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Siamo ancora qui
LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA “PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA” LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE. QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non solo. A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza elevatissima di studenti e giovani. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni. In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000 persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute nei movimenti globali per la Palestina libera. Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive – se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro. Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa “pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico, che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece: teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia. Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque, come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario (così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle piattaforme. Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha sottolineato tale centralità. Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali. “Articolare tra” è diverso da “convergere verso”. Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati. Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze, licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti. Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon Watch e di altre organizzazioni di volontariato. La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che si renda necessario. La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a frequentare fin da ora. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di), Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Siamo ancora qui proviene da Comune-info.
Il nostro rifiuto della chiamata alle armi
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Negli stessi giorni in cui il parlamento europeo votava prima (26 novembre) per respingere le modifiche al piano di riarmo dei paesi UE, ammettendo in esso anche le cosiddette “armi controverse”, ossia le bombe all’’uranio impoverito, al fosforo bianco, i killer robot ed altri simili ordigni di sterminio e dopo (27 novembre), a larghissima maggioranza, per respingere il “piano di pace” di Trump perché “la pace non può essere raggiunta cedendo all’aggressore, bensì fornendo un sostegno risoluto e costante all’Ucraina e dissuadendo in maniera adeguata la Russia dal ripetere tale aggressione in futuro”, in quegli stessi giorni e sugli stessi temi Edgar Morin – 104 anni lo scorso luglio – scriveva alcune note, pubblicate in Italia su il manifesto e ytali. (28 novembre). Meritano essere citate, per segnare la pericolosa distanza tra chi ha lo sguardo lungo, lucido e libero e gli attuali decisori europei, insieme a gran parte dei media. “È con stupore” – scrive Morin – “che una parte degli umani considera il corso catastrofico degli eventi, mentre un’altra parte vi contribuisce con incoscienza. (…) La visione unilaterale dei media ignora che l’Ucraina è stata una posta in gioco fra l’impero americano e l’impero russo. Prima di Trump, gli Usa avevano satellizzato economicamente, tecnologicamente e militarmente l’Ucraina, la quale sarebbe stata una pistola puntata alla frontiera russa, se fosse passata sotto il controllo della Nato. I nostri media non soltanto sottolineano l’imperialismo russo, ma immaginano che questo potrebbe invadere l’Europa, laddove è peraltro incapace di annettere l’Ucraina in tre anni di guerra. (…) Invece che spingere i due nemici a negoziare, e a stabilire un compromesso sulle basi che ho appena menzionato [qui fa riferimento alle proposte del libro “Di guerra in guerra” del 2023], gli europei contribuiscono alla escalation. (…) Infine noi dobbiamo cercare di pensare la policrisi dell’umanità nelle sue complessità e nei suoi orrori, e dovremmo agire nelle incertezze, ma con l’intenzione di salvare l’umanità dalla autodistruzione”. Invece, nei giorni precedenti (21 novembre) il Capo di Stato maggiore francese, generale Fabien Mandon, parlando all’assemblea del sindaci francesi (merito dei militari è il parlare chiaro) aveva detto che devono preparare le rispettive città a “perdere i figli in guerra” ed anche “a soffrire economicamente perché la priorità deve essere la produzione militare”: solo così ci si prepara al prossimo conflitto armato con la Russia, che il documento strategico nazionale francese prevede tra il 2027 e il 2030. Per questo una settimana dopo (27 novembre) Macron ha annunciato che dalla prossima estate partirà per i giovani francesi il Servizio militare di leva, inizialmente su base volontaria, che sostituisce il Servizio Universale Nazionale che poteva essere anche civile. Per non essere da meno, anche il ministro italiano della difesa Crosetto ha annunciato il disegno di legge per istituire, con un ossimoro, una “leva militare volontaria” anche nel nostro paese, similmente a quanto sta avvenendo in Francia e in Germania (dove è già previsto che possa diventare obbligatoria), per reclutare almeno altri 10.000 giovani italiani come forza di riserva, in aggiunta ai 170.000 militari già nelle Forze Armate. Naturalmente, come evidenziato dalla recente ricerca del Censis, gli italiani sono fortemente contrari sia alla prospettiva di coinvolgimento bellico del nostro Paese, per questo nessuno evoca il ripristino tout court della leva militare obbligatoria, al momento sospesa, che non sarebbe pagante in termini di consenso elettorale. Però è evidente che, in tutta Europa, la direzione è quella di reclutare nuova massa per la guerra, ossia “carne da cannone” per “l’attacco preventivo” alla Russia che sta preparando la Nato, come esplicitato dal generale Cavo Dragone, presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica (1 dicembre). Al quale bisogna rispondere con la storica formula: “Non un un soldo, né un soldato per la guerra”. Perché questo non sia solo uno slogan da cantare nei cortei pacifisti ma diventi azione politica, e non potendo dichiararsi formalmente obiettori di coscienza, è necessario sottoscrivere personalmente la dichiarazione di obiezione alla guerra, promossa dalla Campagna del Movimento Nonviolento che – mentre nella dimensione internazionale sostiene obiettori di coscienza e disertori di tutti i fronti delle guerre in corso – 1.500.000 ucraini sono considerati “ricercati” dai centri di reclutamento – nella dimensione interna promuove il rifiuto preventivo e individuale di partecipare a qualsiasi forma di preparazione della guerra, a cominciare proprio dal rifiuto della chiamata alle armi. È una campagna che risponde al compito che ci indica Morin per “salvare l’umanità dall’autodistruzione”, ma anche alle indicazioni di un altro saggio del ‘900, Norberto Bobbio, difronte alla precedente corsa agli armamenti: “Saremo i più forti se saremo uniti, se saremo solidali almeno su un punto essenziale: non vi è conflitto che non possa essere risolto con le armi della ragione, specie in questo mondo in cui a causa dell’interdipendenza di tutte le questioni internazionali, la violenza chiama violenza in una catena senza fine. Saremo i più forti se riusciremo ad ubbidire alla voce che nasce dal profondo del nostro animo e che ci suggerisce questo nuovo comandamento: Disarmati di tutto il mondo, uniamoci” (Il terzo assente, 1989). Per difenderci dalla guerra, anziché nella guerra. -------------------------------------------------------------------------------- [Articolo pubblicato su I blog del Fatto Quotidiano e su asqualepugliese.wordpress.com, qui con l’autorizzazione dell’autore] -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il nostro rifiuto della chiamata alle armi proviene da Comune-info.
Cronistoria dei piani per la pace
-------------------------------------------------------------------------------- Marcia Perugia-Assisi, 12 ottobre 2025. Foto di Riccardo Troisi per Comune -------------------------------------------------------------------------------- È stato presentato ufficialmente l’ennesimo “piano per la pace”, in tal caso redatto dal governo di Trump in consultazione con Putin e i suoi sodali. In altre parole, un soggetto terzo o presunto tale, il quale si arroga la responsabilità di fare da mediatore tra due contendenti in conflitto, annuncia di avere una proposta per terminare quest’ultimo realizzata in collaborazione con quello che tra essi ha la grave colpa di averlo iniziato… Lo so, è talmente ridicolo da risultare complicato anche da scrivere. Ciò mi ha spinto a stilare una sintetica cronistoria dei principali “piani di pace” del passato, dalle due guerre mondiali a oggi. Ok, cominciamo. Nell’autunno del 1917 l’esercito tedesco era sull’orlo del collasso e la Germania stessa era in subbuglio dal punto di vista politico. Rendendosi conto che la guerra era persa, i tedeschi contattarono il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson e gli chiesero di mediare tra le parti in conflitto per arrivare a un cessate il fuoco con le potenze alleate. Il piano di pace di Wilson, suddiviso in quattordici punti, fu proposto per la prima volta nel gennaio 1918 e avrebbe dovuto costituire la base per i negoziati. Nondimeno, sappiamo tutti che tale cosiddetta pace fu soltanto una parentesi tra ben due guerre mondiali. Difatti, i successivi accordi di mediazione non furono esenti da obiezioni. Le critiche principali evidenziarono i fallimenti delle varie politiche di pacificazione, come l’Accordo di Monaco, che fu visto come un incoraggiamento per Hitler, e le carenze del Trattato di Versailles, reo di creare risentimento e instabilità. Gli appunti dei detrattori si concentrano sul fallimento di questi piani nel raggiungere una pace duratura e sulle loro conseguenze negative per specifici gruppi o regioni. Per quanto riguarda la Seconda Guerra mondiale, i principali piani di pace furono l’Accordo di Potsdam (luglio 1945), incentrato sulla smilitarizzazione e la divisione della Germania, e i Trattati di pace di Parigi (febbraio 1947), che posero formalmente fine alla guerra con Italia, Romania, Ungheria, Bulgaria e Finlandia. L’Accordo di Potsdam  concordò la divisione della Germania in quattro zone di occupazione, la sua smilitarizzazione e il suo disarmo, mentre i Trattati di pace di Parigi  stabilirono aggiustamenti territoriali, riparazioni di guerra e il ritorno delle nazioni sconfitte negli affari internazionali, con la risoluzione definitiva della questione tedesca che avvenne in seguito attraverso accordi separati. Anche in tal caso, emersero numerose criticità. Riguardo al trattato di Potsdam, furono identificate significative controversie nella divisione postbellica di Germania e Polonia, la mancanza di accordi chiari sulle riparazioni e il deterioramento delle relazioni tra l’Unione Sovietica e gli alleati occidentali, che molti sostengono abbiano contribuito all’inizio della Guerra Fredda. I critici sottolineano inoltre che l’Unione Sovietica abbia approfittato delle incongruenze per rafforzare la propria posizione nell’Europa orientale ed espandere il proprio territorio, spesso a discapito degli accordi concordati. Per quanto concerne invece gli accordi di pace di Parigi, tra gli errori individuati vi sono la migrazione forzata e lo sfollamento di milioni di persone, l’aggravarsi dei problemi economici nelle nazioni vinte e l’incapacità di affrontare questioni di fondo come il nazionalismo, che ha portato a una continua instabilità. Inoltre, gli aggiustamenti territoriali previsti dai suddetti trattati e le riparazioni imposte risultarono in seguito molto discussi e causarono risentimenti e difficoltà a lungo termine. Che peraltro si fanno sentire ancora oggi a distanza di quasi un secolo. La Guerra di Corea (1950-’53) non si concluse con un vero e proprio trattato di pace, ma con un armistizio. Si istituì il cessate il fuoco e fu stabilita la Zona Demilitarizzata come area cuscinetto tra la Corea del Nord e quella del Sud. L’assenza di un trattato di pace formale è difatti indicata tra le cause per cui le due Coree tecnicamente restarono in guerra e ancora oggi hanno relazioni tese e fragili. Il trattato di pace per la Guerra del Vietnam (1950-’75) fu l’Accordo di Pace di Parigi, firmato il 27 gennaio 1973 dagli Stati Uniti, dal Vietnam del Nord, dal Vietnam del Sud e dal Governo Rivoluzionario Provvisorio. L’accordo mirava a porre fine al conflitto prevedendo un cessate il fuoco, il ritiro delle truppe statunitensi, il ritorno dei prigionieri e l’eventuale riunificazione del Vietnam attraverso mezzi politici. Tuttavia, ennesimo fallimento, gli accordi non riuscirono a portare una pace duratura poiché i combattimenti continuarono e il Vietnam del Nord alla fine invase quello del Sud nel 1975. Anche il conflitto tra Iran e Iraq (1980-’88) non fu degno di un vero e proprio piano di pace.  La guerra fu interrotta con un cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite, seguito da un accordo formale il 16 agosto 1990, che normalizzò le relazioni e pose fine del tutto al conflitto. Le critiche in questo caso si concentrarono sulla sua tempistica, sul costo in vite umane e sulla mancanza di una vittoria decisiva percepita da entrambe le parti, con alcuni che criticarono l’Iran per aver prolungato inutilmente la guerra dopo che una potenziale pace era stata possibile nel 1982. I detrattori sostengono anche che il conflitto si sia concluso senza significativi guadagni territoriali o riparazioni per entrambe le nazioni, nonostante otto anni di guerra devastante, che hanno portato a un immenso numero di vittime e difficoltà economiche sia per l’Iran che per l’Iraq. Nessun trattato di pace neppure per la prima Guerra del Golfo (1990-’91). La fine del conflitto fu segnata da diverse risoluzioni ONU e da un armistizio. Il processo iniziò con l’accettazione da parte dell’Iraq delle decisioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tra cui il cessate il fuoco il 28 febbraio 1991, e culminò con la firma di un armistizio l’11 aprile del 1991. Tra i termini chiave figuravano il riconoscimento da parte dell’Iraq della sovranità del Kuwait, l’impegno a distruggere le sue presunte “armi di distruzione di massa” e il pagamento delle riparazioni di guerra. Gli aspetti controversi in tal caso furono moltissimi, oltre a quelli relativi alle motivazioni della guerra in sé. Le critiche principali furono rivolte alle risoluzioni delle Nazioni Unite, le quali determinarono la delega del potere militare alla coalizione guidata dagli Stati Uniti, che alcuni sostengono abbia violato i principi della Carta delle Nazioni Unite, minando l’autorità del Consiglio di Sicurezza e creando un precedente discutibile. Altre critiche sottolinearono l’eccessiva aggressività delle risoluzioni, l’insufficiente ricerca di soluzioni pacifiche e le conseguenti sanzioni, che hanno causato gravi danni umanitari alla popolazione irachena. Tra i vari conflitti che hanno dilaniato l’ormai ex Jugoslavia, mi limito a citare il trattato con cui fu sancita la fine della Guerra del Kosovo, ovvero l’Accordo di Kumanovo firmato il 9 giugno 1999, che imponeva il ritiro delle forze jugoslave dal territorio conteso, e dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che istituiva un Kosovo amministrato dalle Nazioni Unite con sostanziale autonomia pur rimanendo all’interno della Jugoslavia. Ci furono forti critiche anche al suddetto accordo. I rilievi furono fatti in relazione alla sua mancata piena attuazione, in particolare per quanto riguarda la protezione delle minoranze, il disarmo dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) e il ritorno degli sfollati. I critici sostengono che si sia trattato di una tregua tecnica che ha posto fine alla guerra, ma non ha stabilito una pace duratura, priva di disposizioni per la stabilità a lungo termine, la riconciliazione e lo status politico definitivo del Kosovo. Alcuni inoltre ritengono che l’accordo sia stato il risultato di pressioni e di un’applicazione selettiva dei suoi termini, piuttosto che di una risoluzione di principio. Di recente, l’Accordo di Ohrid del 2023 è stato siglato con lo scopo di normalizzare le relazioni tra Kosovo e Serbia, prevedendo il riconoscimento reciproco dell’indipendenza e dei simboli, sebbene quest’ultimo sia ancora oggetto di contesa. Riguardo al millennio in corso, quale corollario al tale lista aggiungo il modo a dir poco discutibile con cui si è conclusa la cosiddetta seconda Guerra del Golfo, la Guerra d’Iraq (2003-’11). Non esiste alcun “trattato di pace” che abbia posto fine al conflitto, mentre il ritiro delle forze statunitensi – gli invasori, ricordiamolo, è stato regolato dall’Accordo sullo Status delle Forze del 2008, che ha fissato il 31 dicembre 2011 come data entro la quale tutte le truppe combattenti statunitensi avrebbero dovuto lasciare l’Iraq. In precedenza, gli Stati Uniti avevano anche firmato l’Accordo Quadro Strategico e l’Accordo di Sicurezza con l’Iraq nel dicembre 2008, che formalizzavano la futura cooperazione ma non ponevano fine al conflitto. Come si evince da questo elenco, la nefasta pratica che prevede l’interpretazione del ruolo di mediatore (ovvero per definizione super partes) da parte del responsabile principale dell’inizio del conflitto e, soprattutto, del soggetto che ha proprio per questa ragione intenzione di giovare dei frutti della sua azione criminale, viene da molto lontano. E non ho neppure menzionato il famigerato piano di pace per Gaza… -------------------------------------------------------------------------------- Per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cronistoria dei piani per la pace proviene da Comune-info.
Contro la legge del potere di morte
SIAMO ABITUATI A PERCEPIRE LO STUPRATORE COME UN SOGGETTO DEVIANTE E A SOTTOVALUTARE LA DIFFUSIONE , OVUNQUE, DEGLI STUPRI DI GRUPPO. LA FRATELLANZA MASCHILE CHE DIVENTA CORPORAZIONE MASCHILE, BASATA SULLA LEALTÀ DEGLI UOMINI TRA LORO E SUL CARATTERE GERARCHICO DELLA MASCOLINITÀ, È UNA STRUTTURA CHE SI RIPRODUCE IN TUTTI GLI ORDINI E IN TUTTE LE SOCIETÀ, IN TUTTI I RAPPORTI DI POTERE. DA LÌ VIENE ANCHE LA GUERRA, DICE RITA SEGATO, ANTROPOLOGA ARGENTINA, LE CUI RICERCHE SULLA VIOLENZA DI GENERE SONO UN RIFERIMENTO FONDAMENTALE NEGLI STUDI FEMMINISTI IN TUTTO IL MONDO. ANCHE PER QUESTO IL GENOCIDIO DI GAZA, COME DIMOSTRATO DA UN RAPPORTO PRESENTATO ALL’ONU, È STATO ACCOMPAGNATO DALL’USO SISTEMATICO DI VIOLENZE SESSUALI E DI GENERE DA PARTE DELLE FORZE DI SICUREZZA ISRAELIANE CONTRO DONNE E RAGAZZE PALESTINESI ARRESTATE. “GAZA È IN APPARENZA UN LONTANO ARCO DEL CRIMINE DELLO STUPRATORE COMUNE, CHE FA UNO SPETTACOLO DELLA SUA POTENZA… MA GAZA È ANCHE UNO SPETTACOLO. IL GENOCIDIO DI GAZA È TOTALMENTE DIVERSO DA TUTTI I PRECEDENTI GENOCIDI CHE HANNO COLPITO L’UMANITÀ. PERCHÉ TUTTI GLI ALTRI ANCORA INVOCAVANO LA FINZIONE GIURIDICA… GAZA ANNUNCIA CHE UNA NUOVA LEGGE È IN VIGORE, CHE È LA LEGGE DEL POTERE DI MORTE…”. CONTRO QUELLA “LEGGE” TANTE E TANTI SCENDERANNO IN PIAZZA SABATO 22 NOVEMBRE A ROMA CON IL CORTEO DI NON UNA DI MENO, “SABOTIAMO GUERRA E PATRIARCATO. PER IL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE DEI CORPI E DEI POPOLI” Foto SOS Gaza -------------------------------------------------------------------------------- Le ricerche di Rita Segato, antropologa, scrittrice e attivista argentina sulla violenza di genere e, in particolare, le sue riflessioni sui femminicidi a Ciudad Juárez (Messico) sono un riferimento fondamentale negli studi femministi. Segato ritiene che la violenza maschile sia una questione di potere. Questo la porta a concepire il genocidio di Gaza come un’esibizione della «legge del potere di morte». Parliamo qui del genere come potere, dell’emergere di una nuova «etica» nel mondo in crisi e delle complesse strategie attuali del potere imperiale. Hai studiato qualcosa che solo Frantz Fanon poteva fare, cioè ascoltare gli stupratori e le donne violentate, che permette di conoscere a fondo i comportamenti patriarcali. Quando parli della crisi della fine dell’umano, quali cambiamenti puoi vedere rispetto a quei mostruosi violentatori che hai intervistato anni fa? Quello che ho scoperto in quel momento, e ho chiamato la fratria maschile, è il fatto che nello stupro c’è una disciplina della vittima, un rapporto verticale in cui la vittima è controllata, dominata, disciplinata, oppressa dal personaggio dello stupratore, che rappresenta la mascolinità. Ma c’è un’altra linea, un asse orizzontale, in cui il suo atto è diretto agli occhi degli altri uomini. L’analisi femminista si è sempre concentrata sul rapporto aggressore-aggressione, ma io affronto il rapporto ponendo l’attenzione anche sugli occhi che vedono lo stupro come spettacolo, quindi parlo di quel crimine come violenza espressiva, una denominazione molto valida. Non è una violenza strumentale, utilitaria della libido maschile che si appropria del corpo della donna. Chiariamo subito una cosa. L’ho detto finora: il crimine patriarcale è un crimine politico, non morale, religioso o consuetudinario. È la forma primaria di oppressione e di estrazione di plusvalore. E potremmo dire senza timore di sbagliarci che è un plusvalore di prestigio, di status. Se lo stupro è un fatto politico, di affermazione del potere, l’esibizione ha altri oggetti che non sono solo le vittime… Enfatizzo la questione della relazione tra gli uomini e credo che la novità del mio argomento sia l’enfasi nel dire che questa estrazione di valore dal corpo delle donne è la gioia, una gioia narcisistica, autoreferenziale. Il mio è un’analisi del potere che si appaga per la sua esposizione ad altri uomini e alla società. Il buon senso che abbiamo inculcato ci insegna a percepire lo stupratore come un soggetto anomalo, deviante, solitario, ma, tuttavia, le statistiche ci mostrano che la maggior parte dei crimini di stupro sono perpetrati in gruppi, in bande. Si tratta di un crimine «nella società». Come si relaziona questa fratria del potere maschile con le guerre attuali? L’aggressione sessuale è un crimine che, nonostante la quantità di leggi già ratificate, non può essere controllato. Questo tipo di violenza non cede. Ciò che accade nel presente è che la fratellanza maschile, la fratellanza maschile che ora descrivo come corporazione maschile, basata sulla lealtà degli uomini tra loro e sul carattere gerarchico della mascolinità, è una struttura che si replica e riproduce in tutti gli ordini, in tutte le società, in tutte le gerarchie, in tutti i rapporti in cui vediamo potere e disuguaglianza. Sono repliche di questo primo e basale ordine corporativo. Da lì viene anche la guerra. Parlando una volta a Buenaventura, costa del Pacifico colombiano, uno spazio iperviolento, qualcuno del pubblico mi ha chiesto: «Come si finisce questa guerra, che non può finire con un patto o un’amnistia perché è una guerra totalmente informale?». Una tale guerra si ferma smontando il mandato di mascolinità, che è il dispositivo che permette di reclutare i soldatini che formeranno le fazioni belliche. E come appare il genocidio del popolo palestinese in questa deriva analitica? Gaza è in apparenza un lontano arco del crimine dello stupratore comune, che fa uno spettacolo della sua potenza, che ha bisogno di esibirla, il che gli dà il titolo di maschio. Ma Gaza è anche uno spettacolo. Il genocidio di Gaza è totalmente diverso da tutti i precedenti genocidi che hanno colpito l’umanità. Perché tutti gli altri ancora invocavano la finzione giuridica, si nascondevano dietro l’ordine del diritto. Il primo genocidio e il più grande di tutti è stato la Conquista, e ci hanno sempre detto che a quel tempo regnavano le leggi delle Indie. Ma nessuno può credere che dal sud della Penisola, dall’altro lato del grande mare fino al Nuovo Mondo, queste leggi avessero qualche capacità di condurre alla vita. Qui c’è una palese menzogna, perché il continente latinoamericano è stato conquistato da bande, che erano di fatto i gruppi armati che hanno ripulito il territorio. In Brasile queste bande hanno persino un nome e un monumento a San Pablo: i bandeirantes. Bande che hanno un sacco dei gruppi di stupratori attuali. In entrambi i casi sono maschi predatori della vita, delle donne e della natura. Certo, i bandeirantes percorsero tutto il territorio portoghese uccidendo indiani e ogni animale che trovavano, ripulendo i territori per poterli occupare. Il carattere fondante e fondamentale che hanno avuto le bande nella pulizia del nostro continente è la chiave per capire Gaza. Ho la sensazione che, mentre gli stupratori di Ciudad Juárez non ti abbiano disconnesso dal non-umano, Gaza sì, nonostante l’indignazione. Forse perché quest’ultima rappresenta una rottura con il concetto di “essere umano”. Questo genocidio è un punto di svolta della storia. Perché nell’Olocausto si poteva vedere, in filmati, la sorpresa degli eserciti alleati quando entravano in un campo di concentramento. Si poteva percepire in coloro che arrivavano la perplessità e l’orrore che sperimentavano perché era stato nascosto al mondo ciò che stava accadendo nei lager, perché c’era ancora un simulacro giuridico vigente, esisteva ancora una grammatica giuridica. Nel mio testo del 2009, Il grido inudibile, casualmente ripubblicato nel libro Scene di un pensiero imbarazzante nel 2023, ho detto che con lo sterminio palestinese è finita la grammatica giuridica. Quando non c’è più una legge che sia in grado di governare il comportamento, rimane solo la forza. La legge è una fede, una finzione, un discorso in cui mettiamo credito. Ma quella finzione giuridica cadde con Gaza. La credenza che esistesse un ordinamento giuridico che permettesse l’aspettativa di comportamento è scomparsa. Non si può non sapere cosa sta succedendo a Gaza. Con questa esibizione senza pudore e senza alcun diritto che la contenga, si può dire che Gaza annuncia che una nuova legge è in vigore, che è la legge del potere di morte. Il potere della morte è la legge. D’altra parte, nei momenti di divagazione, mi viene in mente che il sacrificio di Gaza è una specie di nuova crocifissione, proprio nello stesso luogo, che avrà come conseguenza di illuminare le coscienze in un modo nuovo. È una specie di epifania, e rendersi conto mi porta molte volte ad affermare che si tratta di un punto di svolta della storia, un cambiamento d’era. Persino alcuni membri delle forze armate degli Stati Uniti stanno gridando il loro disaccordo. Gaza illumina le coscienze in un modo nuovo. -------------------------------------------------------------------------------- 8 marzo 2022: foto di Non una di meno Milano -------------------------------------------------------------------------------- I nazisti nascondevano i campi, così come le dittature del Cono Sud (Argentina, Cile, Uruguay, ndt) nascondevano i centri di detenzione. Non osavano mostrare le torture o la loro stessa popolazione. Benjamin Netanyahu, al contrario, dice ai suoi che lo sterminio è necessario e lo dimostra. È una cosa quasi incredibile, enunciano, dicono senza la minima vergogna che stanno uccidendo per occupare quelle terre e fare affari. Ci sono registrazioni di soldati e anche civili israeliani che affermano l’importanza di uccidere tutti i palestinesi senza alcun problema etico o morale. Né legale. Durante la Conquista ci fu un noto dibattito tra Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de las Casas sul fatto che gli indigeni avessero un’anima; un dibattito di alto contenuto etico e politico. Ma qui tutto si riduce al potere di morte. È la novità del nostro tempo. Perché il potere di morte ha sostituito il diritto o, meglio, si è costituito esplicitamente nel diritto. Possiamo pensare che con la scomparsa della ragione umanitaria dall’orizzonte storico della nostra epoca sia caduta l’etica? Non lo vedo così. Ci troviamo di fronte a una nuova etica che si basa su idee che Hannah Arendt sviluppa in L’origine del totalitarismo, quando dice che sia nello stalinismo che nel fascismo emerge un diritto più rilevante dei diritti delle persone, che è il diritto della storia. Per i nazisti, il diritto della storia è costruito a partire dall’idea di una razza superiore, con l’obiettivo di ottenere la purezza della razza ariana. La legge storica, dunque, è quella che determina lo sterminio di tutto ciò che impedisce questo transito. Nel caso dello stalinismo, è un mondo egualitario senza classi. Tutto ciò che è disfunzionale, tutto ciò che impedisce o disturba il transito storico verso la destinazione preconcepita come obbligatoria, potrà essere eliminato. Come interviene il capitalismo? Oggi, la concezione della storia sostiene l’accumulo-concentrazione come valore, come il valore che orienta il corso della storia. Quasi direi che è la nuova utopia della storia, per quanto incredibile possa sembrare a molti. Tutto ciò che è disfunzionale all’accumulo-concentrazione deve essere eliminato. L’umanità perfetta è quella dei proprietari. Il dominio in corso del pianeta determina l’esistenza di un’eccedenza umana, quelli che non sono funzionali al processo di dominio, al processo dell’accumulazione del capitale, sono destinati alla morte. Questa è l’ideologia del presente. È il caso dei Donald Trump, Javier Milei e direi di tutta l’estrema destra europea e buona parte della destra. Non è, come pensiamo noi che lo facciamo dal campo critico, che c’è una crisi etica. C’è è un’altra etica, un’altra ideologia che è diventata egemonica. Ci troviamo di fronte a un quadro di valori che afferma il diritto, il dovere dell’accumulazione come superiore ai diritti delle persone. Questo capitalismo non è di sfruttamento del lavoro salariato, ma soprattutto di spogliamento, di guerra contro i popoli e la madre terra… , in cui una piccolissima minoranza si impadronisce del pianeta. Non dobbiamo più parlare di ineguaglianza perché è poco, ma di proprietà. Arendt menziona in un piè di pagina che Hitler, nel suo diario, scrive che i prossimi ad essere sterminati sarebbero i cardiaci. Ma tutti loro sono stati eletti democraticamente. Le definizioni di democrazia affermano, erroneamente, che una maggioranza nelle elezioni garantisce un ordine democratico. È un grande errore perché permette di intendere per democrazia una dittatura della maggioranza. Ci sono alcuni eletti che trasformano la democrazia in una dittatura. Non possiamo dimenticare che non c’è democrazia possibile senza pluralismo. C’è qualcosa che sta succedendo che è molto difficile da capire nella storia degli Stati Uniti in questo momento. È sorprendente il cambiamento di strategia nella guida di quel paese. E questo, che deve essere notato e considerato, si presenta difficile da capire perché è un rifiuto di una strategia di mezzo secolo. Pensiamo: quando finisce la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sottraggono un vantaggio alla Russia – che, sebbene sia stata fondamentale nella vittoria contro il nazismo, non può approfittarne – si presenta al mondo come la democrazia, la sua cartolina al mondo è l’immagine di un paese che ha distrutto il male del totalitarismo. Da lì si costituisce come una nazione montata su due zampe: una di queste è il potere stesso, economico e bellico. Cioè la nazione più ricca e meglio armata del mondo e, progressivamente, con la migliore intelligenza bellica (spionaggio, capacità di infiltrazione, ecc.). Ma l’altra gamba su cui poggia la sua potenza è quella dell’egemonia: la «finzione democratica», la «finzione giuridica» di pieni diritti per la loro cittadinanza. L’egemonia era il potere di seduzione degli Stati Uniti, la terra della libertà dove migrano i perseguitati dal nazismo e dal fascismo, ma anche quelli perseguitati da Stalin. Un paese che sembrava offrire opportunità a tutti. Esatto. Dopo il 1948, in una seconda tappa di questo processo di costruzione del l’egemonia nel mondo, cioè della presentazione al mondo di una serie di valori capaci di rappresentare gli interessi di tutta la gente, sorge un pezzo mancante, assunto negli anni ’60 da Lyndon Johnson, dopo l’assassinio di John F. Kennedy: la lotta contro il razzismo e la fine dell’apartheid negli stati del sud; la grande legge sui diritti civili, che proibiva la discriminazione razziale e la segregazione negli spazi pubblici, nell’istruzione e nel lavoro, e la legge sul diritto di voto degli afroamericani e delle altre minoranze. Sono convinta che quest’ultimo dimostra questo impegno per il consolidamento dell’egemonia dei valori americani nel mondo. È un primo passo negli anni sessanta, attraverso il quale questa democrazia diffonde l’idea dell’integrazione razziale. In un secondo momento, viene presentato il passo successivo di tale sforzo e si verifica in concomitanza con la caduta del muro di Berlino. Gli Stati Uniti danno un nuovo passo egemonico che è il multiculturalismo, che intendo come contropartita al gesto di restituire i loro stati alle nazioni che componevano l’Unione Sovietica. Due gesti, est e ovest, di stampo democratico. Il gesto del mondo capitalista, liberale, il gesto dell’Occidente, chiama e rende visibili quelle che oggi chiamiamo identità politiche e offre loro diritti e risorse. Il mondo passa a percepire le donne, gli afrodiscendenti, gli indigeni, le sessualità dissidenti LGBTTTIQ+ come identità querelanti sulla scena pubblica. Di ciascuno di questi appezzamenti, come ha sottolineato il grande intellettuale nero statunitense Cornel West, una parte otterrà l’inclusione e un’altra parte, la maggioranza, rimarrà esclusa. Analizzo a lungo questo tema nel mio libro La nazione e i suoi altri del 2017,e oggi sono fortemente critica della trappola della minoritarizzazione nella quale ci ha immerso il multiculturalismo. La proposta multiculturale, sostenuta da fondi di tutti gli organi di cooperazione statunitensi, è stata un terzo momento di costruzione e sforzo per l’egemonia. Perché dici questo del multiculturalismo? Perché ha chiaramente costruito un regime di colonialità all’interno dei movimenti sociali. All’interno del movimento nero, per esempio, impone forme di auto-identificazione, comportamenti, costruzione dell’immagine e lotta che non nascono dalla storia coloniale e schiavista della latinità. Nel mio libro sul tema insisto su una distinzione tra identità politiche multiculturali e «alterità storiche», che nascono da altre storie, con strutture di alienazione, discriminazione ed esclusione proprie. Le donne del mondo hanno percepito e denunciato il carattere colonizzatore del femminismo eurocentrico. In Brasile, per esempio, è molto chiara la forma di discriminazione e dominazione all’interno del movimento LGBTQ+, che, sebbene abbia permesso conquiste, allo stesso tempo ha imposto, a volte in modo doloroso, il suo modello. Nelle nostre società ci sono forme molto ancestrali di uomini femminili. Nel candomblé c’è una transitività di genere molto forte. Ma appare il gay statunitense che deve andare in palestra, creare muscolatura, e passa ad imporsi come modello. Questo è uno degli esempi della colonialità all’interno dei movimenti sociali. Oggi posso dire che sono fortemente critica dell’identitarismo, della minoritarizzazione e del wokismo. Ogni differenza è universale. Menziono tutto questo per rendere visibile che ci sono state almeno tre fasi dello sforzo degli Stati Uniti per presentare al mondo e, in verità, influenzare il mondo attraverso la costruzione di progetti di immagine democratica. Questo è ciò che sto descrivendo come la costruzione di un’egemonia mondiale. Questi tre periodi – la vittoria sull’oppressione nazista nella seconda guerra mondiale, la fine dell’apartheid e il multiculturalismo – sono stati parte del progetto egemonico degli Stati Uniti. Anche la scienza e l’industria cinematografica e televisiva fanno parte di questa strategia. Ma, e questo è ciò che bisogna capire, la strategia dell’egemonia viene improvvisamente cancellata. L’idea di una nazione democratica viene distrutta e il mondo assiste a un cambiamento radicale di rotta, un cambio di discorso e di costruzione d’immagine radicale. Sono convinta che il nostro sforzo d’ora in poi sia quello di cercare di capire perché il Nord si decide per questo cambiamento di strategia e di rotta. Perché sceglie la costruzione di un’altra immagine per se stesso, in cui la misoginia, il razzismo, la guerra, lo sterminio e persino l’appoggio al genocidio diventano la cartolina, l’auto-immagine della nazione presentata al mondo. Perché si rinuncia al progetto di paese egemonico, in termini di valori e immagine democratica. Quale strategia lo sostituisce? -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicata originariamente su Brecha -------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Contro la legge del potere di morte proviene da Comune-info.
Quando l’arte fa l’impossibile
IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DI CINEMA DELLE DONNE A GAZA: UN ESEMPIO DI RESISTENZA CIVILE, UNA STORIA DA RACCONTARE Gaza. Palestinesi si avviano a presentare il festival (foto da Ezzeldeen Shalah) Non potremo che ricordare questo evento come un’ “utopia realizzata”, tra il 26 e il 31 ottobre 2025, a Deir el Balah nella striscia di Gaza. Anche chi, come me, stentava un anno fa a credere che questo progetto avrebbe preso corpo nel corso di un genocidio, nella distruzione di Gaza, sotto i continui crimini dell’esercito israeliano, con la paura delle bombe, le condizioni di sofferenza, di fame, di mancanza di tutto della popolazione, ha dovuto ricredersi. Sembrava una sfida impossibile, di fronte alle difficoltà materiali, enormi, ma anche al sentire delle persone, forse distanti da questa utopia, nel momento della sofferenza e dei bisogni fondamentali: un festival di cinema non era un lusso insostenibile? Credo che mi abbia convinto a sostenerlo, come ha convinto tutti coloro che hanno aderito attivamente al progetto, la determinazione del suo ideatore Ezzeldeen Shalah, critico e regista, di cui abbiamo più volte ascoltato da Gaza, nelle conversazioni online dei mesi di preparazione, la voce ferma, le parole convinte e irremovibili che dicevano di andare avanti, comprese quelle dette in uno dei momenti più terribili degli attacchi dell’esercito israeliano, l’invasione di terra unita a incessanti bombardamenti, di Gaza City: “se io non ci sarò più, continuate questo lavoro…”. Parole che ci hanno stretto il cuore, ma anche rafforzati nella convinzione di sostenere la realizzazione del progetto, in tutti i modi possibili. E’ stato presentato, raccogliendo fondi, in varie iniziative in Italia, e in molti paesi delle associazioni e festival di cinema che compongono l’ampia rete internazionale: è arrivato a Cannes, a Venezia, a Firenze gemellandosi con il Festival di cinema delle donne e poi al Festival dei Popoli dove il suo fondatore ha meritatamente ricevuto il premio SUMUD, parola che appartiene storicamente alla cultura palestinese: la perseveranza, la resistenza civile. Ezzeldeen Shalah Ancora una volta la cultura ha mostrato di essere non lusso, ma risposta a esigenze fondamentali: la speranza in un futuro possibile, la sua capacità di essere vita contro la morte, una forma alta di resistenza. E a chi gli domanda se ha senso parlare di cultura in tempi di genocidio e di fame, Ezzeldeen risponde: “Sì, ed è fondamentale. Il cinema è vita, è una presenza ostinata contro il nulla. Realizzare un festival tra le macerie significa dire che siamo ancora qui, che resistiamo e che c’è speranza. È il nostro modo di sfidare la morte con la vita. Vogliamo trasmettere al pubblico una carica di fiducia: la speranza, in questi tempi, è già una forma di resistenza”. (fonte: https://pungolorosso.com/2025/08/17/gaza-il-cinema-che-resiste/) Dunque a dispetto di tutti gli ostacoli e le difficoltà, il festival si è fatto, il tappeto rosso è stato steso, le persone che potevano hanno partecipato numerose e attente. E’ iniziato, come previsto, il 26 ottobre, data scelta per ricordare la Giornata delle donne palestinesi e la prima Conferenza delle donne palestinesi tenutasi a Gerusalemme nel 1929. S i è aperto con la proiezione del film vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia: “La voce di Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania, tunisina, Leone d’Argento a Venezia. Sconvolgente racconto dell’attesa e poi dell’uccisione sotto decine di colpi israeliani, di una bambina in un’auto con i familiari. Terribile e straordinariamente commovente, realizzato con grande capacità tecnica, fa rivivere quei dolorosi momenti in mezzo al genocidio di Gaza. I 79 film in programma, tra documentari, cortometraggi e lungometraggi di finzione provengono da 28 paesi. Tutti raccontano le vite, le voci e le lotte delle donne. Il Festival è stato poi sospeso per i nuovi bombardamenti nel corso della cosiddetta “tregua” (!) e si è concluso il 31 ottobre con le premiazioni. Qui trovate conclusioni e assegnazione dei premi. La realizzazione di questa edizione del Festival incoraggia a lavorare ad una seconda edizione, come assicura il suo fondatore : “Desideriamo assicurarvi che, a partire da domani, inizieremo i preparativi per la seconda edizione” dichiara davanti al pubblico Ezzaldeen Shalah, presidente e animatore instancabile del festival che, dal cuore di Gaza, a Deir al-Balah, dove il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha offerto la sua sede, ha parlato al cuore del mondo. > “Gaza International Women’s Cinema”. Chiusa la prima edizione si lavora già > alla seconda Continuiamo a sostenerlo https://gofund.me/d28029779 “Il cinema è la nostra voce quando il mondo non ci ascolta. E’ la luce che rimane accesa, anche sotto le macerie” NOTE LE GIURIE: Presidente onoraria del Festival è Monica Maurer , regista e ricercatrice da decenni lavora sulla memoria visiva palestinese. Si sono espresse due giurie: una per i film di finzione e una per i documentari. La giuria per la finzione è stata presieduta dalla sceneggiatrice e regista francese Céline Sciamma , affiancata dal regista marocchino Mohamed El Younsi , dall’attrice italiana Jasmine Trinca , dalla scrittrice e regista palestinese Fajr Yacoub e dall’attrice e regista teatrale algerina Moni Boualam . Annemarie Jacir , regista del film Palestine 36 , candidato agli Oscar, ha presieduto la giuria del documentario, insieme al produttore del Bahrein Bassim Al Thawadi , alla produttrice italiana Graziella Bildesheim (presidente dell’European Women’s Audiovisual Network ), al regista kuwaitiano Abdulaziz Al-Sayegh e alla montatrice cubana Maricet Sancristobal . LA RETE INTERNAZIONALE DI SOSTEGNO: Patrocinio del Palestinian Ministry of Culture, e la collaborazione di 100autori – Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva, ABP – Association belgo palestinienne, AFIC – Associazione Festival Italiani di Cinema, All for One, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), Associazione Cultura è Libertà, una Campagna per la Palestina, Associazione Spazio Libero, Astràgali Teatro, Bookciak Magazine, Carmel Sweden Foundation – chaired by Mohammed Al-Sahli, Casa Internazionale delle Donne, Cinema senza diritti, Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños – Cuba, EWA – European Women’s Audiovisual Network, International Federation of Arab Film Festivals – 25 festivals, chaired by Ezzaldeen Shalah, Jerusalem International Festival of Gaza, Leeds Palestinian Film Festival, NAZRA – Palestine Short Film Festival, Palestine Cultural Platform, Palestine Film Institute, Palestine Museum US, Resistance Culture Foundation – chaired by Brazilian filmmaker Yara Lee, Rete Ricerca e Università per la Palestina – RUP, Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese, Sumer Ad and Art Production, Visionarie – Donne tra Cinema, Tv e Racconto, Women’s International Democratic Federation – WIDF – FDIM, 46th Florence International Women’s Film Festival, Dar Al Thaqafa Academy – Libano).  I PAESI DA CUI PROVENGONO I FILM IN CONCORSO Italia, Francia, Iraq, Egitto, Marocco, Siria, Libano, Algeria, Tunisia, Oman, Kuwait, Qatar, Canada, Svezia, Emirati Arabi Uniti, Argentina, Iran, Australia, Belgio, Giordania, Sudan, Kenya, Yemen, Arabia Saudita, Australia, Germania, Finlandia, Danimarca. v. anche https://palestinaculturaliberta.org/2025/10/24/gaza-international-festival-for-womens-cinema-si-fara-nella-striscia-con-quello-che-resta/ L'articolo Quando l’arte fa l’impossibile proviene da Comune-info.
L’abitudine alla guerra
IL GENOCIDIO DI GAZA, LA GUERRA IN UCRAINA, GLI STERMINI IN SUDAN, MA ANCHE LE NOTIZIE SUL CECCHINAGGIO CONTRO I BAMBINI DI SARAJEVO. NEGLI ULTIMI DUE ANNI SIAMO STATI CATAPULTATI IN SCENARI PRIMA APPANNAGGIO QUASI ESCLUSIVO DEI FILM DI GUERRA. STIAMO REAGENDO OGNUNO A MODO PROPRIO, SPESSO FACENDO FINTA DI NIENTE, SCOPRENDO CHE A TUTTO CI SI ABITUA, TRA REAZIONI DI SGOMENTO E CONDOTTE DI EVITAMENTO. ABBIAMO BISOGNO DI MOMENTI NEI QUALI PENSARE INSIEME E IMPARARE A GUARDARE IL FONDO DELL’ABISSO PER LIBERARCI, AD ESEMPIO, DALL’IDEA CHE AVER SUBITO ORRORE TRASFORMA LE VITTIME IN DIFENSORI DEI PIÙ DEBOLI, MA PRIMA DI TUTTO PER RIFLETTERE SULLE RESPONSABILITÀ DEI MODELLI CULTURALI ED ECONOMICI DOMINANTI, DA NOI STESSI ALIMENTATI. LE VIOLENZE E LE GUERRE NON NASCONO IMPROVVISAMENTE. E I MEZZI CON CUI CERCHIAMO DI CONTRASTARLE NON SONO PIÙ SEPARABILI DAI FINI Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Quello che sta succedendo a Gaza ormai da due anni, e che non pare affatto interrotto da un accordo di pace già declassato nei fatti a flebile tregua, in Ucraina da oltre tre, le pur scarsissime notizie che filtrano dalle altre decine di luoghi del pianeta, trasformati in zone di guerra spaventose, Sudan e Nigeria in testa con gli stermini di massa che li abitano, stanno incidendo progressivamente anche sul nostro modo di sentire e reagire, sul nostro psichismo, vulnerabile a ogni esperienza, vissuta anche solo da testimoni: le reazioni iniziali sono state di incredulo sgomento, di sbigottimento davanti alle cronache quotidiane di massacri, agli spazi dei media invasi da realtà che pensavamo appartenere a tempi spazzati via da una inarrestabile civilizzazione, marcata dalla ricerca dell’universalizzazione dei diritti. I meno giovani di noi, cresciuti immaginando e vagheggiando, sull’onda di canzoni divenute inni e miti, “un mondo senza ragioni per uccidere né per morire, un mondo senza confini né avidità, nessun paradiso da guadagnare né inferno da temere, nessuna religione ad imporre dogmi,” eravamo davvero persuasi che, se di sogno matto si trattava, era un sogno bello da sognare, e forte tanto da generare azione. Il risveglio da quello che si sta rivelando essere stato uno stato soporoso, di ottundimento o di colpevole ingenuità, in cui il desiderio è stato scambiato per realtà, è stato brutale. Innegabile che i decenni appena trascorsi fossero stati carichi di indizi, lì pronti da cogliere se solo lo si fosse voluto: parole quali giustizia, solidarietà, diritti andavano sempre più scansandosi per fare largo a individualismo, indifferenza, competizione, che per le nuove generazioni diventavano il brodo di coltura per una diversa idea di mondo. Ma ancora nulla a che fare con l’idea di guerra, ripudiata dalla Costituzione, ma soprattutto rifiutata dai giovani totalmente insofferenti anche a quel servizio militare preparatorio al suo svolgersi, obbligo insensato che chi poteva rifuggiva poco nobilmente provando ad imboscarsi e molti altri, più coscienziosamente, a preferirvi il servizio civile, che un senso condivisibile ce lo aveva. Make love, not war era diventato il mantra esibito gioiosamente non solo in oceaniche manifestazioni, ma anche su onnipresenti spille e autoadesivi: infine tanto interiorizzato e normalizzato da non necessitare nemmeno più di essere ribadito. Imparare a imbracciare un fucile, magari strisciando su terreni dissestati, zaini zavorrati in spalla, era ormai considerato un esercizio di machismo, da lasciare a chi ne aveva bisogno per compensare scarsi livelli di autostima, ma capace solo di sottrarre tempo alle bellezze della vita. Sembrava strada senza ritorno. Eccoci invece catapultati in scenari prima appannaggio esclusivo di quei film di guerra, visti dalla postazione rassicurante di una poltrona cinematografica o dal divano di casa: tutto si risolveva in un paio d’ore di ansia adrenalinica, eccitante intervallo tra più o meno confortanti tran tran da vita civile, magari un po’ noiosa, ma di certo rassicurante. I droni Poi, quasi senza preavviso, le cronache quotidiane hanno cominciato a parlare un linguaggio esondante di massicci attacchi, linee del fronte, difese aeree, offensive finali, piogge di missili, esplosioni, raid…, mentre i droni, oggetti ancora sconosciuti a molti, entravano di prepotenza nel nostro vocabolario, provocando prima sorpresa e ben presto progressiva abitudine. Molto più drammatico è stata convivere con le immagini, tanto più universali delle parole, perchÉ capaci di scatenare un impatto emotivo dirompente anche quando ci sfilano davanti solo per pochi secondi. I nostri occhi e di conseguenza la nostra mente sono andati registrando il dilagare sugli schermi di uomini trasformati da mitra, bombe a mano, kalashnikov: da esseri umani a macchine da guerra, spaventose e ferali. E poi scenari di edifici rovinanti al suolo a trasformarsi in cumuli di macerie; città in frantumi; fumo ad annerire il cielo. Ancora niente a confronto della straripante disperazione umana: bambini sporchi e disperati a piedi nudi tra le macerie con fratellini più piccoli sulle spalle, che al microfono di chi prova a farli raccontare, rispondono per esempio, con un sorriso mite, che la cosa più brutta è quando di notte piove e i materassi sono tutti bagnati: orrido atto d’accusa verso il mondo adulto. E poi fiumane di gente spossata che si trascina verso chissà dove, bende su corpi feriti, lenzuola ad avvolgere cadaveri di ogni dimensione. E il dolore misconosciuto di altri esseri, gli asini, fantasmi pelle e ossa obbligati a trascinare pesi immensi e ci si chiede come possano farlo e speriamo manchi poco perché stramazzino a terra verso l’unica liberazione a cui possano aspirare, quella fornita dalla morte: senza il debole sostegno di cui almeno gli umani possono godere abbracciandosi gli uni agli altri. Loro no: in totale solitudine, lontano anche dal conforto di un’ultima carezza che consoli una briciola del loro immeritato martirio. Cancellare tutto con un click Noi, testimoni involontari e lontani, abbiamo reagito ognuno a modo proprio, nel tentativo di mitigare lo spettacolo spaventoso che l’umanità, a cui apparteniamo, dà di sé: i più coraggiosi sono partiti per provare ad offrire aiuto, tantissimi hanno manifestato, scritto, raccolto aiuti. Anche altro sta però succedendo: una sorta di stanchezza per la quotidiana informazione sulle tragedie in atto, che hanno il grande pregio di poter essere cancellate con un click del telecomando o sulla tastiera. E sparire dai nostri pensieri. Così da una parte ci sono quelli che non si possono sottrarre alla tragedia e noi, che ci indigniamo, ma ne possiamo annullare anche solo la percezione perché troppo dolorosa. Non è certo la prima volta che succede: basta pensare ai naufragi a poche miglia dalle nostre coste e alla morte in mare di decine, a volte centinaia, di persone alla ricerca di una vita vivibile. Anche in quel caso lo sgomento dei primi tempi, alimentato anche da puntuali cronache e filmati, si è via via affievolito: relegato a trafiletti sulle pagine interne dei giornali, a informazione di pochi secondi dalle televisioni, ha finito per essere bypassato dalla nostra attenzione e soprattutto dalla nostra compassione e solidarietà. Tutto normalizzato nella sua ripetitività. È una realtà molto preoccupante perché “a tutto ci si abitua” significa che basta un po’ di pazienza e poi tutto quello che è insopportabile diventa accettabile. Volendo essere un po’ meno severi verso noi stessi e la nostra pericolosa adattabilità al peggio, è giusto ricordare che non sempre si tratta di indifferenza e cinismo: è invece vero che quella che appare come colpevole desensibilizzazione è a volte figlia di compassion fatigue, di un esaurimento, alimentato dall’esposizione prolungata alle sofferenze altrui, in cui ci si identifica empaticamente, ma che si è impotenti a modificare. Se quella sofferenza viene assorbita, può travolgere e sottrarvisi appare l’unico modo per rimanere integri. E allora cambiare canale, leggere altro sull’web perché “non ce la faccio più a guardare”, corrisponde a una strategia di salvezza, certo non esente da sensi di colpa, di inconfessata vergogna, ma comunque salvifica. L’eliminazione degli alimenti proteici Non sempre è possibile: le notizie sono a volte talmente forti da bucare come una lama il ghiaccio delle nostre corazze. Arrivano dai luoghi da cui le informazioni sono più frequenti, a partire dal massacro di Gaza. Una di queste riguarda la strategia di Israele per affamare la Striscia, di cui si parla da tempo: prendere per fame è piano indegno, ma non nuovo, come la storia insegna: per restare a tempi non lontani furono i tedeschi a far morire di fame oltre un milione di civili russi tenendo sotto assedio Leningrado per oltre due anni nel corso della seconda guerra mondiale. Ma nulla può competere in orrore con l’Holodomor, devastante piano genocidario ordito da Stalin negli anni 1932/33, quando vari milioni di ucraini furono letteralmente fatti morire di fame, secondo gli storici per perseguire una collettivizzazione forzata e contestualmente reprimere le aspirazioni nazionalistiche dell’Ucraina stessa. Ne dà una descrizione agghiacciante Vasilij Grossman nel suo Tutto scorre scritto tra il 1955 e il 1963, in cui la descrizione di morti individuali restituisce la dimensione di tragedia umana alla valenza storica dei fatti. Un’inchiesta del Guardian denunciava già mesi fa oltre alla evidente crudeltà anche un intollerabile cinismo da parte di Israele, colpevole di affamare “in modo calcolato” la popolazione palestinese attraverso un preciso controllo delle calorie necessarie alla sopravvivenza, monitorando il divieto di lasciare affluire alimenti proteici per donne e bambini. La notizia è stata ripresa e diffusa a settembre dall’organizzazione umanitaria MUSIC FOR PEACE che ha fatto sapere che, per ordine del COGAT, (organismo che coordina le attività governative nei Territori) i pacchi destinati a Gaza vengono aperti e svuotati da biscotti, miele, marmellata, datteri in quanto proteici e quindi in grado di dare un po’ di forza a una popolazione stremata. Le autorità israeliane hanno calcolato con precisione svizzera quante calorie sono necessarie ai palestinesi per sopravvivere e conseguentemente autorizzato l’ingresso nella Striscia di quantità inferiori. Il Guardian cita un precedente già nel 2006, quando un collaboratore dell’allora premier Olmert disse: “Mettiamoli a dieta senza farli morire”. Ma neppure il solerte collaboratore poteva vantare, tra i suoi pregi, quello dell’originalità. È necessario risalire ancora un po’ a ritroso la corrente del tempo per imbattersi in un altro precedente, il famigerato programma AktionT4: attuato dal regime nazista in centri situati in Germania e in Austria ufficialmente tra il settembre 1939 e l’agosto 1941 (proseguito in forma clandestina fino al termine della guerra), prevedeva l’uccisione sistematica di persone “indegne di vivere” perché affette da disabilità fisiche o mentali, considerate gusci umani vuoti. Ufficialmente si parla di 70.000 morti forse, 250.000/300.000 se si estende la ricerca alle fasi clandestine. Ne fa una tragica ricostruzione il film Nebbia in agosto (2016), sulla storia vera del tredicenne Ernst Lossa, che ne fu vittima, film che bene ripercorre la minuziosa tecnica della riduzione delle calorie nei cibi quale strategia di uccisione silenziosa, attuata da medici, solerti esecutori degli ordini hitleriani, con la loro scienza al servizio del Male, quello con la M Maiuscola. Il confine tra carnefici e vittime Insomma una delle forme più subdole di sterminio burocratico, che Israele riprende, traendone ispirazione proprio da quelli che furono i suoi persecutori. Un altro tassello da prendere in considerazione quando ci si interroga su come sia possibile passare dal ruolo di vittime a quello di carnefici. Domanda a cui forse ha già dato risposta Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati in cui rifletteva su come il confine fra carnefici e vittime non sempre sia netto e si possa piuttosto collocare in una zona intermedia, abitata dal bisogno e dalle circostanze, che determinano i comportamenti. E lo fa la riflessione psicologica relativa a come le esperienze possano essere interiorizzate nella loro complessità: non sarà avere subito orrore e ingiustizie a trasformare la vittima in difensore del diritto e dei deboli, se ad essere stato interiorizzato è il rapporto di prevaricazione come stile di relazione. Riproponendolo, sarà possibile mettersi dall’altra parte, quella dell’oppressore. E poi ci sono i casi in cui infliggere il male non è neppure la conseguenza, per quanto ingiustificabile, di averlo subito. Anzi: proviene da chi dalla vita sembra avere tutto: ricchezza, posizione, possibilità di gestire il tempo come gli pare e piace. E, tra ciò che gli pare e piace ci sono le battute di caccia, dove infliggere dolore e sofferenza fino allo spasimo contro vittime indifese eccita e soddisfa. Ma la sindrome di onnipotenza è così pretenziosa da non ritenersi soddisfatta di obiettivi animali nonumani, bersaglio alla portata di tanti altri compagni di fucile da risultare così poco elitaria. E allora le competenze in tema di abilità e di sadismo si possono meglio esprimere su vittime umane, scelte come capita, ma in osservanza di un tariffario della vergogna. È successo a Sarajevo negli anni tenebrosi dell’assedio dove, sta emergendo, alcuni stimati professionisti si spostavano dalle zone ricche del nord Italia per eccitanti week end all’insegna del cecchinaggio contro i bambini, di certo un po’ costoso, ma ne valeva la pena, se mai pareggiando il conto con vittime meno care, uomini e donne, fino ad arrivare agli anziani, di tanto poco valore da poter essere uccisi anche gratis. Orrore? Vergogna? Sdegno? No, non c’è parola al mondo capace di connotare l’essenza che la ricostruzione dei fatti comporta. Il vocabolario non è stato aggiornato. Migliaia e migliaia di pagine sono state scritte nel tempo nel tentativo di trovare una spiegazione al perché della guerra e della violenza così ubiquitarie nella storia umana né tanto meno di trovare quale sia la strada per escluderle dal tragitto della storia. Nulla di fatto ad oggi. Anzi. Forse varrebbe la pena approfondire lo strano caso, di cui parla il ricercatore Carl Safina, di una comunità di gorilla divenuta quasi pacifica per mancanza di modelli comportamentali aggressivi dopo la morte per tubercolosi dei maschi adulti. Chi sia depositario di tali modelli è di certo meno netto tra gli umani che non tra i gorilla, ma, una volta allargato il cerchio, una seria riflessione sulle responsabilità dei modelli anche oggi in circolazione sarebbe molto più che un ottimo punto di partenza per modificare lo stato di questo mondo che, semplicemente, è un mondo sbagliato. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > La nostra casa era già assediata -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’abitudine alla guerra proviene da Comune-info.
La riconversione bellica del lavoro
LA STORIA DICE CHE SONO SEMPRE MINORANZE A PREPARARE E FARE AFFARI CON LE GUERRE. OGGI ACCADE CHE MENTRE IL GOVERNO PUNTA A FAR SALIRE LA SPESA MILITARE ADDIRITTURA AL 5% DEL PIL, LA CISL ORGANIZZI UNA “MARATONA DELLA PACE” PER LASCIARE DIRE TRANQUILLAMENTE A KAJA KALLAS, ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UE PER GLI AFFARI ESTERI, CHE “SE VOGLIAMO LA PACE DOBBIAMO PREPARARCI ALLA GUERRA”… Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Il videomessaggio sul grande schermo di Kaja Kallas alla “Maratona per la Pace” della CISL, nel quale dice che “se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla guerra” sembra tratto da una pagina di 1984 di George Orwell, dai cui schermi il Grande Fratello ribadiva le formule “la pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. La proposta di Kallas, ripetuta ossessivamente dall’establishment della UE e dai vertici della Nato, non è proprio innovativa e tantomeno ragionevole: deriva dalla massima latina si vis pacem para bellum, ampiamente superata dal moderno pensiero razionale europeo, laico e religioso, che ne rivela la sperimentata controproduttività. Che pure l’Alta rappresentante per gli affari esteri e vicepresidente della Commissione europea, che non perde occasione di citare i “valori” europei, dovrebbe conoscere. Da Erasmo da Rotterdam, “La guerra piace a chi non la conosce” (Adagia), ad Immanuel Kant, “Gli eserciti permanenti devono col tempo scomparire del tutto. Infatti pronti come sono a mostrarsi sempre armati a questo scopo minacciano costantemente gli altri Stati e spingono questi a superarsi a vicenda nella quantità degli armati…“ (Per la pace perpetua); da Bertrand Russell, “La preparazione alla guerra, lungi dall’essere un mezzo per prevenire la guerra, è in realtà la causa principale delle guerre. (…) Gli armamenti e le alleanze militari creano un clima di sospetto e paura che porta inevitabilmente al conflitto” (Common Sense and Nuclear Warfare), a papa Giovanni XXIII, “La guerra è aliena alla ragione” (Pacem in terris), la deterrenza militare è disvelata nella sua infondatezza e logica perversa che alimenta la minaccia che dichiara di voler prevenire. E’ il il dilemma, o paradosso, della deterrenza, come abbiamo spiegato più volte. Del resto, già nella lettera che Albert Einstein inviò a Sigmund Freud nel luglio del 1932, quattordici anni dopo “l’inutile strage” della Grande guerra e sette anni prima della Seconda guerra mondiale, ponendo al padre della psicoanalisi la domanda cruciale su come liberare l’umanità dalla guerra – già consapevole che la risposta a questa domanda “è una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta” – attribuisce la causa principale delle guerre “al piccolo ma deciso gruppo di coloro che attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità”. È quel gruppo di potere, sia interno ad ogni Stato che trasversale ad essi, che il presidente (ed ex generale) USA Dwight D. Eishenhower, nel discorso di addio alla presidenza del 1961 avrebbe definito “complesso militare-industriale”, che dal riarmo globale per la preparazione della guerra ha tutto da guadagnare, tanto quanto dal disarmo per la preparazione della pace ha tutto da perdere. Ma, si chiedeva Einstein scrivendo a Freud, com’è possibile che questa minoranza che fa affari con le guerre “riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e perdere?” Anche su questo lo scienziato delinea nella lettera a Freud una risposta che ha pienamente valore – o addirittura maggiore – anche per il nostro presente: “La minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica”. Salvo che per la chiesa cattolica, che man mano si è posizionata dalla parte del pacifismo anziché della “guerra giusta”, per il resto la lettera di Einstein mette a fuoco i dispositivi formativi e informativi che ancora sovraintendono alla riconversione bellicista delle menti, necessaria alla riconversione bellica dell’economia e del lavoro al servizio della guerra. Alimentando la costruzione di un nemico minaccioso che, intanto, disarma i paesi di fronte alle minacce reali. Mentre per preparare la guerra la spesa militare italiana ha superato nel 2025 la cifra dei 35 miliardi di euro – puntando progressivamente a quel 5% del PIL che significherà 140 miliardi di euro all’anno, sottratti agli investimenti sociali e civili – ancora nel 2020 le organizzazioni per la pace e il disarmo denunciavano che per un caccia F-35 si spende la stessa cifra che serve per allestire 3.244 posti in terapia intensiva (vedi ricerca Greenpeace): proprio quell’anno l’Italia fu “attaccata” dalla pandemia da Covid e si trovò negli hangar decine di caccia F35 – dentro un programma pluriennale di spesa che ne prevede l’acquisto di 125 – e gli ospedali senza sufficienti posti di terapia intensiva, costringendo i medici a dover scegliere tra chi curare e chi no. Ne avevo parlato nel libro che proponeva di Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie (GoWare), pubblicato nel 2021, ma sono stato ampiamente smentito dai fatti. Peccato che oggi anche la CISL, ospitando la narrazione obsoleta, irrazionale e pericolosa di Kaja Kallas, abbia iniziato a preparare, di fatto, i lavoratori all’accelerazione della riconversione al militare dell’industria civile e della riconversione alla guerra dell’economia sociale. Anziché a lottare per il disarmo e la pace. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su un blog del fattoquotidiano.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La riconversione bellica del lavoro proviene da Comune-info.
Belém, un elefante nella stanza
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- C’è un elefante nella stanza della COP30 in corso a Belém; un tema escluso dall’ordine del giorno, ma capace di pregiudicarne gli eventuali risultati (comunque scarsi, ma non più che nelle 29 COP che l’hanno preceduta). Quell’elefante è la guerra. Tutti sanno che guerra e lotta per il clima sono incompatibili, ma nessuno osa parlarne. Il tema non è all’ordine del giorno. Nessuno lo ha proposto. Perché? Molti non credono che la crisi climatica e ambientale sia una vera minaccia. Altri pensano che sia talmente complicato affrontarla che non vale nemmeno la pena tentare. Altri ancora, la maggioranza di quelli che sono lì sperando di raggiungere un risultato – e non per boicottarne lo svolgimento, come i 5.000 e più lobbisti dell’industria fossili e affini presenti – temono che sollevare il problema finirebbe per pregiudicare il poco che si può ottenere. Invece occorre parlarne. Per tante ragioni: alcune banali, altre meno. Innanzitutto, la guerra, che la si faccia o no, succhia una quantità incredibile di risorse finanziarie, tecnologiche e umane che potrebbero e dovrebbero essere destinate alla lotta per il clima e per la salvaguardia dell’ambiente (e per l’eguaglianza, che ne è la condizione): lo abbiamo visto con il Green Deal europeo: dal progetto (malaccorto) di incanalare “sviluppo” e profitti sulla strada della cura dell’ambiente alla decisione, ormai condivisa da tutti i governi, di fare della produzione di armi il motore dell’accumulazione del capitale. Nessuno di loro, guerra o no, si tirerà mai indietro. Poi le guerre in corso sono un potente fattore di rilancio dei fossili. Schiacciati dalle auto-sanzioni che si sono imposte, i paesi dell’Unione Europea si sono lanciati in una corsa alla scoperta o alla valorizzazione di risorse aggiuntive con cui sostituire le forniture di gas e petrolio russi, con tanti saluti alla transizione. La guerra, d’altronde, aumenta il consumo di combustibili e le relative emissioni: per spostare uomini e mezzi, per far funzionare e produrre sempre nuove armi. E ogni esplosione è un fuoco che brucia ossigeno e produce CO2. Poi la guerra distrugge non solo vite umane ma anche edifici e manufatti, fino a radere tutto al suolo; come a Gaza, ma anche in Donbass: tutte cose che andranno sostituite e ricostruite con altro dispendio di risorse e altre emissioni. Ma distrugge anche il suolo, le acque dei fiumi e la vita animale e vegetale, sia selvatica che coltivata o di allevamento che li abita, rendendoli sterili per anni o per sempre; e trasformando in fonti di emissioni quelli che erano pozzi di assorbimento del carbonio. La guerra è un incubatore di tecnologie della violenza rivolte contro la vita umana, i centri abitati, i manufatti e le infrastrutture, ma disponibili (dual use) a venir utilizzate anche nella guerra contro l’ambiente e la natura. La storia dei pesticidi, dei mezzi aerei per irrorali, dei razzi per provocare la pioggia o sventare la grandine e altro ancora è questa. Ma domani verranno sviluppate e impiegate per arginare il riscaldamento climatico con la geoingegneria: tecnologie “dure”, dagli effetti irreversibili, ideate e gestite da un qualsiasi “Stato maggiore” della lotta per il clima autonominato, sia di Stato che privato. Per mettere fuori gioco le tecnologie “dolci” e amiche della Terra – dall’alimentazione ai trasporti, da quelle dell’abitare alla rinaturalizzazione del territorio, dalla cura congiunta di uomini e ambiente (one health) alla salvaguardia della biodiversità – tutte cose praticabili solo attraverso una riorganizzazione della vita quotidiana con il coinvolgimento di tutti. La guerra produce profughi, milioni di “migranti”: sia direttamente, sia attraverso la distruzione dell’ambiente e la crisi climatica che alimenta. La lotta per la salvaguardia dell’ambiente e per il clima cerca invece di restituire a chi è investito da quei processi la possibilità e i mezzi per restare dov’è; per ricostruire su nuove basi le condizioni della vivibilità. La guerra porta alla militarizzazione non solo delle istituzioni, ma anche della vita quotidiana e delle culture che la sottendono: e a poco a poco – o anche rapidamente – invade tutti gli spazi: informazione, cultura, ricerca, scuola, lavoro, produzioni, mentalità e, ovviamente, “ordine pubblico”: cioè spazi di libertà. Tutti coloro che allo scoppio della guerra in Ucraina si sono compiaciuti della risposta puramente militare della Nato, dell’Unione Europea o del governo ucraino non si sono resi conto – allora e forse neanche adesso – di quanto quel loro entusiasmo abbia influito nel trasformare “lo spirito del tempo”: il linguaggio dei media, l’autocensura, il rancore, la priorità su tutto data alle armi, la perdita di un orizzonte di convivenza, il cinismo di fronte alla morte sia di “civili” che di combattenti, sia “nemici” che “amici”; e, ovviamente, l’indifferenza per il destino del nostro pianeta. La guerra promuove sudditanza e subordinazione da caserma, mentre la lotta per l’ambiente e per il clima produce autonomia, inventiva, spirito di collaborazione e di iniziativa dal basso: quello che occorre per affrontare il difficilissimo futuro che ci aspetta. Infine, tema di grande attualità, la guerra è sia fomite che copertura (per chi già la praticava alla grande) di corruzione: rende possibile accumulare potere e ricchezza alle spalle di chi viene mandato a morire al fronte o condannato a crepare nelle retrovie. Costi prezzi e destino delle armi sono segreti di Stato non controllabili (tanto poi scompaiono, distrutte), come lo è il conto delle vittime e dei danni: chi li maneggia e ci guadagna sta da sempre nelle retrovie mentre a morire sono sempre altri. Il contrario della lotta per la salvaguardia dell’ambiente: in prima linea nell’organizzarla e nel condurla ci sono sempre i “difensori dell’ambiente”; il numero ormai sterminato delle vittime della guerra che Governi e multinazionali che speculano distruggendo l’ambiente conducono contro madre Terra. Leggere l’enciclica Laudato sì farebbe bene a tutti i convocati a Belém. Ma i popoli indigeni presenti non ne hanno bisogno. La conoscono già. L’hanno ispirata loro. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI BRUNA BIANCHI: > Geoguerra e cambiamento climatico -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Belém, un elefante nella stanza proviene da Comune-info.
Lo stato patriarcale è uno stato di guerra
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La cosiddetta pace – l’assenza temporanea di belligeranza mediante un armistizio – risulta la condizione più probante per mantenere uno stato incessante di guerra, che continua infatti a esistere dietro la pace fittizia e l’ordine apparente. Attraverso il travestimento di fatti che non appaiono immediatamente bellici e che tuttavia li presume – spese militari, preparazione della difesa, continua produzione di armi, condizioni di austerità, cicli economici legati alla ricostruzione dei territori devastati ecc. –, la guerra replica modularmente sé stessa sotto mentite spoglie, delineandosi come parte costituente di questa formazione storica in un intreccio inestricabile con la politica. È quasi praticamente impossibile fare un’analisi della guerra senza confrontarsi con il patriarcato. Interrogare i modi con cui vengono costruiti gli archivi e le teorie che costituiscono le nostre visioni del mondo è un’operazione fondamentale per scuotere le nostre abitudini mentali, oltre che per liberarle da molte menzogne. Le teorie che ultimamente circolano nell’ambito degli studi archeologici vedono per esempio la guerra infuriare ovunque e in ogni tempo, dal Paleolitico al Neolitico senza soluzione di continuità, mentre fino a poco tempo gli studiosi la associavano solo agli Stati basati sul dominio. La guerra era stata considerata rara e irrilevante nella storia degli inizi, perché erano semmai gli scontri e le faide a caratterizzare i conflitti, e non la violenza organizzata su larga scala, come avviene nelle civiltà strutturate in Stati gerarchici con un esercito permanente e un’autorità di comando. I conflitti e gli scontri delle epoche antiche non sono dunque equiparabili alla guerra, né tantomeno si possono definire belligeranti epoche della storia umana come il Paleolitico e il Neolitico. L’uso indiscriminato del termine “guerra” contribuisce a creare un’ideologia della guerra infinita, connaturata all’essere umano. Nell’analizzare la teoria della guerra eterna, Goettner-Abendroth riporta le tesi di Lawrence Keeley, diventato oggi un modello di riferimento per l’archeologia contemporanea, mettendo in luce il metodo con cui costruisce le sue argomentazioni. Per corroborare la tesi della guerra eterna, scrive la studiosa, Keeley interpreta qualsiasi muro o fossato che circonda un villaggio neolitico come una fortificazione di tipo militare, quando poteva trattarsi più verosimilmente di sistemi di difesa contro gli animali selvatici o per drenare l’area d’insediamento nelle zone umide, e le mura per proteggersi dalle inondazioni e dal fango dei fiumi circostanti, oppure, ancora, fungere da luoghi di sepoltura, come testimoniano molte prove recenti. Allora, viste le tante possibilità, un’affermazione come “la violenza tra i villaggi aumenta proporzionalmente ai fossati” – la tesi di Keeley – risulta quantomeno bizzarra. Le tombe contenenti punte di freccia in selce, continua Goettner-Abendroth “non esprimono più doni per i defunti ma strumenti di morte, come se quasi nessuno potesse essere morto per cause naturali”, e le tombe con eccezionali cumuli di ossa, ordinate o alla rinfusa, sono senza eccezione prova di massacri, quando sappiamo che all’epoca esisteva la consuetudine di sepolture secondarie (Goettner-Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato, Mimesis, 2023). La studiosa si chiede poi cosa abbiano a che fare con la violenza i meravigliosi terrapieni ovali o circolari dell’Europa centrale neolitica, che oggi sappiamo essere stati luoghi d’incontro, una sorta di templi a cielo aperto che svolgevano funzioni astronomiche, cerimoniali e sociali. Questa teoria, come molte altre che oggi vedono la guerra ovunque e in qualsiasi epoca “soddisfano però la proiezione nell’era neolitica delle condizioni a cui siamo abituati nel patriarcato”, scrive l’autrice. Allo stesso tempo, Goettner-Abendroth critica la narrazione edulcorata delle società “pacifiche” promossa da certe letture semplificate, secondo le quali tutti i conflitti dovrebbero essere sempre risolti in modo non violento, tutti dovrebbero essere “madre” e amarsi l’un l’altro, regole e sanzioni non avrebbero ragione di esistere, tutti dovrebbero essere vegetariani e non tagliare gli alberi e così via. Anche se la proiezione in questo caso è positiva, non si tratta comunque di un miglioramento. Il punto è che un certo numero di società, in particolare quelle matriarcali, hanno saputo sviluppare una vasta gamma di strategie per la risoluzione dei conflitti e per il mantenimento della pace, grazie a strutture sociali e a valori culturali che non glorificano la violenza, di conseguenza la guerra non viene celebrata. Prendere sul serio le organizzazioni sociali che hanno preceduto i nostri sistemi patriarcali, o altre forme di convivenza differenti da quelle che la modernità occidentale ha esportato, ci aiuta a capire la storia culturale dell’umanità in modo più differenziato e da più lati, e a smettere di proiettare i consueti valori patriarcali oltre che sul passato sul presente, e prendere così confidenza con altri principi. La rete dei codici si arricchisce, l’ordine dei segni si modifica, e con essi i presupposti per creare strutture improntate a un diverso modello antropologico. Può succedere che col tempo, il tempo si apra. La guerra si è imposta ormai come “regime di verità”, è la bolla epistemologica in cui siamo immersi, ciò che fa sì che certi discorsi – la guerra è una componente innata della natura umana, è ineluttabile, sorge in parallelo ai primi villaggi – siano unanimemente accettati. Una verità che ha finito per funzionare storicamente attraverso la replicazione di idee, norme, dispositivi di sapere, codici, che vivificati continuamente dalla ripetizione di miti e modi ad hoc di formare le esperienze, si è affermata come dato universale, naturale e immutabile. Questo sistema eterogeneo di disposizioni, di cui la forza e il potere sono i valori trainanti e le alchimie militari i mezzi più efficaci per convalidarne e riprodurne la struttura, si è infine installato nei corpi e in tutti i luoghi dell’esistenza umana, mantenendo un ordine sociale la cui patologia oggi è sotto gli occhi di tutti. Oltre ad abituarci alla verità della guerra, il nostro sistema di pensiero ci ha abituato all’idea di un patriarcato universale come fenomeno nato insieme alla cultura umana, che esiste da sempre, con le sue lotte intestine, guerre, le sue strutture parentali, i suoi scambi di donne, il suo dio e il suo dominio. Le scoperte dell’archeologia nel corso del Novecento ci consentono oggi di definire un quadro della storia della civiltà molto più ampio, complesso e differenziato, che dimostra, come scrive Luciana Percovich che “le datazioni consuete e le localizzazioni convenzionali ed eurocentriche della ‘culla della civiltà’ indicano semplicemente l’inizio di una civiltà, molto giovane e patriarcale, quella originata dall’urto delle invasioni indoeuropee tra l’Età del bronzo e del ferro, e a esse successiva. Ciò che finora abbiamo ritenuto la Storia della Civiltà è solo una tra le tante narrazioni, quella degli ultimi vincitori” (L. Percovich, Oscure madri splendenti. Le radici del sacro e delle religioni, Venexia 2007). George Orwell, nel romanzo 1984, immagina un’epoca in cui un “Ministero della Verità” riplasma ogni idea e riscrive il presente secondo le esigenze del nuovo regime, cancellando tutto quello che prima era vero. Ma tutto questo è già successo molto tempo fa nei tempi antichi, ci ricorda Riane Eisler nel suo libro Il Calice e la Spada, il cui titolo fa riferimento a due metafore che rinviano a un modello sociale mutuale e a uno dominatore. L’allontanamento della memoria dei fatti nella dimenticanza e nell’oblio è una tecnica di controllo culturale e politico che si ripete nel tempo, ma esiste una cancel culture di più forte impatto che ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo, un dopo che è ancora il nostro oggi: il lungo periodo durante il quale le antiche società dell’Europa e del Mediterraneo, e di altre parti del mondo, diedero vita a modelli di vita improntati ai valori della convivenza e della collaborazione; un’idea diversa di cultura, dove conflitti, scontri e contese non furono con ogni probabilità del tutto assenti e tuttavia non costituirono il telos dell’ordine sociale. Per quanto riguarda l’Europa Antica, sappiamo che tra il 6500 e il 3500 a. C. circa, e a Creta fino al 1450 a.C., le società non erano costituite da piccoli villaggi sparsi abitati da selvaggi, ma da stanziamenti che raggiunsero anche le dimensioni di vere città, dotate di vaste reti di comunicazione e scambi, ricche di arte e cultura, prive di centri di comando, gerarchie ed élite. Le sue genti non produssero armi letali, non eressero bastioni in muratura e altre strutture difensive, come avrebbero fatto la maggioranza dei nostri antenati a partire dall’Età del bronzo. Eressero invece templi alti diversi piani, magnifiche tombe-santuari, case spaziose, e crearono raffinate ceramiche e sculture. Vantavano una scrittura sacra, e tessitori e tessitrici, esperte ed esperti specializzati nella lavorazione dell’oro e del rame, e artigiane e artigiani che producevano un’ampia gamma di sofisticati manufatti (M. Gimbutas, La Civiltà della Dea, Vol 1, Stampa Alternativa, 2012). E in Anatolia, nella città di Çatal Hüyük, dei 150 dipinti murari sopravvissuti che decoravano gli innumerevoli templi, non ve ne è uno che rappresenti una scena di conflitto o di lotta, né di guerra o tortura. Fu un periodo di notevole creatività e stabilità, un’età contraddistinta da un convivere non belligerante. Grazie all’approccio multidisciplinare di Marija Gimbutas, che combina archeologia, mitologia, linguistica e storiografia, consentendole di calarsi nella realtà sia materiale sia spirituale di quelle epoche, sappiamo che a ispirare e a modellare le vicende degli umani era una figura cosmogonica femminile, increata, che esisteva da sempre, immanente alla natura, Signora della vita, della morte e della rigenerazione e guardiana dei suoi misteri. In nessun documento preistorico sono state trovate infatti immagini di un dio padre del cielo, creatore, signore degli eserciti. Le donne svolsero un ruolo decisivo nel mantenere un equilibrio tra i sessi e con agli ecosistemi, grazie a un’interconnessione costante di terra, cosmo, umanità nel rispetto della vitalità della materia. Quelle culture ci consegnano un notevole corpo di modelli culturali, politici, economici e spirituali non ancora mediati dalle dinamiche del potere patriarcale e dalla sua mitografia western, intrisa di tirocini dell’uomo eroe-guerriero sprezzante del pericolo che tronca con la vita dei corpi, delle donne, dei figli e delle relazioni. È appena un taglio, ma può farci vedere ciò che s’invola al di sopra della nostra stantia attualità. Atene, nel V secolo, al culmine dell’organizzazione civica e del sistema democratico, non aveva dimenticato ancora del tutto l’esperienza di quel passato, ma non potendo più ammetterla nel discorso ufficiale civico già governato dall’unica verità patriarcale, la dislocò nello spazio del teatro, nella tragedia. Derealizzato e neutralizzato, il grido della memoria di un tempo governato da una grammatica diversa del vivere e il ricordo di eventi accaduti in un antico passato che continuavano a dividere la città, poterono essere così reintegrati nella polis. Nicole Loraux ha scritto libri fondamentali sull’oblio della divisione iniziale connaturata al Politico in Occidente, rimettendo in discussione i temi della democrazia, dell’esclusione del femminile dalla città, del non detto. La studiosa ci invita a produrre una sorta di corto-circuito tra presente e passato e a connettere eventi distanti tra loro in un esercizio di contro-memoria, di “anacronismo controllato”, non tanto per rintracciare delle similitudini, quanto invece per “andare verso il passato con delle domande del presente per ritornare verso il presente”. Il pensiero teorico e le pratiche prodotte dalle donne in un secolo e mezzo di decostruzione della realtà patriarcale hanno scompaginato gli assetti sociali e le rappresentazioni simboliche della forza e del potere, una rivoluzione antropologica lunga, lenta e complessa, non priva di conflitti e diaspore, che continua tuttavia a mettere in campo un’idea differente di politica. Relazione, interdipendenza, cura, vulnerabilità, orizzontalità sono tra i concetti più ricorrenti per risignificare la base di una politica non violenta. Un corpo di pensiero estremamente ricco, articolato e differenziato, poco frequentato dall’intellighenzia maschile, e oggi spesso contaminato da un certo attivismo performativo che rasenta l’autoreferenzialità, come stiamo vedendo anche in questi giorni. Ma la potenza del femminismo è un campo magnetico che continuerà a ravvivare il nostro coraggio creativo, portandoci oltre i cedimenti, le intrusioni e i patriarcalismi di ritorno. Mi piace evocare una tra le più potenti creatrici di pensiero del femminismo radicale, Mary Daly, che con le sue opere ci ha insegnato a “volare attraverso terre malvage, tempi malvagi”, aprendo nuovi spazi e dimensioni di lotta sintonizzati anche sull’attivismo psichico: sincronicità, ginergia, presenza transtemporale delle nostre antenate. Scrive in Quintessenza: “Serve che le donne rimuovano le immagini che riflettono e rinforzano le strutture e il marchio del folle sado-stato patriarcale. Serve che le donne pratichino un esorcismo”. E Isabelle Stengers, in Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, scrive che il sistema capitalista è una forma contagiosa di possessione collettiva che funziona come un incantesimo, una sorta di stregoneria che cattura gli esseri umani bloccandone i pensieri, le percezioni, i desideri. “È necessario un contro-sortilegio che attivi nuovi modi di apprendere il mondo e la materia che lo abita”. Forse, la patologia generale di questo sistema ha finito per installarsi come un virus nelle nostre cellule, che oggi si ribellano e si mobilitano per cercare nuove risorse fuori dai percorsi stretti dell’asfittica razionalità occidentale. Esiste una profonda stratificazione di depositi di memoria nei nostri corpi che va oltre l’economia del ricordo tracciata nei supporti, nei documenti, per quanto testimonianze, tracce e documenti siano sempre più numerosi da quando archeologhe, antropologhe e storiche sono scese in campo per raccontare un’altra storia. Stati, modi del corpo che risalgono a una coscienza mitico-psichica, potenziali dormienti, chimiche corporee di un tempo altro. Se liberiamo la magia dalla facciata retriva che secoli di esasperato positivismo, e oggi di disciplinamento neoliberale, hanno provocato ai nostri sistemi percettivi e alle nostre potenzialità mentali orientandoli verso un’unica direzione, riusciremo nuovamente ad attivare nuove sensibilità e intelligenze per ritrovare il piacere e la meraviglia per una “nuova danza del presente”. All’ONU, intanto, c’è già chi grida al rogo, al rogo, una strega col suo libro degli incantesimi si aggira nelle nostre stanze! L’appellativo di strega pronunciato da un ottuso fantoccio del potere ci offende, ma questa parola per noi ha tutta un’altra storia, la storia di quante nel corso del tempo hanno saputo vedere e nominare, scavalcando la rete delle menzogne. Infine, che gli attuali criteri dell’istruzione scolastica continuino a proporre la Grecia classica come culla dei nostri valori essenziali, e che i programmi d’insegnamento della storia inizino con un periodo che risale solo al 2000 a.C., cioè in pieno patriarcato conclamato, dovrebbe sollevare qualche interrogativo di fronte all’imponente mole di dati oggi a nostra disposizione. E che l’insieme di società che si erano diffuse nelle valli del Danubio dell’Antica Europa, che fiorirono stabilmente e pacificamente per un periodo di circa tremila anni, rimangano un interdetto per la nostra cultura, nonostante siano la base indigena dell’Europa, è una vera soggezione storica e sociale. “La memoria collettiva umana va rimessa a fuoco… Il Neolitico europeo non è stato un tempo ‘prima della Civiltà’” ci ricorda Marija Gimbutas. Nell’Europa del riarmo, nella nostra bella Europa foriera di fame, carestie, guerre, conquiste e genocidi, nella nobile Europa della superiorità morale, civile e intellettuale indiscussa dei Socrate, Cartesio, Hegel & co, che qualche mese fa alcuni illustri intellettuali hanno brandito come vessillo di eccellenza mondiale, le antiche culture danubiane e dell’Egeo ci raccontano che l’umanità è stata capace anche di non scegliere le catene, il sangue, l’orrore. Non conosciamo i nomi dei loro filosofi e delle loro donne di pensiero, ma possiamo ammirarne i loro linguaggi nei meravigliosi affreschi e rilievi, nelle raffinate sculture e statuette, nei templi ornati di simboli che celebrano la vita e non la morte. C’è politica fuori dalla Storia. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Lo stato patriarcale è uno stato di guerra proviene da Comune-info.