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I peggiori nemici degli ebrei
-------------------------------------------------------------------------------- Vicolo Luretta, Bologna -------------------------------------------------------------------------------- Il 29 luglio il Parlamento europeo ha respinto la proposta di sospendere il finanziamento delle startup israeliane. Si tratta di startup che preparano genocidi per il futuro, in quanto si occupano in gran parte di security. Continuiamo a finanziare il genocidio, perché come dice Friedrich Merz, gli israeliani fanno il lavoro sporco per noi, cioè sono i nostri Sonderkommando, aguzzini colonialisti alle dipendenze del razzismo sistemico europeo. Ma se siamo forti con i deboli, e assistiamo compiaciuti al genocidio dei popoli colonizzati, non smettiamo di piegarci davanti ai forti. Gli Stati Uniti hanno spinto l’Ucraina a una guerra che ha distrutto quel popolo (è di oggi la notizia che i sessantenni possono andare a combattere perché ormai gli uomini di quel paese sono decimati). L’Unione Europea ha assecondato la provocazione statunitense, che aveva come finalità principale la rottura del legame economico tra Germania e Russia. Poi il presidente del paese cui siamo sottomessi è cambiato. E allora Jack Vance è venuto a Monaco a dirci che gli europei gli fanno schifo, che l’Ucraina merita di morire e che il suo paese se ne fotte delle conseguenze della guerra che il suo paese ha provocato. Ma gli europei fanno finta di non capire, occorrerebbe uno psicoanalista per spiegarci perché. Mentre la razza bianca declinante ha scatenato una guerra globale contro i popoli del sud migrante, la guerra inter-bianca è in pieno svolgimento. Pare che il fascista Putin la stia vincendo, pare che il fascista Trump sia indispettito. Ma quel che è certo è che gli europei investiranno somme enormi per comprare armi da Trump, che nel frattempo impone dazi del 15% e pretende che le aziende high tech non paghino le tasse, ottenendo piena soddisfazione dalla signora Ursula. Il 29 luglio in una stazione di servizio del Nord Italia è stata aggredita una famiglia di turisti che portava la kippah, segno di appartenenza ebraico. Anche il mio amico e compagno Moni Ovadia porta la kippah. Anche l’editore brasiliano dei miei libri, Peter Pal Pelbart, probabilmente in questo momento gira con una kippah per le strade di Sao Paulo. Corre il rischio di essere aggredito da una folla di squilibrati fascistoidi? Certo che sì. Da sempre gli ebrei hanno dovuto fare i conti con la violenza razzista. A loro tocca la sorte che tocca (in misura assai maggiore) ai migranti di origine africana o nord-africana che sono facilmente riconoscibili anche se non portano la kippah. Il problema è che per le comunità ebraiche di tutto il mondo si sta avvicinando uno tsunami di odio e di violenza, pari all’immenso orrore che suscita il Sionismo nella sua fase genocidaria. Lo Stato di Israele nacque abusivamente con uno sterminio e deportazioni di massa che la comunità internazionale non ebbe la forza e neppure la volontà di fermare, perché i sionisti promettevano di creare un luogo sicuro per gli ebrei. Gli europei, responsabili diretti o indiretti dell’Olocausto, non potevano fare obiezioni. Inghilterra e Stati Uniti videro nella formazione di quello Stato uno strumento per controllare l’area petrolifera mediorientale. Ma oggi appare evidente che lo Stato di Israele ha costituito fin dal suo inizio una continuazione del Terzo Reich hitleriano. Israele è certamente il luogo più pericoloso per un ebreo, oggi. Ma quel che scopriremo presto è il fatto che le politiche di questo Stato, illegale e colonialista e disumano, sono destinate a riattivare l’odio per gli ebrei in ogni zona del mondo. La crisi psicotica che sta travolgendo Israele rende quel popolo assetato di sangue, e stravolge la mente di coloro che sono responsabili dell’orrore della fame della sete dello sterminio che si diffonde a pochi chilometri da casa loro. Intanto i suicidi nell’Israeli Defence Force si moltiplicano. I dati che possiamo trovare su Haaretz di ieri sono abbastanza chiari, anche se probabilmente non rendono con realismo le dimensioni del fenomeno. E soprattutto, pur fornendo informazioni sul numero di soldati che si uccidono durante il servizio, Israele non fornisce nessuna informazione su coloro che si uccidono dopo essere tornati a casa. Quanti ventenni israeliani, dopo avere sparato in faccia a un bambino di otto anni che stava chiedendo di poter avere un po’ di cibo, continuano a fare il loro sporco lavoro (così lo ha chiamato il cancelliere tedesco Merz) fin quando, tornati a casa loro, si guardano nello specchio, si fanno orrore e si sparano un colpo nella tempia? -------------------------------------------------------------------------------- Un articolo di Haaretz del 29 luglio: IDF Reservist Who Helped to Identify Fallen Soldiers During Gaza War Dies by Suicide Un articolo di Haaretz del 30 luglio: Netanyahu’s Forever War in Gaza Is Crushing Israel’s Soldiers and Their Families -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I peggiori nemici degli ebrei proviene da Comune-info.
Staccare la spina alla guerra
I MILITARI HANNO BISOGNO DI MOLTA ENERGIA, NON SOLO PER COSTRUIRE ARMI. PER FERMARE LA GUERRA DOVREMMO PROVARE A STACCARGLI LA SPINA. COME? METTENDO IN DISCUSSIONE NON SOLO QUALE ENERGIA PRODURRE, MA CHI LA PRODUCE E PER FARNE COSA Foto Una città in comune di Pisa -------------------------------------------------------------------------------- L’intreccio tra guerra ed energia è molto stretto. Per diversi motivi. I militari hanno bisogno di molta energia, non solo per costruire armi sempre più sofisticate ad alta potenzialità distruttiva e per trasportare velocemente mezzi e truppe, ma anche per le reti di controllo, sorveglianza e di puntamento a distanza (“armi autonome”, le chiamano) che abbisognano di colossali apparati satellitari, informatici e l’uso di enormi data base. Tutte attività fameliche di energia. Davvero interessante un passaggio della appassionante ricostruzione che fa Pietro Greco della corsa alla costruzione della bomba atomica tra Stati Uniti e Germania (Pietro Greco in L’Atomica e le responsabilità della scienza, edizioni L’Asino d’oro, 2025). Secondo il grande giornalista scientifico l’attenzione dei fisici nucleari nazisti era più orientata a capire come controllare la reazione atomica per produrre energia finale utile, piuttosto che a farne una bomba. Sappiamo da alcune stime (peraltro tutt’altro che realistiche) che le attività militari assieme alla filiera dell’industria bellica, “in tempo di pace”, consumano il 10% dell’energia mondiale e, secondo altre stime, emettono tra il 5 e il 6% delle emissioni globali di gas climalteranti. Se fossero uno stato si situerebbero al quarto posto, dopo US, Cina e India. (Federica Frazzetta e Paola Imperatore, Clima di guerra, in Sbilanciamoci! 2025). Da notare che i dati sono segretati. Non vi è obbligo di comunicazione da parte delle forze armate, ma solo con l’Accordo di Parigi del 2015 gli stati sono invitati a fornire una rendicontazione volontaria. Ma è davvero possibile scorporare i dati sul consumo di energia tra i settori militari e civili? Per il nucleare l’intreccio è – per definizione – inestricabile. Sia per come funziona la filiera produttiva, sia per i requisiti di gestione. Una centrale nucleare è di fatto un sito militare. Ma l’ignobile e perverso “dual use” è oramai una realtà in tutti i settori tecnologici e della ricerca scientifica. Sappiamo che le industrie belliche e le attività militari sul campo hanno bisogno dei servigi delle grandi aziende tecnologiche globali (tra cui IBM, Microsoft, Google, Amazon, Palantir e Hewlett Packard). Sappiamo da quello che sta accadendo a Gaza (vedi i rapporti di Francesca Albanese) come la guerra sia il campo di sperimentazione delle innovazioni tecnologiche in ogni settore. Non è del resto una novità nella storia dell’umanità. I militari hanno bisogno di usare i ritrovati della scienza, così come la scienza e la tecnica hanno bisogno delle commesse militari per potersi sperimentare e sviluppare. Una questione questa di enorme importanza su cui gli scienziati, i centri di ricerca, le università dovrebbero riflettere, a proposito della neutralità della scienza e di altri miti bugiardi che allontano l’agire etico e delle responsabilità individuali (vedi l’Appello degli scienziati contro il riarmo, firmato da Carlo Rovelli e non molti altri). Le grandi innovazioni nella chimica (esplosivi che diventano fertilizzanti e viceversa), nell’ingegneria (aviazione), nelle telecomunicazioni, nella biologia, della geoingegneria, nella stessa informatica sono quasi sempre il frutto della volontà di conquista degli stati esercitata attraverso gli eserciti. La questione non è tanto o quanto si spende per le armi (come se il 2,1% sia più sostenibile del 5% del Pil), ma tutto ciò che permette agli industriali di costruire e ai militari di usare le armi. Quando si dice siamo in una “economia di guerra” non si dice solo che la spesa per gli eserciti è eccessiva, ma che il sistema sociopolitico ruota attorno alla guerra, dipende dai rapporti di forza armati (deterrenza) e dalla capacità di usarli in qualsiasi omento e in qualsiasi luogo (“prontezza”, la chiama Ursula von der Leyen). Letta e Draghi nei loro rapporti/suggerimenti alla UE affermano che la competizione economica (a partire dalla superiorità tecnologica) la si vince o la si perde nella misura in cui gli appartati industriali militari saranno superiori a quelli dei competitori. Mi pare che Israele lo stia dimostrando alla grande con l’IDF. La spirale tra militarizzazione del pianeta, accaparramento delle materie prime e controllo delle rotte commerciali moltiplica i conflitti armati (mai così tanti dalla fine della Seconda guerra mondiale, 57) e aumenta spaventosamente i fabbisogni energetici. Possiamo fermare la guerra? Come fare, allora, a fermare la guerra? Potremmo provare a staccargli la spina. Non è uno scherzo. Attenzione, anche loro sanno di avere qualche problema di sostenibilità nell’uso dell’energia. Sembra che gli Stati maggiori del generale Crosetto stiano lavorando a una “Strategia Energetica della Difesa”, il cui obiettivo è: “raggiungere più elevati livelli di efficienza e indipendenza energetica, al fine di perseguire concreti obiettivi di […] tutela ambientale […] e di sviluppare una nuova mentalità energy oriented nell’ambito dei settori della logistica, delle operazioni e delle infrastrutture della Difesa”. Ci sono anche progetti per “Caserme Verdi a basso impatto ambientale”, “Basi (navali) Blu” e “Aeroporti Azzurri”. L’ex ministro alla fu Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ora ad della Leonardo saprà certamente inventarsi un carro armato con vernice green biologica, perfettamente riciclabile e dotato di motori elettrici. C’è un magistrale discorso di papa Bergoglio, che andrebbe sempre ricordato: “Gli aerei inquinano l’atmosfera ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi per compensare parte del danno arrecato. Le società del gioco d’azzardo finanziano compagnie per i giocatori patologici che creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!” (Vaticano 4 febbraio 2017). La Leonardo ci ha provato a donare 1,5 milioni di euro all’ospedale di Roma Bambin Gesù, ma non li hanno voluti. Se nell’economia di guerra tutto ruota inestricabilmente attorno all’apparato militare industriale e se l’intero sistema industriale dipende dal controllo dell’energia, allora rivendicare un controllo democratico sull’uso delle fonti energetiche può essere una giusta e buona strategia per i movimenti pacifisti ed ecologisti (ecopacifisti). In fondo l’energia è una sola, è il flusso che alimenta ogni processo naturale. È il primo bene comune. È la forza preesistente della vita, sia quella miracolosamente sprigionata direttamente dal sole, sia quella racchiusa nei giacimenti fossili, sia quella meravigliosamente rigenerata in continuazione dal processo biochimico della fotosintesi clorofilliana, sia quella rara e misteriosa contenuta nell’atomo di uranio. Ha un valore primario in sé, il cui uso dovrebbe essere regolato da un semplice principio: i benefici che se ne possono trarre, senza danneggiare il bene, devono essere messi a disposizione, condivisi e goduti da tutti gli esseri viventi. Non solo gli esseri umani. Poiché il flusso dell’energia è il principale regolatore e indicatore (il “medium”) del metabolismo uomo/natura, nella storia dell’umanità intervengono delle regolazioni sociali che trasformano un dono gratuito della natura in uno di più potenti strumenti di controllo e di dominio politico. Accade così che nei regimi del capitale (nell’“ecologia del capitale”) le fonti di energia primaria vengano privatizzate attraverso la costruzione di apparati tecnologici e regimi giuridici proprietari di cattura, estrazione, trasformazione, distribuzione, erogazione, consumo. Si formano così enormi asimmetrie di potere nel disporre del bene comune, concentrazioni ed esclusioni, sprechi vergognosi e disuguaglianze intollerabili (povertà energetica, magari tra quelle popolazioni dal cui suolo si estraggono idrocarburi; 800 mln di africani non hanno accesso all’elettricità). Queste strutture e questi apparati sono pensati allo scopo di realizzare profitti e accumulare capitali, trasformano l’energia (un dono gratuito) in una merce e oscurano l’origine naturale dell’energia. Mettere in discussione l’intero sistema energetico Per avere la pace, per pacificare il mondo dovremmo quindi mettere in discussione il sistema energetico nel suo complesso. Non solo il tipo di tecnologie usate per trasformare l’energia primaria in energia utilizzabile, non solo gli impatti ambientali sulle diverse matrici naturali lungo tutta la filiera, non solo l’equa ridistribuzione delle utilità, ma anche quali sono i fabbisogni autentici e davvero necessari al benessere umano (e non solo) che devono essere garantiti. Insomma, dovremmo riuscire a mettere in discussione non solo quale energia produrre, ma chi la produce e per farne cosa. La questione fondamentale è il tipo di controllo sociale delle fonti e dei sistemi di distribuzione dell’energia. Non siamo – mi pongo all’interno dei movimenti che sognano una società della decrescita – mossi da furore ideologico anticapitalistico o da nichilismo tecnologico. A me piace il solare perché è una fonte ben distribuita e si può usare senza appropriarsene. Amo le Comunità energetiche rinnovabili perché penso che siano una forma di autogestione consapevole e replicabile. Ma so anche quanto facile sia la loro sussunzione nel mercato tramite i collegamenti alla rete e la bancarizzazione dei ricavi. Mi rivolgo quindi a quanti in ottima buona fede sostengono la “transizione energetica”, le energie pulite, la neutralità climatica, l’elettrificazione, le green tech… per metterli in guardia sul fatto che questi sacrosanti obiettivi rimarranno una chimera (come lo è tutto il Green Deal europeo) se a controllare produzione e distribuzione continueranno ad essere le forze di mercato, i gruppi industriali interessati a ricavare più profitti a prezzi vantaggiosi. Mi auguro e spero che non un raggio di sole, non un soffio di vento, non una goccia d’acqua possa mai finire in mani armate. -------------------------------------------------------------------------------- Testo preparato per l’incontro La transizione ecologica va in guerra: il ritorno del falso mito del nucleare, promosso da Confluenza (progetto nato per connettere le lotte territoriali nel Piemonte) all’interno del Festival dell’Alta Felicità, a Venaus. -------------------------------------------------------------------------------- Nell’archivio di Comune, sono leggibili oltre 250 articoli di Paolo Cacciari. Tra gli ultimi suoi libri Re Mida. La mercificazione del pianeta. Lavoro e natura, economia ed ecologia (ed. La Vela). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > La guerra organizza l’accumulazione del capitale -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Staccare la spina alla guerra proviene da Comune-info.
La guerra minaccia i semi
-------------------------------------------------------------------------------- Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nel 2025, in un mondo scosso da crisi geopolitiche, anche i semi diventano vittime della guerra. Da Khartoum a Charkiv, da Gaza ai monti dell’Afghanistan, le banche genetiche che custodiscono la biodiversità agricola mondiale subiscono attacchi, saccheggi, chiusure forzate. E con loro rischiano di scomparire le varietà tradizionali di cereali, legumi e ortaggi adattate nei secoli a climi estremi, suoli poveri e parassiti locali. Veri e propri tesori genetici oggi più che mai preziosi, in un mondo sempre più caldo e instabile. Per salvare questo patrimonio, gli scienziati si affidano a un luogo remoto e gelido. Da 2008 il Global Seed Vault alle isole Svalbard, scavato nel permafrost artico norvegese, conserva in condizioni sicure milioni di semi provenienti da ogni angolo del Pianeta. Una sorta di Arca di Noè vegetale pensata per resistere a guerre e disastri naturali. I semi minacciati dalla guerra in Sudan, Ucraina e Palestina Il caso più drammatico è forse quello del Sudan. Come racconta il giornalista Fred Pearce su Yale Environmental 360, a Wad Medani, lungo il Nilo Azzurro, la banca nazionale dei semi custodiva varietà ancestrali di sorgo e miglio perlato, coltivate da millenni e fondamentali per l’adattamento ai climi aridi. Ma nel dicembre 2023, all’inizio della guerra civile, le milizie paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf) hanno invaso il centro. Quando i ricercatori sono riusciti a tornare, tredici mesi dopo, hanno trovato congelatori svuotati e semi sparsi ovunque. Il direttore delle risorse genetiche, Ali Babiker, ha recuperato quel che restava da una stazione di ricerca a Elobeid e, nel febbraio scorso, ha spedito i semi alle Svalbard. Ma solo un quarto della collezione sudanese è stato finora messo in salvo. Simile la sorte dell’Ucraina. Prima della guerra, il Paese era tra i maggiori esportatori di grano al mondo grazie anche alla banca genetica di Charkiv, tra le dieci più grandi a livello globale. Nel 2022, però, un bombardamento russo ha colpito l’istituto. Parte della collezione è stata salvata e trasferita in un luogo segreto a ovest, ma molte varietà restano in territori occupati. Solo 2.780 campioni — su 154mila totali — sono oggi duplicati alle Svalbard. In Palestina, invece, la banca dei semi di Hebron — gestita dalla Union of Agricultural Work Committees (Uawc) — continua a operare nonostante le pressioni israeliane. Dal 2003 raccoglie varietà locali di ortaggi coltivati tra Cisgiordania e Gaza. Nonostante nel 2021 Israele abbia designato la Uawc come organizzazione terroristica, l’Unione europea e le Nazioni Unite continuano a collaborare con i suoi ricercatori. Nell’ottobre scorso i primi semi palestinesi sono arrivati al Global Seed Vault: un segnale di speranza in un contesto altamente instabile. Le banche dei semi a rischio: cause e territori coinvolti Molti dei centri di origine delle colture mondiali — luoghi dove i primi agricoltori hanno addomesticato grano, orzo, lenticchie — coincidono oggi con zone di conflitto. Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen. In questi territori i semi non sono solo cibo: sono memoria, cultura, resilienza. In Afghanistan, ad esempio, le banche genetiche sono state sistematicamente distrutte sin dagli anni ’70. Le collezioni sono state rubate, disperse, bruciate. Anche in Iraq la guerra ha fatto il suo corso, con la distruzione nel 2003 del centro di Abu Ghraib. Ma alcuni ricercatori, prevedendo che qualcosa di simile potesse accadere, avevano già inviato i campioni all’Icarda (International Center for Agricultural Research in the Dry Areas) di Aleppo, in Siria. Quei semi hanno poi attraversato nuove guerre e, poco prima dell’assalto dell’Isis, sono stati trasferiti in Libano, Marocco e alle isole Svalbard. Un viaggio travagliato che ha permesso di preservare varietà di grano, orzo e legumi antichissimi, ora usati per selezionare nuove piante resistenti alla siccità. Come se non bastasse la guerra, anche i cambiamenti climatici causati dall’uomo e i conseguenti eventi meteorologici estremi stanno minacciando la sopravvivenza dei semi a livello globale. Lo scorso anno, riporta Pearce, le isole Svalbard hanno prelevato semi duplicati dalla banca genetica nazionale filippina di Los Baños. Quest’ultima ha perso più di metà della sua collezione due volte, prima a causa di un tifone nel 2006 e poi a causa di un incendio nel 2012. Le banche dei semi minacciate anche dai tagli ai finanziamenti La rivoluzione verde degli anni ’60 ha permesso di sfamare miliardi di persone, introducendo – specie nei Paesi del Sud del mondo – sementi ad alta resa, fertilizzanti chimici e tecniche moderne di irrigazione. Ma ha anche ridotto drasticamente la varietà genetica delle colture. Oggi la maggior parte dei campi coltivati nel mondo si basa su poche varietà selezionate per produrre il massimo con l’uso intensivo di fertilizzanti e irrigazione. Senza la ricchezza genetica dei semi tradizionali, però, sarà impossibile affrontare le nuove sfide: parassiti, malattie, siccità, ondate di calore.  Era il 1921 quando il famoso agronomo Nikolai Vavilov fondò la prima banca dei semi al mondo, in Russia. Oggi la maggior parte delle nazioni dispone delle proprie strutture, supportate da 11 banche internazionali gestite nell’ambito di una partnership nota come Cgiar (Consultative Group on International Agricultural Research), finanziata in gran parte dai governi. Eppure, proprio oggi, questo sistema globale vacilla. Gli Stati Uniti, attraverso Usaid, erano tra i principali donatori della rete Cgiar. Ma, con i tagli alla cooperazione internazionale stabiliti dal presidente Donald Trump, molte banche dei semi che fanno parte di questa alleanza rischiano la chiusura. Il centro statunitense di Fort Collins ha subito licenziamenti, ad esempio, e il Regno Unito, attraverso il Millennium Seed Bank, denuncia un clima crescente di sfiducia. A proposito di sfiducia, persino la Norvegia, sede del “caveau dell’Apocalisse” (come è chiamato il centro di conservazione delle Svalbard), comincia a essere vista con sospetto dagli altri Stati. Lo storico interesse russo sulle isole Svalbard sta alimentando i timori: alcuni governi esitano a inviare i propri semi, temendo per la loro sovranità genetica. I semi come patrimonio da proteggere dalle guerre Conservare i semi del passato significa garantire cibo nel futuro. Significa poter selezionare piante più resilienti, più adatte ai cambiamenti climatici, meno dipendenti da input chimici. Significa difendere la biodiversità agricola, che è alla base della nostra sopravvivenza. Le guerre bruciano archivi genetici che hanno richiesto secoli per formarsi. Ma, ogni volta che un ricercatore riesce a salvare un campione e spedirlo alle Svalbard, quella memoria vegetale trova rifugio tra i ghiacci. Finché ci saranno semi da proteggere, ci sarà ancora una possibilità di riscrivere la storia. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Valori -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI DANIELA DI BARTOLO: > Salviamo i semi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra minaccia i semi proviene da Comune-info.
La guerra organizza l’accumulazione del capitale
TUTTE LE GUERRE IN CORSO SONO ARTICOLAZIONI DELL’ACCUMULAZIONE DI CAPITALE, A PRESCINDERE DAGLI STATI COINVOLTI. EPPURE UNA PARTE DELLA SINISTRA E ANCHE DEI MOVIMENTI SPESSO OPTA PER ALCUNE POTENZE CAPITALISTE (RUSSIA, CINA) O PER POTENZE CAPITALISTE CON SISTEMI STATALISTI TEOCRATICI (IRAN), RISPETTO AD ALTRE. “CREDO CHE QUESTA POLITICA SIA DANNOSA PER I MOVIMENTI E I POPOLI, POICHÉ DIVIDE E GERARCHIZZA, SCEGLIENDO VITTIME DIFENDIBILI MENTRE ALTRE VENGONO DIMENTICATE… – SCRIVE RAÚL ZIBECHI – CHE SENSO HA PER NOI CHE COMBATTIAMO PER UN MONDO NUOVO ESSERE ALLEATI DEL CAPITALISMO DI STATO?”. CI SONO CREPE IN QUESTO ORIZZONTE? “LA SPERANZA STA NEL VEDERE COME ALCUNE COMUNITÀ E ORGANIZZAZIONI TRACCIANO PERCORSI DIVERSI – AGGIUNGE ZIBECHI – IN PARTICOLARE, LA DETERMINAZIONE ZAPATISTA A PORRE FINE ALLE PIRAMIDI CI MOSTRA CHE, TRENTUNO ANNI DOPO LA RIVOLTA, CONTINUANO A PERCORRERE ALTRE STRADE, IMPARANDO DAI PROPRI ERRORI, CHE È L’UNICO MODO PER CRESCERE…” Nei giorni scorsi, il quartiere romano San Lorenzo ha ricordato il bombardamento del 19 luglio 1943. Scrive il collettivo Esc: “La memoria non è solo un esercizio sterile… Quest’anno abbiamo ricordato il 19 luglio con lo sguardo alla guerra di ieri, per interpretare e contrastare quelle di oggi… Abbiamo attraversato le strade del quartiere in una passeggiata resistente, abbiamo ascoltato le storie della Roma ribelle e popolare di Guido Farinelli e Rosa Mordenti…” -------------------------------------------------------------------------------- È vero che alcune grandi aziende traggono profitto dal genocidio palestinese, come riportato dalla Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi, Francesca Albanese. È inoltre emerso pochi giorni fa che il Pentagono ha destinato il 54% della sua spesa a società private tra il 2020 e il 2024, il che equivale alla sbalorditiva cifra di 2,1 trilioni di dollari per rimpinguare le casse di una manciata di grandi multinazionali della guerra, secondo il Quincy Institute for Responsible Statehood. Ma la realtà del capitale va ben oltre i profitti di poche aziende, al punto che oggi possiamo affermare che l’accumulazione di capitale non può essere sostenuta senza violenza, senza distruggere popoli, senza massacrare donne e bambini. Le guerre sono articolazioni dell’accumulazione di capitale, a prescindere dagli Stati nazionali coinvolti nei conflitti. La complessità della situazione attuale risiede nella sovrapposizione di vari tipi di guerre che tuttavia hanno obiettivi simili. Siamo di fronte a guerre tra Stati, come nel caso tra Russia e Ucraina, o, se preferite, tra NATO e Russia. Ci sono anche guerre aperte, sebbene non dichiarate, tra Stati e popoli, come nel caso tra Israele e il popolo palestinese. Ma abbondano anche altri tipi di guerre, come le “guerre alla droga”, come in Messico, o le guerre contro le gang, la povertà e persino i cambiamenti climatici. Sebbene ognuna abbia le sue particolarità, tutte mirano allo stesso obiettivo: attaccare e sfollare le popolazioni per facilitarne l’espropriazione. Ammetto che questo modo di analizzare la realtà possa trascurare alcune caratteristiche di queste guerre, ma credo sia necessario schierarsi fermamente dalla parte dei popoli che, ripetutamente, sono vittime dell’accumulazione capitalista e, quindi, delle guerre. Una parte della sinistra e anche i movimenti sociali stanno optando per alcune potenze capitaliste (Russia, Cina) rispetto ad altre (Stati Uniti, Unione Europea), con il pretesto di combattere il “nemico principale”. Questo li porta a stringere alleanze con coloro che si oppongono all’impero statunitense. Credo che questa politica sia dannosa per i movimenti e i popoli, poiché divide e gerarchizza, scegliendo vittime difendibili mentre altre vengono dimenticate. È sorprendente che il popolo palestinese venga difeso, una questione del tutto giusta, ma nessuno parla del popolo ucraino o russo, i cui figli stanno dando la vita per difendere interessi stranieri in una guerra per la quale non sono stati consultati. In un caso, si tratta del capitale occidentale sostenuto da Trump e dall’Unione Europea. Nell’altro, si tratta di un regime autoritario e capitalista, come quello guidato da Putin. Ancora più gravi, trovo i movimenti che difendono apertamente la Cina o l’Iran, come sta accadendo in diversi casi in America Latina. Non possiamo accettare che le guerre tra grandi stati siano guerre intercapitalistiche? Che senso ha per noi che combattiamo per un mondo nuovo essere alleati del capitalismo di stato? Perché questo è uno degli argomenti principali di coloro che sostengono che la Cina, o stati simili, siano diversi dall’Europa o dagli Stati Uniti perché è lo stato a dirigere l’economia. Molti sostengono che i lavoratori in Cina abbiano accesso all’assistenza sanitaria pubblica, all’alloggio e ad altri benefici sociali, creando così una differenza rispetto ai paesi centrali del capitalismo attuale, dove gran parte di questi servizi è privata. Mi dispiace dire che trovo questa argomentazione molto debole e che il capitalismo di Stato è capitalista tanto quanto la proprietà privata. Sembra evidente che lo Stato continui a dividere le acque tra i settori popolari e i movimenti. Non si comprende che lo Stato-nazione è mutato. L’uno per cento se ne è appropriato per trasformarlo in uno scudo per i propri interessi. Gli stati sociali che si sono espansi dopo la Seconda Guerra Mondiale in Europa non esistono più. La politica anti-immigrazione del vecchio continente è solo un esempio di questo brutale cambiamento. Quando vediamo la polizia in California usare auto senza targa e agenti in uniforme con i cappucci in testa per arrestare i migranti, dovremmo riflettere sulla direzione che stanno prendendo gli stati, che alcuni ancora difendono come leve di emancipazione collettiva. Capisco che la cultura politica, come tutte le culture, si evolve molto lentamente, quindi cambiare il modo di fare le cose non sarà facile. Molti gruppi e individui continuano a pensare e ad agire come se il capitalismo non fosse mutato e a ripetere ripetutamente che le cose sono sempre le stesse. La speranza sta nel vedere come alcune comunità e organizzazioni tracciano percorsi diversi. In particolare, la determinazione zapatista a porre fine alle piramidi ci mostra che, trentuno anni dopo la rivolta, continuano a percorrere altre strade, imparando dai propri errori, che è l’unico modo per crescere. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI SILVIA RIBEIRO: > L’economia del genocidio e le aziende tecnologiche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra organizza l’accumulazione del capitale proviene da Comune-info.
Contro le armi nucleari e la guerra atomica, a Venegono Superiore manifestazione per la pace intorno al Ginkgo di Nagasaki
Un albero di Ginkgo Biloba sopravvissuto al bombardamento di Nagasaki sarà il simbolo della manifestazione in programma sabato 19 luglio alle 16.30 al castello dei Missionari Comboniani, in via delle Missioni 12 a Venegono Superiore. L’iniziativa, promossa da alcune realtà pacifiste (3ª Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza, Abbasso la guerra OdV, Mondo Senza Guerre e Senza Violenza), vuole rilanciare con forza la richiesta di abolire le armi nucleari, in occasione dell’anniversario del primo test atomico della storia. A ottant’anni dal test Trinity, condotto nel deserto del New Mexico il 16 luglio 1945 e dalle esplosioni atomiche su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto, i promotori dell’evento ribadiscono la loro opposizione a ogni minaccia nucleare e il sostegno a un disarmo globale. Gli organizzatori sostengono anzitutto il TPAN (Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari), sottoscritto nel luglio 2017 da 122 su 193 Paesi ONU, ed entrato in vigore nel gennaio 2021 e chiedono anche la rimozione immediata dal territorio italiano delle armi termonucleari dispiegate nelle basi di Ghedi (BS) e di Aviano (PN). L’appuntamento si inserisce nelle attività della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza, transitata anche a Varese e vedrà la partecipazione delle associazioni “Abbasso la guerra”, “Mondo senza guerre e senza violenza” e del centro di documentazione dedicato alla promozione di una cultura di pace. La manifestazione si svilupperà attorno il Ginkgo Biloba piantato otto anni fa nel parco del Castello, un albero che è diventato nel tempo il segno tangibile di resistenza e speranza. La pianta, discendente diretta di uno degli alberi miracolosamente sopravvissuti all’esplosione atomica di Nagasaki, rappresenta un messaggio potente di rinascita e impegno civile. Per informazioni:  abbassolaguerra@gmail.com Elio Pagani (Presidente di Abbasso la Guerra OdV) 3313298611 Abbasso la Guerra
Disobbedienza civile contro il riarmo
Un demone si aggira per l’Europa e per il mondo: il demone del riarmo. Per volontà della Commissione europea (senza passare per l’Europarlamento), la Ue ha deciso di investire 800 miliardi di euro in armi. Non solo, al vertice Nato dell’Aja a fine giugno, il segretario generale Rutte ha chiesto ai 27 paesi membri di passare dal 2% del pil al 5% per la difesa, entro il 2035. La Spagna di Sanchez ha subito annunciato che non poteva accettare quell’imposizione, mentre l’Italia di Meloni ha subito chinato il capo, come china il capo alle decisioni di Trump di inviare milioni in armi all’Ucraina che «pagheranno loro» (vale a dire noi) e il guadagno sarà un maxi dividendo in primis per gli Usa e poi per l’Europa. Intanto sborseremo col 5% del Pil ben 113 miliardi di euro all’anno in difesa. Siamo alla follia! Ha vinto il demone della guerra. Non solo, i ministri dell’economia Ue che compongono il Consiglio dei governatori della Banca europea, hanno deciso di stanziare per le armi una somma record, fino a 100 miliardi di euro per il 2025. A peggiorare il quadro, il Segretario della Nato Rutte ha anche chiesto di rafforzare del 400% la difesa aerea e missilistica contro la Russia, perché secondo lui ci sarà un attacco di Putin contro la Ue entro cinque anni. Infatti una Germania sempre più bellicosa sta già arruolando 60.000 nuovi soldati e costruendo l’Eurodrome (pesa tonnellate), prodotto da Airbus. Per questi progetti la Germania ha già investito 7 miliardi di euro. Gli Usa stanno già costruendo il loro Goldendome, che prevede uno scudo missilistico orbitale. Il costo previsto si aggira attorno ai 175 miliardi di dollari. Questo potrebbe portare Cina e Russia a costruire arsenali ancora più sofisticati. È l’escalation mondiale al riarmo. Secondo i dati ufficiali del Consiglio Europeo, dal 2014 al 2024, le spese militari e quelle specifiche in armamenti nei paesi Ue sono aumentate rispettivamente dal 121% al 325%. È sempre più evidente che il complesso militar-industriale Ue sta determinando l’agenda e i contenuti della politica estera dell’Unione europea. Ma quello che impressiona di più sono gli enormi investimenti nel nucleare. È la bomba atomica la più grave minaccia che pesa sulle nostre teste e sullo stesso pianeta Terra. Si tratta di circa 100.000 nuove bombe atomiche teleguidate presenti in cinque paesi della Nato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia. Con grande coraggio negli anni Ottanta il noto arcivescovo di Seattle, Raymond Hunthousen, affermava: «Penso che l’insegnamento di Gesù ci chieda di rendere a Cesare, munito di armi nucleari, quello che si merita: il rifiuto delle imposte e di cominciare a dare solo a Dio quella fiducia completa che adesso riponiamo, tramite i dollari delle nostre imposte, in una forma demoniaca di potere. Alcuni chiamerebbero questa “disobbedienza civile”, io preferisco chiamarla “obbedienza a Dio’». È quanto sosteneva anche un altro profeta di pace, il gesuita Daniel Berrigan, che ha animato il grande movimento Usa contro la guerra in Vietnam: «Gridiamo pace, urliamo pace, ma non c’è pace: Non c’è pace perché non ci sono costruttori di pace, perché fare pace costa altrettanto come fare guerra – almeno è altrettanto esigente, altrettanto dirompente ed altrettanto capace di produrre disonore, prigione e morte». Berrigan si è fatto almeno quattro anni nelle prigioni statunitensi. Anche il vescovo emerito di Caserta, Raffaele Nogaro, che tanto si è impegnato per la pace, ha recentemente scritto un appello in cui afferma che «oggi è improrogabile manifestare per la pace a ogni costo, fino alla pratica inevitabile della disobbedienza civile». Non lasciamo nel dimenticatoio le parole di papa Leone che denuncia il riarmo come «propaganda di guerra» e che ricorda come le popolazioni «non sanno» quanto quest’immenso investimento potrebbe essere utile ai servizi sociali. Il mio è un appello a tutto il vasto movimento italiano per la pace, perché possa ritrovarsi in assemblea e decidere insieme quale via e quali mezzi non violenti scegliere per ottenere pace in un momento così grave della storia umana. Non bastano più gli appelli e le manifestazioni, dobbiamo rispolverare tutte le obiezioni di coscienza per mettere in crisi questo sistema di morte che ci sta portando alla rovina. Tutti i costruttori di pace di ascoltino questi profeti di pace, in un momento così grave della storia umana. La palla è nelle nostre mani. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche sul manifesto -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Disobbedienza civile contro il riarmo proviene da Comune-info.
L’economia del genocidio e le aziende tecnologiche
LO STRAORDINARIO E NON SCONTATO ABBRACCIO DI SOLIDARIETÀ DAL BASSO A FRANCESCA ALBANESE, NEL MIRINO DELLE SANZIONI USA MA DA TEMPO MINACCIATA DI MORTE PER LE SUE POSIZIONI IN DIFESA DEI PALESTINESI, RISCHIA DI METTERE IN OMBRA IL SUO RAPPORTO IN CUI ACCUSA OLTRE SESSANTA MULTINAZIONALI DI TRARRE PROFITTO DAL GENOCIDIO A GAZA E DALL’OCCUPAZIONE DI ALTRI TERRITORI PALESTINESI. SILVIA RIBEIRO IN QUESTO ARTICOLO RICORDA I CONTENUTI DI QUEL RAPPORTO, CITA LE MAGGIORI IMPRESE DENUNCIATE (COME LOCKHEED, MARTIN, CHEVRON, BP, VOLVO, CATERPILLAR, MA ANCHE BOOKING.COM E AIRBNB CHE AFFITTANO CASE NEI TERRITORI OCCUPATI E OVVIAMENTE AZIENDE TECNOLOGICHE COME IBM, MICROSOFT, GOOGLE, AMAZON) E SPIEGA PERCHÉ UN GIORNO POTREBBE ESSERE RICORDATO COME UN PUNTO DI NON RITORNO Foto Casa Bettola Reggio Emilia -------------------------------------------------------------------------------- Il 3 luglio, la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite (ONU) sui Territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese, ha presentato un rapporto intitolato “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, in cui accusa oltre sessanta multinazionali di trarre profitto dal genocidio a Gaza e dall’occupazione di altri territori palestinesi (From economy of occupation to economy of genocide). Menziona le più grandi aziende tecnologiche globali; società dedite al settore bellico, come Lockheed Martin; compagnie petrolifere come Chevron e BP; Volvo, Hyundai, Caterpillar e altre aziende che gestiscono macchinari specificamente progettati per il trasporto, la demolizione e la costruzione nelle aree occupate; Booking.com e Airbnb, che affittano case nei territori occupati; nonché trasportatori, banche, aziende agroalimentari e altri. Indica anche università e istituti accademici che stanno approfittando del disastro per avviare progetti sperimentali, molti dei quali finanziati dal programma Horizon dell’Unione Europea. “Mentre la vita a Gaza viene distrutta e la Cisgiordania è sottoposta a crescenti attacchi, questo rapporto mostra perché il genocidio israeliano continua: perché è redditizio per molti”, dice il rapporto. Le aziende hanno realizzato profitti record fornendo al Paese grandi volumi di armi e altri materiali “per attaccare una popolazione civile praticamente indifesa“. Per le aziende, l’attrattiva non è solo monetaria e di profitto; la guerra di Israele contro la Palestina è servita anche come “banco di prova, senza responsabilità o supervisione”, soprattutto per nuove armi e tecnologie. Sia l’industria bellica che le più grandi aziende tecnologiche globali, tra cui IBM, Microsoft, Google, Amazon, Palantir e Hewlett Packard, hanno sfruttato il genocidio per compiere un salto altamente redditizio nella sperimentazione di prodotti per uso militare. Dal 2024, Microsoft è anche partner strategico di Palantir, un’azienda di software specializzata in strumenti di intelligenza artificiale per scopi militari, forze dell’ordine, sorveglianza e simili. Palantir ha contratti con le forze armate, la polizia e le autorità per l’immigrazione statunitensi, ad esempio, per il tracciamento dei migranti. Nel 2024, ha firmato un contratto strategico con il ministero della Difesa israeliano a supporto dei suoi “sforzi bellici”, un fatto di cui si vanta pubblicamente. Dal 2021, Amazon e Alphabet (proprietaria di Google) si sono aggiudicate un importante contratto con l’esercito israeliano per la fornitura di servizi di archiviazione e utilizzo di database di grandi dimensioni nei loro cloud computing. Questo progetto con l’esercito israeliano è stato criticato dai dipendenti di entrambe le società fin dal momento della firma, ma ciò non ha impedito loro di proseguire con il redditizio progetto, fornendo un’ampia gamma di servizi derivanti dall’utilizzo delle loro piattaforme Azure e Cloud. Rapporti investigativi hanno rivelato che l’esercito israeliano ha utilizzato almeno tre diversi programmi di intelligenza artificiale (Lavender, Gospel e Where is Daddy) per tracciare, monitorare e attaccare i palestinesi, moltiplicando il numero e la velocità dei bombardamenti a Gaza, con impatti devastanti sulla popolazione civile. Non avrebbero potuto farlo senza la collaborazione di Amazon, Google e Microsoft (Inteligencia artificial y genocidio real). Un’altra azienda che ha collaborato attivamente con la guerra, ancor prima di ottenere l’autorizzazione ufficiale a intervenire, è Starlink, la società di internet satellitare di SpaceX, la società di Elon Musk. Questo è stato rivelato, come esempio da seguire, in un webinar per investitori organizzato dal ministero della Difesa israeliano nel maggio 2025, intitolato “Perché i venture capitalist scommettono sulla tecnologia della difesa”. L’evento ha esaltato le possibilità di profitto derivanti dalle attuali politiche di guerra di Israele (Wired). Il ruolo chiave che le grandi aziende tecnologiche stanno svolgendo nel promuovere forme più perverse di guerra, repressione, sorveglianza e controllo è inevitabile. Molte di loro hanno recentemente modificato la loro dichiarazione di “non guerra” per le loro tecnologie. Per ora, il rapporto esorta gli Stati a imporre embarghi e sanzioni su tutto il commercio di armi e altre attività che contribuiscono al genocidio, e la Corte Penale Internazionale a indagare e perseguire i dirigenti delle aziende coinvolte per la loro partecipazione a crimini internazionali. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su La Jornada (e qui con l’autorizzazione dell’autrice, traduzione di Comune). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MIMMO LUCANO: > Complici di un genocidio in diretta -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’economia del genocidio e le aziende tecnologiche proviene da Comune-info.
È venuto il momento di rovesciare il tavolo
I PAESI EUROPEI ADERENTI ALLA NATO SI SONO IMPEGNATI A SPENDERE MILLE MILIARDI OGNI ANNI DAL 2035 PER IL SETTORE MILITARE. UN MALLOPPO CHE FA IMPALLIDIRE IL GIÀ MOSTRUOSO REARM EUROPE DI URSULA VON DER LAYEN. HANNO UTILIZZATO LA PAURA DELL’INVASIONE PER GIUSTIFICARE UNA GIGANTESCA OPERAZIONE DI DISOLOCAMENTO DELLA RICCHEZZA SOCIALE DALLA CITTADINANZA ALLA FINANZA. DEL RESTO I PRINCIPALI DECISORI PUBBLICI EUROPEI HANNO TUTTI COLLABORATO CON LA GRANDE FINANZA. “LA DOMANDA CHE SORGE SPONTANEA A QUESTO PUNTO È: HA ANCORA SENSO PARLARE DI DEMOCRAZIA? – SCRIVE MARCO REVELLI – NOI CHE ALMENO IN PARTE ABBIAMO COMINCIATO A INTRAVVEDERE, TRA LE NEBBIE DI UN’INFORMAZIONE ALLINEATA, I MECCANISMI DELL’INGANNO, QUANTO A LUNGO POTREMO CONTINUARE A ILLUDERE E A ILLUDERCI CHE IN FONDO NON TUTTO È PERDUTO… FORSE È VENUTO IL MOMENTO DI ROVESCIARE IL TAVOLO. DI SPOSTARE IL TERRENO DELLA SFIDA PIÙ IN ALTO E PIÙ IN PROFONDO. DI METTERE IN DISCUSSIONE NON SOLO LE FORME DELL’ESISTENTE MA LA SOSTANZA DELL’ESISTENZA… E LAVORARE ALLA RICOSTRUZIONE DELL’HOMO VIVENS, CHE PONGA LA FORZA NON ALIENATA DEL PROPRIO VIVERE AL VERTICE DELLE PROPRIE ASPIRAZIONI…” Il cinque per cento del Pil! Quando al vertice NATO dell’Aja del 24 e 25 giugno il Segretario Generale dell’Alleanza Mark Rutte ha sparato quella cifra iperbolica, in molti hanno pensato che fosse una sorta di scherzo, come dire? Un corollario dell’imbarazzante messaggio grondante servilismo da lui indirizzato, la vigilia, a Donald Trump, da prendere come la captatio benevolentiae di un maggiordomo zelante priva di valore reale. Un grido nel buio per confermarsi di esistere… Quella percentuale corrisponde a una cifra terrificante: quasi un trilione di euro. Mille miliardi che ogni anno i Paesi europei aderenti alla Nato si impegnano a spendere dal 2035 per il settore militare. Un malloppo che fa impallidire il già mostruoso ReArm Europe di Ursula von der Layen. E che costituisce più del triplo dell’attuale spesa militare dei Paesi UE consistente in circa 330 miliardi, mica poco dal momento che già ora (!) rappresentano il doppio della spesa militare russa, la quale nel 2024, in piena guerra con l’Ucraina, non ha superato i 150 miliardi. Basterebbe anche solo un’occhiata a queste ultime cifre per smontare la roboante macchina argomentativa che vorrebbe descrivere un’Europa disarmata, nuda di fronte alla minaccia incombente di un Putin armato fino ai denti e assetato di conquista. Non ci sarebbe neppur bisogno di scomodare la geopolitica e la storia delle culture per dimostrare che  l’immagine di una Russia assetata di conquista verso le disarmate pianure dell’Ovest non sta in piedi. Dovrebbe bastare l’aritmetica. Il banale calcolo delle risorse (sproporzionate) già da ora disponibili tra i due campi, per dissipare la paura. Ma Rutte non scherzava affatto. E nemmeno i suoi servizievoli ascoltatori hanno fatto un plissé davanti a quel pozzo senza fondo prospettato all’Aja. Tutti, tranne l’ardimentoso Pedro Sanchez, hanno piegato il capo e aperto i portafogli. Non perché credano davvero alla fola dell’imminente “invasione” (l’intelligenza non è certo il loro forte, ma stupidi fino a quel punto non sono), quanto piuttosto perché, per quell’animal istinct che caratterizza le leadership postmoderne, fiutano la grande occasione per poter finalmente rastrellare la (residua, e sudata) ricchezza dei loro sudditi per convogliarla con facilità nei circuiti finanziari che sono i loro veri committenti. La paura come espediente narrativo Per dirla nel modo più brutale, quella che è andata in scena all’Aja, e pochi giorni dopo a Bruxelles, è stata una grande rappresentazione che ha utilizzato il più elementare sentimento umano da quando esiste la Storia, ovvero la Paura – e quella paura per eccellenza che è la paura dell’invasione nemica e della sottomissione violenta -, come espediente narrativo per mascherare e giustificare una gigantesca operazione di disolocamento della ricchezza sociale dalla cittadinanza alla finanza. Mille miliardi di euro di gettito fiscale sottratti ogni anno ai servizi ai cittadini europei (sanità, istruzione, welfare, manutenzione del territorio, ecc.) e convogliati nelle disponibilità dei grandi fondi d’investimento internazionali e nel mercato borsistico all’interno del quale le società produttrici di armi e il loro immenso indotto saranno sempre più centrali. I grandi predatori globali – sempre i soliti – si sono già attrezzati. Dall’anno scorso “gira” sulla piattaforma HANetf un ETF (ovvero uno strumento finanziario per chi vuole partecipare al grande gioco di Borsa) che replica esattamente un indice NATO costituito dalla spesa militare dei paesi membri (più questi investono in armi, più il titolo cresce di valore). Si chiama Global Defence ETF (NATO) e viene caldamente suggerito con la motivazione secondo cui “si prevede che il mercato della difesa crescerà a un CAGR del 5,6% a 718,12 miliardi di dollari entro il 2027 e il mercato della sicurezza informatica di un CAGR dell’8,9% nello stesso periodo” [il CAGR, per chi non lo sapesse, è il Tasso Annuale di Crescita Composto]. Una vera “galupperia” avrebbe detto mio nonno, pensata per rastrellare soprattutto investitori europei. Ma non è l’unico. Il più grande gestore patrimoniale del mondo, la statunitense Black Rock, ha introdotto da pochissimo l’iShares Defense Industrials Active ETF, “un nuovo fondo a gestione attiva progettato per coloro che sono interessati ad allineare i portafogli con la mutevole configurazione della difesa e della sicurezza globale”. Si aggiunge ai già attivi come l’iShares U.S. Aerospace & Defense ETF e l’iShares Cybersecurity and Tech ETF. Vanguard, per parte sua, il secondo gestore globale di fondi, propone almeno un ventina di ETF sul colosso tedesco delle armi Rheinmetall (in media hanno fatto segnare nell’ultimo anno una crescita oscillante tra il 240% e il 270%) e una decina sul nostro Leonardo (performance nell’ultimo anno intorno al 100%). Il meccanismo su cui è strutturata questa grande operazione di spoliazione dei cittadini europei è tutto sommato semplice, anche se sufficientemente articolato per sfuggire allo sguardo delle sue potenziali vittime. Funziona più o meno così: i governi dirottano fiumi di denaro proveniente dal gettito fiscale o dal prestito pubblico verso le grandi industrie degli armamenti (compresa security e tutto quanto può essere ficcato nell’indotto militare); queste vedono gonfiarsi il fatturato e di conseguenza il valore delle proprie azioni; ciò attira sui rispettivi titoli ampi flussi di capitali in cerca d’investimento i quali accrescono ulteriormente il valore di quegli assets e soprattutto il volume di capitale controllato dalle grandi piattaforme di gestione degli investimenti globali che li commercializzano e dunque dilatano il loro potere già di per sé smisurato. In tre mosse les jeux sont fait! I normali cittadini che si erano illusi di pagarsi con le tasse versate servizi decenti relativi alla salute, all’istruzione dei loro figli, alla sicurezza pubblica e alla tutela del territorio si troveranno in braghe di tela. La minoranza ricca a sufficienza per destinare parte del proprio reddito agli investimenti di borsa si potrà arricchire ulteriormente anche se moderatamente. Il capitale finanziario vedrà il tetto della sua bolla, che sembrava giunta al limite, spostato verso l’alto per almeno un’altra decina di anni grazie all’afflusso di capitali prima indisponibili. Gli undici trilioni di dollari amministrati da Black Rock, i 9 di Vanguard, i quasi 4 di Morgan Stanley, i quasi 3 di Goldman Sachs potranno dilatarsi ancora un bel po’. E noi sappiamo bene quanto vitale sia, per questi mostruosi plantigradi dell’antropocene, continuare a crescere, perché se si dovessero mai fermare (o, dio non voglia, dimagrire un po’) si sgonfierebbero come una vescica di maiale. Quelle biografie professionali di alcuni dei decisori pubblici europei A questo punto proviamo a fare un piccolo esperimento, così, tanto per cercare di capire come funziona la democrazia nel nostro intristito Occidente. Proviamo a dare un’occhiata alle biografie professionali di alcuni tra i principali decisori pubblici europei che si son fatti fautori di questa “operazione”. Prendiamo Merz, ad esempio, l’uomo alla guida della locomotiva che traina il riarmo europeo. Beh, il nuovo Cancelliere tedesco ha lavorato, dal 2016, il periodo in cui Angela Merkel riuscì a metterlo ai margini nella CDU, come presidente di Black Rock Deutschland. Ne diede notizia il Wall Street Journal del 17 gennaio di quell’anno con un ampio articolo intitolato BlackRock Hires Former Merkel Deputy for Its German Operations (“BlackRock assume l’ex vice della Merkel per le sue operazioni in Germania”). Nel testo si affermava che “avendo una fitta rete politica, ci si aspetta che Merz sostenga le relazioni di BlackRock con i politici e i grandi clienti in Germania”. Non stupisce che oggi sia lui – la notizia è fresca fresca – a proclamare che non solo la Russia ci attaccherà entro il 2029 ma addirittura che l’attacco è già in corso (Deutschland werde von Russland angegriffen). Ne da ampia notizia il settimanale tedesco Der Spiegel, il quale commenta osservando che per la verità “chi vede le immagini dall’Ucraina, chi guarda il documentario di Netflix sulla seconda guerra mondiale, non arriva a questa conclusione”, ma da buoni tedeschi, avendo parlato il Capo, e avendo egli addotto alcune prove del suo dire (cavi sottomarini distrutti nel Mar Baltico, caserme dell’esercito tedesco spiate con droni, fake news generate dall’intelligenza artificiale”…), sospendono il giudizio e prudentemente dedicano la copertina a un disegno di droni sfarfalleggianti nel cielo sopra Berlino. Oppure prendiamo la stessa Ursula von der Layen, che quattro anni fa era finita sotto attacco per aver fatto assegnare dalla Commissione Europea alla stessa Black Rock una ricca consulenza diretta a orientare le politiche green dell’Unione (allora era quello il campo da mietere per intercettare i grandi flussi di denaro, poi avrebbero scoperto la Guerra…). E d’altra parte è ben noto che Emmanuel Macron, prima di mettersi a giocare a monsieur le President, aveva lavorato dal 2008 come managing director presso la banca d’affari Rothschild & Co la quale non avrà le dimensioni abnormi delle equivalenti statunitensi ma ha comunque un robusto ramo dedicato all’asset management e quindi, di recente, alla promozione nel campo degli investimenti militari. Né possiamo trascurare Keir Starmer, la terza gamba del club dei “volonterosi”. I suoi spin doctors amano ricordarne le umili origini, il padre operaio che gli diede il nome del fondatore del Labour, i diritti civili nella cui difesa si era dedicato come avvocato, ma la sua metamorfosi verso il blairismo è piuttosto precoce, la sua conversione alla linea dura come giurista di Stato ampiamente conclamata, la scorrettezza con cui si dedicò alla liquidazione di Jeremy Corbyn e della sinistra laburista con la falsa e vergognosa accusa di “antisionismo” ben nota. Soprattutto, Starmer passerà alla storia come colui che ha consegnato il Labour alle lobbies – in particolare quelle legate agli armamenti – a cui ha dato come mai prima “la penna per scrivere la politica”. Il programma con cui il partito ha affrontato le ultime elezioni è stato elaborato, infatti, attraverso uno stretto, quotidiano e sistematico lavoro di collaborazione con i lobbisti della “City di Londra e del più ampio settore dei servizi finanziari di cui la City è al centro”. OpenDemocracy – la piattaforma mediatica internazionale indipendente dedicata alla promozione dei diritti umani e della democrazia – al termine di una lunga, meticolosa indagine, ha documentato come nell’anno precedente alle ultime elezioni politiche grandi gruppi economico-finanziari come “BlackRock, Macquarie, HSBC, Bloomberg, Lloyds, Brookfield Asset Management e Blackstone […] si sono assicurati l’accesso ai principali membri del nuovo governo, tra cui Starmer, Reeves, Reynolds e il cancelliere del Ducato di Lancaster, PatMcFadden”. Il Rapporto cita, tra gli altri, un incontro riservato in una sala riunioni nelle Churchill War Rooms, nel marzo del ’24, dell’allora segretario ombra alla Difesa del Labour, John Healey e del ministro per gli appalti della Difesa Chris Evans, “con i dirigenti di venti dei maggiori produttori di armi del mondo, tra cui BAE Systems, Leonardo, Lockheed Martin, RTX, Rheinmetall e Rolls Royce”. E ricorda come da allora “gli esponenti del Labour hanno incontrato i rappresentanti delle aziende della difesa in almeno tredici occasioni, tra cui due visite ai siti gestiti da BAE Systems e dall’appaltatore tedesco della difesa Rheinmetall”. E che dire di Rutte? Dell’ineffabile Segretario generale della NATO Mark Rutte, che sembra un vermicello quando si prosterna davanti a Donald Trump e tira fuori gli artigli quando si tratta di piegare gli altri membri dell’Alleanza? Lui viene da Unilever, del cui top management ha fatto parte dall’inizio degli anni ’90. E a chi appartiene Unilever? A Black Rock e a Vanguard, manco a dirlo, che ne controllano circa 150 miliardi di capitalizzazione (85 miliardi e mezzo The Vanguard Group e quasi 71 miliardi Black Rock Fund Advaisors: sono i primi due controllanti). Gira e rigira, in questo gran tour de’ quattrini, da qualunque parte lo si percorra si incontrano sempre le stesse stazioni di posta, con gli stessi ufficiali pagatori, per conto del solito “covo d’assassini”… Ha ancora senso parlare di democrazia? La domanda che sorge spontanea a questo punto è: ha ancora senso parlare di democrazia a proposito dello stato di cose presente? A cosa si è ridotta quella parola magica che questo esausto Occidente continua a inalberare come bandiera di una propria presunta superiorità morale? Norberto Bobbio, circa mezzo secolo fa, quando il processo degenerativo stava per muovere i primi passi, in un denso volumetto dal titolo Il futuro della democrazia, invitava a riflettere sulla distanza possibile, quando si tratta dei grandi temi della modernità politica, tra “gli ideali e la rozza materia”, ovvero tra i principi fondamentali e la pratica quotidiana. Ebbene oggi dobbiamo constatare che quella distanza si è fatta tanto abissale che i primi sono diventati ormai invisibili tra le pieghe fangose di una materia tanto rozza dall’essere diventata improponibile: un gioco truccato in cui le vittime della grande spoliazione sono chiamate a scegliere non i rappresentanti propri ma di coloro che li depredano. E noi, noi che almeno in parte abbiamo incominciato a intravvedere, tra le nebbie di un’informazione allineata, i meccanismi dell’inganno, quanto a lungo potremo continuare a illudere e a illuderci che in fondo non tutto è perduto. Che si può – anzi, per dovere civico si deve – partecipare a quel gioco in cui il banco vince sempre, stretti tra l’esercito di chi (ormai una buona metà della platea), forse avendo intuito la vanità dell’esserci, si chiama fuori e diserta il voto e quanti, per inerzia, per antichi valori, per orrore della “diserzione”, continuano a partecipare al rito legittimando di fatto il meccanismo che li tradisce. Rebus sic stantibus la partita appare (è) disperata. Abbiamo di fronte l’infinita potenza del denaro, che decide i nostri destini nell’alto dei cieli, impalpabile e intoccabile da noi che stiamo con i piedi sulla terra, invisibile se non nei numeretti verdi e rossi degli indici di borsa indecifrabili dai più. Affrontarla con le armi tradizionali della Politica appare una mission impossible. Forse è venuto il momento di rovesciare il tavolo. Di spostare il terreno della sfida più in alto e più in profondo. Di mettere in discussione non solo le forme dell’esistente ma la sostanza dell’esistenza. Di passare a una critica radicale di quell’antropologia sconvolta che dalla Rivoluzione industriale in poi – attraverso la catena alienante che va dall’homo faber e dall’homo oeconomicus dell’epoca del ferro e del cemento, passando per l’homo ludens e dall’homo videns di quella della grande smaterializzazione delle cose e del lavoro, per arrivare fino all’homo necans di oggi -, ci ha portato a essere nemici di noi stessi. E lavorare alla ricostruzione dell’homo vivens, che ponga la forza non alienata del proprio vivere (e sopravvivere) al vertice delle proprie aspirazioni. Compito più simile a quello del miglior pensiero religioso che ormai non vive più qui, in Occidente, che non del consumato pensiero politico. Ma tant’è. Forse, al punto in cui siamo,  davvero “solo un dio ci può salvare”. O, quantomeno, una parola che abbia la potenza di rottura dell’antica voce visionaria dei profeti. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Volere la luna (e qui con il consenso dell’autore) Tra gli ultimi libri di Marco Revelli Democrazia tradita. Dal G8 di Genova al governo Meloni: la pandemia antidemocratica che ha travolto l’Italia (scritto con R. Bertoni per PaperFIRST) e Questa Sinistra inspiegabile a mia figlia. Dialogo immaginario con un’adolescente (Einaudi). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Il capitalismo è l’assassino -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI PASQUALE PUGLIESE: > L’uomo del futuro sarà uomo di pace, o non sarà -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI EMILIA DE RIENZO: > Pensare la democrazia oggi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo È venuto il momento di rovesciare il tavolo proviene da Comune-info.