, che muovendo dai territori unisce il potere (come poter fare) di chi lavora con la lotta anticoloniale e la solidarietà tra i popoli. Non riesco a non pensare che tutto ciò lo dobbiamo alla lunga resistenza dei palestinesi e delle palestinesi, alla loro tenacia che ha dato coraggio e domandato dignità a moltə di noi. Dobbiamo sperare che la causa palestinese trovi finalmente il riconoscimento e la pace che necessita, dobbiamo sperare anche che questo movimento non si fermi, ma che continueremo a creare ponti tra le lotte, a rompere i confini, sabotare le politiche coloniali e le logiche della guerra, unendo i fili tra oppressione e sfruttamento, non per un’ideale e ipotetica società a venire, ma per riprenderci qui e ora la terra e le possibilità di averne cura. Marx diceva che è la storia a darci le condizioni per raggiungere il cambiamento a cui si aspira e in questo momento la risposta a quelle condizioni sono queste, non ne vediamo altre. -------------------------------------------------------------------------------- Maura Benegiamo è ricercatrice in sociologia economica e del lavoro presso l’Università di Pisa -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI STEFANO ROTA: > Il vento di Genova -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La potenza di un movimento internazionale proviene da Comune-info.
Giovani soldati
-------------------------------------------------------------------------------- pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- È straziante la notizia del ventenne statunitense che ha sparato e ucciso due bambini, ferendone diversi altri, in una scuola di Minneapolis il 27 agosto, il quale se non si fosse suicidato sarebbe finito in galera per duplice omicidio. Ma è anche straniante se pensiamo che altri ventenni, israeliani, da quasi due anni sparano e uccidono bambini a Gaza come prassi normale di occupazione, al punto che si contano almeno 18mila minori uccisi e altre decine di migliaia di feriti. Ma in questo caso i “responsabili” sono soldati e (salvo le decine che hanno scelto di suicidarsi perché questo compito è diventato insostenibile) avranno riconoscimenti dal proprio governo per la missione compiuta: “un omicidio è delinquenza, un milione è eroismo. Il numero legalizza”, dice Monsieur Verdoux nell’omonimo film di Charlie Chaplin. Al carcere militare, invece, sono costretti gli obiettori di coscienza e i disertori che rifiutano di partecipare al crimine. Al di là delle efferatezza e dimensioni del genocidio palestinese, il doppio standard etico sulla violenza, quando essa è privata oppure pubblica, spontanea o obbligata, è all’origine della legittimazione di ogni guerra e dei suoi orrori. Nessuna guerra, per quanto tecnologica, può fare a meno dei soldati. Cioè di giovani formati al disimpegno morale, alleggerendone la coscienza dagli scrupoli secondo i meccanismi studiati da Albert Bandura, per considerare giusta e legittima l’esecuzione di una violenza comandata che invece, senza divisa e senza comando, sarebbe solo gesto criminale. È questo l’elemento essenziale della formazione militarista: il processo di etificazione della violenza nelle menti di chi deve eseguirla, attraverso la retorica della guerra. “Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato – scriveva Simone Weil alla vigilia della seconda guerra mondiale – e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole” (Non ricominciamo la guerra di Troia, 1937). Oggi che la guerra è tornata ad essere non la continuazione della politica con altri mezzi ma la sua sostituzione, è necessario rieducare le giovani generazioni alla “mentalità di guerra”, secondo le direttive del segretario della Nato Mark Rutte. Accade negli Usa, dove l’esercito ha assoldato influencer per convincere la generazione Z ad arruolarsi attraverso canali social che mostrano quanto è figo fare il militare. Accade in Polonia, dove nelle scuole dai 14 anni è obbligatorio introdurre “l’educazione alla sicurezza” che significa esercitazioni di difesa, addestramento al tiro e disciplina militare, senza badare all’impatto psicologico e sociale della preparazione bellica nell’età evolutiva. Ancora più precoce la scelta del governo lituano, per il quale i bambini di terza e quarta elementare impareranno a costruire e pilotare droni semplici, mentre man mano che crescono gli studenti delle scuole secondarie produrranno componenti per droni militari, imparando a pilotarli e ad uccidere a distanza. La Germania, invece, che aveva abbandonato il servizio militare obbligatorio, punta a una sua progressiva reintroduzione con l’obiettivo di attirare circa 100mila giovani reclute entro il 2030, rendendolo obbligatorio con un semplice emendamento alla legge in discussione al Bundestag se non si raggiungesse un numero sufficiente di volontari: l’obiettivo è costituire il più grande e minaccioso esercito dell’Europa occidentale, armato con le risorse del RearmEu. E in Italia, dove la leva è sospesa? Secondo il ministro Crosetto e i vertici militari il nostro paese ha sia un problema di anzianità sia di numeri, per cui bisogna riavvicinare i giovani alle Forze armate, ma non si parla di obbligatorietà che in questo momento non pagherebbe elettoralmente (vedi recente ricerca del Censis sugli italiani e la guerra): è necessario dunque aumentare l’appeal della divisa, compito affidato al “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa” (del quale è istruttivo visionare la composizione). Da qui il massiccio ingresso dei militari nelle scuole di ogni ordine e grado, con una grave ingerenza educativa, come evidenzia Roberta Covelli: “Portare nella scuola logiche di addestramento significa confondere la cittadinanza con la disciplina, la comunità con la gerarchia, la responsabilità con l’obbedienza” (Fanpage, 22 agosto). Che fare, dunque, di fronte all’invasione militare dei luoghi della formazione? Due cose, principalmente: contrastarla, usando gli strumenti che mette a disposizione l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, come il documento proposto ai collegi dei docenti per rifiutare la partecipazione degli studenti ad attività militari; superarla, promuovendo ovunque percorsi di educazione alla pace per studenti e studentesse e di formazione alla nonviolenza, dal micro al macro, per insegnanti. Di fronte alla militarizzazione del pensiero, è tempo di formare intenzionalmente le nuove generazioni alla diserzione dal bellicismo e ai saperi della nonviolenza. Senza doppi standard etici. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su i blog del fattoquotidiano.it Tra i libri di Pasquale Pugliese Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini e Disarmare il virus della violenza, editi da goWare. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Giovani soldati proviene da Comune-info.
Il vento di Genova
QUELLO CHE STA ACCADENDO A GENOVA, NEGLI ULTIMI MESI MA, ANCOR PIÙ, IN QUESTI GIORNI DI FINE AGOSTO, NESSUNO LO AVEVA PREVISTO. IL COLLETTIVO AUTONOMO LAVORATORI PORTUALI (CALP) NON HA MAI SMESSO LA SUA INTENSA CAMPAGNA DI LOTTA CONTRO IL TRAFFICO DELLE ARMI NEL PORTO DI GENOVA, IN COLLABORAZIONE CON I PORTUALI DI ALTRE CITTÀ. CALP E MUSIC FOR PEACE, CHE DA TEMPO INVIA BENI DI PRIMA NECESSITÀ IN PALESTINA, HANNO AVVIATO UNA RACCOLTA DI 40 TONNELLATE DI CIBO, CHE PARTIRÀ A BORDO DELLE BARCHE CHE DA GENOVA SI UNIRANNO ALLA GLOBAL SUMUD FLOTILLA, DIRETTA A GAZA. LA COSA STRABILIANTE È CHE QUESTA RACCOLTA È DURATA SOLO CINQUE GIORNI: ASSOCIAZIONI DI OGNI TIPO HANNO MESSO IN PIEDI PUNTI DI RACCOLTA NEI QUARTIERI E IN ALTRE LOCALITÀ. UNA MOBILITAZIONE POPOLARE, CON QUESTE CARATTERISTICHE, MAI VISTA PRIMA A GENOVA (MA SITUAZIONI SIMILI SI REGISTRANO ANCHE IN ALTRE CITTÀ), IN CUI EMERGE PRIMA DI TUTTO L’ORGOGLIO DI ESSERE PARTECIPE, CON UN GESTO SOLIDALE, PRATICO, A UNA CAMPAGNA IMPORTANTE E CHE RIMARRÀ NELLA MEMORIA DELLA CITTÀ. NON È VERO CHE NEL BUIO NON ACCADE NULLA… Foto Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) -------------------------------------------------------------------------------- Alcuni mesi fa, in tre o quattro persone abbiamo iniziato a discutere di un termine poco presente nel dizionario ristretto a cui facciamo ricorso quando analizziamo le macerie del nostro presente e, di conseguenza, a cosa si può ancora fare ricorso per cercare un punto di ripartenza. Il termine in questione è orgoglio. Lo stimolo è venuto dalle manifestazioni oceaniche che – in quel periodo di ogni anno – attraversano tante città del mondo: i pride del movimento LGBTQI. Ci siamo chiesti cosa ci sia dentro quel lemma che connota gli eventi di piazza più frequentati degli ultimi anni, forse venti, o giù di lì. C’è sicuramente la volontà di rivendicare, orgogliosamente, un elemento identitario (termine di per sé scivoloso, ma al momento utile) che, in molti casi, viene stigmatizzato, o, negli ambienti più oscurantisti, associato a una malattia. Quell’orgoglio identitario viene riconosciuto e fatto proprio da centinaia di migliaia di persone, a prescindere da orientamento e autodefinizione sessuale. È questa condivisione di massa che più interessa in ciò che si intende discutere qui. Cercando di andare oltre la specificità di quel movimento, siamo arrivati a definire l’orgoglio nei seguenti termini. L’orgoglio è una forza relazionata alle tensioni positive che animano l’agire secondo coscienza, in senso ampio. È un’agentività che muove dall’interno del soggetto, dove l’orgoglio risiede, dotandosi di visibilità relazionale ed emotiva, tramite molteplici stati: soddisfazione, piacere, gratificazione, godimento, così come frustrazione, rabbia, paura. L’orgoglio produce quegli stati, ma non vi coincide completamente. Si potrebbe dire che si situa a un livello più profondo, in un substrato del nostro essere agenti, dove riesce a mantenersi vivo anche nelle condizioni più avverse. Lì è dove l’orgoglio incontra e alimenta la passione, da cui, a sua volta, viene alimentato. Potremmo dire che orgoglio e passione viaggiano sempre insieme. L’orgoglio, se vogliamo stabilire un altro parallelo, ha una diretta risonanza con l’etica. Non un’etica astratta, trascendentale, inafferrabile: la nostra etica personale, che si sveglia ogni giorno con ognuno di noi e che ci chiede di agire in modo da farci sentire orgogliosi di noi stessi/stesse. Cosa di per sé sempre più difficile – almeno per chi si colloca in posizione oppositiva allo stato di cose presenti -, ma non impossibile. L’orgoglio, in sintesi, si colloca su un piano di interiorità politica, da cui muove l’agire spinto dalla passione etica. Non si tratta di un’interiorità chiusa, autoreferenziale e originaria. Al contrario, è uno spazio sempre in trasformazione che vive nella sua costante relazione con l’esterno. La definizione di interiorità serve in questo caso a dare l’idea del rapporto che il soggetto ha con se stesso, di un’affezione che attua su di sé. Quello che sta accadendo a Genova, negli ultimi mesi ma, ancor più, in questi giorni di fine agosto, ha a che vedere con tutto questo. Due organizzazioni, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) e Music For Peace (MFP), hanno deciso di dare un’accelerata al lavoro che, ciascuna secondo le proprie prerogative, svolgono ormai da tempo. Il CALP, dal 2019, ha avviato una intensa campagna di lotta contro il traffico delle armi nel porto di Genova, in collaborazione con i portuali di altre città europee e/o mediterranee. MFP, dal canto suo, invia beni di prima necessità a Gaza – e non solo – da molto tempo. Invii che si sono bloccati con la guerra genocida in corso. Hanno deciso, insieme, di avviare una raccolta di 40 tonnellate di cibo, che partirà domenica 31 agosto a bordo delle barche che da Genova si uniranno alla numerosissima Global Sumud Flotilla, diretta a Gaza. La cosa strabiliante è che questa raccolta è durata solo cinque giorni. Una coda infinita di persone davanti all’ingresso di MFP ha consegnato, al quinto giorno, circa duecento tonnellate di prodotti rigorosamente definiti dall’organizzazione. Associazioni di ogni tipo hanno messo in piedi punti di raccolta nei quartieri e in altre località. Una mobilitazione popolare, con queste caratteristiche, mai vista prima. La città, la sua parte migliore, ha risposto in massa a questo appello, così come aveva già fatto in occasione delle manifestazioni organizzate dal CALP per il blocco delle navi in porto, anche se con numeri più ridotti. Probabilmente, un ruolo lo ha avuto anche la posizione assunta dalla giunta Salis, con il riconoscimento, sia pur simbolico, dello stato di Palestina, avvenuto in concomitanza con l’ultimo blocco di una nave nel porto di Genova da parte del CALP. Quello su cui si vuole porre l’accento è ciò che questa mobilitazione mostra, tenendo a mente quanto detto in apertura. Bastava sostare una mezz’ora da MFP e ci si rendeva conto di come a muovere le migliaia di persone accorse a portare cibo fosse qualcosa di almeno parzialmente diverso dalla disponibilità a mobilitarsi in senso più tradizionale. Considerati i numeri, è molto probabile che una parte significativa di chi ha portato cibo non sia mai scesa in piazza con il CALP per il blocco delle navi, o in solidarietà verso il popolo palestinese, dove la partecipazione è stata sempre molto inferiore. Sempre in quella mezz’ora di sosta fuori la struttura era possibile notare anche la diversa la composizione sociale della moltitudine popolare che vi è accorsa, rispetto sia a quella dei manifestanti, sia ai frequentatori abituali delle attività organizzate da MFP. Si può sostenere che, in questo caso, si tratti di un coinvolgimento meno forte, più facile da attivare da parte di coloro che non si sentono disponibili ad altre forme di solidarietà attiva, o attivista. Del resto, si va a comprare (a proposito, la Coop più vicina alla sede di MFP mercoledì sera aveva gli scaffali vuoti), si arriva, si consegna ai volontari, e si va via. Questa è senz’altro una ragione dello scarto quantitativo e qualitativo che separa questa manifestazione da altre. L’aspetto, forse, più interessante è però un altro. Così come in occasione dei pride, quello che ha mosso migliaia di persone sembra essere ascrivibile alla volontà di essere partecipi di un evento che mette al centro un diritto civile, il primo, il diritto alla vita. La partecipazione a momenti di questa natura richiama alla superficie un sentimento che, capovolgendo uno dei più famosi hashtag frase che circola sui social, si potrebbe sintetizzare con “anche in mio nome”. Non è una delega ad altri, è una manifestazione di quell’agentività di cui si è detto, che mette in primo piano l’orgoglio di essere partecipe, con un gesto solidale, pratico, a una campagna che rimarrà nella memoria di questa città. Ci troviamo dinnanzi a un processo che forse nessuno tra coloro che si muovono da anni, o decenni, negli ambienti della solidarietà militante si sarebbe aspettato così imponente. Da qui a lasciarsi trasportare dall’ottimismo di chi vi vede l’inizio di un nuovo corso, il passo è un po’ lungo, e non tiene debitamente in conto il contesto generale in cui si inserisce. Ce lo ricorda Ece Temelkuran, una scrittrice turca molto attiva politicamente, che ha scritto in un articolo pubblicato anche da Internazionale parole molto amare, cariche di profondo realismo. “Quando la gente è ignorata nonostante tutti i suoi sforzi e il concetto di cittadinanza diventa politicamente superato, le persone tendono a fare scelte politiche che mettono in discussione la nostra immagine idealistica di esseri umani amanti della libertà, della dignità e dell’azione politica”. “Dopo un po’, nessun livello di immoralità, nessun atto politico vergognoso commesso dal potere susciterà l’indignazione o la ribellione a cui eravamo abituati”. È tutto vero, quelli sono i tratti distintivi del nostro presente. Forse è per questa ragione che, come si è detto all’inizio, si è cercato di ragionare su un termine inusuale all’interno delle analisi che siamo soliti fare su soggetti, potere, forme di lotta. “C’è bisogno di nuovi nomi”, come recita il titolo di un bel romanzo di NoViolet Bulawayo, per orientarci nel buio che ci circonda. All’inizio si è detto che la discussione sul termine orgoglio ha coinvolto tre o quattro persone. È parzialmente vero, perché, in realtà, subito dopo le prime riflessioni, è stata condotta una piccola indagine, senza nessuna pretesa di essere statisticamente rappresentativa, neppure di una parte ridottissima della popolazione. Le si può forse attribuire – a voler essere generosi – una rappresentatività sociologica: ognuno dei partecipanti racchiude in sé una o più caratteristiche sociali, culturali, anagrafiche, che si è scelto di collocare alla base di questo piccolo lavoro. Nessuno di loro, inoltre, ha una marcata storia di “militanza” nel senso più tradizionale del termine. È stato inviato un messaggio via WhatsApp a oltre trenta persone, tutte under 40. Il messaggio conteneva una domanda che invitava a descrivere dove e come il proprio agire consente di percepire una sensazione di orgoglio per ciò che si fa, in relazione alle proprie caratteristiche personali. Di queste, hanno risposto in diciassette. Tra di loro vi sono lavoratori e lavoratrici della logistica e dei magazzini, operatori e operatrici nel sociale, una ricercatrice universitaria, una danzatrice, una psicologa che opera nei servizi per il lavoro, un ferroviere, due collaboratrici dei servizi per il lavoro, una volontaria, un operatore della pulizia dei siti per conto delle Big Tech (il pesce spazzino dell’acquario, come si definisce lui stesso), un addetto ai servizi di ristorazione, un sindacalista. Due di questi, inoltre, non sono di origine italiana. Le risposte ottenute sono molto interessanti e meriterebbero una lettura integrale, cosa non possibile all’interno di questo articolo. Vale comunque la pena fare una sintetica descrizione di alcuni degli ambiti in cui viene percepito il proprio agire con orgoglio, riportando alcune parole inviate nelle risposte. Sicuramente c’è la dimensione lavorativa, al cui interno agire con coraggio e determinazione (“il mio essere una combattente”, dice Simonetta). Oppure, sempre nel lavoro, instaurare “rapporti solidali, di vicinanza, di reciproco sostegno” (Simone). C’è, molto presente, l’impegno nel volontariato, che si traduce per Piera “nella capacità di stabilire relazioni di riconoscimento e cura degli altri”, o, per Filippo, l’impegno che lo porta a fare un laboratorio di musica in carcere. “Trovo che quelle quattro ore dentro siano quasi un momento sacro, sicuramente carico d’importanza. E questo ha un impatto su di me, perché è la cosa che mi fa dare (ogni tanto) pacca sulla spalla la mattina quando mi guardo allo specchio ed è anche l’esperienza più formativa che abbia fatto negli ultimi anni”. Vi è poi, per i due rispondenti non di origine italiana, il legame tra orgoglio e cultura d’origine e, di conseguenza, la relazione che si instaura con il contesto attuale. “Mi sento molto orgoglioso di essere riuscito a mantenere la mia cultura qui, in questo mi ha anche aiutato il rispetto che ho per i miei genitori. Per me è una vittoria”, dice Touré. Daouda indica due cose: la prima è, anche per lui, la propria cultura d’origine, soprattutto in ambito religioso. “La seconda è il modo in cui ho affrontato la mia nuova vita qui, l’impegno che ho messo nell’imparare la lingua, nello studio, nel lavoro e con le nuove amicizie che mi sono fatto”. Simonetta, Simone, Piera, Filippo, Touré, Daouda e tutti gli altri che hanno contribuito a questa indagine sono dei con-ricercatori, anche se sono stati definiti frettolosamente rispondenti. I loro contributi si inseriscono in un obiettivo di lavoro di più lungo periodo, più ampio, e anche ambizioso. Ha a che vedere con la definizione e la costruzione di una città etica, in cui attivisticamente e orgogliosamente vivere. Una “cartografia delle potenze” in grado di sperimentare e produrre forme di vita orientate a una salubrità sociale, politica, economica e culturale che interessi una comunità urbana e ognuno dei suoi componenti. Il CALP e MFP hanno tracciato un percorso che va in questa direzione, e non solo in questo magico fine agosto, da molto prima. Non sono gli unici, certo; la galassia dell’azione secondo coscienza è molto più ampia e in minima misura se ne è data visibilità qui. La condivisione di principi, metodologie applicative, obiettivi da raggiungere (per poterli subito dopo superare) dovrebbe essere la linea da seguire. Se si vuole parlare di rete, questa deve essere vista, come scrisse Bruno Latour, non tanto come network (il lavoro delle reti), ma come worknet (la rete dei lavori), dando centralità al produrre che genera e amplia le reti, piuttosto che alle reti che generano lavori. È un impegno che dovremmo prenderci, per provare a contrastare lo scenario che ha descritto Temelkuran, con la consapevolezza che si tratti di un percorso molto lungo. Come per la Global Sumud Flotilla, che un buon vento ci gonfi le vele. -------------------------------------------------------------------------------- * Stefano Rota è un ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. La sua più recente pubblicazione collettiva è La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online di lingua italiana e portoghese. -------------------------------------------------------------------------------- APPUNTAMENTI: ROMA, 8 SETTEMBRE Evento fb -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il vento di Genova proviene da Comune-info.