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Il nostro rifiuto della chiamata alle armi
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Negli stessi giorni in cui il parlamento europeo votava prima (26 novembre) per respingere le modifiche al piano di riarmo dei paesi UE, ammettendo in esso anche le cosiddette “armi controverse”, ossia le bombe all’’uranio impoverito, al fosforo bianco, i killer robot ed altri simili ordigni di sterminio e dopo (27 novembre), a larghissima maggioranza, per respingere il “piano di pace” di Trump perché “la pace non può essere raggiunta cedendo all’aggressore, bensì fornendo un sostegno risoluto e costante all’Ucraina e dissuadendo in maniera adeguata la Russia dal ripetere tale aggressione in futuro”, in quegli stessi giorni e sugli stessi temi Edgar Morin – 104 anni lo scorso luglio – scriveva alcune note, pubblicate in Italia su il manifesto e ytali. (28 novembre). Meritano essere citate, per segnare la pericolosa distanza tra chi ha lo sguardo lungo, lucido e libero e gli attuali decisori europei, insieme a gran parte dei media. “È con stupore” – scrive Morin – “che una parte degli umani considera il corso catastrofico degli eventi, mentre un’altra parte vi contribuisce con incoscienza. (…) La visione unilaterale dei media ignora che l’Ucraina è stata una posta in gioco fra l’impero americano e l’impero russo. Prima di Trump, gli Usa avevano satellizzato economicamente, tecnologicamente e militarmente l’Ucraina, la quale sarebbe stata una pistola puntata alla frontiera russa, se fosse passata sotto il controllo della Nato. I nostri media non soltanto sottolineano l’imperialismo russo, ma immaginano che questo potrebbe invadere l’Europa, laddove è peraltro incapace di annettere l’Ucraina in tre anni di guerra. (…) Invece che spingere i due nemici a negoziare, e a stabilire un compromesso sulle basi che ho appena menzionato [qui fa riferimento alle proposte del libro “Di guerra in guerra” del 2023], gli europei contribuiscono alla escalation. (…) Infine noi dobbiamo cercare di pensare la policrisi dell’umanità nelle sue complessità e nei suoi orrori, e dovremmo agire nelle incertezze, ma con l’intenzione di salvare l’umanità dalla autodistruzione”. Invece, nei giorni precedenti (21 novembre) il Capo di Stato maggiore francese, generale Fabien Mandon, parlando all’assemblea del sindaci francesi (merito dei militari è il parlare chiaro) aveva detto che devono preparare le rispettive città a “perdere i figli in guerra” ed anche “a soffrire economicamente perché la priorità deve essere la produzione militare”: solo così ci si prepara al prossimo conflitto armato con la Russia, che il documento strategico nazionale francese prevede tra il 2027 e il 2030. Per questo una settimana dopo (27 novembre) Macron ha annunciato che dalla prossima estate partirà per i giovani francesi il Servizio militare di leva, inizialmente su base volontaria, che sostituisce il Servizio Universale Nazionale che poteva essere anche civile. Per non essere da meno, anche il ministro italiano della difesa Crosetto ha annunciato il disegno di legge per istituire, con un ossimoro, una “leva militare volontaria” anche nel nostro paese, similmente a quanto sta avvenendo in Francia e in Germania (dove è già previsto che possa diventare obbligatoria), per reclutare almeno altri 10.000 giovani italiani come forza di riserva, in aggiunta ai 170.000 militari già nelle Forze Armate. Naturalmente, come evidenziato dalla recente ricerca del Censis, gli italiani sono fortemente contrari sia alla prospettiva di coinvolgimento bellico del nostro Paese, per questo nessuno evoca il ripristino tout court della leva militare obbligatoria, al momento sospesa, che non sarebbe pagante in termini di consenso elettorale. Però è evidente che, in tutta Europa, la direzione è quella di reclutare nuova massa per la guerra, ossia “carne da cannone” per “l’attacco preventivo” alla Russia che sta preparando la Nato, come esplicitato dal generale Cavo Dragone, presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica (1 dicembre). Al quale bisogna rispondere con la storica formula: “Non un un soldo, né un soldato per la guerra”. Perché questo non sia solo uno slogan da cantare nei cortei pacifisti ma diventi azione politica, e non potendo dichiararsi formalmente obiettori di coscienza, è necessario sottoscrivere personalmente la dichiarazione di obiezione alla guerra, promossa dalla Campagna del Movimento Nonviolento che – mentre nella dimensione internazionale sostiene obiettori di coscienza e disertori di tutti i fronti delle guerre in corso – 1.500.000 ucraini sono considerati “ricercati” dai centri di reclutamento – nella dimensione interna promuove il rifiuto preventivo e individuale di partecipare a qualsiasi forma di preparazione della guerra, a cominciare proprio dal rifiuto della chiamata alle armi. È una campagna che risponde al compito che ci indica Morin per “salvare l’umanità dall’autodistruzione”, ma anche alle indicazioni di un altro saggio del ‘900, Norberto Bobbio, difronte alla precedente corsa agli armamenti: “Saremo i più forti se saremo uniti, se saremo solidali almeno su un punto essenziale: non vi è conflitto che non possa essere risolto con le armi della ragione, specie in questo mondo in cui a causa dell’interdipendenza di tutte le questioni internazionali, la violenza chiama violenza in una catena senza fine. Saremo i più forti se riusciremo ad ubbidire alla voce che nasce dal profondo del nostro animo e che ci suggerisce questo nuovo comandamento: Disarmati di tutto il mondo, uniamoci” (Il terzo assente, 1989). Per difenderci dalla guerra, anziché nella guerra. -------------------------------------------------------------------------------- [Articolo pubblicato su I blog del Fatto Quotidiano e su asqualepugliese.wordpress.com, qui con l’autorizzazione dell’autore] -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il nostro rifiuto della chiamata alle armi proviene da Comune-info.
Due o tre cose su quanto accaduto a Monteverde
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Domenica 30 novembre per le strade di Monteverde, a Roma, malgrado uno schieramento poliziesco imponente, si è svolto un colorato e popolare corteo, con tanti giovanissimi, promosso dall’Assemblea Monteverde Antifascista e da realtà del quadrante Roma Sud contro le aggressioni sioniste avvenute nel territorio e contro il genocidio. Durante la notte presso la Sinagoga di Monteverde, come ormai noto, è stata imbrattata la targa in ricordo di Stefano Gaj Taché, il bambino ucciso durante l’attentato terroristico del 1982 fuori dalla Sinagoga di Roma. A proposito di quanto accaduto e dell’odioso racconto dei media mainstream, scrive Assemblea Monteverde Antifa: “Il 30 novembre si è svolto il corteo contro le aggressioni sioniste nel nostro quartiere e il genocidio in Palestina, indetto dall’assemblea di Monteverde Antifascista e dalle realtà del quadrante di Roma Sud. Un corteo partecipato da tantissime giovani, realtà sociali e persone del quartiere e non solo. Un corteo comunicativo e di denuncia anche degli effetti dell’economia di guerra sulle nostre vite. Purtroppo questa mattina (lunedì 1, ndr) abbiamo appreso dalle diverse notizie apparse in rete che, durante la notte, è stata imbrattata la targa in ricordo di Stefano Gaj Taché, presso la Sinagoga. Come assemblea territoriale di Monteverde sentiamo impellente la necessità di discostarci chiaramente da questo gesto e di condannarlo con fermezza. Esprimiamo la nostra sincera vicinanza alla comunità ebraica del nostro quartiere. Riteniamo intollerabili le accuse che ci sono state rivolte da testate giornalistiche che, oltre a non conoscere la situazione nel nostro territorio e i valori che caratterizzano la nostra assemblea, non hanno esitato un minuto a puntarci il dito contro. Anche perché tale gesto scredita e vanifica il lavoro collettivo di costruzione della piazza. Questi giornali non solo mistificano la realtà, ma scelgono deliberatamente di raccontare alcuni fatti piuttosto che altri: nessun articolo sul corteo trasversale, colorato e popolare che ha attraversato le strade del nostro quartiere o le nostre chiare parole tanto contro il sionismo che contro l’antisemitismo. L’incredibile manipolazione mediatica a cui assistiamo è solo uno dei tanti sintomi di una narrazione egemone malata, che non riesce a distinguere la religione dalla politica e così facendo manipola l’opinione pubblica. A partire dai massacri del popolo palestinese fino alla complicità del governo italiano. Essere antifasciste significa combattere ogni tipo di discriminazione e razzismo. A partire dall’antisemitismo. Contro ogni fascismo, sempre. [Assemblea Autonoma di Monteverde]” -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Due o tre cose su quanto accaduto a Monteverde proviene da Comune-info.
I terroristi siamo anche noi
-------------------------------------------------------------------------------- Disegno di Gianluca Foglia Fogliazza -------------------------------------------------------------------------------- Nell’arco di pochi giorni, abbiamo ricevuto attraverso media e social media due notizie in sé sconvolgenti, ma che sono state accolte tutto sommato come ordinaria amministrazione. La prima è contenuta in un filmato che riprende soldati dell’esercito israeliano, durante un’operazione in Cisgiordania, a Jenin, che uccidono a sangue freddo due persone inermi, disarmate, con le braccia alzate – nell’ipotesi più bellicista, due miliziani di Hamas che si sono arresi. La seconda arriva dagli Stati Uniti, l’ha diffusa il quotidiano Washington Post e riferisce dell’ordine che avrebbe dato, nel settembre scorso, il segretario alla Difesa Peter Hegseth al reparto delle forze armate che aveva appena bombardato un’imbarcazione venezuelana – “di narcoterroristi” secondo la non verificabile affermazione delle autorità statunitensi – e che chiedeva che cosa fare di due sopravvissuti aggrappati ai resti galleggianti dell’imbarcazione; due persone, pare di capire, che sarebbe stato possibile salvare. Il ministro avrebbe ordinato di uccidere tutti, anche i due superstiti, e così è stato. Il ministro in verità ha negato la ricostruzione, parlando di “fake news”, ma ha rivendicato il diritto di uccidere liberamente “i narcoterroristi che stanno avvelenando il popolo americano”. Queste due notizie non hanno dato particolare scandalo, né alimentato un serio dibattito su quale sarebbe la conclamata etica democratica dell’occidente, quali i valori occidentali cui vari governi si richiamano ogni volta che intervengono, anche militarmente, sulla scena internazionale. In realtà, solo negli ultimi mesi, fra Gaza e Venezuela, per non dire dell’Iran e del Qatar, abbiamo accumulato abbastanza notizie, sufficienti orrori, per avere il dovere, quanto meno, di “abbassare la cresta” in quanto “occidente”: il complesso di superiorità che abbiamo meticolosamente coltivato e che continua a innervare il dibattito pubblico, la retorica politica e giornalistica, non ha più ragione di essere, ammesso che ne abbia mai avuta. E in aggiunta, di fronte al filmato riguardante l’esercito israeliano, alle rivelazioni del Washington Post e ai proclami di Hegseth, sarebbe giusto ridefinire la nozione di terrorismo, usata a piene mani dai governi occidentali negli ultimi anni per giustificare le peggiori azioni militari, i peggiori crimini di guerra e contro l’umanità. Che cos’altro è, se non terrorismo, l’esecuzione a freddo di due persone inermi (per non dire di buona parte degli attacchi a Gaza, dei cercapersone fatti esplodere, del tentativo di eliminare con i missili i negoziatori di Hamas in Qatar); che cos’altro è la distruzione decisa a tavolino di imbarcazioni venezuelane, con decine di persone uccise perché ritenute “narcoterroriste”, non solo senza inchieste giudiziarie e senza processi, ma anche senza informazioni verificabili. Guardiamoci nello specchio, noi occidentali: riconosceremo i tratti tipici del terrorista. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I terroristi siamo anche noi proviene da Comune-info.
Vite isolate
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Le settimane della provinciale Italia vedono l’attenzione dei media incentrata su fatti, proposte e decisioni, che riempiono a dismisura il contenitore delle notizie su cui successivamente cerca di esprimersi l’opinione pubblica. La stessa formazione della volontà collettiva viene condizionata dal dibattito calato dall’alto (le elezioni regionali, i progetti militari di Trump e della UE) o, in alcuni casi, incide sulle determinazioni degli organi della giustizia (il caso della famiglia isolata che vive nel bosco e della separazione coatta dai figli). C’è un Paese bipolare, che spesso appare rassegnato, altre volte, in uno slancio di protagonismo sociale grida con forza la sua voce. È successo con le tante manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese, provenienti dalla parte sana e civile della nazione. Tuttavia, nei casi in cui queste esigenze afferiscono a questioni giudiziarie, eclatanti o meno, viene in evidenza un eccesso di giustizialismo, espressione latente di un vuoto incolmabile, data la distanza dalle istituzioni e dai suoi organi, alle cui mancate od inadeguate risposte (in termini sociali e di prevenzione e non certo nelle degenerazioni securitarie e repressive) qualcuno cerca di sopperire in maniera diversa. La volontà popolare e un sentire comune, privo di conoscenze giuridiche o depurato dalle stesse, prova a reindirizzare le pronunce dei giudici su un terreno più affine ai sistemi di common law. La stessa voglia di farsi giustizia da se non trova riscontro, in termini quantitativi, sul terreno della partecipazione politica. Finite le grandi stagioni delle battaglie per la conquista dei diritti civili e sociali, esaurito lo slancio propulsivo dei movimenti intersezionali, rimane lo strumento della delega. La cieca fiducia verso quella classe dirigente trasversale che ha prodotto l’involuzione di uno Stato presente solo come apparato. Un imbarbarimento proveniente dai decisori, che ha determinato sfiducia, alimentando livore, odio, disaffezione. Questa distanza è tangibile nell‘assenteismo dal voto ma non nel fare politico dal basso (mutualismo, solidarietà, associazionismo). Eppure, una parte del Paese, invischiata con le élite, o con la pancia piena, continua ad accettare il gioco autoreferenziale della rappresentanza degli interessi. La massima ambizione per costoro è quella di essere coinvolti nel processo di spartizione del privilegio. Invece, volendo accettare la logica di un ipotetico contratto sociale, quello che manca per chi pensa che ancora abbia un senso il poter agire all’interno delle istituzioni, mobilitando la volontà popolare oltre la semplice appartenenza di classe (e gli ideali), è il soggetto motore del cambiamento. I tempi non sono maturi. All’orizzonte nessuna parvenza di egemonia che possa ambire a velleità di alfabetizzazione di massa. Un ritardo sostanziale, che necessita, innanzitutto, di una presa di coscienza. Urge il bisogno di quella rivoluzione culturale e civile in grado di dare un senso comune ai sottoposti e che superi ogni forma di identitarismo. Assistiamo, da trent’anni, sempre alle solite formule. Ammucchiate tra liberal-progressisti, moderati ed esuli della sinistra che non c’è. Certo, dinnanzi alla volgarità figlia dei movimenti/partiti reazionari l’alternanza liberista che proviene dalla fu sinistra è più presentabile, ma siamo stanchi di sentire appelli a turarci il naso e, sinceramente, questo problema, non me lo sono mai posto, desertando, consapevolmente, le urne. Dobbiamo recuperare ciò che ci accomuna. Soprattutto, il contatto con la natura. Chi sceglie di vivere nei boschi o di volersi isolare da un presente che inquina le vite deve poterlo fare in autonomia, ma tenendo presente che vi è una responsabilità, che trascende il diritto inteso come sovrastruttura costruita dal potere economico, ma che è pur sempre necessario in un quadro fissato da regole minime in grado di assicurare la convivenza. Alla quale andrebbe preferita la convivialità come slancio qualitativo dello stare insieme. Insomma, c’è tutto un mondo da ricostruire. Innanzitutto le relazioni umane, sulla via della ri-definizione a causa di una tecnologia sempre più invasiva, e che rende la mercificazione delle esistenze qualcosa di diverso. L’alienazione nei rapporti fra le persone è, ormai, un lontano ricordo. Non nel senso che essa sia scomparsa, ma è stata superata da un’attualità sempre più irreale, che rinuncia volentieri alle tradizionali forme di contatto. La spersonalizzazione crescente crea emarginazione e patologie. Siamo andati troppo avanti, e forse, non ricordiamo più come eravamo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Vite isolate proviene da Comune-info.
La storia non cambia finché…
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Washington, afghano spara vicino alla Casa Bianca: gravi due militari. Trump dà la colpa a Biden. Spari vicino alla Casa bianca: un afghano arruolato dagli Usa Afghano arrestato dopo la sparatoria vicino alla Casa Bianca E simili… Ecco servita, di nuovo, la Storia. O meglio, giacché più mi si addice, la medesima con l’iniziale minore. Necessariamente modesta. La storia, già. Ma prima il fatto, a dispetto della narrazione: un uomo, un nostro simile quindi, spara e colpisce altri esseri umani. Li ferisce gravemente. E come capita talvolta, qualcuno di loro muore. È una triste quanto inaccettabile tragedia. Lo è sempre in tali casi, soprattutto perché è il frutto del male che noialtri arrechiamo a noi stessi. Ciò malgrado assistiamo con amarezza al diffondersi immediatamente della stessa storia. Secondo uno studio delle Nazioni Unite relativo all’anno 2021, il mondo ha registrato circa 458.000 omicidi, con una media di 52 all’ora, ovvero circa 1.248 al giorno. Gli Stati Uniti hanno registrato, sempre nel 2021, il tasso regionale di omicidi pro capite più alto, con 154.000 persone uccise. Come capita da decenni, a dispetto dell’inopinabile realtà dei numeri, nel racconto che è stato diffuso nei giorni scorsi, a uccidere non è stato semplicemente un essere umano. Trattasi di dato non rilevante. Non vende altrettanto. Non impressiona più da tempo. E soprattutto, sposterebbe la discussione su temi che non conviene affrontare. Come per esempio la diffusione delle armi, le leggi che ne regolano l’acquisto e il possesso, oppure la violenza, il disagio, l’odio e coloro che li alimentano incessantemente per profitto. Il dettaglio di quell’uomo che si è macchiato di un crimine orrendo, del quale con assoluta priorità vanno informati i lettori e gli ascoltatori, in altre parole gli elettori e più che mai i consumatori, è la sua nazionalità. Il cattivo della storia è marocchino, tunisino, arabo, eccetera, possibilmente musulmano e auspicabilmente con la pelle abbastanza scura da rientrare nella tonalità dell’incubo moderno, ed ecco che la trama è pronta per essere servita. Stavolta si tratta di un cittadino afghano. Poi, una volta sferrata la controffensiva all’aggressione di un sol uomo a una presunta intera civiltà che si crede bianca e protetta da un unico quanto inviolabile corredo di tradizioni e culture, gli sceneggiatori di tale ormai atavico copione lasciano lo spazio a coloro che ne devono raccogliere i frutti. Si legga pure come più la facile e disumana catena razzista che esista: afghano vuol dire straniero, straniero vuol dire “migrante”, e allora… che paghino tutti per uno. Via libera a ulteriori strette sugli ingressi, a nuove espulsioni sommarie e ad altre limitazioni dei già pochissimi diritti civili e persino umani concessi a costoro. Per non parlare del consequenziale incremento di quella medesima violenza e di quello stesso odio di cui invece dovremmo parlare, in tal caso nei confronti di milioni di persone innocenti fino a prova contraria. Ma questo non rientra nella suddetta storia, bensì nella sopra citata indiscutibile realtà dei numeri. Erano i primi anni Novanta quando ho iniziato a osservare sui quotidiani e ad ascoltare per bocca dei narratori dei telegiornali il diffondersi di racconti come questo. In seguito ho scoperto che arriva da ben più lontano. La storia, a quanto pare, non cambia. Ma se le storie con l’iniziale trascurabile che ci raccontiamo a vicenda resteranno immutate a prescindere da ciò che effettivamente accade là fuori, qualora ciò si ripeterà in misura eccezionale per un tempo prolungato, lo stesso succederà con la Storia di tutti. Ecco perché la Storia non cambia finché… Finché non cambierà chi la racconta, ma soprattutto chi la ascolta. Loro, io e te, noi, voi… -------------------------------------------------------------------------------- Per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- Scrittore, narratore e attore teatrale italiano, si è sempre occupato con attenzione dei temi legati alle migrazioni e ai processi interculturali e alle loro narrazioni. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La storia non cambia finché… proviene da Comune-info.
Quel consenso dato per scontato
-------------------------------------------------------------------------------- Roma, 22 novembre 2025. Foto di Patrizia Piras -------------------------------------------------------------------------------- La proposta di modifica dell’articolo 609-bis del codice penale in materia di violenza sessuale e di libera manifestazione del consenso, come noto, è stata approvata alla Camera e ora bloccata in Senato dalla Lega. Pur tenendo conto delle difficoltà che avrà l’applicazione della legge nell’azione processuale il suo valore simbolico resta innegabile. Dire infatti che senza il consenso della donna si è difronte a uno stupro significa mettere in discussione un pregiudizio di fondo della misoginia che abbiamo ereditato: quello che ha visto la donna come “la sessualità dell’uomo oggettivata”, “la sua colpa divenuta carne”. Solo rinunciando alle sue “intenzioni immorali verso di lui’, la donna può restituire l’uomo al suo “Io migliore”. Chi scrive questo è il giovane filosofo viennese Otto Weininger, morto suicida a ventitré anni, dopo aver pubblicato la sua tesi di laurea “Sesso e carattere” nel 1903. Ma attraverso di lui è tutta la cultura greco romana cristiana che parla, in quel fondamento sessista, razzista e classista, che ha visto la donna come la “maledizione” dell’uomo, la “tenebra materna” che lo vincola alle sue radici biologiche, pulsionali, al corpo e alle sue passioni più violente e degradanti. Pretendere che nella sessualità ci sia “il consenso libero e attuale” della donna vuol dire perciò intaccare alla radice l’idea che, detto volgarmente, nel caso di un’aggressione o di uno stupro, “è lei che se l’è cercata”, e che perciò “ha goduto”, lo ha desiderato. In altre parole: il consenso della donna donna è dato per scontato, perché la donna, nell’immaginario maschile trasmesso per generazioni dalla cultura dominante, è per sua “natura” essenzialmente “sessualità”. Il suo unico desiderio è il coito, essere posseduta. Della misoginia, tuttora presente nei rapporti personali, intimi, così come nelle istituzioni della vita pubblica, nelle leggi e nell’azione giudiziaria, gli esempi non mancano. Si può aggiungere che, in alcuni casi, come nel giovane filosofo viennese, gli uomini stessi ne sono vittime. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO: > Ogni chiave agitata tra le mani è una promessa -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel consenso dato per scontato proviene da Comune-info.
Il silenzio dei giusti
PENSARE IN MODO CRITICO, NON DELEGARE, CREARE INSIEME IN MODO OSTINATO SENSO E SOLIDARIETÀ. IL NOSTRO TEMPO NON CI CONCEDE L’ALIBI DELL’IGNORANZA. OGNI SILENZIO È UNA SCELTA. OGNI PAROLA È UNA SCELTA. QUALSIASI GESTO COSTRUISCE O DISTRUGGE UN PEZZO DI MONDO: VALE QUANDO CERCHIAMO DI PROTEGGERE LE DONNE E GLI UOMINI DELLA PALESTINA E DELLE GUERRE DIMENTICATE, MA ANCHE NELLA VITA DI OGNI GIORNO. “PERCHÉ ALLA FINE, COME CI INSEGNA LA STORIA, IL VERO MALE NON TRIONFA PER LA FORZA DEI VIOLENTI – SCRIVE EMILIA DE RIENZO -, MA PER IL SILENZIO DEI GIUSTI…” Foto Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- In certi momenti della Storia ci troviamo di fronte a crudeltà che sembrano superare ogni limite di accettazione. Non che la violenza o l’ingiustizia fossero assenti in epoche precedenti, ma oggi – nell’era delle immagini istantanee, delle testimonianze dirette, della connessione globale – non possiamo più voltarci dall’altra parte. La sofferenza bussa alla nostra porta ogni giorno, attraverso gli schermi, le notizie, i volti dei profughi. È come guardarsi in uno specchio e scorgere ciò che di terribile può celarsi nell’essere umano, in ogni essere umano, anche in noi. E proprio qui nasce il primo disagio: dentro di noi irrompe un’aggressività latente. La percepiamo nei gesti impazienti, nelle parole taglienti, nell’intolleranza verso chi la pensa diversamente. Questa aggressività personale ci spaventa, eppure ci rivela qualcosa di essenziale: il male storico non è un’astrazione lontana, non appartiene solo ai “mostri” della storia. È una possibilità inscritta nella condizione umana. Riconoscerlo è doloroso ma necessario: solo chi comprende la propria capacità di violenza può scegliere consapevolmente di opporvi resistenza. Hannah Arendt ci ha insegnato che di fronte al male abbiamo una scelta fondamentale: possiamo abdicare al pensiero, lasciare che altri decidano per noi, diventare ingranaggi passivi di meccanismi distruttivi. Oppure possiamo fare l’opposto: pensare, interrogarci, rifiutare le risposte preconfezionate. Per Arendt, il pensiero critico non è un lusso intellettuale ma un atto di resistenza politica. Chi smette di pensare diventa complice; chi continua a interrogarsi mantiene viva la possibilità di dire “no”. Ma pensare non basta. Erich Fromm ci aveva avvertiti: la libertà fa paura. Di fronte alla responsabilità etica – l’obbligo di scegliere, di prendere posizione, di rispondere delle proprie azioni – molti preferiscono fuggire. È più comodo affidarsi all’autorità, conformarsi al gruppo, nascondersi dietro il “così fan tutti” o “non c’è nulla da fare” . La vera sfida etica non è solo riconoscere il male, ma trovare il coraggio di opporvisi, anche quando ciò significa andare controcorrente, anche quando comporta un prezzo personale. Primo Levi ci ha mostrato con lucidità disarmante come il male si normalizzi, come diventi banale, quotidiano, quasi invisibile. La “zona grigia” di cui parlava – quello spazio ambiguo dove vittime e carnefici si confondono, dove la sopravvivenza richiede compromessi – è forse la sua lezione più inquietante. Levi non ci offre il consolante schema del bene contro il male, ma ci costringe a guardare la complessità, a riconoscere che in condizioni estreme anche le persone comuni possono essere trascinate in meccanismi di violenza. La sua testimonianza non è solo memoria storica: è un avvertimento per il presente. Albert Camus, dal canto suo, ci ricordava che di fronte all’assurdo e alla crudeltà del mondo l’unica risposta degna dell’essere umano è la rivolta. Non la violenza cieca, ma la rivolta etica: il rifiuto di accettare l’ingiustizia come inevitabile, l’impegno ostinato a costruire senso e solidarietà in un mondo che sembra negarne la possibilità. “Bisogna immaginare Sisifo felice”, scriveva, felice non malgrado la sua condanna, ma proprio perché continua a spingere il masso, perché non si arrende. Il nostro tempo non ci concede l’alibi dell’ignoranza. Sappiamo. Vediamo. Non possiamo più dire “non sapevamo”. Le sfide che ci attendono non sono astratte: sono nei campi profughi, nelle guerre dimenticate, nelle disuguaglianze che lacerano le nostre società, nei cambiamenti climatici che minacciano il futuro. Ma sono anche nelle nostre case, nelle nostre conversazioni, nelle piccole scelte quotidiane: come trattiamo chi è diverso da noi, come reagiamo all’ingiustizia quando non ci tocca direttamente, quanto siamo disposti a sacrificare del nostro comfort per un bene più grande. Ogni silenzio è una scelta. Ogni parola è una scelta. Ogni gesto costruisce o distrugge un pezzo del mondo che lasceremo. La domanda che ci interpella non è solo “cosa posso fare io, singolo individuo, di fronte a tragedie così immense?” ma anche, e soprattutto: “chi voglio essere? spettatore o testimone? complice o resistente?”. La responsabilità non può essere delegata. Non possiamo aspettare che siano sempre “gli altri” a opporsi, a denunciare, a rischiare. Ciò che siamo come esseri umani, ciò che saremo come società, si decide ora – nel modo in cui scegliamo di affrontare la crudeltà, nel coraggio di riconoscerla anche quando ci riguarda da vicino, nella capacità di resistervi anche quando il prezzo sembra troppo alto. Perché alla fine, come ci insegna la storia, il vero male non trionfa per la forza dei violenti, ma per il silenzio dei giusti. -------------------------------------------------------------------------------- > Sciopero generale e manifestazione per Gaza -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il silenzio dei giusti proviene da Comune-info.
Proteggere il lupo cattivo
UN GRUPPO DI PERSONE APPASSIONATE DELLA NATURA E DEL LUPO HA SCRITTO UNA LETTERA APERTA DAL TITOLO “BASTA FAKE NEWS SUL LUPO” PER METTERE IN DISCUSSIONE L’IMMAGINE, ALIMENTATA DA INFONDATI ALLARMISMI, PERCEPITA DALLE PERSONE COMUNI CHE È UNICAMENTE QUELLA DEL LUPO CATTIVO. OCCORRE RIBADIRE UNA REALTÀ SEMPLICE, DICE LA LETTERA CHE RACCOGLIE INTERVENTI DIFFERENTI SOTTOSCRITTI DA DIVERSE ASSOCIAZIONI: IL LUPO È UN PREDATORE CHE, SE LASCIATO IN PACE, NON RAPPRESENTA ALCUN PERICOLO VERSO L’ESSERE UMANO PERCHÉ NON È CONCEPITO DAL LUPO COME UNA POSSIBILE PREDA. “È TEMPO DI ABBANDONARE L’IMMAGINARIO DEL LUPO MANGIATORE DI NONNE E BAMBINE INDIFESE CHE DEBBONO ESSERE SALVATE DALL’UOMO ARMATO DI FUCILE E RACCONTARE AI BAMBINI ALTRE VERSIONI E ALTRE STORIE – SCRIVE BRUNA BIANCHI, TRA LE AUTRICI DELLA LETTERA APERTA – CHE LI AIUTINO NON GIÀ AD ACCETTARE L’UCCISIONE, MA CHE PARLINO DI RISPETTO E AMMIRAZIONE, CHE ALLARGHINO LA MENTE E IL CUORE, COME LE STORIE TRATTE DALLA RICCA TRADIZIONE DELLA CULTURA DEI NATIVI AMERICANI E DEGLI ESQUIMESI, O COME LA FIABA CHE LEV TOLSTOJ SCRISSE NEL 1908, IL LUPO…”. A PROPOSITO, CONOSCIAMO QUELLA FIABA? Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- “Gentilissimi tutti, con la presente, in qualità di esperti e cittadini impegnati da tempo per un corretto rapporto fra fauna selvatica e attività umane, desideriamo proporre elementi di necessaria considerazione perché sia fornita all’opinione pubblica un’equilibrata e obiettiva informazione sul lupo scevra da sensazionalismi ed elementi privi di riscontro scientifico.  Negli ultimi anni, la comunicazione messa in atto da molti giornalisti si è dimostrata totalmente priva di nozioni scientifiche, e al contempo colma di inesattezze, nonché di notizie non corrispondenti al vero, basti vedere gli innumerevoli articoli nei quali si parla di fantomatiche reintroduzioni del lupo, quando in realtà, la sua espansione è frutto solo ed esclusivamente di dinamiche naturali, o ai tantissimi casi di cani lupi cecoslovacchi che vengono puntualmente spacciati per lupi, o ai tanti testi filo-allarmistici corredati da titoloni a lettere cubitali “Allarme lupi”, “ALLARME! Lupi avvistati in zone urbane, LA GENTE HA PAURA” , e così via. Crediamo fermamente che ci sia bisogno di una comunicazione basata sulla consapevolezza e sul rispetto, sia nei confronti di un animale selvatico che è, a tutti gli effetti, un componente fondamentale per l’equilibrio ecosistemico, e sia nei confronti degli utenti che, invece di imparare, ricevono e assorbono questi scritti in maniera totalmente sbagliata e nociva, l’immagine che viene percepita dalla collettività è unicamente quella insana del lupo cattivo e non per quello che è realmente, un predatore ma che, se lasciato in pace, non rappresenta alcun pericolo verso l’essere umano, in quanto quest’ultimo non è concepito dal lupo come una possibile preda. -------------------------------------------------------------------------------- “Negli ultimi tempi assistiamo a una crescente diffusione di notizie allarmistiche sui lupi, spesso prive di un reale fondamento scientifico e basate su episodi decontestualizzati. Titoli sensazionalistici e immagini di lupi avvistati vicino ai centri abitati generano paure infondate tra i cittadini, contribuendo a una percezione distorta della realtà. I lupi, come confermato da studi scientifici e dagli enti di tutela della fauna, non rappresentano un pericolo per l’uomo. Sono animali schivi, il cui ritorno nei nostri territori è segno di un ecosistema più sano. L’aumento degli avvistamenti è dovuto, oltre alla maggiore disponibilità di cibo, anche alla diffusione di fototrappole, videocamere di sorveglianza e smartphone, che permettono di documentare situazioni che in passato passavano inosservate. Inoltre, il disturbo causato da alcune attività umane – come la caccia, il taglio indiscriminato dei boschi, la frammentazione degli habitat e il consumo di suolo – li costringe sempre più spesso a uscire allo scoperto e ad avvicinarsi ai centri abitati. Partecipare agli eventi organizzati da esperti, associazioni di volontari, guardie ecologiche e polizia locale addetta alla fauna selvatica aiuta a conoscere meglio la biologia del lupo. Ad esempio, un aumento degli avvistamenti si registra nei primi mesi dell’anno, quando i giovani lupi in dispersione, non trovando un territorio libero, si avvicinano temporaneamente alle attività umane. Questa fase è naturale e transitoria: come arriva un giovane lupo, così se ne andrà, talvolta nello stesso giorno o nel giro di poche settimane. A queste considerazioni, si unisce la mia diretta esperienza sul campo e di tanti altri che vivono i territori selvatici Come ricercatore e fotografo naturalista da oltre 40 anni, posso affermare con certezza: i lupi non sono un pericolo per noi umani. Pur entrando spesso nei loro territori, non ho mai avvertito la minima sensazione di essere attaccato, anzi mi sono sentito io l’intruso. Al contrario, il mio unico timore deriva da alcuni animali umani, in particolare coloro che svolgono l’attività venatoria (legale e illegale). L’incontro con cacciatori o pescatori illegali, anche in aree protette, in qualsiasi periodo dell’anno, è ciò che realmente mi spaventa e mi fa sentire in pericolo mentre attraverso i boschi e i sentieri del nostro bel Paese. Per questo motivo, invitiamo gli addetti stampa e i giornalisti a consultare esperti locali o nazionali di fauna selvatica prima di pubblicare notizie allarmistiche. Questi professionisti saranno lieti di fornire informazioni corrette, consentendo di realizzare articoli basati su dati scientifici. Chi legge saprà apprezzare nel tempo un’informazione responsabile e affidabile. La protezione dell’ambiente, e quindi anche dei lupi, dipende molto dalla qualità dell’informazione diffusa dai giornali, dai siti web, dai social e da tutti i media. Attenersi ai fatti e rispettare l’articolo 9 della Costituzione italiana, che sancisce la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, non è solo un dovere professionale, ma un atto di responsabilità verso le future generazioni. Chiediamo ai media e ai politici di trattare l’argomento con maggiore attenzione, consultando esperti e diffondendo informazioni corrette. Creare allarmismo non solo danneggia la percezione di questa specie protetta, ma alimenta tensioni inutili tra cittadini e istituzioni” (Antonio Iannibelli – Fotografo naturalista, guardia ecologica volontaria, studioso di lupi) -------------------------------------------------------------------------------- “La paura del selvatico, in questo caso del lupo, non è biologica, ma culturale. Ovvero non appartiene alla nostra storia bio-evolutiva di animali umani, ma da una cultura oscurantista lunga secoli se non millenni, che oggi è il caso di lasciare all’oblio del tempo. Diversamente da quanto narrato infatti, i nostri antenati preistorici non vivevano nella paura, ma nell’animalità, cioè avevano piena conoscenza del mondo naturale. Noi a quel modo di percepire e vivere il mondo dobbiamo, anzi abbiamo l’obbligo etico, di riferirci. Per questo la conoscenza dei lupi, ma anche di altri selvatici, dovrebbe essere quasi scuola dell’obbligo. Invece delle inutili ore di religione o educazione fisica, andrebbero introdotte nelle scuole ore di educazione all’animalità. In questo senso anche i media possono, devono, fare la loro parte, evitando di seminare terrore antiscientifico, ma invece spronando a conoscere, ad usare un ragionamento scientifico, a tornare ad una logica animale che noi tutti possediamo dalla nascita, ma che ignoriamo, dimentichiamo, neghiamo. I lupi rappresentano un valore, soprattutto in questi tempi oscuri, un valore per l’ambiente, per la biodiversità, per la società”. (Francesco De Giorgio – Etologo antispecista. Presidente di Sparta Riserva dell’Animalità)  -------------------------------------------------------------------------------- Per tutti i motivi sopra riportati, riteniamo che sia di fondamentale importanza, soprattutto in un momento così critico e nefasto per la fauna selvatica, che i giornalisti si avvalgano di quel principio fondamentale chiamato etica, e che si adoperino in una comunicazione sana ed equilibrata, come deontologia comanda, onde evitare allarmismo, isteria collettiva e gente che si sentirà legittimata ad agire con metodi subdoli e irrispettosi delle leggi vigenti. -------------------------------------------------------------------------------- “Il Lupo (Canis lupus) è tutelato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 12 della Direttiva n. 92/43/CEE sulla salvaguardia degli habitat naturali e seminaturali, la fauna e la flora, rientrando negli allegati II e IV, lettera a) ed è specie particolarmente protetta ai sensi dell’art. 2 della legge n. 157/1992 e s.m.i. È, inoltre, tutelato in quanto presente nell’Allegato II della Convenzione internazionale relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa (Berna, 19 settembre 1979), esecutiva in Italia con la legge n. 503/1981. L’uccisione di un esemplare di Lupo è sanzionata penalmente dall’art. 30 della legge n. 157/1992 e s.m.i., in caso di uccisione da parte di soggetto privo di autorizzazione alla caccia può integrare anche il reato di cui all’art. 625 cod. pen. (furto aggravato ai danni dello Stato). La diffusione di notizie false o tendenziose riguardo il Lupo può integrare gli estremi dell’art. 656 cod. pen., mentre il procurato allarme può integrare gli estremi previsti nell’art. 658 cod. pen.” (Gruppo d’Intervento Giuridico Onlus – Associazione ambientalista)  -------------------------------------------------------------------------------- “Ultimamente, affrontare serenamente il tema legato alla tutela della Natura, sembra essere un’ impresa davvero ardua; ci si siede un attimo, si accede ai social con la speranza di estraniarsi da tutte le notizie nefaste inerenti alle guerre, ai femminicidi, alla criminalità che, ormai, ha raggiunto livelli inenarrabili, agli innumerevoli fatti di cronaca nera che purtroppo vedono coinvolti anche tantissimi bambini, e ci si trova, invece, a essere letteralmente bombardati da articoli sul lupo, o meglio, contro il lupo, un continuo martellamento che ha la funzione di una vera e propria coercizione cognitiva, lupi descritti come demoni enormi e cattivi, lupi onnipresenti e famelici, lupi, e ancora lupi… Essendo un’assidua frequentatrice di boschi, sinceramente, non ho mai riscontrato pericolosità negli animali selvatici che, nella maggior parte delle volte, si sono dimostrati elusivi, schivi e non interessati alla mia persona, anzi, mi è capitato, più e più volte, di vederli scappare via non appena si fossero resi conto della mia presenza; fortunatamente, la comunicazione fuorviante messa in atto da molte testate giornalistiche, non mi ha portata a rinunciare alla mia passione: conoscere, studiare e difendere la Vita selvatica. Oggi come oggi, in un mondo reale davvero violento, è necessario che ogni testata giornalistica si esprima in rispetto di tutti gli utenti che, come me, desiderano essere informati in maniera corretta, e non resi “schiavi” di paure ataviche e ingiustificate. Credo fermamente che sia doveroso, da parte di chi gestisce le testate giornalistiche sui social, intervenire tempestivamente onde alienare e condannare i commenti di tutti coloro che istighino al bracconaggio, o che, in qualche maniera usino un linguaggio offensivo e irrispettoso, anche questi sono forme di violenza a tutti gli effetti che vengono percepite, e assorbite, da tanti minorenni lasciati, purtroppo, da soli davanti a un cellulare, o a un PC che sia, c’è davvero bisogno di una comunicazione costruttiva e istruttiva, la prepotenza e sopraffazione non devono essere tollerabili, è innegabile che una comunicazione faziosa e fuorviante sia causa di comportamenti scellerati, e persino di atti illeciti; camminate tranquillamente nei boschi, ma prestate attenzione agli esseri umani che sono soliti lasciare montagne di rifiuti, appiccare incendi, a commettere altri gravissimi reati , e queste pratiche non appartengono di certo alla fauna selvatica che, se lasciata in pace, non rappresenta fonte di pericolo, basta rispettare alcune regole come quella di non dare cibo, non inseguire, non disturbare, non avvicinarsi, e tenere i nostri cani al guinzaglio, per il resto, Viva il lupo! (Daniela Stabile – Attivista/volontaria, appassionata di fauna selvatica, ma prima di tutto un’utente che respinge fortemente gli attacchi incessanti alla propria mente, e al lupo)  -------------------------------------------------------------------------------- “Chi ha paura del lupo?” IO VOGLIO MOLTO BENE AL LUPO, poiché è il migliore amico del nostro popolo; oltre a ciò, egli ulula alla luna e per questo motivo ci dona gioia. Mi piace, come lui parla con noi. Il lupo è realmente il nostro migliore fratello. Egli ulula di notte, e noi ce ne rallegriamo. Fa un bel suono Il suo modo di ululare. (Recheis-Bydlinski, Sai che gli alberi parlano?, 2011, p. 100). Così ha scritto un bambino di nove anni in una delle “scuole di sopravvivenza” fondate negli anni Settanta del Novecento per i nativi americani. Lì Eddie Jaye Benton ha potuto conservare una cultura millenaria di ammirazione, rispetto, reverenza per ogni creatura vivente, in particolare per il lupo, l’animale che nella cultura occidentale è stato demonizzato, torturato e perseguitato per secoli con un accanimento che non ha eguali. Un tale rovesciamento completo di civiltà oggi sta raggiungendo il suo apice. L’immagine demoniaca del lupo, predatore insaziabile che non risparmia gli umani, riemerge con insistenza nei media. Perché questa irresponsabile campagna di denigrazione basata su disinformazione, immaginari antichi, fantasie di invasione e sull’idea di un nemico irriducibile con il quale la convivenza è impossibile e la cui sola esistenza è pericolosa? Chi la fomenta e a chi giova? Da dove proviene, in particolare la rabbia degli allevatori, come quella suscitata da un disegno infantile, apparso sul “Diario amico” , una pubblicazione distribuita nelle scuole del Verbanio Cusio Ossola, che ritrae mucche in atteggiamento di protesta contro il loro sfruttamento, invita a mangiare frutta e verdura, osa dire la verità, ovvero che gli allevamenti sono crudeli? A far esplodere la rabbia sono state alcune frasi di una bambina di 12 anni scritte a corredo del disegno, eppure, del “Diario amico” si è chiesta la soppressione e la questione è stata portata al Parlamento. È “l’ideologia vegan-animalista”, a parere della CIA-Agricoltori delle Alpi, a dover essere bandita dalle scuole, una “ideologia” che descrive il bosco (la natura, la vita) come un luogo dove si possono incontrare “simpatici animali”, ma in cui si annida il predatore. La paura è sempre stato il mezzo privilegiato per esercitare il dominio specie sull’infanzia, ma bambini e bambine, come antidoto alla paura hanno la risorsa della compassione, si identificano istintivamente con l’animale sfruttato e maltrattato e, a differenza di tante persone adulte, non sono inclini all’apatia e all’indifferenza. La compassione può essere offensiva solo in un mondo dominato dalla violenza, da una visione della vita come teatro di lotta, guadagno e affermazione di potere. E dovremmo dire loro anche che gli animali sono oggetti, che esistono solo per la nostra utilità? Si possono uccidere per svago o per nutrirsene, anche se non è per noi una questione di sopravvivenza? Non è del lupo che dobbiamo avere paura, ma di questa volontà di soffocare anche il più piccolo segno di protesta che non esita a ricorrere all’intimidazione dell’infanzia, comportamento ben poco onorevole. I messaggi rivolti all’infanzia, infatti, sono in misura crescente rivolti all’uccisione: è giusto nutrirsi di animali tormentati e uccisi, è doveroso accettare la guerra, è un piacere la caccia, il tutto ammantato di false teorie e distorsioni. È tempo di abbandonare l’immaginario del lupo mangiatore di nonne e bambine indifese che debbono essere salvate dall’uomo armato di fucile e raccontare ai bambini altre versioni e altre storie che li aiutino non già ad accettare l’uccisione, ma che parlino di rispetto e ammirazione, che allarghino la mente e il cuore, come le storie tratte dalla ricca tradizione della cultura dei nativi americani e degli Esquimesi, o come la fiaba che Lev Tolstoj scrisse nel 1908, Il lupo, in cui il romanziere e autore influente di pedagogia antiautoritaria suggerisce ai bambini di rinunciare all’alimentazione carnea e coltivare un rapporto con la natura improntato alla nonviolenza.  Invece di dare risonanza a infondati allarmismi, di far risuonare l’eterno grido “Al lupo! Al lupo!”, la stampa potrebbe avere un ruolo importante nel contrastare la spirale della violenza: raccogliere e diffondere voci diverse e tratte da diverse fonti, ad esempio dando conto di quelle ricerche che hanno dimostrato come la riduzione del numero dei lupi non incida che in percentuale minima sull’uccisione di pecore e bovini, o quelle che hanno accertato che i lupi isolati, senza il supporto di un branco decimato dalla caccia, non possono che rivolgersi agli animali domestici. E in altri mille modi che la sensibilità e l’informazione rigorosa di giornalisti e giornaliste potranno suggerire loro”. (Bruna Bianchi – Docente di Storia delle donne e Storia del pensiero politico all’Università Ca’ Foscari di Venezia, studiosa del pacifismo, del femminismo e della nonviolenza, scrive costantemente su Comune) -------------------------------------------------------------------------------- Con la speranza che si possa intraprendere un cammino davvero istruttivo, e certi di un’ ampia collaborazione da parte dei signori giornalisti affinché il lupo, la fauna selvatica, e gli stessi esseri umani, smettano di essere strumentalizzati, porgiamo i nostri più cordiali saluti. Le parti scriventi: Bruna Bianchi, Daniela Stabile, Stefano Deliperi, Antonio Iannibelli, Francesco De Giorgio, Sottoscrivono il testo le seguenti associazioni: AVC Associazione Vittime Italian Wild Wolf Network, Gruppo D’ Intervento Giuridico, Sparta Riserva Dell’ Animalità, CABS Italia, l’antibracconaggio  -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI BRUNA BIANCHI: > I lupi, la caccia, la guerra -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Proteggere il lupo cattivo proviene da Comune-info.
L’Italia della paura
-------------------------------------------------------------------------------- Mercato Pignasecca, uno dei più antichi di Napoli. Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- L’Italia da anni vive dentro un paradosso che è ormai diventato la sua cifra politica e culturale: più la società si impoverisce, più cresce la domanda di sicurezza. È un automatismo che non nasce dal caso, ma da una precisa dinamica economica e sociale. Le persone che vivono nella precarietà, schiacciate da salari bassi, servizi carenti, vita instabile, si sentono più esposte, più fragili, più sole. La paura, in un tale contesto, non è un’emozione: è un prodotto sociale, quasi un sottoprodotto dell’austerità, dell’erosione del welfare, della cancellazione dei diritti. Eppure, invece di affrontare le cause strutturali dell’insicurezza – la precarietà del lavoro, le disuguaglianze crescenti, la desertificazione dei servizi pubblici, la povertà abitativa – la politica ha scelto per anni la scorciatoia più redditizia: trasformare la paura in consenso. Il centrodestra ha fatto di questo meccanismo un’arte, costruendo su di esso un’egemonia culturale che oggi appare quasi inscalfibile. Gli basta sollevare il tema della sicurezza, agganciarsi a un fatto di cronaca qualsiasi, amplificarlo fino alla distorsione, e usarlo per dipingere un Paese invivibile, assediato da nemici interni ed esterni. È un copione che conosciamo bene: paura-audience-consenso. Una catena che si autoalimenta e che non richiede soluzioni, solo narrazioni. Non importa che i reati siano in calo: ciò che conta è la percezione, che può essere manipolata con estrema facilità. La destra rende il Paese più impaurito, e un Paese impaurito vota per chi promette ordine, disciplina, repressione. Una macchina perfetta, che produce insicurezza per poi venderne la cura. Il centrosinistra, di fronte a questa strategia, non solo è apparso incapace di proporre un discorso alternativo, ma spesso si è consegnato alla logica dell’avversario. Diviso, litigioso, ripiegato su ambiguità e tatticismi, ha rinunciato a imporre un tema che parli ai bisogni materiali del Paese: lavoro, casa, cure, istruzione, diritti. Ha inseguito la destra sul terreno della sicurezza, accettandone le categorie, adottandone persino la lingua. Così facendo, ha contribuito a legittimare un immaginario sicuritario che è esattamente ciò che blocca ogni possibilità di cambiamento. Il risultato? L’Italia rimane imbrigliata in una doppia assenza: assenza di welfare e assenza di alternativa. Ma nel frattempo, qualcosa di più profondo è cambiato. Siamo di fronte a una mutazione antropologico-cognitiva che ha riscritto le fondamenta del discorso pubblico. L’uguaglianza, per anni pilastro della cultura politica italiana, è stata sostituita dalla legalità. La giustizia sociale è stata rimpiazzata dal giustizialismo. Il conflitto sui diritti e sulle risorse è stato cancellato e sostituito dal conflitto identitario, dal linciaggio morale, dalla caccia al colpevole. La cronaca nera è diventata il principale prisma attraverso cui osserviamo noi stessi. Tutti si percepiscono “giusti”, e i “colpevoli” sono sempre gli altri: i poveri, i migranti, i giovani, i marginali, chi non può difendersi. La logica del capro espiatorio domina la scena. Si invoca la gogna, il processo mediatico, la punizione esemplare. È un rito collettivo che non risolve, non spiega, non approfondisce. Serve solo a canalizzare la rabbia di un Paese sempre più impoverito contro bersagli facili, distogliendo lo sguardo da chi quella rabbia la produce. Basta salire su un treno, ascoltare le conversazioni, leggere i commenti sui social: ovunque si respira risentimento, sospetto, incattivimento. Non è un tratto caratteriale: è il risultato politico di un impoverimento materiale e simbolico che dura da decenni. Su questo terreno il governo Meloni ha costruito la propria identità. La risposta è sempre la stessa: più forze dell’ordine, più controlli, più repressione. Ogni fragilità sociale diventa devianza, ogni disagio diventa minaccia. La sicurezza non è una politica, ma un dispositivo ideologico: serve a giustificare misure eccezionali, a spostare il discorso pubblico, a disciplinare i corpi e le menti. Perfino la scuola, luogo per eccellenza del pensiero critico, viene inglobata nel paradigma sicuritario: presidi di polizia, lezioni sul rispetto dell’autorità, punizioni esemplari. Ma una scuola che educa alla paura e all’obbedienza non è più scuola: è il preludio culturale dell’autoritarismo. Eppure i numeri raccontano un’altra storia. L’Italia è oggi il Paese europeo che, in proporzione, spende di più per la sicurezza pubblica e privata. Abbiamo un apparato sicuritario ipertrofico, che cresce mentre il welfare arretra. E tuttavia nessuno – né governo né opposizione – ha mai avviato una valutazione seria dell’efficacia degli strumenti utilizzati. Ad esempio per le politiche migratorie: l’80% dei fondi destinati ai migranti viene speso in misure di repressione, solo il 20% in integrazione, formazione, sostegno. È un modello fallimentare che produce marginalità anziché ridurla. Ma funziona benissimo come propaganda. Intanto, la spesa sociale italiana è sotto la media europea di due punti e mezzo di Pil. Il sottofinanziamento è evidente ovunque: politiche abitative inesistenti, sostegno al reddito insufficiente, servizi per i non autosufficienti drammaticamente carenti. È qui che nasce la vera insicurezza: nella solitudine dei lavoratori poveri, delle famiglie senza casa, degli anziani abbandonati, dei giovani senza prospettive. Eppure nessuno ha il coraggio di dirlo. Perché parlare di welfare, di diritti sociali, di redistribuzione significa spostare l’attenzione dal nemico inventato al nemico reale: un modello economico che genera precarietà e un paradigma politico che la trasforma in paura. Invertire questo ordine del discorso è un’urgenza democratica. Significa affermare che la sicurezza non è il contrario della libertà, ma della disuguaglianza. Significa dire che l’Italia non è più povera perché “invasa”, ma perché sfruttata. Che non è più insicura perché ci sono “troppi giovani fuori controllo”, ma perché non ha case, scuole, sanità, salari adeguati. Che la repressione non è una politica, ma una rinuncia alla politica. Ricostruire un immaginario alternativo significa rimettere al centro ciò che tiene insieme una società: la cura, il lavoro, la dignità, i servizi pubblici, la solidarietà. Significa dire chiaramente che la sicurezza reale – quella che cambia la vita delle persone – nasce da un welfare forte, non da uno Stato armato. Nasce da case accessibili, da salari dignitosi, da scuole libere, da quartieri vivi. L’Italia non è condannata all’incattivimento. Ma per invertire la rotta serve un atto di coraggio politico: rompere la liturgia della paura, smontare la retorica tossica della legalità come surrogato dell’uguaglianza, rifiutare l’idea che il controllo sia la risposta universale ai problemi del Paese. Serve ricostruire un movimento culturale e politico capace di dire che un’altra Italia non solo è possibile, ma è necessaria. Una politica che protegge invece di punire, che crea orizzonti anziché fantasmi, che non alimenta l’emergenza ma rivendica il futuro: è da qui che bisogna ripartire. Il resto è solo gestione del declino. -------------------------------------------------------------------------------- Italo Di Sabato, coordinatore Osservatorio Repressione -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MARCO REVELLI: > La paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’Italia della paura proviene da Comune-info.
Il furto di futuro e i suoi disertori
-------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea dello straordinario movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”). Oltre un miliardo di persone vivono in baraccopoli in tutto il mondo -------------------------------------------------------------------------------- Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo 1984. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte “sud” o “nord” del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre cinquanta guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora. La strategia di controllo mirato e spesso istituzionalmente violento delle migrazioni internazionali conferma, specie nelle migliaia di morti alle frontiere, l’arbitraria e spesso definitiva sottrazione del futuro a che aveva il diritto di cercarlo altrove. Non c’è nulla di più grave, nella vita umana, della confisca o dell’esproprio del futuro. Prendere come ostaggio il futuro di un popolo, di una classe sociale o di età è commettere un crimine le cui conseguenze sono irreparabili. Non casualmente i politici, i generali, i commercianti e i religiosi promettono, ognuno a suo modo, un futuro differente ai sudditi, cittadini, fedeli o semplicemente clienti. Passato, presente e futuro si giocano nell’oggi che sfugge per distrazione, manipolazione o per scelta. I tempi sono stagioni che abbiamo comunque vissuto, sperato e atteso nell’apertura all’inedito di un futuro che pensiamo possibile. Tutti inconsciamente crediamo, come fanno i contadini, che si seminano oggi i grani conservati dal passato per raccoglierne, domani, i frutti. Si ha fiducia che il futuro non sia totalmente deciso o addirittura precluso dal luogo della nascita o dalle circostanze avverse del destino. Attentare alla speranza che domani non sia la banale ripetizione dell’oggi o di quanto già vissuto nel passato ma avventura di un altro mondo possibile è il più spietato dei genocidi. “Della perdita del passato – scrive nel romanzo I disorientati, lo scrittore libanese-francese Amin Maalouf – ci si consola facilmente, è dalla perdita del futuro che non ci si riprende“. L’orchestrata rapina del futuro passa anche attraverso la propaganda, la società dello spettacolo, le ideologie millenariste che si ostinano a promettere la felicità e l’eldorado per domani. Prima però sono necessari sacrifici, rinunce e sofferenze. Domani, certamente, arriverà Godot, personaggio enigmatico nel teatro dell’assurdo dell’irlandese Samuel Beckett. Godot non arriverà mai sulla scena e i due protagonisti passeranno il tempo in una tragica attesa senza futuro. Si mutila il futuro dei poveri tradendone i sogni con politiche economiche basate sull’esclusione e la morte. Si instilla nell’educazione in famiglia e negli istituti scolastici la paura del futuro perché non controllabile o semplicemente incerto. L’inverno demografico dell’occidente economicamente abbiente non è che un sintomo, peraltro di un’eloquenza unica, dell’espulsione del futuro di un’intera civiltà. Non è dunque casuale che, nella presente fase storica ci sia una moltiplicazione di campi di detenzione per i migranti e carceri contestualmente saturate. In entrambi i casi il futuro è letteralmente sospeso o spento. Fortuna ci sono loro, i disertori. Non seguono le indicazioni di percorso tracciate anzitempo dai maestri del tempio e i dottori della legge. Non aderiscono ai progetti confezionati o ai piani stabiliti dagli illuminati del sistema o l’intelligenza artificiale. Tra loro si trovano i poeti e i resistenti di ogni tipo che ridanno senso, gusto e vita alle parole cadute in disuso. Disertano come possono i paradisi occasionali e tutto ciò che sembra assicurare il successo. Si contano numerosi tra i marginali e in genere i poco importanti della società che conta. Non hanno fatta propria l’arte della guerra. Vivono nella loro patria ma come stranieri, ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Ilfattoquotidiano.it -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Organizzare la nostra disperazione -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il furto di futuro e i suoi disertori proviene da Comune-info.