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Maghismo, malattia senile dello stalino-razzismo
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Negli Stati Uniti precipita la guerra civile. Domenica 21 settembre a Glendale, Arizona, si terranno i funerali di un razzista bianco ucciso con una fucilata da un altro razzista bianco. Chi semina vento raccoglie tempesta. La sanguinosa guerra interna al popolo del Secondo Emendamento è iniziata, mentre viene cancellato il popolo del Primo Emendamento con misure di polizia che mettono a tacere chiunque dica la verità sull’assassinio di Kirk. Il funerale di Kirk sarà l’occasione per radicalizzare e portare a compimento il colpo di stato freddo scatenato dal Maghismo. Le caratteristiche del Maghismo si stanno delineando con chiarezza: Make America Great Again è un’onda reazionaria razzista che si innesta sulla tradizione del Ku Klux Klan e del Maccartismo, ma sta prendendo forme sempre più simili allo Stalinismo: repressione di ogni libertà di parola, controllo totale sugli apparati di stato, adorazione della Verità Indiscutibile del Capo. A questo il Maghismo aggiunge una venatura di mistificazione religioso-magica, un culto della personalità di uno stupratore mafioso. Scrive Jianwei Xun in un articolo dal titolo Kirk, la censura americana e la pedagogia dell’impotenza, (probabilmente l’analisi più interessante che io abbia letto su questo argomento): “La conoscenza diffusa dell’ingiustizia, combinata con l’impossibilità di porvi rimedio, genera uno stato di paralisi cosciente che è il cuore della trance ipnocratica… questa combinazione di consapevolezza e impotenza produce uno stato alterato di coscienza più profondo di qualsiasi manipolazione o inganno. Sapere e non poter agire frantuma la psiche in modo più efficace di qualsiasi propaganda…”. La campagna di aggressione sequestro e deportazione lanciata dall’amministrazione Maghista e l’occupazione armata delle città non allineate configurano da tempo le linee di una guerra civile. Ma si tratta di una guerra civile fredda, perché non esistono le condizioni politiche per un’opposizione armata all’aggressione. Né esistono le condizioni soggettive per un’opposizione sociale efficace. La generazione che sta emergendo è paralizzata cognitivamente, intrappolata nell’alienazione cellulare e psichicamente depressa. Dunque cosa possiamo attenderci per i prossimi mesi e anni? La mia opinione è che il Maghismo rappresenti una disperata reazione al declino demografico e psichico della civiltà bianca. L’avanzata del Maghismo appare inarrestabile in tutto l’Occidente (con l’eccezione del mondo ispanico che merita un discorso a parte). Ma non dobbiamo pensare che ci sarà una stabilizzazione di lungo periodo del Maghismo come accadde con il Fascismo italiano o il Nazismo tedesco o lo stalinismo russo. Credo che il Maghismo abbia messo in moto un processo di disintegrazione dell’Occidente che sta procedendo con estrema rapidità, mentre il sud del mondo si prepara sul piano economico e militare alla guerra. Intanto, venerdì 19 settembre mattina a New York undici rappresentanti del partito democratico sono stati arrestati perché chiedevano di poter visitare i locali in cui l’Immigration Custom Enforcement detiene i migranti in attesa di deportazione. In tutti i media, nelle università, nelle scuole, negli uffici del sistema pubblico, nella Sanità… vengono licenziati funzionari che non accettano l’umiliazione dei razzisti Maga. Sono quelli che, bene o male, hanno fatto e fanno funzionare il sistema. Qualche giorno fa sul New York Times è uscito We Are Watching a Scientific Superpower Destroy Itself, un articolo di Stephen Greenblatt che analizza le conseguenze dell’Inquisizione razzista e sionista sul futuro dell’Università statunitense e sul sistema della ricerca (mentre già oggi otto su dieci delle università più produttive secondo criteri di efficienza capitalistica, sono cinesi). Una sorta di Nazismo Barocco è l’espressione di una società profondamente bigotta, ignorante e psichicamente disastrata. Questa non può che produrre la disintegrazione della potenza americana e dell’intera società occidentale. So che molti dei miei lettori si rallegrano nel leggere queste mie previsioni. Ma c’è poco da rallegrarsi. La mia previsione è che l’occidente non accetterà il suo declino e dispone degli strumenti per scatenare l’Armageddon tanto atteso dai fanatici maghisti. La disintegrazione dell’Occidente è ormai in corso, e credo che di qui alla fine del 2025 assisteremo al suo precipitare. Ma questo non è che l’inizio di una guerra civile globale che non sarà più tanto fredda. È l’Europa? È irrilevante e divisa. Attaccata dal fascismo putiniano e disprezzata dagli Stati Uniti di Vance e di Trump, sta per essere risucchiata in una spirale auto-distruttiva perché non sa accettare di non esistere più. Secondo l’agenzia di informazioni Politico.eu è iniziato il secolo dell’umiliazione europea. Per fortuna (o per disgrazia) non ci sono molte probabilità che tra un secolo ci sia ancora qualcuno che possa testimoniarlo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Maghismo, malattia senile dello stalino-razzismo proviene da Comune-info.
La paura
SU COMUNE NON CI STANCHIAMO DI SCRIVERLO: ANCHE IN QUESTO TEMPO ANGOSCIANTE, ESISTONO MODI DIFFERENTI CHE METTONO IN DISCUSSIONE LA PAURA CHE PARALIZZA. PER QUESTO ABBIAMO BISOGNO, PER DIRLA CON JOHN HOLLOWAY, DI IMPARARE A PENSARE LA SPERANZA. INTANTO PERÒ LA PAURA È OVUNQUE, INTORNO E DENTRO DI NOI E LE RAGIONI SONO TANTE. LA PAURA FUNZIONA SEMPRE PIÙ COME L’UNICA CERTEZZA IN UN MONDO CHE HA PERSO TUTTE LE CERTEZZE. IL VERO PROBLEMA È CHE SI GESTISCE LA PAURA SOCIALE PRATICANDO IL TERRORE POLITICO. LA POLITICA ISTITUZIONALE INSOMMA NON ELIMINA LA PAURA, SCRIVE MARCO REVELLI, MA LA RENDE FUNZIONALE A UNO SCOPO: ALLA PRODUZIONE DELL’ORDINE COME CONDIZIONE DI PACE. È QUESTO IL MURO NEL QUALE SIAMO CHIAMATI AD APRIRE CREPE. UN CAPITOLO TRATTO DA QUESTO LIBRO È ILLEGALE. CONTIENE PAROLE CHE INSIDIANO LA “SICUREZZA” (ALTRECONOMIA ED.), REALIZZATO DA OSSERVATORIO REPRESSIONE E VOLERE LA LUNA (CON CONTRIBUTI, TRA GLI ALTRI, DI LIVIO PEPINO, ALESSANDRA ALGOSTINO, ITALO DI SABATO, FEDERICA BORLIZZI, LUDOVICO BASILI, LORENZO GUADAGNUCCI…) Unsplash -------------------------------------------------------------------------------- La Paura entra a far parte con un ruolo centrale nella riflessione sulla Politica assai tardi: in quel punto di passaggio fondamentale tra il “mondo degli Antichi” e il “mondo dei Moderni” che ha come baricentro il XVII secolo. Un nome fra tutti ne sintetizza la valenza “costituente”: Thomas Hobbes, il pensatore a cui, secondo Norberto Bobbio – che gli ha dedicato un’infinità di studi –, può essere attribuita “la prima moderna teoria dello stato moderno”. Come ha scritto nell’opera specificamente a lui intitolata (“Thomas Hobbes”, 1989) “la teoria politica di Hobbes è l’autocoscienza dello stato moderno”. Ebbene, con Hobbes la Paura assume una posizione di assoluta centralità, come fattore fondante non solo della filosofia politica – il che è universalmente riconosciuto – o dell’antropologia, ma anche dell’etica e della gnoseologia. È cioè una categoria “di sistema”: del sistema di pensiero che, forse più di ogni altro, marca con nettezza il passaggio alla modernità. Il “Moderno”, potremmo dire, nasce con nel cuore la Paura. Carlo Galli, parlando di Hobbes, definisce la paura “l’operatore più potente” incorporato nella politica moderna fin dal suo “nucleo originario”. Roberto Esposito la qualifica come il “terribilmente originario”. Bobbio la pone come fundamentum regnorum, suggerendo che tale è ora “il Timore, non la Giustizia”, come invece aveva affermato una lunga tradizione di pensiero prima classico e poi cristiano. Siamo di fronte, senza dubbio, a una cesura. Di più: a una rivoluzione. Una rivoluzione copernicana, paragonabile a quella che appena un secolo prima aveva sostituito alla teoria geocentrica quella eliocentrica. Anche in questo caso, infatti, si assiste – nel campo delle cose umane – alla nascita di un nuovo “paradigma”. Nella riflessione filosofica precedente – nel “paradigma degli Antichi” – la Paura era relegata nel campo (secondario) dei vizi e delle passioni negative: delle debolezze umane e dei comportamenti a-sociali. La cosa è macroscopica nel “mondo degli eroi” omerico, in cui la paura – il “provar paura”, il “lasciarsi vincere” dalla paura – era una vera e propria “catastrofe dell’Io”. La peggior perdita possibile: la distruzione del Kleos (della gloria affidata al canto degli aedi che rende immortali). Ma anche nel modello “socratico-platonico-aristotelico” (chiamiamolo così, con una estrema semplificazione) la paura stava sul versante del negativo. Per Socrate (per il Socrate di Platone, nel Lachete) la paura è un difetto di virtù (la mancata applicazione della “scienza del bene” nelle circostanze date) così come il coraggio consiste nella “virtù tutta intera” (nella forza d’animo guidata dall’intelligenza sistemica di ciò che è “bene fare”). Aristotele – il vero sistematizzatore del modello in “paradigma” – ne tratta in più testi, in particolare nell’Etica a Nicomaco e nella Retorica (libro secondo). In entrambi i testi la Paura – con sfumature diverse: come Kakía (Vizio) in un caso, o come Lupe (Dolore o Sofferenza) nell’altro – aveva a che fare con il non essere “al proprio posto” o col non fare “la cosa giusta”. Non saper riconoscere o non riuscire a compiere ciò che, nell’ordine delle cose, è richiesto per essere all’altezza di ciò che si è (per agire, cioè, in modo “orientato al bene”). L’effetto di un qualche deficit (di abitudine, di volontà, di sapienza) che pone chi ne è preda fuori dall’ordine del mondo: ellittico rispetto al proprio “esserci”: all’essere adeguatamente nel mondo. Gli stoici radicalizzeranno questo concetto, considerando la paura – come quasi tutte le passioni – il frutto di un “errore di giudizio” e del conseguente allontanamento dall’ordine naturale (una rottura della sua armonia); mentre per gli epicurei la paura è un puro non-senso, derivante da ignoranza e irrazionalità dal momento che il sapere di Epicuro mostra che, in realtà, “non c’è nulla di cui aver paura”. Il cristianesimo, infine, porterà alle estreme conseguenze il concetto, leggendo nella Paura il segno del Peccato: essa fu considerata dal cristianesimo delle origini tra i “vizi capitali” in quanto contrapposta a quella tipica virtù teologale che è la Speranza, e dunque “peccato mortale” per sfiducia verso Dio e la Divina Provvidenza. Si può ben comprendere come l’irruzione dell’approccio hobbesiano abbia costituito un passaggio dirompente. In esso la Paura compare fin dalla radice prima del sistema di pensiero, come parte integrante della sua “antropologia meccanicistica” strutturata sul duplice conatus dell’Attrazione e dell’Avversione (le due determinanti fondamentali dei movimenti umani poste alla base della sua meccanica delle passioni). Dell’Appetito e dell’Avversione. Potremmo dire dell’Amore e dell’Odio o anche di ciò che è considerato Bene (l’oggetto dell’Appetito) e di ciò che è considerato Male (l’oggetto dell’Avversione). Una coppia, questa, che se considerata sul piano dell’Immaginazione (della facoltà umana di proiettarsi nell’aspettativa di cose future) configura l’alternativa tra Speranza e Paura: le due passioni fondamentali, destinate a orientare i comportamenti degli uomini, la prima come anticipazione mentale di un Bene, la seconda come anticipazione mentale di un Male. Una coppia potentissima, che affonda le radici, da una parte, nell’istinto di conservazione o di sopravvivenza (il conatus sese conservandi sive preservandi), dall’altra, nella “paura della morte” (la madre di tutte le paure, potremmo dire). Come scrive Hobbes: “La necessità di natura induce gli uomini a volere e desiderare il bonum sibi, ciò che è bene per loro stessi, e a evitare ciò che è nocivo, ma soprattutto quel terribile nemico di natura che è la morte, dalla quale ci aspettiamo la perdita di ogni potere, e anche la maggiore delle sofferenze temporali al momento del trapasso”. Due sentimenti primordiali, radicati nella natura dell’essere, che però non stanno esattamente sullo stesso piano. La seconda (la Paura) prevale emotivamente e logicamente sulla prima (la Speranza) per il semplice fatto che mentre non è immaginabile un Bene assoluto (un Summum bonum), è immaginabilissimo, anzi probabile, un Male assoluto (un Summum malum), che è appunto la scomparsa di sé. Proviamo a incrociare questa considerazione hobbesiana con una delle più note affermazioni socratiche sulla “paura della morte”, là dove si dice senza mezzi termini che “aver paura della morte non è nient’altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di sapere quello che non si sa. Perché nessuno sa se per l’uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?”. Avremo allora la misura della distanza abissale che separa i due sistemi di pensiero e della profondità della cesura consumatasi nel passaggio alla modernità. Qualcosa deve davvero essere accaduto nello stato mentale del tempo per giustificare un simile rovesciamento. E viene a questo proposito illuminante la lucidissima affermazione di Carlo Galli, che, nel registrare questo inedito protagonismo della Paura alla metà del millennio, lo spiega col fatto che “la paura manifesta la propria strutturale produttività solo quando si assume antropologicamente che gli uomini siano ‘rei’ (Machiavelli) oppure timorosi e aggressivi (Hobbes), ovvero quando il legame sociale non consiste più nella eticità né nella naturalità né in un ordine dato”. Soprattutto quest’ultimo: la dissoluzione dell’idea di un “ordine dato”. Di un “cosmo ordinato” nel quale virtuoso è ciò che vi aderisce senza attrito, riproducendo un’armonia delle cose (dell’“ordine delle cose”) nel quale anche la morte, nell’assumere un senso, non si configura come un male (tanto più un “male assoluto”) per collocarsi “al proprio posto”. Non disarmonia estrema ma parte strutturale dell’armonia del tutto. Giocano, in questo passaggio, senza dubbio elementi inerenti alla biografia personale di Thomas Hobbes. Al suo scrivere nel pieno della guerra civile inglese, testimone (e potenziale vittima) di orrori inenarrabili. Lui stesso, nell’“Autobiografia”, ha scritto che “l’unica passione della mia vita è stata la paura”! E ha aggiunto che sua madre, durante la gravidanza, “s’intimorì tanto della minacciata invasione spagnola che partorì due gemelli, se stesso e la paura” (R. Esposito). Bobbio ci ricorda come l’ossessione hobbesiana per l’Unità politica nasca dalla paura e dal fatto che “l’età della formazione e della maturità di Hobbes, è anche l’età che prende il nome dalla più grande guerra religiosa della nostra storia, la guerra dei Trent’anni”. E, soprattutto, Corey Robin dedica pagine potentissime del suo “Fear” per descrivere quanto gli orrori e i terrori della civil war inglese avessero contribuito a plasmare la visione hobbesiana incentrata sul valore assoluto della pace (l’unico “mezzo” efficace contro la paura della morte precoce e violenta): il suo disprezzo e la sua deplorazione verso coloro (predicatori settari o gentiluomini di campagna, lettori sofisticati dei classici greci e latini e brutali uomini d’armi del new model cromwelliano assetati di gloria) che avevano precipitato il Paese in un bagno di sangue. Condizione, umanissima, del fragile “uomo qualunque”, l’individuo solo nella tempesta delle passioni: quello che appunto attira l’interesse in qualche modo inatteso, persino sproporzionato, di un sottile pensatore morale come Elias Canetti, che apprezza appunto in Hobbes il “coraggio di aver paura”. Di parlare – come annoterà Esposito – “dal profondo della sua paura”. Nasce in fondo di lì, da quell’esperienza esistenziale dell’orrore del bellum civilis, il “rovesciamento di tutti i valori” che Hobbes realizza, inaugurando un’“etica inversa”, in cui il vecchio vizio della Paura (diciamolo pure, della “viltà”) diventa virtù etica, e l’antica virtù del Coraggio, vizio (“declassato alla stupidità della vanagloria…, la cui assenza, perfino sul campo di battaglia, non è reato”). E questo perché l’ethos eroico greco, quello dell’Uomo che rifiuta la sottomissione, dell’eroismo della libertà, della Virtù come pratica dell’autonomia verso un Bene sistemico non incarnato in nessuna Autorità, ha prodotto la distruzione dell’Ordine e la Precarietà dell’esistenza. E ora si tratta, al contrario, di stipulare una “semantica dell’obbedienza”. Di elaborare quella che è stata definita la più compiuta teoria dell’obbedienza. Nel pensiero classico era stato il Coraggio a garantire, nella struttura dell’anima, il legame più stretto tra la Ragione e il Desiderio ponendo appunto la Passione dell’anima irascibile sotto il controllo dell’anima razionale (così per il Platone della “Repubblica”). Era stata quella virtù a costituire “il connotato più profondo dello stoicismo” trapassato poi nel cristianesimo, nell’apologia tomistica di Temperanza e Prudenza (forme anch’esse della Ragione). Nel Coraggio stava, d’altra parte, il Valore dell’“auto-affermarsi malgrado la minaccia del non-essere” (l’antidoto contro la resa al nulla). Qui invece, al contrario, è la Paura a fondare l’atto di Ragione, che non è più – lo annota Bobbio – la “capacità di vedere l’essenza delle cose” ma più modestamente capacità di calcolo (“ratiocinatio est computatio”). La quale consiste nella razionale valutazione dei rischi e nell’altrettanto razionale scelta dei mezzi per ridurli e neutralizzarli. Il primo atto umano di Ragione è prodotto dalla consapevolezza che la morte (propria, di sé come individuo) è il massimo dei mali possibili, e nel calcolo dei modi per sfuggirvi. Potremmo dire che, in questa luce, la Paura funziona come l’unica Certezza in un mondo che ha perduto tutte le certezze. O, se si preferisce, l’unico antidoto logicamente accettabile alla sfida dello scetticismo riemerso sulle ceneri del “paradigma degli antichi” bruciato dalla Rivoluzione scientifica del XVI e XVII secolo e dalla contemporanea Riforma protestante. Lo ricorda (ancora lui!) Corey Robin, nel capitolo intitolato appunto “Scetticismo e guerra civile”, in cui si mostra come la centralità della Paura nel suo sistema permettesse a Hobbes di risolvere il problema del fondamento della morale pur ammettendo “le inconciliabili differenze esistenti tra gli uomini a proposito del significato del Bene e del Male”. Hobbes non nega, infatti, anzi rivendica come un dato di fatto “inevitabile” dell’humana condicio, che “per parte sua, ogni uomo chiami BENE ciò che gli piace e gli da gioia; e MALE ciò che gli dispiace: per cui, come ogni uomo è diverso nell’aspetto fisico, tutti differiscono gli uni dagli altri in riferimento alla distinzione comune fra bene e male”. Ma, pur in questa eterogeneità assoluta, un dato residuo comune a tutti. Un comun denominatore (sia pur “minimo”). Ed è che tutti, pur nella diversità, temono la medesima cosa. Che esiste una Paura comune, ed è la Paura della morte. Questa Paura resiste alla soggettivazione perché attraversa orizzontalmente l’intero genere umano. È l’unica Passione che, uniformemente, muove l’essere umano (tutti gli esseri umani, e ognuno) verso la ricerca dell’autoconservazione. Che per tutti e per ognuno coincide con il Bene (proprio, e di ciascuno). Cioè verso la ricerca del mezzo più idoneo a raggiungere questo risultato. In questo senso la Paura è l’unica Passione a coincidere con la Ragione. Per questa via la Paura può “funzionare da codice etico comune” per un insieme di persone che ne siano altrimenti prive. È il nuovo “universale concreto” in un mondo in cui l’universo indistinto sembra aver dissolto tutti gli universali. Prende origine da qui la costruzione della teoria politica hobbesiana in cui la Paura dispiega tutta la propria geometrica potenza. Diventa appunto “l’operatore più potente”. In cui “la paura è incorporata nella Polis” (l’homo timens sostituisce lo Zoon Politikon). E si consuma la trans-sustanziazione della paura privata in forza pubblica svelandosi l’enigma del Leviatano, prodotto e insieme rimedio alla (altrimenti irriducibile) paura dell’uomo per l’uomo. Nel dispositivo hobbesiano che analizza genealogicamente “il Politico” (la sua genesi) la Paura gioca infatti un doppio ruolo: di presupposto della politica (di fattore produttivo dell’atto fondativo del potere politico, il Pactum) e di strumento della politica (mezzo specifico di quel potere). La paura è la condizione psicologica naturale degli uomini nello Stato di Natura: il prodotto dell’insicurezza generata dalla loro stessa eguaglianza e dal conseguente bellum omnium contraomnes, da cui nasce la decisione di stipulare il contratto di comune sottomissione all’Autorità. E insieme – una volta monopolizzata la facoltà di praticare la violenza, trasferita dai singoli appartenenti alla moltitudine nelle mani dell’autorità sovrana – trasformata in instrumentum regni. Risorsa capace di produrre una pace stabile grazie al potere di minaccia assoluto a garanzia del mantenimento del patto. In linguaggio tecnologico, potremmo dire che la Paura sta sia sul versante dell’input che su quello dell’output. In entrata e in uscita rispetto a quella machina machinarum che è lo Stato (il grande Leviatano). È una forma – per certi aspetti tra le più brutali, ma per questo anche tra le più convincenti – che assume la geometria delle passioni: quella variante tipica ancora una volta del moderno, dell’eterogenesi dei fini, per cui si opera perché da un Male (la violenza) si possa ottenere un Bene (la pace, assunta come assenza di conflitto). Da un male come mezzo possa risultarne un Bene come risultato. Con questo astuto meccanismo, si gestisce la paura sociale praticando il terrore politico. Come è stato scritto, si sostituisce una paura incerta (quella che caratterizza lo Stato di Natura e ne rende appunto la vita “solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”, con una paura certa (quella della pena somministrata dal Sovrano). Cura una paura “incalcolabile” con una “calcolabile”. Non si elimina la paura, ma la si rende funzionale a uno scopo: alla produzione dell’ordine come condizione di pace. Lo esplicita bene Roberto Esposito quando ragiona dei residui che l’operazione hobbesiana sulla paura lascia sul terreno, perché in realtà, appunto, quella transustanziazione della paura non la consuma interamente. Non la rimuove dalla scena. Anzi, la paura rimane in scena, al suo centro: “Si trasforma – così scrive – da paura ‘reciproca’, anarchica, come quella che determina lo stato di natura (mutuus metus) a paura ‘comune’, istituzionale, come quella che caratterizza lo stato civile (metus potentiae communis). Ma non scompare, non si riduce, non regredisce. La paura non si dimentica… Fa parte di noi stessi. Siamo noi stessi fuori di noi. È l’altro da noi che ci costituisce come soggetti infinitamente divisi da noi stessi”. Se infatti – seguo ancora la pista di Esposito – lo “Stato moderno non solo non elimina la paura da cui originariamente si genera, ma si fonda precisamente su di essa fino a farne il motore e la garanzia del proprio funzionamento”, ciò significa, e comporta, che “proprio l’epoca – la modernità, appunto – che si autodefinisce in base alla rottura nei con- fronti dell’origine ne porta dentro un’indelebile impronta di conflitto e di violenza”. In questo consisterebbe appunto l’“arcaicità del moderno”: il suo essere segnato non dalla dissoluzione della violenza primordiale, ma dal suo incapsulamento nell’involucro artificiale del Leviatano. Avvolto come nucleo vitale dall’ingranaggio della machina machinarum. La quale – in quanto Stato – mette sì fine al disordine dello stato di natura, ma all’interno dello stesso presupposto. Trasformando la violenza da minaccia in risorsa. Da “male oscuro” in instrumentum reso razionale solo dal suo uso strumentale ma tale da mantenere intatta, dietro l’involucro istituzionale, la propria originaria wildness. La propria natura di anomalia selvaggia rispetto alla domanda di ordine e sicurezza della Vita. La quale, nel momento in cui l’apparato tecnico della statualità – il dispositivo istituzionale dello Stato Nazione – si indebolisce o si lacera, dilaga incontrollata riprendendosi per intero la propria spazialità orizzontale – come bellum omnium contraomnes – una volta abbattuta la mediazione verticale del “Politico”. Noi, oggi, siamo esattamente in questo punto. E viviamo, per intero, il ritorno ora incontrollato della paura non più come condizione dell’ordine ma come forma del disordine del mondo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La paura proviene da Comune-info.
Come Eni vuole prendersi gli influencer italiani
-------------------------------------------------------------------------------- Alcuni screenshot dalle pagine Instagram e TikTok di Plenitude -------------------------------------------------------------------------------- Una popolare pagina Instagram italiana pubblica un carosello, cioè un post composto da più immagini. La notizia al centro del contenuto social è il nuovo record segnato nel 2024 dall’installazione di energia eolica e fotovoltaica, ma i toni del post sono inusuali. Sole e vento «non bastano per la transizione energetica – scrive la pagina, e – il gas e alcune fossili restano indispensabili». Per i divulgatori dietro il profilo, la soluzione sta nella «neutralità tecnologica». Si tratta del principio, da tempo dibattuto nella politica europea, per cui dovrebbe essere il mercato a decidere quali soluzioni tecnologiche siano più adatte a portare avanti la transizione ecologica, e non gli Stati. I partiti della destra e dell’ultradestra hanno fatto della neutralità tecnologica una battaglia simbolo all’interno delle istituzioni comunitarie, e anche le aziende dell’oil&gas ne parlano diffusamente. E proprio a queste ultime dobbiamo guardare per capire il post da cui siamo partiti. L’ultima slide rivela infatti il vero scopo della pubblicazione: promuovere MINDS, un master organizzato dalla multinazionale italiana Eni assieme al Politecnico di Torino. Plenitude Creator Bootcamp: la scuola per influencer di Eni La collaborazione tra la pagine Instagram in questione – Data Pizza, 226mila follower – ed Eni è correttamente segnalata e assolutamente lecita. Il tema dei legami tra una delle più grandi aziende del nostro Paese e l’universo dei content creator italiani, però, merita attenzione. Da anni Eni, anche tramite la sua controllata Plenitude, investe molto sulle collaborazioni con personaggi famosi sui social e pagine dedicate alla divulgazione. L’attore Paolo Ruffini (1,9 milioni di follower su Instagram), la travel blogger Manuela Vitulli (168mila follower), il gamer Jody Checchetto (282mila follower) sono solo alcune delle celebrità online che hanno prestato la loro immagine all’azienda. Andrea Perticaroli e Christian Cardamone, meglio noti come @iwouldbeandrea e @nonsonokristiano, sono diventati di fatto i volti di Plenitude su TikTok. Un’investimento sui social che si combina alla pubblicità tradizionale e alle sponsorship dei grandi eventi – il Festival di Sanremo e la Seria A su tutte, ma anche grandi occasioni straniere come la Vuelta di Spagna recentemente conclusa. L’ultima novità in questo scenario è che l’azienda con sede a San Donato Milanese ha fatto un passo ulteriore nel mondo della comunicazione online. Proponendosi come punto di riferimento per chi vuole fare carriera su nuovi media. Ha avuto inizio il 15 settembre a Milano, da quanto si apprende sul sito della multinazionale, il Plenitude Creator Bootcamp. Si tratta di «un programma di formazione pensato per aspiranti content creator». Chiunque tra i 20 e i 40 anni con un profilo Instagram o TikTok attivo ha potuto candidarsi per partecipare a questa scuola. L’obiettivo è «consolidare ulteriormente il dialogo con le nuove generazioni attraverso i loro linguaggi». L’idea, insomma, sarebbe quella di creare una nuova generazione di influencer sui temi dell’energia e dell’ambiente. Una generazione la cui formazione passi dalla principale impresa dell’oil&gas italiana. Tante emissioni e poca transizione: il futuro secondo Eni «Fin dalla nascita qualche anno fa, Eni ha sempre cercato di promuovere Plenitude con una strategia di marketing ben precisa: associare l’azienda dal logo verde agli eventi più amati dalle persone e più lontani dall’immaginario fossile, come il Festival di Sanremo o le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina. E sempre con il fine di ripulire la propria immagine e presentarsi come qualcosa di familiare, quotidiano e amichevole, ora Plenitude utilizza la voce dei content creator sui social media, come nella sua ultima accattivante iniziativa» ,dice a Valori.it Federico Spadini, campaigner clima di Greenpeace Italia. Da tempo le associazioni e i movimenti ecologisti accusano Eni di greenwashing. Ovvero, la pratica per cui delle aziende impegnate in settori inquinanti ripuliscono la loro immagine pubblica con piccole iniziative verdi o con campagne di marketing dal sapore ecologista. Un’accusa esplosa da quando la controllata Eni Gas&Luce ha cambiato nome in Plenitude: un rebranding volto proprio a mettere in evidenza l’impegno ambientale dell’azienda. Greenwashing e strategia social: così Eni punta sugli influencer Eni è il primo emettitore italiano, e il suo core business è l’estrazione e vendita di idrocarburi. Si tratta di un’azienda privata, ma i principali azionisti sono pubblici: ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti. Secondo le ong Greenpeace e Recommon, Eni da sola nel 2021 ha prodotto 456 Mt CO2eq. Cioè più dell’Italia nel suo complesso. Secondo uno studio di Reclaim Finance,  gli attuali piani aziendali prevedono  che la produzione di idrocarburi sarà superiore del 70% rispetto al livello richiesto dagli scenari di riduzione delle emissioni “Net Zero Emission” dell’Agenzia Internazionale dell’Energia. Sempre secondo le ong, al 2021 ad ogni euro che ENI investe in fossili corrispondono sette centesimi in rinnovabili. Non sappiamo se questo genere di dati vengano discussi durante la formazione che l’azienda del cane a sei zampe offre alla nuova generazione di content creator. «Il business di Eni si basa per la stragrande maggioranza su gas fossile e petrolio, principali cause della crisi climatica», dice ancora Spadini. «Insomma, di verde e amichevole Plenitude ha solo il logo, il resto è una grande copertura per continuare a emettere gas serra e a fare profitti sulle spalle delle persone e del Pianeta». -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Valori.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come Eni vuole prendersi gli influencer italiani proviene da Comune-info.
L’accordo inadeguato
Foto tratta dal Fliker di Attac Austria La Commissione europea accelera sull’accordo Eu-Mercosur, che punta a incrementare gli scambi tra l’Ue e il blocco dell’America Latina composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. L’esecutivo Ue ha mostrato grande soddisfazione per il risultato raggiunto. L’Alta rappresentante Kaja Kallas e il commissario al Commercio,Maroš Šefčovič, presentando alla stampa i documenti, hanno enfatizzato la geopolitica degli accordi: “L’Europa sta rafforzando le sue alleanze strategiche e ne sta stringendo di nuove”, con l’obiettivo di “rafforzare i partenariati globali dell’Ue”. Peccato che, come al solito, la Commissione professa una cosa ma ne fa un’altra. L’accordo, infatti, con un vero sfregio alle procedure ordinarie, è stato diviso in due testi. L’accordo di cooperazione, che contiene la cornice politica del partenariato, affronterà l’iter ordinario di ratifica dei trattati commerciali: dopo il voto in Consiglio dei governi europei, il voto del Parlamento europeo e poi la ratifica dei Parlamenti nazionali. La liberalizzazione commerciale, svincolata da ogni senso più generale, viene invece affidata ad un accordo ad interim cui non può essere opposto veto in Consiglio europeo, e che diventa legge con una maggioranza semplice del Parlamento Ue, tagliando fuori i livelli nazionali. Un vero e proprio schiaffo su un testo che sottopone a un grosso rischio un mercato comune già molto provato, per ragioni geopolitiche abbastanza indeterminate: l’Argentina, infatti, è legata a doppio filo all’amministrazione Trump e l’economia brasiliana alla Cina, principale acquirente estero delle sue merci, mentre Uruguay e Paraguay sono Paesi poco significativi per eventuali alleanze strategiche. C’è chi sostiene che, per l’Italia, esportare verso Argentina e Brasile potrebbe compensare i flussi in uscita ostacolati dai nuovi dazi di Trump. Significa paragonare la possibilità di acquisto di un mercato statunitense da 340 milioni di abitanti con reddito medio di 62mila dollari l’anno, con un Mercosur da circa 270 milioni di abitanti con reddito medio che non supera in Argentina i 6mila dollari l’anno, e in Brasile non raggiunge gli 8mila. La Commissione Ue, secondo alcuni giuristi, ai sensi dei Trattati costitutivi, avrebbe dovuto chiedere parere alla Corte europea di Giustizia prima di procedere allo scorporo del capitolo commerciale dalla cornice politica che lo motiva. Altri studiosi la ritengono comunque incompatibile con l’obbligo di leale cooperazione tra i diversi livelli dell’Unione, ai quali non è possibile sottrarre il voto sul complesso della misura con un semplice artificio procedurale. La Commissione europea, d’altronde, non è nuova all’omissione di atti dovuti: prima della conclusione dei negoziati avrebbe dovuto presentare una ‘Valutazione di impatto’ indipendente su economia, occupazione e ambiente europeo con dati aggiornati, come confermato dal Garante europeo nel 2020 e nel 2023, ma non l’ha mai fatto. Analisi indipendenti di associazioni e sindacati delle due parti, Cgil e sindacati europei in testa, prevedono una deforestazione esiziale dell’area amazzonica, l’acuirsi delle violazioni dei diritti umani e sugli indigeni con l’espansione delle esportazioni agricole e minerarie, una perdita significativa di posti di lavoro in ambito industriale, come pure in molti settori europei dell’agroalimentare. Il trattato vuole anche accelerare le procedure doganali, indebolendo i controlli di sicurezza e conformità nelle merci scambiate, e scaricando il rischio sui sistemi di controllo nazionali e i consumatori. La cosiddetta ‘procedura di salvaguardia’ che la Commissione ha presentato ai governi francese, polacco e italiano come risolutoria per tutelare i propri agricoltori e produttori, è, in realtà, una paginetta di impegni unilaterali, esterna al trattato quindi non vincolante. La Commissione promette controlli regolari, che già dovrebbe condurre, e interventi già previsti dai meccanismi antidumping in vigore. Quanto alle eventuali compensazioni, non ci sono risorse dedicate ma si rinvia al fondo che rimedia a tutti gli incerti della globalizzazione. Un salto nel vuoto, considerando che la prevista riduzione dei fondi della Pac, Politica agricola comune, già scaricherà sugli Stati l’assistenza diretta agli agricoltori, che costituisce dal 30% al 60% del loro attuale reddito. Secondo la Confederazione europea dei sindacati, Ces, “così com’è, l’accordo aprirebbe alle aziende europee la strada per investire in Paesi caratterizzati da condizioni di lavoro pericolose e dallo sfruttamento delle popolazioni indigene. Per come è ora, l’accordo è una fonte di concorrenza sleale che avrà conseguenze negative su mezzi di sussistenza, salari, condizioni di lavoro e occupazione dei lavoratori nei settori chiave dell’economia dell’Ue. L’accordo – conclude la Ces – è inadeguato per quanto riguarda il processo democratico e la legittimità, il suo impatto sull’economia e sull’occupazione in Europa, la sostenibilità e la diversificazione del commercio”. Una presa di posizione netta, che ora spetta al Parlamento europeo tradurre in voto. Articolo pubblicato sul blog sinistrasindacale.it L'articolo L’accordo inadeguato proviene da Comune-info.
Perché la Silicon Valley sostiene Trump
-------------------------------------------------------------------------------- Apple park, Silicon Valley (California). Foto unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nei racconti della Silicon Valley scritti da sé medesima, tutti disponibili in rete o in libreria, si legge di un capitalismo eccezionale, guidato da uomini fuori dal comune. E di un ambiente di lavoro magnifico, dove l’alienazione è pregata di accomodarsi fuori della porta. Ma i volti sempre sorridenti, gli spazi condivisi e gli edifici a emissione zero nascondono due zone d’ombra. La prima è l’estrattivismo nei confronti di persone e territori. Nel 2023 in Kenya, per fare solo uno dei tanti esempi possibili, OpenAI fa ripulire i suoi modelli d’intelligenza artificiale a migliaia di “schiavi del clic”, impiegati in turni massacranti a meno di due dollari l’ora. L’estrazione forzosa di risorse opera anche sull’ambiente. Mentre enormi quantità d’acqua ed energia vengono consumate nei centri di calcolo necessari all’intelligenza artificiale, le cryptomonete, oggetto dell’amore maniacale dei tecno-capitalisti, bruciano nel solo 2023 tanta energia quanto l’intera Australia nello stesso periodo di tempo. La seconda zona oscura è la composizione demografica della dirigenza. Le donne rappresentano il 50,9% della popolazione totale degli Stati Uniti, gli ispanici il 19,5% e gli afroamericani il 13%. Nella Silicon Valley i tre gruppi occupano, rispettivamente, l’8,8%, l’1,6% e meno dell’1% di tutte le posizioni direttive. La Silicon Valley non è solo un posto dove persone, tecnologia e ricchezza sono straordinarie. È anche il luogo dove questa eccezionalità viene trasformata in buona novella. Peter Thiel, fondatore di PayPal e Palantir, è il tecno-capitalista più impegnato nel diffondere il Vangelo che sale dalla valle. Lo fa con esemplare chiarezza in un saggio del 2009, The Education of a Libertarian, in cui rivendica per sé, in quanto capitalista, una libertà assoluta. Essere liberi è la precondizione per raggiungere obiettivi più alti: sfuggire agli apparati fiscali, sconfiggere il collettivismo, battere l’ideologia dell’inevitabilità della morte. Ma Thiel aggiunge: “Non credo più che la libertà e la democrazia siano compatibili”. Non sopporta, in altri termini, che in democrazia esistano regole valide per tutti, poveri cristi o ricchi a palate che siano. L’ideologia della libertà assoluta del capitalista si accorda alla perfezione con il secondo punto dell’ideologia di Thiel, il capitalismo come sistema che non conosce limiti. Il nemico numero uno del capitale senza confini è l’ambientalismo, più pericoloso perfino della Sharia e del comunismo. Il simbolo di un possibile futuro autoritario diventa così Greta Thunberg, secondo Thiel l’Anticristo del nostro tempo. È l’idea stessa di bene comune, su cui si basa l’ambientalismo, a farne il primo nemico del capitalismo. Quest’ultimo non può tollerare l’esistenza di ricchezze che non appartengono agli individui ma alle comunità che vivono sui territori. Nel caso dell’aria che respiriamo e dell’acqua dei mari e dei fiumi, è la collettività di tutte e tutti noi abitanti della Terra ad esserne proprietaria. Nel suo odio per l’ambientalismo, Thiel si muove nel solco di Ayn Rand (1905-1982), teorica del capitalismo assoluto: il legame sociale è schiavitù perché l’unico rapporto possibile fra l’individuo e il mondo è la proprietà. Ma se possono esistere solo proprietari isolati, il principio dell’ambiente come casa comune, che nessun privato ha il diritto di possedere, non può che innervosire gli ideologi della libertà totale del capitalismo. Nel contesto appena delineato, la Silicon Valley fa propria l’auto-rappresentazione dei capitalisti come la migliore classe dirigente possibile, perché frutto di una selezione naturale. È un’idea con una tradizione lunga oltre un secolo. Andrew Carnegie, il più importante industriale dell’acciaio negli Stati Uniti di fine Ottocento, la spiega così: “Anche se la legge [della competizione] può a volte risultare dura per l’individuo, rappresenta la cosa migliore per la razza perché assicura la sopravvivenza dei migliori in ogni settore”. I dirigenti prodotti dal capitalismo sono i più capaci perché escono vincenti dalla corsa al possesso di beni e denaro: il migliore non è Van Gogh, ma il mercante che riesce a venderne i quadri. In quanto superiori a tutti nell’accumulare ricchezza, i capitalisti non ne sbagliano una. A sentire Alex Karp, amministratore delegato di Palantir, “Se qualcuno fa un sacco di soldi con qualcosa, allora deve aver ragione”. Posizioni come quelle appena descritte spiegano il sostegno a Donald Trump da parte di Silicon Valley in occasione delle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Il passaggio al trumpismo dei tecno-capitalisti consente la pratica del capitalismo alla Thiel, libero da qualsiasi limite. Se la crescita del capitale oggi si scontra col riscaldamento del pianeta, Silicon Valley non può che riconoscersi con entusiasmo nel negazionismo climatico della presente amministrazione repubblicana. In secondo luogo, schierandosi con Trump, Silicon Valley salda il suo elitismo, fondato sul dominio della tecnologia, con quello basato sul genere e/o il colore della pelle, con il sessismo e il razzismo, in perfetta coerenza con la composizione demografica della sua dirigenza. Il tecno-capitalismo si arruola così nel conflitto del secolo, la guerra del Nord contro il Sud, combattuta nelle banlieux parigine come nei campi di concentramento per immigrati, nei quartieri ispanici delle metropoli statunitensi come nelle strade di Gaza. Un’oligarchia di ultraricchi cafoni, quella che noleggia Venezia per un matrimonio, pretende di dominare il mondo. Ma non può agire da classe dirigente perché è incapace di affrontare i problemi della collettività. Salta allora sul carro del fascismo. Starà alla nostra Resistenza impedire che il presente stato delle cose si cristallizzi in un mondo neofeudale, con un’aristocrazia di tecno-miliardari esenti dal fisco al comando, un clero di informatici a gestire il sapere e una massa di servi a tenere in piedi la baracca. -------------------------------------------------------------------------------- Originariamente pubblicato su Officina Primo Maggio -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché la Silicon Valley sostiene Trump proviene da Comune-info.
You have no idea
SOLTANTO NEL 2024 LE SPARATORIE DI MASSA NEGLI USA SONO STATE 503, LE STRAGI 30 E I MORTI PER ARMA DA FUOCO 16.725. EPPURE ADESSO RACCONTANO CHE SI TRATTA DI UN OMICIDIO POLITICO. “NON HAI IDEA DI CIÒ CHE HAI SCATENATO” HA DETTO LA MOGLIE DI KIRK, RIVOLGENDOSI AL RESPONSABILE DELL’OMICIDIO. CIÒ CHE ACCADE NEGLI USA È UN COLLASSO PSICO-POLITICO DI CARATTERE SUICIDARIO. MA IL VERO PROBLEMA, SCRIVE BIFO, È CHE ORA QUEL SUICIDE BY COP SI STA PROIETTANDO SU SCALA MONDIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Ventiquattro anni dopo l’attentato al World Trade Organization che segnò l’inizio della guerra civile globale, siamo di fronte a un salto che potrebbe precipitare definitivamente nel caos gli Stati Uniti. “You have no idea of what you have unleashed”, ha detto la moglie di Charlie Kirk (rivolgendosi al responsabile dell’omicidio). Cerchiamo allora di farcene un’idea poiché la cosa non riguarda solo gli statunitensi, – che forse entrano in una sanguinosa agonia -, ma tutti gli abitanti del pianeta poiché sappiamo che la guerra civile statuntense ha e avrà sempre più una proiezione globale. Il collasso psico-politico del gigante imperialista ha carattere suicidario, ma si tratta di un suicidio micidiale (suicide by cop), come quello che da anni compiono migliaia di giovani statunitensi. Prendono il fucile e vanno a sparare davanti a una scuola nella speranza che arrivi qualcuno armato per aiutarli a uscire dall’incubo che è stata la loro esistenza. Da Columbine in poi abbiamo imparato a riconoscere questo tipo di suicidio delegato come una particolarità della vita interna a questo paese disgraziato. Ora il suicide by cop si sta proiettando su scala mondiale. 11 settembre 2025 La pallottola che ha ucciso Charlie Kirk (pace all’anima sua) è partita proprio mentre lui stava dicendo che le vittime innocenti che capitano durante i mass shooting sono un piccolo sacrificio che dobbiamo sopportare per difendere la libertà di portare armi. Questa volta la vittima dello shooting non è innocente, dal momento che ha sempre difeso la proliferazione di armi da fuoco. Perciò è difficile unirsi all’ipocrita rammarico generale: chi di spada ferisce di spada perisce, e qui la spada è un fucile di precisione che ha sparato dalla distanza di duecento metri. Per un giorno e mezzo ci siamo chiesti chi fosse lo sparatore. Qualcuno ha fatto l’ipotesi che l’assassino fosse un tiratore scelto dello stato profondo, poi ci hanno detto che si chiama Tyler Robinson, ha ventidue anni, e sui proiettili aveva scritto Bella Ciao e “beccati questa fascista”. Hanno trovato quello che stavano cercando, e adesso racconteranno che si tratta di un omicidio politico. Non so se Tyler ha scritto davvero quelle frasi, ma so che secondo il Gun Violence Archive nel 2024 le sparatorie di massa sono state 503, le stragi sono state trenta e i morti per arma da fuoco 16.725. Tyler Robinson, come Thomas Crooks, il ventenne che mancò la testa di Donald Trump, come innumerevoli altri da Columbine (1999) ha preso il fucile per partecipare a questo sport nazionale: una guerra civile psicotica. Un popolo di bambini incattiviti ha sostituito la ragione politica con la demenza aggressiva amplificata dai media. La crisi psicotica della più grande potenza militare di tutti i tempi iniziò l’11 settembre 2001 con l’abbattimento delle due torri simbolo. Seguirono due guerre inconcludenti e catastrofiche, poi il suprematismo umiliato trovò in Donald Trump la sua vendetta. Poi un’armata caricaturale diede l’assalto al Campidoglio, e la grande democrazia fu incapace di reagire alla violenza e soprattutto al ridicolo. Infine Trump ha vinto di nuovo, e questa volta fa sul serio: ha condotto e sta conducendo una guerra contro le città governate dal Partito democratico. Una guerra ridicola se volete, ma c’è poco da ridere. Al contempo l’Immigration and Custom enforcement (ICE) è stato trasformata in una milizia finanziata dai contribuenti direttamente al servizio del presidente: un corpo di agenti incappucciati e armati che vanno in giro a minacciare malmenare e sequestrare persone per poi deportarle in campi di concentramento sul territorio nazionale e fuori del territorio nazionale. Il Ku Klux Klan come guardia pretoriana dell’Imperatore. Ross Douthat del NYT (Will Trump’s Imperial Presidency Last?) parla del cesarismo di Trump e si chiede se le sue riforme autoritarie sono destinate a cambiare la natura dello stato sul lungo periodo. Io direi che la questione non è di lungo periodo, perché nel breve periodo assisteremo a una disintegrazione politica, sociale e soprattutto psichica, del paese che con Israele si contende il primato di più violento del mondo. È questa disintegrazione ormai in corso che cambierà il lungo periodo, forse cancellandolo anticipatamente. Che fare in una tempesta di merda? Nel 2001 l’Occidente entrò in una sorta di guerra civile che l’ha progressivamente travolto. Da quel momento la democrazia venne liquidata. Il 20 luglio del 2001, a Genova, il governo di Berlusconi e Fini scatenò la violenza armata contro una manifestazione pacifica di trecentomila persone. Da allora capimmo che la vita sociale non sarebbe più stata la stessa. Nel ventesimo secolo, in Europa, il potere politico funzionava secondo le regole della “democrazia”: la politica si fondava sul consenso, e conviveva con il dissenso: l’oggetto del contendere era il “senso” della relazione sociale. Nel nuovo secolo il “senso” della relazione sociale è perduto: la legge ha lasciato il posto alla forza. La persuasione ideologica ha ceduto il posto alla pervasione mediatica. La ragione ha ceduto il posto alla psicosi di massa. Nelle condizioni del secolo passato “dimostrare” aveva una funzione utile: parlare, gridare, manifestare erano modi per spostare il senso condiviso della società: esprimere dissenso serviva a spostare il consenso, poiché l’esercizio del potere si fondava sulla mediazione e sul consenso. A Genova capimmo che questa dinamica era finita. Da quel momento il potere ha modificato la sua forma e la fonte della sua legittimità. La società, investita da una tempesta mediatica sempre più intensa, non ruotava più intorno alla persuasione – ma intorno alla pervasione, al dominio bruto. La psicosi ha preso il posto della politica, e si tratta di una psicosi omicida, con una fortissima vocazione suicida. Ma la questione è: che fare in questa tempesta di merda? Possiamo continuare a dimostrare finché ce lo permettono: possiamo essere contenti di essere tanti a protestare nelle piazze, ma dobbiamo sapere che la forza non si piega alla ragione. Dimostrare non è inutile: in piazza incontriamo amiche e amici, e testimoniamo l’esistenza di una resistenza etica al genocidio. Ma la resistenza etica non cambia i rapporti di forza. Siamo costretti a guardare lo spettacolo, attendiamo che la psicosi armata conduca alla disintegrazione del mostro occidentale. Ma intanto quanto costa alla società questa guerra civile psicotica? Una crisi di gelosia Mentre a Pechino si incontrano quelli che preparano la vendetta e le armi ultra della vendetta, Trump e Vance fanno i bulli ammazzando undici persone su una barchetta davanti alla costa venezuelana. Trump rappresenta la maggioranza del popolo americano, ma questo vuol dire solo che la maggioranza del popolo statunitense ha perduto ogni contatto con la realtà e che gli US sono precipitati in un vortice di demenza autodistruttiva. Tradito e dileggiato dall’amato Putin Trump potrebbe reagire come fanno talora gli amanti traditi: con un’aggressione suicida ovvero suicidio aggressivo. “You’ll see things happen”, ha minacciato il presidente rivolgendosi a Putin. E ha scritto un messaggio stizzito, stizzitissimo a Xi Jin Ping: “Please give my warmest regards to Vladimir Putin, and Kim Jong Un, as you conspire against The United States of America”, “ti prego di rivolgere i miei più calorosi saluti a Vladimir Putin e Kin Jong Un, mentre cospirate insieme contro gli Stati Uniti d’America”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo You have no idea proviene da Comune-info.
Come difendersi dai droni
I DRONI SI SONO IMPADRONITI DEI CONFLITTI ARMATI. LA DIFESA DA QUESTI TERRIFICANTI OGGETTI TECNOLOGICI CARICHI PULSIONE DI MORTE CHE POSSONO ESSERE CONTROLLATI A DISTANZA NON PASSA PER STRATEGIE MILITARI O PER BUONE PRATICHE DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE. PER PROTEGGERCI IN PROFONDITÀ DALLA CULTURA DI GUERRA E DAGLI ALGORITMI DI DISTRUZIONE UMANIZZATA OCCORRE RIEMPIRE LA VITA DI OGNI GIORNO DI RELAZIONI VERE CON PERSONE IN CARNE E OSSA, RIPORTARE L’UMANITÀ OVUNQUE, IMMAGINARE E PRATICARE MODI DIVERSI DI VIVERE Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- I droni hanno ormai preso possesso delle notizie dei giornali. Viene considerato un successo il loro abbattimento, vedi i 221 droni ucraini neutralizzati dai russi, sono utilizzati in modo a dir poco incosciente per avvicinare ulteriormente la fiamma alla miccia della temuta fase di non ritorno nel conflitto mondiale, come è accaduto di recente in Polonia, sfruttati per un vile atto terroristico ai danni di iniziative del tutto pacifiche come quella della Global Sumud Flotilla, o addirittura esaltati per le loro potenzialità in tema di consegne rapide e precise. In ogni caso, a quanto si legge, i droni si sono impadroniti dei conflitti per alcune semplici ragioni: costano decisamente di meno rispetto ai tradizionali velivoli da combattimento, hanno un peso altrettanto inferiore e, soprattutto, si dimostrano letalmente efficaci. Dal punto di vista storico, i primi veicoli senza pilota furono sviluppati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale. Il prototipo britannico, un piccolo aereo radiocomandato, fu testato per la prima volta nel marzo del 1917, mentre il modello statunitense in pratica era un siluro, noto come Kettering Bug, e volò per la prima volta nell’ottobre del 1918. Anche se entrambi mostrarono risultati promettenti nei test di volo, nessuno dei due fu utilizzato operativamente durante la guerra. Considerando l’esponenziale e, a mio modesto parere, in parte inquietante diffusione di tali ordigni e la loro micidiale pericolosità qualora azionati con intenzioni ostili, mi sorge la seguente domanda: come difendersi dai droni? Da cui, il logico quanto interrogativo corollario: come ci si difende da ciò che non si conosce? Ebbene, facciamo un po’ di chiarezza, a cominciare dalla mia testa: cosa sono i droni? Sono per definizione dei velivoli senza pilota, formalmente noti come veicoli aerei senza equipaggio (dall’acronimo UAV, Unmanned Aerial Vehicle) o anche sistemi di aeromobili senza equipaggio (UAS, Unmanned Aerial System), che possono essere controllati a distanza o volare autonomamente utilizzando piani di volo guidati da software e sensori di bordo. Ora, aprendo una conversazione più approfondita su come proteggerci, o in generale controllare, gestire e contenere qualsiasi innovazione tecnologica, gli studi universitari e i testi letti nel tempo, suggeriscono – oltre che di acquisire consapevolezza dello strumento in sé – di ragionare sul significato più ampio della funzione che essa svolge. Mi riferisco in particolare all’approccio generale che in molti casi indirizza a vario titolo il progresso tecnico, industriale e ovviamente economico, e in seconda battuta quello sociale, e finanche ideologico e politico. Alla luce di ciò – divenuta parte quindi di un disegno assai più vasto – ripeto a me stesso la domanda: cosa sono davvero i droni? Ebbene, credo siano in sintesi macchine, come detto nell’incipit, economiche, leggere e mortali che possono essere azionate a distanza tramite un programma informatico da qualcuno che non vedi e che ignori, che a sua volta sarà in grado di arrecare sofferenza o addirittura causare la morte di qualcun altro che al contrario vede e conosce alla perfezione. O anche no, ed è quest’ultimo a mio umile avviso uno degli aspetti più inquietanti. Anche perché, tenendo conto della velocità, e al contempo l’assenza di un effettivo controllo da parte nostra, con cui l’intelligenza artificiale sta occupando sempre più i ruoli che un tempo erano svolti unicamente dagli esseri umani, dovremo aspettarci un domani – o forse è già realtà – nel quale ad azionare il velivolo robot ci sarà un altro robot. In parole povere, è come se l’umanità stia facendo di tutto pur di eliminare se stessa dall’equazione che regola in ogni campo la sua esistenza. A tal punto, non posso fare a meno di tornare nuovamente alla domanda iniziale: come difendersi dai droni? Ovvero, in generale, come proteggerci dal ben più grande, controverso e ormai inevitabile orientamento che da decenni hanno scelto l’industria e i governi da essa dipendenti, e che sempre più sta investendo nel sopra citato algoritmo di distruzione disumanizzata? Credo che non ci sia migliore alternativa che fare la scelta opposta: puntare sempre più sulle persone in carne e ossa. Riempire il nostro fare e possibilmente la nostra quotidianità di interazioni reali nell’accezione tradizionale. Per dirla in modo altrettanto semplice, sforzandoci di riportare a ogni occasione l’umanità all’interno della suddetta equazione. Mi sbaglierò, ma forse, oltre che la migliore, credo sia l’unica strada che ci resta. Iscriviti per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- 4 OTTOBRE: WORKSHOP TEATRALE E SPETTACOLO DI EDUCAZIONE ALLA PACE Alessandro Ghebreigziabiher, drammaturgo, attore, scrittore, ha studiato presso il Living Theatre di New York ed è autore di oltre venti libri, tra cui fiabe per ragazzi. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (ed. Bette). Sabato 4 ottobre (a partire dalle 14,30), nell’ambito del Festival della lettura “Pezzettini” promosso dall’Associazione AltraMente a Roma (presso l’IC Laparelli, via F. Laparelli 60, Torpignattara), Alessandro Ghebreigziabiher proporrà uno straordinario workshop teatrale con spettacolo di narrazione (gratuito), rivolto a tutte le età, dedicato ai temi della pace. Chi fosse interessato a partecipare al workshop e/o allo spettacolo può scrivere a: carmosino@comune-info.net. L’iniziativa fa parte del ciclo di appuntamenti “Partire dalla speranza e non dalla paura” realizzato dall’Ass. Persone comuni, editore di Comune, in quattro quartieri di Roma, in collaborazione con diverse realtà sociali (tra cui l’Associazione AltraMente). Il progetto, promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum – 2025, finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 – Investimento 4.3 – Caput Mundi”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come difendersi dai droni proviene da Comune-info.
La voce di Hind Rajab
-------------------------------------------------------------------------------- Disegno di Gianluca Costantini -------------------------------------------------------------------------------- Gaza City viene rasa al suolo. Due grattacieli crollano sotto le bombe, uno spettacolo di forza devastante che trasforma la città in un deserto di polvere e detriti. Non sono solo edifici che cadono: sono simboli della vita civile che viene schiacciata, dei sogni, dei ricordi, delle famiglie che si trovano improvvisamente senza nulla. Ogni mattone che cade è un corpo di città, ogni maceria un segno della brutalità che avanza senza pietà. Dentro Gaza il quadro è apocalittico, eppure qualcosa si è incrinato fuori: la coscienza civile non è del tutto assopita. Mentre i potenti cercano di silenziare ogni voce critica – da Francesca Albanese (leggi L’ipocrisia occidentale) a chiunque osi difendere i diritti dei palestinesi – la coscienza civile non è del tutto spenta. Nelle piazze, nei porti, per le strade del mondo ci sono donne e uomini che manifestano. E al cinema, in questi giorni, la voce di una bambina di sei anni ha squarciato il muro dell’indifferenza. In mezzo alla devastazione della Striscia di Gaza, una voce tenta di farsi sentire. Hind Rajab, sei anni appena, intrappolata in un’auto crivellata dai colpi, chiama la Croce Rossa: «Venite a salvarci, vi prego». Accanto a lei, i corpi della sua famiglia, vittime come lei di questa forza devastante. Dall’altra parte, l’operatrice cerca di rassicurarla, di guidarla, di darle speranza. Ma ogni parola, ogni promessa, si perde tra le macerie, tra il tempo che scorre inesorabile. Quegli attimi diventano un crinale tra la vita e la morte. La conversazione continua, interminabile e straziante, mentre il mondo sembra trattenere il respiro insieme a Hind. Nessuno arriva in tempo. Quando finalmente raggiungono la bambina, è già morta. Quel tempo sospeso, quelle parole di speranza e paura, restano impresse: la vita e la morte si intrecciano in quegli attimi che nessuno potrà mai cancellare. E mentre a Gaza i grattacieli crollano e le vite si spezzano, la maggior parte della popolazione israeliana sembra guardare altrove, anestetizzata dalla paura o dalla propaganda. L’indifferenza diventa complice del massacro. Secondo l’Unicef, ad agosto erano già 18.000 le vite dei bambini spezzate in meno di due anni. E più lontano ancora, negli Stati Uniti, c’è chi sogna la propria Riviera, ignaro del sangue che scorre a poche migliaia di chilometri, mentre governi e leader chiudono gli occhi di fronte alle urla dei bambini. La regista Kaouther Ben Hania ha raccolto quella voce e l’ha trasformata in memoria e appello universale. Il suo film The Voice of Hind Rajab non è un’opinione: è un grido radicato nella realtà. «Non ne abbiamo abbastanza della de-umanizzazione, della distruzione, dell’occupazione di Gaza? Questo film non è un’opinione, ma affonda le sue radici nella realtà. La voce di Hind è solo una delle diecimila che appartengono ai bambini uccisi. Ed è la voce di ogni figlia, di ogni figlio, che aveva il diritto di vivere, di sognare, di esistere con dignità. Tutto questo è stato portato via di fronte ad occhi indifferenti. Hind grida “salvatemi”. E la domanda vera è: come è stato possibile lasciarla morire? Nessuno può vivere in pace quando i bambini ci chiedono di essere salvati. Dobbiamo chiedere giustizia per l’umanità intera, per il futuro di ogni bambino. Adesso basta». The Voice of Hind Rajab non è solo un film. È un grido che attraversa le macerie dei grattacieli crollati, simbolo della città distrutta e della vita spezzata dei civili. È un grido che sfida l’indifferenza. È un grido che costringe il mondo a confrontarsi con la propria responsabilità. Hind parla ancora. Chi ascolta non può restare in silenzio. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La voce di Hind Rajab proviene da Comune-info.
L’ambigua fascinazione della caccia
È SEMPRE PIÙ NECESSARIO UN CONTRASTO NETTO ALLA VIOLENZA MA IN TUTTE LE SUE FORME, INTRECCIATE LE UNE ALLE ALTRE IN UNA CONSEQUENZIALITÀ SPESSO INDIRETTA, EPPURE RICOSTRUIBILE, SE SOLO LO SI VOGLIA. DI SICURO, ALL’INTERNO DI UN DISCORSO SULLA VIOLENZA – LA SUA GENESI, LE SUE MANIFESTAZIONI, I MODI PER CONTRASTARLA – NON È PIÙ POSSIBILE PRESCINDERE DA CONSIDERAZIONI CHE RIGUARDINO LA PRATICA CRUDELE DELLA CACCIA Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- “Il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose”1 La critica alla caccia non si limita oggi a particolari modi o tempi, ma è globale nel senso che ne mette in discussione la stessa essenza, la sua liceità, tanto che alcune associazioni hanno promosso una raccolta firme, grazie a cui verrà portata in senato una Proposta di Legge per la sua abolizione. Abolizione, non limitazione nel tempo e nello spazio, nel rilascio di autorizzazioni o nel numero delle specie cacciabili. Abolizione, perché nulla di ciò che questa attività comporta può essere considerato accettabile. Proprio come nulla di accettabile può essere rintracciato nelle guerre, quelle alle quali ci eravamo illusi, nel mondo occidentale, di avere posto fine: le avevamo in realtà solo spostate un po’ più in là, in tutti quei paesi da cui è stato semplice fare filtrare solo rare informazioni, facilmente stipabili nel grande magazzino del rimosso. Per poi risvegliarci un giorno dal torpore e prendere atto che i governi, il nostro e gli altri, non avevano mai interrotto una smisurata produzione di armi. Perché, oggi si sentenzia, si vis pacem para bellum: ignorando la replica all’antico enunciato, secondo cui, invece, se vuoi la pace è la pace che devi preparare. Elementare Watson. E se la pace la vuoi preparare, è necessario un contrasto netto e preciso alla violenza in tutte le sue forme, intrecciate le une alle altre in una consequenzialità spesso indiretta, ma ricostruibile, se solo lo si voglia. È lo psicologo Stephen Pinker ad affermare che, se la si vuole combattere, bisogna prima di tutto riconoscerla, al di là delle mistificazioni a cui è sottoposta, e poi avversarla in tutte le sue manifestazioni “dalle sculacciate educative date ai bambini alle dichiarazioni di guerra tra le nazioni”2 . Innegabile che la necessità dell’abolizione della caccia, che è regno assoluto di crudeltà e disumanità, occupi un posto d’onore nella ricerca, visionaria o meno che sia, di un mondo pacificato. La caccia: la migliore educazione alle pratiche di guerra3 Per altro esiste un particolare puntuale parallelismo colto in ogni epoca tra caccia e guerra: ”La guerra è la continuazione della caccia”, diceva Lev Tolstoj, e la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata della guerra, un suo sostituto ugualmente sanguinario, ma molto più rassicurante vista la mancata controffensiva del nemico immaginario. Se in tempi molto lontani la sua crudezza poteva trovare giustificazione nella lotta per la sopravvivenza umana, oggi neppure i suoi cultori si sognerebbero mai di sostenerlo; se comportava coraggio, audacia, forza fisica, oggi comporta se mai esercizio di pusillanimità, data la smisurata sproporzione di forze in campo e la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo, hanno nella fuga l’unica disperata possibilità di salvezza. E, per gli occidentali, si risolve tutta in attività di svago e ricerca di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci. Le vittime di tanto accanimento sono a volte uccellini di pochi centimetri di lunghezza e pochi grammi di peso, letteralmente disintegrati dai pallini, ma anche quelli che piace considerare feroci non hanno scampo davanti alle armi in dotazione del moderno cacciatore, novello Rambo, che si avvia alla guerra unilateralmente dichiarata con fucile in spalla e portamunizioni in vista, invaso da grande fascinazione anche per tuta, cinturoni stretti, stivali o scarponi, per attraversare terreni un po’ umidi manco fossero le paludi del Vietnam. Così bardato, trasforma la propria identità in un’altra fittizia, definita dall’abbigliamento e dai temibili accessori, grazie a cui anche un fisico più adatto alla tranquillità di uno sportello postale, così travestito, può ambire ad una sua rivincita macha, pronta allo sterminio, al servizio di virile quanto farlocco autocompiacimento. Spara, spara, spara qui… È indiscutibile che il vero motore della caccia si scalda e rimbomba là dove albergano forme di aggressività e violenza, tanto virulente da lasciare sul terreno vere e proprie carneficine, frutto di un crescendo di esaltazione e delirio fuori controllo, che, nei territori di caccia, porta a non saturare mai la pulsione a uccidere. Pulsione di cui non ci si vergogna, ma che è anzi fonte di vanto, a giudicare da tante foto di fine battuta che, sui social, immortalano stuoli di vittime stese intorno al sedicente eroe tronfio e soddisfatto. Sanno bene i legislatori che questa passione è talmente travolgente da non poter essere controllata da chi la sperimenta e da richiedere di conseguenza un controllo esterno, quello delle leggi appunto, le quali, per quanto permissive, non possono astenersi dal porre freni a quello che altrimenti sarebbe uno sterminio ancora più smisurato di quelli attualmente tollerati. Lo fanno, stabilendo limiti ai giorni e agli orari consentiti, nonché al numero di individui e alle specie da bersagliare. Limiti, come si evince dalla lettura dei siti venatori, vissuti con insofferenza, con rabbiosa inquietudine, perché il divieto di sparare, come succede in amari tempi di caccia chiusa, provoca malessere, una sorta di crisi di astinenza, tenuta a bada dalla certezza che l’attesa impaziente avrà presto fine: il momento in cui, finalmente, la caccia si riaprirà si avvicina giorno dopo giorno, ponendo fine all’inquieto count down: “Mi manca l’inebriante profumo, quell’aroma di polvere da sparo torrefatta che si sprigiona dalle canne della doppietta quando la si apre, e nell’aria volano ancora le piume del fagiano”4. Il numero dei cacciatori, in caduta libera in Italia tanto che oggi rappresenta circa lo 0,7% della popolazione, vede una netta prevalenza di persone anziane, tra i 65 e i 78 anni, che preoccupa non poco le associazioni, incapaci di capire, anche se non dovrebbe essere così difficile riuscirci, le ragioni di un tale disamore da parte delle nuove generazioni, quelle colpevolmente impregnate di ecologismo, di animalismo, a volte addirittura di antispecismo. Al momento, cercano di contrastare l’assottigliarsi delle loro fila, dilatando l’attivismo degli irriducibili, anche quelli un po’ ammaccati dalle ingiurie della vita. Tra loro, i più ricchi suppliscono alle inefficienze senili andando in terre lontane, dove sarà sempre possibile, dai rassicuranti sedili di un elicottero, affidare il compito ambito a un giovane del luogo, dalla mira precisa, che colpirà in subappalto l’animale in fuga, elefante, tigre o leone che sia. L’attempato ma non domato cacciatore, scambiando con un po’ di malafede il potere del denaro con quello dell’efficienza personale, mira precisa e braccio fermo, trarrà ancora grandi soddisfazioni, proprio come se lo avesse colpito lui, nel vederlo accasciarsi e poi morire, emozioni tanto più travolgenti quanto più la vittima sarà raro o addirittura in estinzione: è un vezzo da classe sociale particolarmente elevata uccidere qualcuno (loro sembrano pensare qualcosa) di unico o pregiato. Non è, questo approccio critico all’essenza stessa della caccia, frutto di un’analisi artefatta, di una interpretazione prevenuta: è anzi totalmente in sintonia con il pensiero dei cacciatori stessi, quale emerge persino negli stralci di conoscenza di sé che loro stessi offrono, nei loro siti5 quando si confrontano con entusiasmo, cuore in mano, su tutto ciò che l’attività che li affratella smuove in loro: eccoli allora a celebrare la “magia della caccia”, a pregustare “una palpitante avventura”, a esaltare la “passione”, a crogiolarsi nell’”euforia”, ad abbandonarsi all’ebbrezza”: stati d’animo emotivamente alterati, che anticipano il piacere di trovarsi davanti al sangue degli animali colpiti, alle urla di quelli solo feriti, alla fuga impazzita di quelli che ancora sperano. Se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’auto riconoscimento di emozioni e stati d’animo, già preannunciati da titoli di articoli quali Il sapore della caccia che sono tutto un pregustare, un sentire sensorialmente il gusto stuzzicante della morte cruenta, che infliggeranno alle povere bestie. Premono il grilletto. E la natura scompare6 Per altro è un grande scrittore, Lev Tolstoj, cultore della caccia prima di diventarne acerrimo nemico, a ricordare, in una sorta di racconto catartico, di avere tante volte sperimentato quelle che lui stesso definiva la delizia e la voluttà davanti alle bestie agonizzanti, la soddisfazione nell’essere stato artefice di tanto dolore 7. C’è di che rimanere basiti davanti a ciò che può albergare nella psiche umana: e allora, alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della passione venatoria, bisogna addentrarsi ancora di più nelle emozioni e nei pensieri dei suoi cultori; si viene allora a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione: perché nei loro comportamenti prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in  psicopatia nel piacere dichiarato di essere artefici della sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà”8,  tratto a volte innato, spesso collegato a risposte culturalmente apprese; sadismo che si crogiola nel piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza personale che deriva dalla capacità di sopraffare l’altro. Nulla di nuovo sotto il sole, visto che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) affermava che il sadismo potesse assumere una forma socialmente accettabile nella caccia, rappresentante delle energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese9. Mentre altri studiosi si spingono ad ipotizzare una particolare forma di questa componente del carattere, strettamente connessa alla sessualità10. Dice la psicologa Margaret Brooke-Williams: “Si tratta di una riscoperta della virilità e del senso di potenza maschile sopito dalla vita urbana. Questo sentimento di potenza offre temporaneo sollievo al disagio psicologico dei cacciatori”. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Per altro lo stesso Sigmund Freud si riferiva a volte al sadismo per indicare la fusione di sessualità e violenza. È possibile trovare ispirazione per altri approfondimenti in resoconti quali un’illuminante intervista su l’Adige.it (02.09.2012) a un’esponente femminile del mondo venatorio, tale contessa Maria Luisa Pompeati, della stirpe dei von Ferrari Kellerhof: sulla scia dei suoi colleghi maschi, definisce la caccia un atto d’amore, una passione intensissima che l’ha accompagnata nella crescita. Riferisce della sensazione meravigliosa del momento dell’uccisione, in cui l’animale diventa tuo per sempre. Perché, dice, la caccia è il momento culminante di una passione intensissima che la lega all’animale, che lei vuole possedere: dopo averlo centrato, corre da lui, prende la sua testa tra le mani, l’accarezza e lo bacia. Mangiarlo è, in seguito, l’ultimo atto del possesso. È lecito ipotizzare che alcuni gesti quali l’accarezzare e il baciare la vittima appartengano piuttosto a particolari vezzi della femminilità della contessa e non siano particolarmente diffusi tra i cultori della caccia, ma di certo vi risuona l’eco delle convinzioni di Rob Alpha. A parte ciò, tutto il resto è normale cronaca emotiva di una battuta di caccia. Dalla parte delle vittime In tutto questo, non emergono pensieri per gli animali, che pagheranno il prezzo di quelle battute di caccia, che definire arte (per venatoria che sia) è quanto meno un azzardo linguistico. Sono loro i grandi assenti, gli invitati di pietra alla grande kermesse venatoria, al delirio dell’uccidi più che puoi: assenti sono il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni, armato del suo fucile e della sua viltà.  È un guardiacaccia, Giancarlo Ferron 11, che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni,  che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini. Che nessun animale possa sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, elefanti o uccellini di pochi grammi lo dice bene un bambino nel colorito spirito napoletano quando constata che “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito santo”12 compendiando così l’incontenibile impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, giovani o vecchi, che volino o corrano: purchÉ respirino. La caccia. Un vero suicidio morale13 Descrizioni tormentate sono anche quelle di Lev Tolstoj, quando, da cacciatore da molto tempo pentito, ricorda con tormento lo spasimo pieno di terrore delle sue vittime in agonia, la sopraffazione del più forte sul più debole, l’assalto di molti a uno solo, del forte contro il debole, della sottrazione dei piccoli alle madri e viceversa: un universo di azioni tanto orribili da indurlo a definire la caccia un vero suicidio morale. Parlando di conseguenze nefaste dell’attività venatoria si può continuare con i morti e feriti di ogni stagione, di cui mantiene un accurato conteggio l’Associazione Vittime della Caccia14 vittime che sfilano a passi felpati nei trafiletti dei giornali, così da poco disturbare governi e partiti, sempre in tutt’altre faccende affaccendati e magari un po’ imbarazzati. Perché si tratta non di malasorte, ma delle inevitabili conseguenze di un’attività che comporta l’uso continuo di armi, per moltissimi giorni all’anno, e svariate ore quotidiane, in uno stato d’animo in continua tensione. Quando imperizia, imprudenza, mancato controllo emotivo, deliri di onnipotenza, possono contare sul possesso di un fucile caricato a pallettoni, che l’esito possa essere mortifero non può certo meravigliare. L’uomo e il cane: un’amicizia unilaterale E che dire delle altre vittime oscurate, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso, notoriamente trattati come oggetti d’uso, tenuti normalmente in gabbie da cui escono solo per andare a servire il loro padrone, maltrattati, crudelmente puniti? Le cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei e di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio. A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista15 on line un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (“la famosa frustata” dice), metodo di addestramento da cui lei però si vanta di smarcarsi. I bambini ci guardano16 Caccia che allunga le sue ombre lunghe anche in un campo colpevolmente trascurato, quello delle ricadute su bambini e ragazzi, che certo per legge a caccia non ci possono andare, almeno in Italia dove l’età minima è di 18 anni, ma che, sempre dalla lettura delle chat dei cacciatori, risulta che non raramente “accompagnino”, perché questo è permesso, i grandi, senza sparare, fin da età davvero improbabili: nove, dieci, undici anni, con qualche eccezione, udite udite, per bambini (accidentalmente anche bambine) di quattro anni. Grandi che non stanno più nella pelle per insegnare alla discendenza il mestiere e, impazienti, vogliono nell’attesa condividere le dilaganti emozioni. Potrebbe sembrare roba da marziani, ma non è necessario espatriare su un altro pianeta, perché è sufficiente oltrepassare la Manica: là, tutta la famiglia reale, generazione dopo generazione, ha goduto di un tirocinio precocissimo a quello che ritengono sport of the kings. Ahimè, non solo dei re. Il problema è che neppure il velocissimo srotolamento dei tempi, con tutti i cambiamenti che si succedono alla velocità della luce, pare intaccare la loro idolatria per la tradizione, per mortifera che sia: l’ultima vittima è l’ancora innocente (?) principe George, che risulta avere partecipato alla caccia al gallo cedrone a sette anni (con papà) e pare si appresti ad uccidere il suo primo cervo ora che ne ha compiuti dodici. Che dire? Quasi meglio tornare alle cose di casa nostra: e provare a riflettere che figli o nipoti di cacciatori crescono alla presenza costante di una, ma più spesso più armi, presenza che, nella sua normalità, non provoca inquietudine, ma assuefazione: tutto normale, un po’ come il portaombrelli o le piante da arredamento. Normale sarà anche l’attenzione di cui le vedranno oggetto da parte del cacciatore di famiglia, che le maneggerà con cura (almeno si spera), quali oggetti di culto, preziosi ferri del mestiere, capaci di trasformare in realtà il sogno sognato del prossimo trofeo. E normali, nella loro ripetitività, saranno i comportamenti, i rituali di accompagnamento: levatacce antesignane, rientri appagati se con accettabile numero di vittime, o malcelati malumori per uno scarso bottino. E si conosceranno gli stati d’animo: l’ansia dell’attesa, i racconti grondanti eccitazione per l’avvistamento dell’animale da colpire, il non dargli tregua fissandolo nell’occhio del mirino o inseguendolo insieme ai cani godendo del suo terror panico. E finalmente colpirlo. Ora, banale ricordare che i bambini imparano ciò che viene loro insegnato, che il giusto e lo sbagliato, il bene e il male sono concetti che prendono forma in funzione delle convinzioni e dell’accezione che i grandi di riferimento danno alle situazioni. E i primi anni di vita sono fondamentali per creare le proprie rappresentazioni del mondo e dei valori della vita, frutto del modellamento educativo, basilare nella strutturazione del carattere e della personalità. Anche l’empatia, vale a dire la capacità di identificarsi con le emozioni e gli stati d’animo dell’altro e di sentirli riverberare su di sé, condizionando il proprio comportamento, dipenderà in grande parte dalla possibilità di apprenderla se presente come modello a cui affidarsi. Se tale modello è strutturato sulla crudeltà verso creature deboli, sul piacere nel provocare loro dolore e morte, il piano educativo produrrà speculari contraccolpi psicologici nei più giovani. In estrema sintesi, non esiste dubbio che la violenza contro gli animali vada nella direzione dell’introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori, basati sul diritto della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005 la Violenza Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come testimone di quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare è ufficialmente entrata nel novero delle violenze sfavorevoli infantili, sfavorevoli rispetto a un sano ed armonico sviluppo della personalità. E quella agita sugli animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in considerazione: al di là delle teorizzazioni, emerge in modo drammatico dai racconti di adulti che mai hanno potuto dimenticare lo strazio vissuto da piccoli assistendo allo scempio su un animale, spesso ad opera dello stesso padre. Non basta tutta una vita per dimenticare, ma neppure per sfoltire un dolore che, nel momento del racconto, esplode con tutta la virulenza di un dramma appena accaduto. La caccia come tarlo sociale Insomma: ce ne è davvero abbastanza per riflettere seriamente sulla caccia come tarlo sociale e agire di conseguenza: perché la sua struttura portante è, in estrema sintesi, il piacere di praticare violenza contro individui inermi. “Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi?”17. Viviamo in tempi cupissimi, dove anche noi, abitanti di un mondo occidentale che in molti pensavamo in costante crescita verso l’estensione dei diritti, ci siamo ritrovati davanti al baratro di un’umanità disumanizzata. Siamo qui a chiederci come tutto quello che sta succedendo stia davvero succedendo: troppo per essere anche solo pensato, perché il pensiero stesso si ribella al farsi contaminare dal regno dell’odio, dal dilagare dell’indecenza e di una crudeltà che nessuna specie vivente potrebbe mai ideare. Nessuna tranne la nostra, che è la più devastante, crudele e pericolosa. Che mai, nemmeno in nessun periodo di pace, ha smesso di sentirsi in diritto di praticare alla luce del sole le più orrende forme di supplizio sugli altri animali e, in modo variamente occulto, sugli altri esseri umani. Oggi il mondo tutto sembra allargarsi a normalizzare ogni forma di indecente prepotenza, contro chiunque, senza neppure più vergognarsene; il mondo venatorio, in contemporanea, pretende un po’ di spazio in più: molti più uccellini da accecare per richiamare i loro conspecifici davanti al cacciatore lì pronto ad impallinarne quanti potrà; licenza di sparare agli uccelli migratori, esausti per viaggi interminabili; ribaltamento di sentenze del TAR per consentire il massacro anche nei valichi di montagna. E poi orsi, lupi, nutrie: tutti trasformati in bersagli, con la benedizione delle autorità, in una moderna riedizione di quel Far West dove era la colt ad accogliere ogni estraneo sgradito. Ci si aspetterebbe che i cacciatori, numericamente in dissesto, le loro straricche lobbies, quei politici afasici e indifferenti a un volere popolare dichiaratamente contrario, prendessero consapevolezza dell’insostenibilità morale dell’attività venatoria. A tutti noi il compito di riconoscere le mistificazioni in atto, implicitamente sostenute in modi diversi: per esempio con la vendita stessa delle armi  accanto agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Mistificazioni sorrette anche attraverso richieste dei cacciatori per entrare nelle scuole nella veste di testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali. Che vanno ad uccidere perché li amano. Doveroso interrogarsi sulla confusione cognitiva generata nei più giovani nel momento in cui viene loro proposta l’equazione amore-uccisione, che oggi più che mai è il mantra giustificativo di tanti femminicidi. “Stiamo causando la distruzione. Dei nostri compagni animali… Ricercando null’altro che il nostro benessere E il nostro divertimento”18. Insomma, all’interno di un discorso sulla violenza, la sua genesi, le sue manifestazioni, i modi per contrastarla, non è più possibile prescindere da considerazioni che riguardino la pratica della caccia. Se si ritiene fondamentale che l’educazione abbia come obiettivo primario l’insegnamento del rispetto per l’altro, la presa in carico dei diritti di ognuno, la convinzione che il senso di giustizia sia fondamentale nella gestione di relazioni positive, è davvero impensabile proteggere, difendere, connotare positivamente comportamenti sadici, violenti e crudeli a danno di esseri indifesi. Non è superfluo ricordare la posizione di Albert Scheiwtzer, Nobel per la pace 1953, che sosteneva che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi e non solo gli esseri umani. Gandhi, uno dei massimi esponenti del pacifismo, non pensò in nessun momento che la grandiosità degli obiettivi che andava perseguendo lo autorizzasse a mettere in secondo piano il dovere del rispetto per gli altri animali, da praticare costantemente anche attraverso scelte alimentari, avanzatissime per i suoi tempi. Aldo Capitini, filosofo della non violenza, sosteneva che se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini: e lo diceva all’alba della seconda guerra mondiale, facendo tutto ciò che era in suo potere per provare a scongiurare il delirio di violenza che di lì a poco si sarebbe comunque scatenato. Insomma e per concludere: l’attività venatoria è indiscutibilmente territorio di crudeltà. Riconoscere questa elementare verità, è passo doveroso. Che dovrebbe condurre alla strada che Freud, nel carteggio del 1932 con Einstein, indicava per agire contro la guerra, con parole che si attagliano perfettamente anche alla caccia. Le forze che esistono, dice Freud, che vanno costruite e riconosciute, sono le relazioni d’amore e i legami emotivi che si stabiliscono grazie anche a meccanismi di identificazione con l’altro. È necessario indignarsi contro la guerra (e contro la caccia, aggiungo) perché ogni uomo, ogni essere senziente ha diritto alla vita, perché la guerra (come la caccia) “annienta vite piene di promesse, pone i singoli individui in posizioni che li disonorano”. Per ricercare uno stato di pace, fra le persone, i popoli, le specie, che forse è esistito, che forse è desiderio di qualcosa di mai interamente vissuto, ma di cui vi è infinita nostalgia perché, dice Anna Maria Ortesei, da quel bene assoluto ci siamo allontanati “per deviazione, errore, stranezza o forse malattia” . -------------------------------------------------------------------------------- Sull’argomento ho scritto nei miei libri i capitoli: Bang…bang…: io sparo a te. In “Noi abbiamo un sogno”. Bompiani 2006 Finchè non lo vedrai esangue, In “In direzione contraria” Sonda 2009 Ai cacciatori il posto d’onore. In “Sulla cattiva strada, Sonda 2014 -------------------------------------------------------------------------------- 1 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere; 2 Stephen Pinker, Il declino della violenza 3 Senofonte, Il Cinegetico 4 https://brotture.net/tag/caccia 5 www.bighunter.net 6 Marcello D’Orta , Nessun porco è signorina 7 Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne 8 Umberto Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia 9 Www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to=psychosexual-inadequancy-the=5-phases-of-sexual-frustration 10 www.animals24-7.org 11 Giancarlo Ferron, Il suicidio del capriolo 12 Nessun porco è signorina, Op. cit. 13 Lev Tolstoj, Op. cit. 14 https://www.vittimedellacaccia.org 15 http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm 16 Titolo del film di Vittorio De Sica, I bambini ci guardano 17 Danilo Mainardi 18 Yuval Noah Harari, Da animali a dei -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’ambigua fascinazione della caccia proviene da Comune-info.
L’ipocrisia occidentale
-------------------------------------------------------------------------------- Palermo, settembre 2025. Foto di Melania Del Santo -------------------------------------------------------------------------------- Quando il mondo dorme (Rizzoli) è il titolo del saggio, parzialmente autobiografico, scritto dalla Relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese. Un libro denso, che rapisce subito, sin dalle prime pagine, immergendo il lettore in un viaggio conoscitivo all’interno di quella terra martoriata, che è la Palestina. Intrecciando vissuto personale, racconti, testimonianze ed esperienze legate alle funzioni svolte come osservatrice dei Territori Occupati, Albanese, mediante il confronto con intellettuali (anche ebrei), medici, professionisti ed esperti dei diritti umani e del diritto internazionale, cerca di squarciare il velo dell’ipocrisia occidentale. Senza sviscerare il contenuto del libro, che invito a leggere, la trama si dipana attraverso dieci storie, che nella loro diversità sono accomunate da un medesimo destino. L’essere parte di una sofferenza ereditata, vissuta, subita. Traumi individuali e collettivi, che possono essere affrontati solo tramite il racconto, ma mentre il trauma ebraico dell’Olocausto ha avuto dei luoghi e dei simboli di identificazione mondiale (Il Giorno della Memoria, i Musei e le opere che lo riguardano), nessuna democrazia occidentale è stata in grado di riconoscere la ferita ancora aperta di un popolo oppresso, che oggi vede messa a rischio la sua sopravvivenza e il futuro. Le complicità occidentali nel ribadire lo status di indeterminatezza dei palestinesi cacciati e vessati nella loro terra. Rifugiati, apolidi, profughi, colonizzati. Discriminati, violentati, torturati, trucidati. Una lunga storia di sofferenze che, all’indomani del secondo conflitto mondiale, giunge ai giorni nostri, lasciando testimonianze (dalle generazioni della Nakba al nuovo esodo dei senza patria) di sopraffazioni fissate nel regime di segregazione razziale. E che nel silenzio, nella cecità dei governi, trova nel genocidio il mezzo di “risoluzione finale”. La cacciata definitiva e l’appropriazione indebita di ciò che rimane dei territori, allargando altrove le mire, per portare a compimento il disegno sionista intriso di fanatismo. L’apartheid è qualcosa con cui la popolazione palestinese ha sempre convissuto, ma sale l’indignazione quando leggiamo di uccisioni deliberate e insensate. Bambini martoriati (Hind), medici stuprati (Ghassan), donne e uomini, che non hanno nessuna colpa. La questione palestinese derubricata, per troppo tempo, a crisi umanitaria, il che ha comportato, in realtà, la normalizzazione delle ingiustizie, senza capire che il problema è politico, e solo in quella sede deve essere affrontato. I confronti con i genocidi passati e le responsabilità attuali di Paesi, come la Germania, l’Italia, gli Stati Uniti o gli inglesi, che continuano a fornire armi e tecnologie ad Israele. E poi la repressione (divieto di esporre la bandiera palestinese) e l’uso della forza (pestaggi, arresti) nei confronti di ogni iniziativa – le manifestazioni, gli incontri, i dibattiti – deputata a porre fine allo spargimento di sangue. Questi fattori, insieme all’indulgenza, che permette di sorvolare sulle tante dichiarazioni giuridiche, compromettono il sistema delle regole in cui viviamo. Da conoscitrice del posto e dei diritti umani Francesca Albanese ci offre anche una puntuale disamina delle pronunce della giustizia internazionale. Ad esempio, cosa prevede la Convenzione per la prevenzione del genocidio, oppure le affermazioni della Corte di Giustizia, secondo cui, in quanto paese occupante Israele non può attaccare la popolazione sottomessa. Il colonialismo di insediamento rende difficile la vita per la popolazione occupata, attaccando le infrastrutture essenziali, inquinando il sottosuolo, tagliando acqua ed elettricità (è accaduto anche durante il covid, forse per far diffondere la pandemia?), distruggendo le abitazioni e le scuole, i luoghi di culto. Le operazioni di sfollamento si verificano senza preavviso, anche in piena notte. Alberi abbattuti, terreni dedicati al pascolo espropriati, ed altre misure fanno si che la vendita dei prodotti palestinesi subisca impedimenti tali da rendere impossibile la vita economica. Ci sono gli interventi premeditati, irragionevoli, ma che rafforzano la pulizia etnica, e sono quelli relativi all’uccisione dei giornalisti o dei medici negli ospedali (un migliaio di operatori), affinché non possano essere d’aiuto per tanta gente che giunge in condizioni disperate. A loro volta torturati e sottoposti a supplizi disumani (l’ordine di spezzargli le mani per chi sopravvive) prima di essere fatti fuori. E puntualmente, la diffusione di fake da parte dell’esercito e dell’esecutivo israeliano che, per giustificare la mattanza, dei civili in fila per il cibo, o degli stessi medici e giornalisti, affermano che essi erano legati ad Hamas. Insieme alla tristezza sale la rabbia. Tuttavia, le varie storie ci parlano anche di dignità e di dolcezza. La capacità di immedesimarsi attraverso l’ascolto, di capire andando oltre le barriere ideologiche e la propaganda. Perché è la nostra indifferenza quella che fortifica i crimini. “È quando il mondo dorme che si generano i mostri”. Quindi è necessario cambiare approccio. Guardare in maniera diversa, o vedere, finalmente, cosa sta accadendo. Denunciare, agire, pensare alla coesistenza fra popoli e culture, per lavorare alla pace (iniziando da noi stessi). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’ipocrisia occidentale proviene da Comune-info.