Tag - Clima

Mezzo mondo come Gaza?
-------------------------------------------------------------------------------- Torre del Greco, foto di Gaza freeStyle -------------------------------------------------------------------------------- Come sarà il mondo di domani? Gran parte di esso, oltre la metà, sarà come è adesso Gaza e come era stata, ormai quasi un secolo fa e oltre, gran parte della comunità ebraica europea. Si sta avverando la tremenda profezia di Primo Levi: è successo, può succedere ancora. Intere popolazioni, giudicate superflue o dannose, si ritroveranno rinchiuse entro confini invalicabili, senza poter andare altrove perché nessuno le vuole, condannate allo sterminio con bombardamenti, cacce all’uomo, o per fame, sete, malattie non curate, accampate in territori lunari perché tutto quello che avevano deve essere distrutto per comprometterne la sopravvivenza. Gaza – come ha rilevato Ida Dominejanni – è un esperimento per abituare i popoli a convivere con lo sterminio altrui e ad accettarlo come inevitabile; proprio come i governi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti stanno abituando anno dopo anno i loro cittadini – noi – a convivere e ad abituarsi allo stillicidio di rastrellamenti, deportazioni, annegamenti, morti, torture, violenze di ogni genere inflitte alla “genti in cammino” (people on the move) che cercano di abbandonare le loro terre di origine perché lì la vita è diventata impossibile, ma che nessun altro Paese accetta, se non per il tempo necessario a spremere dai loro corpi, dalle loro famiglie, dalle loro vite, tutto quello di cui è ancora possibile appropriarsi. Fantapolitica? No, semplice previsione di quello che non vogliono farci vedere i nostri governanti, i media che li assecondano, gli accademici e gli intellettuali che chiudono gli occhi. Entro la fine del secolo – ne abbiamo già consumato un quarto – più di metà della Terra sarà inabitabile: qualunque provvedimento venga preso oggi, i ghiacci delle calotte polari e dei ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello del mare a crescere e gran parte delle terre costiere, con il loro entroterra, verranno sommerse. I fiumi cesseranno di scorrere regolarmente, alternando piene devastanti a periodi di siccità, i raccolti continueranno a soffrirne, le foreste a bruciare senza acqua per spegnerle, le epidemie a imperversare. Crisi climatica e ambientale e migrazioni sono strettamente connesse: più si faranno sentire gli effetti della prima, destinati a crescere, più il numero dei profughi ambientali aumenterà in modo esponenziale. Ad accrescerne gli effetti concorrono poi le guerre a cui i governi di tutto il mondo stanno destinando i fondi che hanno negato e continuano a negare alla “transizione” (in realtà, alla conversione ecologica, che non è solo un processo tecnico ed economico, ma anche e soprattutto culturale, sociale, morale e democratico e che per questo viene osteggiata con sempre maggior ipocrisia). Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) e Parag Khanna (Il movimento del mondo, Fazi, 2023), due studiosi che hanno cercato di guardare il futuro, concordano nel delineare un panorama come questo, ma loro sono ottimisti. Vince immagina che metà della popolazione mondiale, in fuga dalle terre di origine, troverà ospitalità nelle aree subartiche del pianeta, rese fertili e praticabili dal riscaldamento globale; le migrazioni giovano sia a chi le fa che a chi le accoglie, sostiene. Inoltre, tra un secolo la geo-ingegneria potrà restituire poco per volta vivibilità al pianeta devastato. Khanna, altrettanto fiducioso nei benefici della tecnologia, sostiene che essa – grazie soprattutto ad aria condizionata, colture idroponiche, desalinatori, energie rinnovabili e molto denaro – creerà isole vivibili anche in aree desertiche, énclave aperte alle persone dotate di professionalità e spirito di iniziativa, provenienti da tutte le parti del mondo. Per tutti gli altri, quelli non qualificati, la recuperata vivibilità delle aree subartiche offrirà comunque l’opportunità di una vita da schiavi. Nessuno dei due prende però in considerazione che l’alternativa possa essere invece uno scenario “alla Gaza”. Ma questo è. Come pensiamo che possano sopravvivere in territori devastati dalla catastrofe climatica e ambientale le popolazioni che li abitano oggi? Dove pensiamo che possano trasferirsi, senza essere respinti, tutti coloro che “a casa loro” non potranno più vivere? O addirittura che una casa loro non l’avranno più, perché sommersa dalle acque, o bruciata dalla siccità o dagli incendi? E come pensiamo che reagiranno i governi dei Paesi – “sviluppati” o no che siano – nei quali cercheranno rifugio quelle popolazioni tutte intere, se già ora, di fronte all’arrivo alla spicciolata delle avanguardie di quelle genti in cammino, i governi degli Stati forti mettono in atto politiche di respingimento basate sempre più sugli strumenti e le modalità della guerra? La vera guerra a cui ci stanno preparando. Se proiettate su uno scenario di lungo periodo – quello in cui, diceva Keynes, siamo tutti morti – le misure per respingere i migranti adottate oggi dai governi appaiono sì ciniche e spietate, ma anche risibili e inadeguate. Ma in realtà fungono da scuola per addestrare tutti noi ad accettare come normali quelle politiche di sterminio: esattamente come ci succede per Gaza. Ovviamente tutto questo ha delle ripercussioni anche sugli Stati che “si difendono dall’invasione” dei profughi: militarizzazione, sospensione o abolizione di diritti e welfare, violazione delle convenzioni, razzismo di Stato e fascismo. Gli Stati Uniti di Trump stanno aprendo la strada a tutti gli altri Stati, retti da tempo da governanti che aspettavano solo di dovergli “baciare il culo”. D’altronde la strada è quella anche senza Trump. Di fronte a prospettive del genere, purtroppo evidenti, l’inerzia nei confronti della crisi climatica e ambientale mostrata dai nostri governanti – tutti proiettati a combatterne le conseguenze e non le cause – ma anche quella dei popoli, cioè di noi tutti, sembra paradossale. Ma si spiega con il senso di impotenza che tutti – governi e forze politiche comprese – avvertono anche se cercano in tutti i modi di non prenderne atto. È la dismisura tra le dimensioni di questi processi e la capacità di agire di una popolazione atomizzata, senza riferimenti culturali, sociali e politici condivisi, se non quelli “di piccola e piccolissima taglia”: le mille associazioni e comitati a cui molti di noi partecipano senza trovare alcun riscontro nel mondo della politica. Potremmo però indirizzarle meglio, quelle pratiche, per costruire le ridotte da cui affrontare il futuro feroce che incombe: rendere il più possibile resilienti e vivibili i territori che abitiamo, mostrare che l’accoglienza – anche su scala ridotta – può tradursi in benefici per tutti, far conoscere e valorizzare le esperienze positive, battersi in tutti i modi per il disarmo. Troppo poco? E che altro, per ora? -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Create due, tre, molte arche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Mezzo mondo come Gaza? proviene da Comune-info.
[2025-06-05] A che ora è la fine del mondo? @ Casilino Sky Park
A CHE ORA È LA FINE DEL MONDO? Casilino Sky Park - Viale della Bella Villa, 98 (giovedì, 5 giugno 18:00) Casilino Sky Park, Roma 5 giugno 2025 dalle 18 alle 24 Una serata di podcast, docufilm, libri e musica per sconfiggere insieme l’ecoansia. IL PROGRAMMA: Presentazione del progetto con Fusolab Come ridurre l’impronta ecologica delle pratiche artistiche e culturali? Un momento di confronto sulle buone pratiche per ridurre l’impronta ecologica delle attività artistiche e culturali. Dalle sperimentazioni alle sfide aperte, un dialogo su cultura e sostenibilità. Presentazione Il Glossario Ecologista - Le Parole Giuste Una riflessione sul linguaggio della crisi climatica e delle ingiustizie ambientali. Parole nuove per raccontare vecchi conflitti e desideri radicali. Presentazione dei podcast Yo Defensora - una storia colombiana e Almas - Le anime della Colombia | con Laura Greco e Valerio Nicolosi Le voci della resistenza indigena e della memoria dei conflitti in Colombia, che raccontano storie di chi difende la terra a rischio della propria vita. Presentazione della Campagna RAEE promossa da EconomiaCircolar.com, Erion WEEE, Junker app e A Sud, che sensibilizza e coinvolge la cittadinanza sul riciclo e sulla raccolta consapevole di elettrodomestici e dispositivi elettronici rotti o inutilizzati Proiezione di un estratto del documentario Materia Viva, promosso da Erion WEEE e Libero Produzioni, un appello corale a coniugare sviluppo tecnologico e sostenibilità ambientale. Apericena climatica Live di Nubras e Generic Animal Due performance per chiudere la giornata con energia e bellezza. Musica per danzare via l'eco ansia e immaginare insieme altri mondi possibili. È l’inizio dell’estate. Brindiamo. A ciò che ci spaventa. A ciò che ci unisce. A tutto quello che possiamo ancora cambiare. “A che ora è la fine del mondo?” è un evento culturale, politico e relazionale che rifiuta le soluzioni facili e il greenwashing, scegliendo invece la cura, la complessità e la radicalità. È un invito a guardarsi negli occhi, costruire comunità, e brindare – con consapevolezza – a ciò che possiamo ancora cambiare.
La geoingegneria è colonialismo climatico
COME MAI I MEGARICCHI DELL’OLIGARCHIA TECNOLOGICA HANNO GENEROSAMENTE FINANZIATO IL FORUM GLOBALE SULLA GEOINGEGNERIA SOLARE CHE SI È APPENA SVOLTO IN SUDAFRICA? PERCHÉ VEDONO LA GEOINGEGNERIA COME IL MODO TECNOLOGICO PER FINGERE DI DOMARE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SENZA TOCCARE LE CAUSE. LO SVILUPPO DELLA GEOINGEGNERIA SOLARE PROVOCHERÀ GRAVI SICCITÀ E INONDAZIONI, SOPRATTUTTO NEI PAESI TROPICALI. L’AFRICA, DEL RESTO, È STATA GIÀ PER SECOLI UN LABORATORIO DI SPERIMENTAZIONE OCCIDENTALE, DAI TEST MEDICI AI RIFIUTI TOSSICI, RICORDANO ALCUNE RETI AFRICANE: CON LA CRISI CLIMATICA, ARRIVA LA NUOVA ONDATA DI ESPERIMENTI PERICOLOSI CHIAMATA GEOINGEGNERIA Ravenna, aprile 2025: conferenza OMC Med Energy, protesta contro il greenwashing delle aziende fossili e del governo (foto Extinction Rebellion Italia) -------------------------------------------------------------------------------- Dal 12 al 16 maggio 2025, la ONG britannica Iniciativa Degrees (ID) ha organizzato in Sudafrica un forum globale sulla geoingegneria solare, al quale si è rivolta la maggioranza degli attori chiave che la promuovono. Sia coloro che spingono queste rischiose proposte tecnologiche, sia quelli che le finanziano, sono nella loro grande maggioranza gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri paesi del nord globale che sono tra i principali responsabili del caos climatico che soffriamo in tutto il pianeta, soprattutto nei paesi del sud. Per questo motivo hanno bisogno di mostrare che la geoingegneria potrebbe servire nei paesi del sud, anche se in realtà è tutto il contrario. Lo sviluppo globale della geoingegneria solare provocherà gravi siccità e inondazioni, soprattutto nei paesi tropicali. È inoltre impossibile governare democraticamente, per cui esiste un’iniziativa globale di oltre 500 scienziati che propongono un trattato internazionale di non utilizzo di questa tecnologia (https://www.solargeoeng.org/). “Invece di ascoltare le soluzioni reali alla crisi climatica proposte dalle popolazioni indigene e dalle comunità locali, la ricerca nella geoingegneria solare è una distrazione, che dà ai contaminatori un’altra scusa per continuare con i loro affari come sempre, continuare con l’estrattivismo, principale causa delle emissioni di carbonio in Africa, e eludere la sua responsabilità storica nella crisi climatica”, scrivono Kwami Kpondzo della Coalición Mundial por los Bosques en Togo e Josué Aruna de la Sociedad para la Conservación de la Cuenca del Congo, República Democrática del Congo. Questo forum dell’Iniciativa Degrees rappresenta un tentativo di normalizzare la ricerca sulla manipolazione della radiazione solare in Africa, sotto il pretesto della “partecipazione dei paesi allo sviluppo” spiegano (https://tinyurl.com/24st8k3h). Proprio per questo l’ID ha invitato al forum diversi ricercatori africani e latinoamericani (di Messico, Argentina, Brasile, Cile e Giamaica) che hanno ricevuto piccoli progetti di geoingegneria solare che dicono siano “solo” per studiare l’impatto di tali proposte sulle nostre regioni. In Africa e Asia hanno finanziato una dozzina di progetti in ogni regione, e in America Latina dieci progetti, tra cui tre con ricercatori dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Cambiamento Climatico dell’UNAM, che considerano l’uso della geoingegneria solare rispetto ai rischi del cambiamento climatico. Questo approccio ristretto prende in considerazione solo alcuni impatti, non l’intera gamma di rischi che comporta la geoingegneria, il che si traduce in un modo per normalizzare questa pericolosa proposta (https://tinyurl.com/4vprpyf7). “Non ci sono dubbi: questo è colonialismo climatico mascherato, e noi africani lo abbiamo già visto accadere in passato. Le organizzazioni della società civile africana hanno denunciato la Degrees Initiative come un atto di colonialismo climatico volto a cooptare il movimento africano, il mondo accademico e i giovani, minacciando la sovranità, gli ecosistemi e il futuro dei popoli africani”, hanno aggiunto, riferendosi alla dichiarazione rilasciata dalla Don’t Tamper with Mother Earth (HOME) Alliance (https://tinyurl.com/ms39ctss). L’Iniziativa Degrees con i suoi progetti “nei paesi del sud” è il più grande investimento nel lavaggio dell’immagine della geoingegneria. La ricercatrice Anja Chalmin, ha analizzato i suoi progetti e ha mostrato come questa ONG britannica impone la sua agenda e le sue linee guida ai ricercatori del sud, poiché la maggior parte dei direttori e dei ricercatori principali provengono da istituzioni del nord globale, e che questi hanno messo il loro nome sull’80 per cento delle pubblicazioni, approfittando così dei fondi per il sud (https://tinyurl.com/mtk4xvh9). Questo forum globale è stato generosamente finanziato, il che non è strano. I megaricchi dell’oligarchia tecnologica globale vedono la geoingegneria come il modo tecnologico per “domare” il cambiamento climatico senza toccare le cause. È particolarmente preoccupante che l’Agenzia governativa per la ricerca e l’innovazione avanzata (ARIA) del Regno Unito, ha annunciato il 7 maggio che finanzierà con circa 75 milioni di dollari 21 progetti di geoingegneria, che includono cinque esperimenti all’aperto in altri paesi, non nel loro territorio. L’ID e diversi suoi ricercatori riceveranno anche parte di questi fondi (https://tinyurl.com/2emudrwf). È significativo che questa potenza imperialista di lunga data finanzi esperimenti sul campo della geoingegneria in altri paesi. Come dicono Kpondzo e Aruna, “l’Africa è stata per secoli un laboratorio di sperimentazione occidentale, dai test medici ai rifiuti tossici. Con la crisi climatica, ora arrivano con la loro nuova ondata di esperimenti pericolosi, la geoingegneria“. “Questo non è lo sviluppo di capacità del sud [come sostengono i ricercatori finanziati da Degrees], ma la cattura di capacità. Cercano di creare una narrativa che queste tecnologie giovano all’Africa, quando chiaramente servono gli interessi di coloro che storicamente hanno sfruttato il nostro continente”. Sono le stesse intenzioni in America Latina. Continuare a riscaldare il pianeta con l’altissima domanda di energia e risorse dei più ricchi, e usare il sud globale come laboratorio. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su La Jornada (e qui con l’autorizzazione dell’autrice, traduzione di Comune) -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La geoingegneria è colonialismo climatico proviene da Comune-info.
Il sogno della terra nel blackout del capitalismo
UN ROMANZO SAGGISTICO DI CRITICA SULLA CATASTROFE CLIMATICA PROVOCATA DAL CAPITALISMO. UN ROMANZO CAPACE DI COMPORRE L’ARCHIVIO DELLE ALTERNATIVE STORICHE ALL’ECOCIDIO. UN ROMANZO CHE SI FA LEGGERE NON PER IL PIGLIO STATAL-RIFORMISTA DELLE PROPOSTE, MA PERCHÉ DISPIEGA LA MAPPA DELLE QUESTIONI ESISTENZIALI NEL LUNGO RACCONTO TECNO-POLITICO DEI POTERI CHE SOFFOCANO IL MONDO. PAOLO VERNAGLIONE BERARDI LEGGE IL MINISTERO DEL FUTURO DELLO SCRITTORE DI FANTASCIENZA KIM STANLEY ROBINSON, PARTENDO DALL’ARTICOLO IL BLACKOUT COME RIVELATORE DI AMADOR FERNÁNDEZ-SAVATER Roma, luglio 2022: il rogo del Parco di Centocelle. Foto di Antonio Citti -------------------------------------------------------------------------------- Cosa ha generato il blackout di fine aprile innescato da un guasto su una linea di trasmissione ad alta tensione tra la Catalogna francese e quella spagnola? Il guasto tecnico, o meglio tecnologico si è raddoppiato nel guasto proficuo delle identità, nel riflusso dei generi, nella produzione di un tempo fluido che per ore ha bloccato l’estrazione di risorse psicofisiche da appropriare, normare, scambiare al nocivo mercato delle solitudini e del disagio quotidiano. In quelle ore di buio sono saltate le ordinarie gerarchie sociali ed affettive rubricate nell’ordine simbolico maschile e, come ha scritto il filosofo Fernández Savater, si è ritrovata la fonte solidale delle parole e degli incontri sconosciuti, dei passi e delle cautele, delle risa e delle sagome impreviste. Il passo che vede, il tatto che ascolta, la vista che riposa e non sovrasta il gusto delle voci. Un’ecografia delle possibilità di conoscenza si è aperta, una breve e intensa lettura della terra respira e invoca grazia, creando un’altra storia possibile, là e adesso. Se l’analogia è lecita, quanto è successo in Spagna e in Portogallo evoca un romanzo pubblicato nel 2022 da Fanucci, Il Ministero per il futuro dell’affermato scrittore di fantascienza Kim Stanley Robinson. Siamo poco prima della metà del XXI secolo, tutto è già residui e rovine del capitalismo nelle sue estremità più deflagranti, cioè le periferie del mondo in cui si consuma la catastrofe climatica. Un’ondata di caldo micidiale uccide in India la popolazione di un intero stato e Frank May, un volontario che opera nell’Uttar Pradesh prova a guidare i sopravvissuti fino al lago già infuocato e inquinato. Il disastro provoca la reazione delle cosiddette istituzioni internazionali e viene creato il Ministero per il futuro, un ente intergovernativo mondiale che dovrebbe provvedere alla difesa dei viventi. Mary Murphy presiede il Ministero mentre la setta ecoterrorista dei Figli di Kali compie attentati che abbattono aerei e affondano navi per protestare contro l’aumento delle emissioni di CO2 . Il romanzo è dedicato a Frederic Jameson, critico fenomenale del capitalismo imperiale e dell’estetica realista neoliberale, da poco scomparso, e in qualche modo ne continua la linea di pensiero, aggiornandola al movimento del capitalismo di guerra e di sterminio di terre e di vite. La forma è quella di un romanzo saggistico imbastito da una scrittura piana che racconta tutto e che si converte di continuo in un saggio romanzato di 550 pagine di scrittura piana in cui è distribuito il tempo del mondo e che racconta tutto della distruzione. I due registri si alternano aprendo la trama a una moltitudine anonima di voci: a parlare è la materia della terra ed è la mente storica di piante, animali, oceani e geografia a stendere uno spazio infinito di lettura dei micidiali fenomeni di devastazione. È un romanzo critico questo, in due sensi entrambi positivi. In primo luogo perché è una critica incessante del mondo rovinato che ricostruisce la storia del presente. In secondo luogo perché è una critica di quell’estetica che separa narrativa e sociologia, saggio e racconto. Il racconto è un intarsio di molte storie, un mille e una notte anti-fantastico perché accorcia la portata del futuro prossimo all’oggi revocandone l’immaginazione. I grandi bacini glaciali artici e antartici contengono ghiaccio che scivola sempre più velocemente verso il mare, e non è cosa della metà di questo secolo ma di ora. Il numero di specie a rischio di estinzione è ai livelli del permiano. Il 99 per cento della fauna è composto da umani e loro animali domestici che soffrono. Il coefficiente di Gini che misura le disparità di reddito nell’era neoliberale è aumentato allineandosi ad altri indici di ineguaglianza. Siccità, uragani, consumo di suolo e aumento esponenziale di CO2 hanno reso inabitabile gran parte dell’ambiente. Nel 1998 in Svizzera la Società a 2000 watt ha calcolato che 2000 watt di energia a testa per tutta la popolazione della terra bastano per una buona vita, per questo «non dovrebbero esistere i miliardari». Dunque, l’idea del Ministero è creare il carboncoin, una criptovaluta che opera in blockchain, cioè un registro pubblico che tiene traccia di tutta la moneta creata e di tutte le transazioni, sostenuta dalle dieci banche centrali più potenti. É una valuta che ricompensa le azioni a sostegno della biosfera. La si combina con l’imposta sulle emissioni: si è tassati se si emette CO2 e si è pagati se la si sequestra. Le banche centrali pubblicano il tasso di rendimento che prevedono di pagare in futuro, incentivando una “posizione lunga” degli investitori a vantaggio delle future generazioni, e impostano la rendita a un valore basso in modo da far percepire la moneta come bene rifugio. Nel romanzo la manovra della moneta post-capitalista riesce e riesce anche l’operazione Antartide: nei trenta ghiacciai più grandi del pianeta, in Antartide e in Groenlandia, pompe a turbina sparano l’acqua di disgelo in superfice affinché ricongeli per aumentare la massa di ghiaccio. In questo modo si sarebbe rallentato lo scivolamento in mare dei ghiacciai. Queste procedure combinate con altre undici misure globali nel corso degli anni avrebbero consentito alla terra di ritessere terre e forme di vita. In elenco: un prezzo per il carbonio. Standard di efficienza per le industrie. Politiche di utilizzo del suolo: regolamentazioni delle emissioni di processi industriali. Politiche nei settori delle energie complementari. Standard per le energie rinnovabili. Regole su standard edilizi ed elettrodomestici. Standard per il risparmio di carburante. Trasporti urbani efficienti. Veicoli elettrici. Sconti sulle imposte per il sequestro di emissioni carboniche. Si tratta di leggi, scrive Robinson, non di procedure rivoluzionarie. Ma il romanzo si fa leggere non per il piglio statal-riformista della proposta, ma perché dispiega la mappa delle questioni esistenziali nel lungo racconto tecno-politico dei poteri. Poteri di dominio della finanza sugli stati; poteri di cattura di risorse rare e rarefazione di risorse abbondanti; poteri di sterminio da parte di interessi sovrani di estrazione e di controllo dell’energia (la vera essenza della guerra); poteri di distruzione da parte della proprietà, dell’impunità, dell’espansione criminale dei territori fino ai confini della galassia. Il romanzo compone l’archivio delle alternative storiche all’ecocidio: A Mondragon nei paesi baschi l’Università politecnica formò ingegneri che riaprirono alcune aziende manifatturiere la cui proprietà era passata agli operai, finanziata da banche e cooperative di credito. Le comunità di permacultura nel Sikkim e nel Kerala, di cui Vandana Shiva è stata una delle artefici, è diventata un modello agroeconomico fiorente. I corridoi ecologici consentono il passaggio libero degli animali tra territori protetti dalla caccia (il primo è stato lo Y2Y, dallo Yukon a Yellowstone). «Con un allevamento di bufali o curando santuari naturalistici si poteva guadagnare più di quanto offriva l’agricoltura». Una piattaforma internet con account non gestiti da mostri privati big-tech; valute locali, microtransazioni, modello danese, reddito di esistenza – tutte queste misure hanno provenienza keynesiana. In due sintetici excursus il romanzo li racconta. Alla conferenza di Bretton Woods (1944), Keynes propose di creare una Unione di Compensazione Internazionale (ICU) per una nuova valuta, il bancor. Lo scopo sarebbe stato permettere ai paesi con deficit commerciali di uscire dai debiti utilizzando un conto scoperto con interessi del 10%. Anche i paesi ricchi che avevano surplus avrebbero pagato il 10% di interesse. In questo modo si sarebbe impedito che i paesi diventassero troppo poveri o troppo ricchi. Dexter Withe, negoziatore statunitense del Dipartimento del Tesoro si oppose e propose un fondo di stabilità che sarebbe diventato la Banca Mondiale. Gli Stati Uniti erano il maggior creditore e proprietario di oro dopo la guerra e il dollaro divenne la valuta globale da supportare con riserve auree. Il secondo episodio keynesiano è la Teoria della Moneta Moderna il cui assioma era che l’economia lavora per gli esseri umani e non il contrario. La finalità della moneta doveva essere il pieno impiego. Per Keynes i governi non sperimentano il debito allo stesso modo degli individui. Introdotta nella catastrofe ambientale contemporanea la TMM raccomanda robusti investimenti sotto forma di quantitative easing del carbonio. Invece la vicenda narrata nel romanzo di come la Grecia nel 2008 è stata asfaltata dalla “troika” fa parte della storia di questo presente in cui si è dato corso al disfacimento della proprietà pubblica delle cose essenziali. Alla fine tuttavia gli sconfitti non sono coloro che non hanno mai smesso di esserlo. «La cosa più importante… fu che la quantità di CO2 nell’atmosfera era davvero calata nei quattro anni precedenti… E nei dieci anni prima si era mantenuta stabile… La maggior parte dell’assorbimento era dovuta alla riforestazione, al carbone biologico, all’agrosilvicoltura, alla crescita di foreste kelp e altre alghe, all’agricoltura rigenerativa, alla riduzione…dell’allevamento e alla cattura diretta di CO2 dall’aria». Proviamo a immaginare la terra vista da un’aeronave: «si stavano creando nuovi laghi salati e paludi pompando acqua dell’Atlantico e del Mediterraneo. Nel Sahel, le tempeste di polvere… erano molto diminuite… il deserto sotto di loro era punteggiato di laghi. Verdi, marroni, azzurro cielo, cobalto. Piccoli villaggi sorgevano sulle loro rive… Campi irrigati formavano cerchi sul terreno, cerchi verdi e gialli, come una trapunta patchwork… Un’alba rossa: sulla sinistra l’altopiano etiope, sulla destra i monti Kenia e Kilimangiaro… Poi arrivarono sul Madagascar…La riforestazione di quella grande isola era continuata per ben più di una generazione e la vita lì era così feconda che i pendii frastagliati delle sue colline sembravano già densamente alberati, scuri e selvatici. In quello sforzo erano aiutati da Indonesia, Brasile e Africa occidentale. Stavano ripristinando la natura laggiù, disse Art…». -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Vernaglione Berardi ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- IMMAGINARE E CREARE UN MONDO OLTRE LE CRISI. APPUNTAMENTO: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il sogno della terra nel blackout del capitalismo proviene da Comune-info.
Abitare un pianeta al collasso
IL 2024 È STATO L’ANNO PIÙ CALDO MAI REGISTRATO. E COME POTREBBE ESSERE DIVERSAMENTE SE IL CONSUMO DI CARBONE E PETROLIO CONTINUA AD AUMENTARE? INVECE DI METTERE IN DISCUSSIONE I MOTIVI CHE SONO ALLA BASE DELLA CRISI ECOLOGICA, I GRANDI POTERI ECONOMICI HANNO SCELTO VARI MODI DI “ADATTARE” I LORO BUSINESS ALLE DIVERSE CONDIZIONI AMBIENTALI: IL CASO PIÙ SPETTACOLARE È LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA CAPITALE DELL’INDONESIA, NUSANTARA, CHE DOVREBBE SOSTITUIRE JAKARTA (28 MILIONI DI ABITANTI), ORAMAI SPROFONDATA SOTTO IL PESO DEI SUOI GRATTACIELI E SOMMERSA DALL’INNALZAMENTO DEL LIVELLO DEI MARI. IL PROBLEMA RESTA IL COMPORTAMENTO SEMPRE PIÙ PREDATORI DEGLI UMANI, A CUI CORRISPONDE UN POTERE COLONIALE SULLE SOCIETÀ. “DIFFICILE IMMAGINARE UNA RELAZIONE ARMONIOSA E SIMBIOTICA MULTISPECIE DELLE COMUNITÀ UMANE ALL’INTERNO DEI PROPRI ECOSISTEMI DI RIFERIMENTO – SCRIVE PAOLO CACCIARI – CHE NON SI REGGA SU RELAZIONI TRA GLI INDIVIDUI DELLA PROPRIA SPECIE BASATE SULLA CONVIVENZA PACIFICA E SOLIDALE, SULLA CONDIVISIONE E LA COOPERAZIONE, SULL’EQUITÀ SOCIALE, SU PACE E GIUSTIZIA…” Studenti e studentesse della scuola primaria e secondaria dell’IC di Civate (LC), insieme ai loro genitori, durante un’iniziativa della cooperativa Liberi sogni. Dal 31 maggio al 2 giugno, Liberi sogni promuove Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma completo e le informazioni per partecipare -------------------------------------------------------------------------------- Il convegno “Abitare la Terra” promosso dall’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Roma (curatori: Daniela Gualdi e Flavio Trinca) il 29 aprile 2025 presso la Casa dell’Architettura si è aperto ponendo una domanda: “Avrebbe potuto andare diversamente?”. Certamente! È da più di mezzo secolo (dalla istituzione della prima giornata mondiale della Terra, dalla pubblicazione del Rapporto del Club di Roma su I limiti della crescita, dalla prima conferenza dell’Onu di Stoccolma sull’ambiente, dalla costituzione dei pannel scientifici sul riscaldamento globale e sulla biodiversità… per arrivare, in questo secolo, all’Accordo di Parigi e agli Obiettivi dello sviluppo sostenibile) che sappiamo con dettagliata precisione dove ci avrebbe portato il “business as usual” e cosa si sarebbe dovuto fare per evitarlo. Ora, quindi, la domanda giusta da porci è un’altra: potrà andare diversamente? Adattarsi? Sul numero di novembre del 2024 di Limes, dedicato alle questioni climatiche, Lucio Caracciolo scrive: «La battaglia per la decarbonizzazione è persa». I dati gli danno ragione: il 2024 si conferma l’anno più caldo mai registrato, così come il contenuto di anidride carbonica d’origine antropica in atmosfera (a gennaio la Noaa ha registrato il record di 426,03 parti per milione). E come potrebbe essere diversamente se il consumo di carbone e petrolio continua ad aumentare? L’obiettivo del contenimento dell’aumento di 1,5°C entro il 2050 è già stato superato. Il più recente rapporto dell’Ipcc (AR6) prevede che se la temperatura dovesse arrivare a +2°C si verificherebbero dei tipping point (punti di non ritorno) quali: la fusione della calotta glaciale della Groenlandia con un innalzamento del livello medio marino di 6-7 metri; la fusione di una porzione della calotta glaciale dell’Antartide con effetti improvvisi non prevedibili; un indebolimento della corrente oceanica meridionale atlantica (AMOC) con un raffreddamento del clima nel Nord Europa; lo scongelamento del permafrost artico; un collasso dei sistemi corallini tropicali; lo stress da calore e da incendi delle foreste amazzoniche e boreali. Tutti eventi stranoti e inoppugnabili a fronte dei quali Caracciolo dice che non ci rimane che «ecoadattarci». Un realismo che appare come una resa – non si sa quanto cinica o fatalistica – all’inazione, all’«inattivismo» dei governi (concetto usato dal climatologo Michael Mann nel libro La nuova guerra del clima, Edizioni Ambiente, 2021). Questo è infatti ciò che sta avvenendo. Piuttosto di mettere in discussione i motivi che sono alla base della crisi ecologica, i poteri economici che determinano la sorte della civilizzazione hanno scelto vari modi di “adattare” i loro business alle diverse condizioni ambientali. È ciò che Noemi Klain chiamava «il capitalismo dei disastri», ovvero: approfittare delle distruzioni invece di prevenirle. Il più delle volte si tratta di interventi eclatanti, faraonici progettati in chiave “tecno-modernista”, la cui funzione fondamentale è mobilitare molti soldi. Vediamo alcuni casi tipici pensati nel tentativo di rispondere alla sfida del surriscaldamento del pianeta. Essi spaziano dall’approccio immobiliarista, a quello geo-ingegneristico a quello fantascientifico hollywoodiano. Il caso più spettacolare è certamente la costruzione della nuova capitale dell’Indonesia, battezzata Nusantara, che dovrà sostituire Jakarta, oramai sprofondata sotto il peso dei suoi grattacieli (subsidenza) e sommersa dall’innalzamento del livello dei mari (eustatismo). Definisco questa una soluzione di «translazione delle contraddizioni» – per usare una categoria di Kohei Saito -: se un territorio diventa inabitabile lo si abbandona e se ne colonizza (distrugge) un altro. Inutile dire che non tutti gli attuali 28 milioni di abitanti di Jakarta troveranno posto nelle nuove abitazioni che il governo sta cercando di far costruire alle società immobiliari di tutto il mondo offrendo loro terreni e facilitazioni – ma con scarso successo, sembra. Zone di sacrificio e popolazioni di scarto fanno parte del corredo dell’approccio immobiliarista. Il secondo caso è quello della laguna di Venezia. Non potendo spostare altrove la città storica di Venezia, gli ingegneri idraulici hanno pensato di isolarla dal resto del pianeta contornandola con impegnative opere di contenimento delle acque. Al centro del sistema vi sono quattro teorie di barriere mobili, Mose (Moduli elettromeccanici a spinta di sollevamento) che separano il mare dalla laguna in caso di maree superiori ad 1 metro e 20 centimetri sul livello medio del mare. Un’impresa costata più di dieci miliardi di euro tra opere a mare e “complementari” e un costo di manutenzione previsto di un milione e mezzo di euro all’anno. Un’opera, ovviamente, non replicabile per la difesa delle altre zone costiere meno famose dove l’ingressione marina dell’Adriatico lungo il fiume Po raggiungerà la periferia di Milano (vedi le cartine di Pievani e Varotto nel Viaggio nell’Italia dell’Antropocene, Aboca 2021). Peccato che con le tendenze attuali nemmeno il Mose riuscirà ad impedire le “acque alte” di Venezia. Con 50 centimetri di aumento del livello del mare le ore di chiusura del Mose possono raggiungere le 4.500 ore all’anno (più o meno sei mesi!). Ma le ultime stime dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e del Cnr prevedono un aumento del livello medio del mare di 3 metri a fine secolo (leggi Multi-Temporal Relative Sea Level Rise Scenarios up to 2150 for the Venice Lagoon (Italy), Published 26 February 2025). La terza tipologia di sistemi di “difesa” dai cambiamenti geo-bio-fisici in atto è sicuramente la più fantasiosa perché inverte radicalmente l’approccio al problema: invece di pensare a come adattare la vita degli esseri umani ai mutamenti, si propone di cambiare il modo di funzionare del sistema naturale terrestre. Qui il tecno-ottimismo si spinge oltre il confine della realtà conosciuta e sperimentata. La geoingegneria, un po’ come la bioingegneria, si propone di manipolare il corso dell’evoluzione della vita. Si compie così il sogno prometeico dell’uomo che si crede (gioca a fare) dio. Nel caso specifico del surriscaldamento climatico la scommessa è quella di modificare la irradiazione solare (SRM, gestione della radiazione solare) per ridurre il calore intrappolato nell’atmosfera. I progetti di geoingegneria variano dall’immissione nella stratosfera di aerosol con biossido di zolfo, allo sbiancamento delle nubi spruzzando particelle di sale marino, alla collocazione nello spazio di spechi riflettenti, alla fertilizzazione degli oceani per aumentare la cattura della CO2… e altro ancora. Gli allarmi scientifici ed etici lanciati da più parti nel tentativo di bloccare le sperimentazioni in questo campo (vedi il portale nogeoingegneria.com), sembrano destinati a rimanere voci nel deserto considerando che grandi università come la University of Pennsylvania e Harvard e “magnati” come Bill Gate e Elon Musk, venerati e celebrati come “visionari”, stanno spendendo miliardi in ricerche di geoingegneria spaziale. Con Tramp è sicuro che otterranno le autorizzazioni necessarie. Infine, vi è un quarto approccio all’“adattamento”, molto più pragmatico e casereccio, alla portata anche dei governi meno ambiziosi, come il nostro: la decretazione dell’obbligo di stipula di una polizza assicurativa a copertura dei danni provocati da eventi estremi metereologici e conseguenti “calamità naturali”. Si chiamano Cat Nat: “polizze catastrofiche”. Come dire: ognuno si arrangi da sé, evitando di andare a chiedere rimborsi dallo Stato. L’economista Luigino Bruni chiama questa strategia «ipertrofia assicurativa», cioè, la privatizzazione dei rischi che le persone incorrono (come sta già avvenendo in sanità con lo smantellamento del welfare) vivendo in una società sempre più fragile, squilibrata, ammalorata. Inutile dire che per le società finanziarie si apre un colossale flusso di denaro da gestire a loro piacimento. Da tempo circolano nei mercati finanziari titoli e obbligazioni dette Cat Bond (Catastrophe Bond) e loro derivati con cui si può scommettere (tanto al rialzo, quanto al ribasso) sull’eventualità che si verifichino determinati eventi catastrofici (per un inquadramento della questione vedi di Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, Ombre corte, 2019). Od opporsi? Se queste sono le strategie di adattamento ai mutamenti climatici che tecnocrati e finanzieri ci propongono, conviene allora pensare a soluzioni alternative, meno rischiose e meno costose: rispettare i cicli e i tempi biologici dei sistemi naturali; fare in modo che la natura riacquisti la capacità di rigenerarsi; lasciare che la natura si riprenda gli spazi necessari alla evoluzione della biodiversità (varietà e numerosità delle specie viventi) e ricolonizzi gli habitat attaccati dagli interventi antropici: boschi e foreste, zone umide e corsi d’acqua, barriere coralline e fondali marini, praterie e savane. È la strada indicata dal biologo Edward Wilson nel libro Half-Earth: Our Planet’s Fight for Life, (Wilson, Edward O., Metà della Terra: salvare il futuro della vita, Codice, 2016) in cui propone che metà della superficie terrestre venga designata come riserva naturale priva di presenze umane. Si potrà obiettare che si tratta di un approccio meramente difensivo, conservazionista, forse inefficace di fronte agli effetti ubiquitari delle aggressioni antropiche in atto; pensiamo alle radiazioni nucleari, alle microplastiche, ai composti chimici artificiali non metabolizzabili, alle polveri sottili inalabili… prima ancora che al biossido di carbonio, ma certo non sarebbe inutile come segnale di “Alt!” e di inversione di tendenza. Gli ecosistemi non sono “risorse”, “capitali” e “servizi” utili all’economia di mercato monetizzata (per un’analisi dettagliata vedi: Quaderni della decrescita, parte monografia “Capitale naturale”. L’assalto finale, a cura di Paolo Cacciari e Aldo Femia). Il regolamento europeo Nature Restoration Law (agosto 2024) va in una giusta direzione. L’obiettivo è coprire almeno il 20% delle aree terrestri e marine dell’UE entro il 2030 con misure di ripristino della natura, estendendo poi tali sforzi a tutti gli ecosistemi che necessitano di ripristino entro il 2050. Ogni iniziativa volta a denunciare e fermare il “consumo di suolo” è una precondizione per iniziare un’opera di risanamento dei processi vitali. Le ferite non si curano se prima non si ferma l’emorragia. Inoltre, anche i rimedi e le tecniche da usare per il risanamento degli ecosistemi possono essere di tipo passivo, spontaneo, “basati sulla natura”, piuttosto che di tipo ingegneristico. È quanto sostengono molti naturalisti ed ecologi, vedi, da ultimo, Roberto Danovaro, Restaurare la natura. Come affrontare la più grande sfida del secolo, Edizioni Ambiente, 2025. Decisamente interessante uno studio di qualche tempo fa, ma poco diffuso, del Fondo Monetario internazionale sugli effetti benefici delle balene: «Una strategia sorprendentemente semplice e sostanzialmente “no-tech” per catturare più carbonio dall’atmosfera: aumentare le popolazioni globali di balene» (link Imf). I biologi marini hanno infatti scoperto che il movimento nell’acqua e il metabolismo delle balene accresce il fitoplancton e di conseguenza la fissazione della CO2 negli oceani. Sembra che le balene oggi assorbano il 40% della CO2 prodotta nel pianeta (come 1.700 miliardi di alberi, pari a quattro foreste amazzoniche). Anche questa, però, può essere una strada rischiosa se gestita in un’ottica mercantile, con strumenti contabili (“partita doppia”; inquinare/disinquinare) e da agenti economici che hanno finalità di lucro. La natura come asset finanziario, cui attribuire un prezzo per poter scambiare in appositi mercati servirà solo a fornire nuove occasioni di business alle imprese, ad avviare nuovi cicli di accumulazione di capitali da investire in nuove attività economiche profittevoli. La giostra prelievi-produzione-consumo-scarti continuerà a girare sempre più velocemente. Quanto tutto ciò possa migliorare la salute del sistema Terra è davvero difficile da immaginare. Adrienne Buller, ricercatrice presso il think tank inglese Common wealth, in Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde (add, 2024), dimostra l’inganno della “crescita verde”, poiché la natura non può essere ridotta e trattata come un bene economico. Dichiarazione di dipendenza dalla natura I sistemi vitali naturali, nella fisiologia terrestre, sono costituiti da flussi di energia e di materia che interagiscono rispondendo a leggi della biologia, della fisica e della termodinamica; rispettano vincoli biologici e condizioni fisiche; si evolvono su diversi livelli trofici e catene alimentari. Nella rete della vita tutto è legato da interconnessioni infinite, dinamiche, interdipendenti. Gli stessi “regimi naturali” classificati da Linneo in sfere distinte – litosfera, vegetali, animali – sono attraversati da flussi e relazioni complesse. Il “pensiero sistemico” di Odum (E. P. Odum e Gary W. Barrett, Fondamenti di Ecologia, nuova edizione Piccin-Nuova Libraria, 2006) dovrebbe guidare anche i nostri comportamenti sociali, economici e politici. Per non dimenticare l’abc della vita vale la pena ricordare che gli animali – noi con loro – inspirano ossigeno ed espirano anidride carbonica, mentre le piante fanno il contrario. Questo delicato, infinitesimale equilibrio nel bilancio metabolico del carbonio (cosa sono 400 parti per milione di Co2 in atmosfera!) fa la differenza tra la Terra e tutti gli altri pianeti fin qui conosciuti. La specie umana ha via via maggiormente interferito con le dinamiche spontanee dei cicli vitali terrestri. Grazie al crescente ricorso a energia e materiali “esterni” (esosomatici) gli esseri umani hanno assunto comportamenti sempre più predatori, parassitari, distruttivi delle basi biologiche ecosistemiche che supportano ogni tipo di organizzazione sociale. Fino al punto da pensarsi al vertice della piramide evolutiva e ritenersi legittimati a sottomettere e dominare ogni ente “inferiore”. Certo è che la cultura occidentale di derivazione ebraica ha contribuito non poco a un antropocentrismo estremo: «Dio disse loro: riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi, 1-28). Queste terribili parole equivalgono a una dichiarazione di guerra del genere umano alla natura. La modernità occidentale eurocentrica si è quindi spinta fino a concepire l’umanità bianca, maschile, benestante come entità separata dalla «natura bruta» – per dirla con Francis Bacone. Corpo e spirito, sentimenti e razionalità, natura e cultura si sono separati seguendo una logica binaria oppositiva in cui i secondi valori hanno preso il sopravvento. Nella sua Ecopedagogia, la storica Bruna Bianchi riporta uno splendido passo della sociologa pacifista quacchera Elise Boulding: «Noi viviamo in un guscio, uno scudo tecnologico che ci isola non solo dai capricci del vento, dal clima, dalla temperatura, ma dai ritmi dell’ecosistema. In una bella e ordinata città, chi sa quando le api escono per il miele? Quando la luna è piena? Quando viene il tempo di danzare e piedi nudi? Chi sta piangendo da solo nella notte? Chi non riesce a dormire per la fame? Noi ci muoviamo nella vita senza conoscere queste cose». (Bruna Bianchi, Ecopedagogia. Il senso della meraviglia nella riflessione femminile, Marotta & Cafiero, 2021). Sottolineo una curiosità, forse non banale: Elise, in realtà nasce Biorn-Hansen a Oslo, Norvegia (1920 – 2010) e sposa negli Stati Uniti Kenneth Boulding (1910–1993), economista inglese, anch’egli quacchero, pioniere dell’ecologia economica, noto a tutti gli ambientalisti per aver dissacrato il modello economico della crescita, definito del “cowboy”, contrapposto a quello dell’astronauta che orbita nello spazio in una navicella dalle risorse limitate. A fronte della crisi ecosistemica, multifattoriale e multidimensionale in atto sarebbe necessario che quella parte del genere umano che ha superato ogni limite di sicurezza nella capacità di carico dei sistemi naturali (accumulando un debito ecologico e intaccando il “patrimonio” non rinnovabile) – diciamo, per essere meno generici, quel 10% della popolazione mondiale che usa l’80% delle risorse della Terra – prendesse coscienza dei danni irreversibili che sta provocando nei confronti della stragrande maggioranza degli individui della propria specie e della natura in generale. Come bene dimostrano le famose rappresentazioni grafiche del gruppo di ricerca dell’ecologo svedese Johan Rockström (Planetary Boundaries – defining a safe operating space for humanity, Rockström, et al. 2009. “A Safe Operating Space for Humanity”. Nature 461 (7263): 472–75) e dell’economista Kate Raworth (Doughnut Economics, University of Oxford; L’Economia Della Ciambella, Edizioni Ambiente, 2020), gli squilibri ecologici e quelli sociali sono due facce della stessa medaglia. A un uso predatorio delle “risorse naturali” corrisponde un potere coloniale sulle società ancestrali, e viceversa. La base ecologica e la base ordinamentale sociale degli insediamenti umani procedono in parallelo, coerentemente. Difficile immaginare una relazione armoniosa e simbiotica multispecie delle comunità umane all’interno dei propri ecosistemi di riferimento che non si regga su relazioni tra gli individui della propria specie basate sulla convivenza pacifica e solidale, sulla condivisione e la cooperazione, sull’equità sociale, su pace e giustizia. Una biforcazione di fronte a noi Sarebbe quindi necessario che gli esseri umani prendessero coscienza della loro condizione di internalità nel macrorganismo vivente del Sistema Terra, di Gaia, di Pachamama, di Madre Terra, del creato, della biosfera… a dir si voglia, riconoscendo e rispettando le “connessioni ecologiche” planetarie. Questa è, in buona sostanza, la sfida di civiltà che sta dinnanzi a tutti coloro che desiderano sinceramente invertire la rotta del sistema socioeconomico dominante: produrre beni e servizi utili al benessere di tutte le persone mantenendo in equilibrio i cicli naturali. In altri termini «integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà» (Onu, Sustainable Development Goals, Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, Goal n.15.9, 2015). Dove per “integrare”, si dovrebbe intendere ricollocare l’economia in una scala di valori che abbia al centro la biorigenerazione come scelta strategica vincolante. Ed è qui – come abbiamo visto – che le strade si biforcano. Da una parte gli ecomodernisti, i tecno-ottimisti, i fautori dello “sviluppo sostenibile”, della green economy e del capitalismo “green” che pensano sia possibile “riassettare” il sistema economico di mercato introducendo dosi ponderate di regolamentazioni orientate alla sostenibilità (tipo criteri ESG per le imprese, tassonomie verdi per gli investimenti, compensazioni dei danni ambientali, pianificazione territoriale, fino alla introduzione nei Consigli di amministrazione delle società di capitale di codici di comportamento etici – proposta dell’Economy of Francesco), dall’altra parte c’è chi pensa che solo una cambiamento profondo del paradigma della crescita economica potrà evitare una catastrofe ecologica e sociale senza pari. Su questo secondo versante si sono posizionati i movimenti ecologisti e sociali più radicali, muovendo però sempre in formazioni ben separate, se non persino contrapposte. I “verdi” e i “rossi” si sono storicamente trovati d’accordo nell’individuare le cause della crisi della società occidentale nel neoliberismo economico e nella globalizzazione selvaggia, ma non nelle responsabilità politiche dei rappresentanti delle diverse classi sociali. Tutti e due considerano che la tendenza ad aumentare costantemente il valore dei beni e dei servizi, nel minor tempo possibile, conduce inevitabilmente al sovrasfruttamento selle risorse naturali e del lavoro umano. La spinta al profitto e alla accumulazione delle imprese capitaliste alimenta una crescita infinita delle merci immesse sul mercato. Le innovazioni tecnologiche, se da un lato riescono a migliorare l’efficienza anche energetica e materiale dei singoli cicli produttivi, d’altra parte, a scala macroeconomica, moltiplicano le possibilità produttive oltre ogni limite (Paradosso di Jevons). Ha scritto un padre dell’ecosocialismo, Bellamy Foster: «Il capitalismo è rimasto essenzialmente (se non di più) quello che era fin dall’inizio: un enorme motore per l’incessante accumulazione di capitale, mosso dalla spinta competitiva di individui e gruppi che cercano il proprio interesse personale sotto forma di guadagno privato» (John Bellamy Foster Capitalism in the Anthropocene: Ecological Ruin or Ecological Revolution, Monthly Review Press, Agosto 2022). Del resto, già Friedrich Engels, nel 1882, avvertiva, con straordinaria preveggenza: «Non aduliamoci troppo per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnazione; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze» (F. Engels, Dialettica della natura, Editori Riuniti, 1967). Fin qui le critiche che accumunano sia i movimenti ecologisti sia quelli sociali di ispirazione marxista. Dove invece si sono distinti e separati – anche tra le componenti al loro interno – è sulla linea da seguire per cambiare lo stato delle cose (per un approfondimento vedi la monografia dei Quaderni della decrescita, “Decrescita e marxismo. Dialogo possibile e necessario”). Per i “verdi” il mutamento deve avvenire a partire dalla modifica dei valori etici-ideali e dei comportamenti individuali delle persone sensibilizzate alle sorti del pianeta; per i “rossi”, invece, sono le strutture istituzionali di potere, a partire dagli assetti proprietari, quelle che possono far cambiare i modi di produzione storicamente determinati. Ma le verifiche della storia ci hanno consegnato due sconfitte parallele: l’immaginario delle persone è stato colonizzato dal benessere hollywoodiano, tanto che nemmeno la “socializzazione dei mezzi di produzione” (dove è stata intentata) è riuscita a scalzare lo “spirito del capitalismo” (per scomodare Max Weber). Fin troppo facile, guardando il modello di sviluppo economico della Cina comunista di oggi, constatare che non è la struttura del sistema di potere statale quello che fa la differenza dall’Occidente liberale. Così come non sono le libertà formali di scelta delle persone individualmente considerate (le “preferenze”, come le chiamano gli economisti) quelle che possono liberarle le società dal giogo produttivista e consumista. Il comunismo della decrescita Finalmente una novità si è recentemente affacciata sulla scena politica internazionale: il “comunismo della decrescita”, il cui “manifesto” è stato proposto da un giovane giapponese, storico del pensiero economico, Kohei Saito (Saitō Kōhei) nel libro Il capitale nell’Antropocene, Mondadori, 2024. Qui alcune istanze meno note e fino a oggi poco valorizzate del pensiero marxiano e quelle ambientaliste più radicali (l’idea di una società orientata alla decrescita dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi, distributivi e di consumo) si intrecciano e provano a chiudere il cerchio di un progetto di “buona vita”. Saito, recuperando un Marx aperto al comunitarismo dei “commons” (gestione condivisa dei beni comuni intesi come mezzi di produzione, risorse naturali e lavoro umano) e a un ecologismo integrale (inteso come “integrato” anche al sistema sociale), compie un’operazione politica di indubbio interesse sia teorico che pratico-politico. Provo a sintetizzare al massimo il pensiero di Saito in quattro passaggi: i) il capitalismo è accrescimento indefinito del valore di scambio delle merci e accumulazione di capitali; ii) il comunismo ribalta gli scopi della produzione, il suo obiettivo è soddisfare i bisogni autentici delle persone; iii) umanità e natura sono collegate dal lavoro come medium; quindi, la trasformazione ha come scopo il contenuto e le modalità del lavo inteso come attività di presa in cura dei beni comuni; iv) l’azione politica-pratica per la sostenibilità ecologica e l’eguaglianza si integrano e si completano a vicenda. Il risultato sarà un nuovo patto sociale all’insegna della cooperazione tra produttori e l’unione empatica e amorevole con la natura. Si prospetta un nuovo ordine bio-culturale, biopolitico, socio-biocentrico, bio-umanista… che comunque supera la concezione della natura utilitaristica (propria anche delle correnti ecosocialiste), patrimonialista (propria del diritto liberale), antropocentrica (propria dell’universalismo giudaico-cristiano e illuminista). Il quadro istituzione-giuridico dentro cui si iscrive questa rivoluzione è molto vicino all’idea delle comunità territoriali confederate (vedi l’ecofilosofo Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1989;) capaci di autogestirsi democraticamente, gestire i propri bisogni e desideri e pianificare l’utilizzo delle risorse naturali in ambiti neomunicipali e bio-regionali. -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Cacciari ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Abitare un pianeta al collasso proviene da Comune-info.
[2025-05-17] Assemblea pubblica Climate Pride @ Serra del Parco Delle Energie Ex Snia
ASSEMBLEA PUBBLICA CLIMATE PRIDE Serra del Parco Delle Energie Ex Snia - Via Prenestina, 175, 00176 Roma RM (sabato, 17 maggio 17:30) ASSEMBLEA APERTA: VERSO IL CLIMATE PRIDE 2025! Ci vediamo venerdì 17 maggio, ore 17:30 alla Serra del Parco delle Energie (Via Prenestina 175 - Roma) In vista della #COP30 in Brasile e del prossimo Climate Pride del 15 novembre, ci ritroviamo per continuare a costruire insieme una mobilitazione radicale, inclusiva e concreta. Dalla scorsa assemblea sono emerse rivendicazioni potenti: giustizia sociale, antimilitarismo, intersezionalità, anticapitalismo e multispecie. Ma anche bisogni urgenti: vogliamo parlare di giustizia climatica reale, che parta dai corpi, dai territori, dalle bollette, dalle marginalità, dalle lotte e dalle resistenze. Serve una nuova narrazione: contro il greenwashing e la criminalizzazione dellə eco-attivistə. Per questo vogliamo: 🔹 Allargare la partecipazione 🔹 Convergere con vertenze territoriali e internazionali 🔹 Coinvolgere realtà transfemministe, sociali, ecologiste 🔹 Dare spazio a chi la crisi la vive sulla pelle, ogni giorno Costruiamo insieme un Climate Pride che sia spazio per nuove pratiche, cura e visione. Contro greenwashing, colonialismo climatico, guerra e repressione. Nessunə esclusə. Ci vediamo il 17. Portiamo idee, corpi, energia, visioni. 💥 Il Climate Pride si costruisce insieme. Nessunə esclusə.
[2025-05-08] Presentazione di Extinction Rebellion @ Casa del Popolo di Torpignattara
PRESENTAZIONE DI EXTINCTION REBELLION Casa del Popolo di Torpignattara - Via Benedetto Bordoni, 50, 00176 Roma RM (giovedì, 8 maggio 18:30) Sei curiosa di conoscere Extinction Rebellion ed incanalare le tue energie in un movimento non violento di disobbedienza civile? GIOVEDÌ 8 MAGGIO ci vediamo alle 18.30 per la presentazione del movimento: “VERSO L’ESTINZIONE: COSA POSSIAMO FARE”, alla Casa del Popolo di Torpignattara. Vieni a conoscerci e ribellarti con noi, Con rabbia e amore Extinction Rebellion Roma ❤️‍🔥 DOVE CASA DEL POPOLO DI TORPIGNATTARA, Via Benedetto Bordoni, 50, Roma (Roma)
Trasformare la crisi climatica in opportunità
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Extinction Rebellion Italia -------------------------------------------------------------------------------- In un libro uscito nel 2025 – Come il cambiamento climatico potrebbe cambiare il mondo (frutto di un articolo pubblicato nel 2014 su Development and Society, essendo l’autore morto a gennaio del 2015) – Ulrich Beck, introduce il termine di metamorfosi, ovvero «un cambiamento strutturale che fa saltare obiettivamente i capisaldi antropologici su cui si fondano le nostre società, rendendo possibile e necessario ciò che prima non lo era». Secondo Beck, la comunità ecologica (la cooperazione tra Stati precedentemente avversari tra loro) si forma, o si formerà, non per spinta positiva ma per spinta negativa, non per valori che uniscono ma per timori che uniscono. Se è dunque impossibile, allo stato attuale, la cooperazione tra paesi diversi è però possibile che si raggiunga un consenso negativo su ciò che, a tutti i costi, deve essere evitato: la catastrofe globale. Beck usa, in tal senso, l’espressione: “catastrofismo emancipatorio”, poiché se il rischio giunge come una minaccia, esso porta con sé anche la speranza e il desiderio di scongiurarla. Cercherò, in questo scritto – relativamente al solo aspetto dell’energia – di attenermi a questo pensiero: rendere pensabile e credibile (cioè possibile ancorché necessario) ciò che per i governi, i politici, i mass media e l’opinione pubblica manipolata, non sarebbe possibile per motivi economici, sociali e politici. Il cambiamento, qualora fosse realizzato, rappresenta la più straordinaria occasione di evoluzione della civiltà umana che si sia mai presentata nella storia: costruire un sistema basato su regole universali in grado di organizzare la cooperazione tra i popoli di fronte al rischio climatico e, quindi, avvicinarci all’orizzonte della “pace perpetua” di Kant. È una tesi che si riallaccia a quella sostenuta da Ferrajoli nella sua Costituzione della terra (Per una costituzione della terra. L’umanità al bivio”, Feltrinelli, 2022 e, in ultimo, Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale, idem, 2025): «Se l’umanità vuole sopravvivere, poteri globali e aggressioni globali impongono un salto di civiltà, cioè un’espansione del costituzionalismo oltre lo Stato, all’altezza dei poteri da cui provengono le minacce al nostro futuro. È chiaro che questa espansione è possibile solo sulla base di un nuovo contratto sociale di carattere globale tra tutti gli Stati e i popoli del pianeta che istituisca, in forma vincolante, le garanzie universali della pace, dei diritti fondamentali di tutti e dei beni vitali della natura» (Come vincolare il potere politico, il manifesto, 11 aprile 2025). Se pure l’ipotesi di Beck può apparire utopistica, essa è nondimeno l’unica possibile, pena la stessa sopravvivenza delle specie umana e non. Egli sostiene infatti che l’alternativa è la barbarie, la guerra, il disastro dell’umanità nel suo complesso, ovvero il ritorno del nazionalismo e del sovranismo che cercano di opporsi, in modo reazionario e velleitario, al cambiamento del mondo che intanto si è oggettivamente affermato. Il quadro internazionale appare assolutamente in controtendenza a questa tesi. Tuttavia è solo la convenienza anche economica della cooperazione tra i popoli rispetto alla tradizionale competizione nazionale, con conseguenti compromessi politici e ideologici – accettare che i regimi democratici cooperino con quelli autoritari in nome di una comune minaccia – che può consentire di uscire dalla catastrofe. Ciò che rende pensabile questa metamorfosi è il fatto che gli strumenti per affrontare la crisi climatica ci sono (mi limito ad elencarli dal solo punto di vista energetico), già potenzialmente disponibili e pronti per essere usati. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CARMELA CIOFFI: > Se dentro di te hai un mondo di angoscia e di rabbia -------------------------------------------------------------------------------- Si rende innanzi tutto necessaria una premessa. Il consumo attuale di energia non è un fatto naturale; esso potrebbe essere facilmente ridotto senza drastici cambiamenti dello stile di vita, ma solo cambiamenti di abitudini. Al tempo stesso una riduzione del consumo di energia migliorerebbe la stessa qualità della vita. Nel campo dei trasporti ad esempio (settore che consuma gradi quantità di energia soprattutto nelle città) si tratterebbe di passare dai trasporti individuali a quelli collettivi facendo risparmiare oltre all’energia una grande quantità di tempo e abbassare lo stress legato alla guida in città. Stesso discorso vale per l’isolamento termico degli edifici, la quantità di cibo sprecato e così via. Ma il mondo è organizzato in modo diverso: la TV, ad esempio, ci bombarda di pubblicità sull’ultimo modello di auto appena uscito, inducendoci a credere come esso sia assolutamente necessario alla nostra esistenza, così come per i cellulari o i PC e, da ultima, l’IA, la cui potenza, in rapida crescita, continua ad aumentare il consumo di energia. Nulla si dice, poi, per quel riguarda la progettazione urbanistica delle nostre città che potrebbe essere realizzata diminuendo gli spostamenti (con la riapertura di negozi e botteghe contro il proliferare dei centri commerciali) e aumentando il parco di auto per un trasporto collettivo. Qualunque discorso sui consumi di energia dovrebbe partire da una considerazione banale: le uniche fonti sostenibili (e per ciò rinnovabili) sono: il sole, il vento e l’acqua e quelle geotermiche. Altre diaboliche sostenibilità non esistono, tanto meno l’uranio sostenibile o l’idrogeno prodotto da energia elettrica. «Più che uno sforzo tecnologico, dunque, è necessario un cambiamento del paradigma economico e culturale, capace anche di garantire ricadute positive oltre che sulla qualità della vita, sull’occupazione» (Federico Butera, Sole, vento acqua. L’italia a emissioni zero nel 2050”, manifestolibri, 2023). I detrattori di questa tesi sostengono che queste fonti non basterebbero a soddisfare la domanda crescente di energia. Vedremo successivamente come questo non sia vero, ma in ogni caso, a prescindere da questa falsa affermazione, resta il fatto che diminuire l’energia consumata resta comunque un obiettivo necessario. Sempre i detrattori di questa metamorfosi rispondono che la soluzione più breve per raggiungere l’obiettivo di produzione di energia sia il nucleare. E qui il discorso diventa ingannevole e in malafede. Questa soluzione viene in realtà preferita poiché semplifica grossolanamente il problema e corrisponde a quella piaga del pensiero determinista e macchinista, esito della rivoluzione scientifica del Seicento (di Cartesio in particolare). Qualche riflessione sui tipi di energia (con considerazioni che derivano, in molta parte, da un seminario svolto da Giorgio Parisi nel marzo del 2025). Tornando al nucleare dobbiamo fare confronti tra questo tipo di energia e quella eolica o solare. Il solare, soprattutto per l’Italia costituisce la fonte di energia più efficiente ed economica per ovvii motivi di conformazione geografica. Il costo del fotovoltaico è inoltre almeno tre volte inferiore a quello del nucleare. Poi c’è da mettere in conto il rischio di incidenti come: Chernobyl e Fukushima. A Chernobyl, dopo l’incidente, si sono creati duemila kmq inabitabili attorno alla centrale (una superficie pari alla pianura padana), mentre a Fukushima si è stati costretti a ricorrere a una evacuazione forzata. Infine per l’Italia il nucleare è sconsigliabile perché è un paese ad alta densità abitativa (ancora non si è deciso dove collocare le scorie delle ex centrali in dismissione). Perché allora dovremmo fare il nucleare? Le risposte, ci dicono, sono due: la prima, è che il fotovoltaico e l’eolico consumerebbero grandi quantità di suolo, attualmente destinato all’agricoltura. Il secondo è che l’energia solare è intermittente, ovvero la sua produzione varia nell’arco del tempo (giorno/notte, inverno/estate). A queste obiezioni si risponde facilmente. In Italia sono pochissimi i tetti degli edifici con pannelli solari, le fabbriche poi hanno solo il 7% di impianti solari sui tetti. Poi ci sarebbero i parcheggi, gli edifici pubblici come scuole ecc. e, infine l’agrivoltaico, ovvero l’uso del fotovoltaico nel quale possono convivere agricoltura tradizionale e solare, diminuendo al tempo stesso la quantità di acqua necessaria. L’altro motivo è che un pannello solare in Italia produce il 40% in più rispetto a quello installato in Germania. Nonostante questo la Germania ha 70 installazioni di solare per 70 Gw. In Cina, nel 2024, si sono installati due terzi degli impianti fotovoltaici di tutto il resto del mondo e in dieci anni i costi si sono ridotti del 90% e la ricerca applicata sui materiali e la loro efficienza continua. L’unico vantaggio (apparente) del nucleare di IV generazione è che usa il plutonio sotto forma di scorie delle centrali nucleari vere e proprie. In realtà non ci sono reattori di IV generazione funzionanti ma solo prototipi, ovvero progetti. Ricordiamo la storia del Superfenix costruito nel 1976, terminato 10 anni dopo, costato 20 miliardi, ha lavorato solo per qualche mese e poi dopo è stato chiuso perché era necessaria una grande quantità di acqua per il raffreddamento. L’acqua, però, rallentava il reattore tanto che il Superfenix veniva raffreddato con sodio fuso. Poi ci sono i mini reattori che avrebbero il vantaggio di essere costruiti in serie oltre ad essere meno pericolosi; anche questi hanno bisogno di una verifica lunga di tempi. Riassumendo il nucleare di IV generazione non è diverso da quello bocciato dai due referendum nazionali, il Superfenix ha fallito e i mini reattori sono di là da venire. Infine c’è da fare il confronto tra solare e nucleare rispetto al problema dell’intermittenza del solare. La variazione del solare può essere recuperata in due modi: con le batterie al litio o con l’idroelettrico pompato (sollevare l’acqua nelle ore di poca o scarsa esposizione del sole e sfruttare il salto nelle ore di punta), o, ancora, attraverso l’immagazzinamento dell’energia elettrica domestica che può essere usata per le pompe di calore in inverno. Infine il surplus di energia elettrica da fotovoltaico può essere usata per produrre carburanti sintetici come l’idrogeno (per navi o aerei per i quali non si possono usare le batterie). L’ultima energia sostenibile è quella geotermica, rinnovabile e non intermittente. L’Italia ha luoghi di produzione eccellenti, come Lardarello, dove si produce energia elettrica direttamente oppure indirettamente per scaldare le case, inoltre la geotermia è rinnovabile e non intermittente. In Cina sono enormi i processi di sfruttamento della geotermia per riscaldare le case con impianti che sono quattro volte quelli del resto del mondo in modo da ridurre i costi e i consumi di energia, con l’obiettivo di arrivare in 20 anni a eliminare le importazioni di petrolio. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Trasformare la crisi climatica in opportunità proviene da Comune-info.
Se dentro di te hai un mondo di angoscia e di rabbia
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- «Arriva un’ondata e ti porta via tutto: tutto quello che avevi in casa, i tuoi ricordi, la tua intimità, la tua vita. Dentro la tua mente che cosa resta: come esprimeresti quel pensiero, quel sentimento? Se sei una persona con disabilità cognitiva fai davvero fatica a raccontarlo o, nel caso in cui il tuo linguaggio è compromesso, non sei in grado neppure di parlare, mentre dentro di te hai un mondo di angoscia, di paura, di rabbia». Nives Baldoni, presidente della sezione di Faenza di ANFFAS, Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo, ci racconta l’impatto delle ultime alluvioni che hanno colpito la città sulle famiglie con persone con disabilità. Negli ultimi tre anni, Faenza, in provincia di Ravenna, è stata colpita da tre alluvioni. La prima si è verificata il 2 e 3 maggio 2023, seguita da un evento ancora più devastante il 16 e 17 maggio dello stesso anno. L’ultima alluvione è avvenuta tra il 18 e il 19 settembre 2024: secondo lo studio condotto dalla Commissione tecnico-scientifica istituita dall’Emilia-Romagna, dopo le inondazioni del maggio 2023 c’era l’1 per cento di probabilità che un nuovo episodio di queste proporzioni potesse verificarsi nell’arco di un anno. È accaduto dopo sedici mesi, con un’intensità ancora maggiore. È la crisi climatica, che spiazza ogni previsione, che mette a dura prova le infrastrutture esistenti (non basta certo aggiungere blocchi di cemento lungo gli argini più fragili, come a Faenza, per impedire un’inondazione) e la capacità di adattamento delle comunità locali. Durante la seconda alluvione del 2023 andò completamente distrutta la sede di ANFFAS Faenza, dove si svolgevano tutti i giorni i laboratori per le persone con disabilità e ancora adesso queste attività – sollievo per le persone con disabilità e le loro famiglie – sono portate avanti in un locale provvisorio; ma più che l’elenco dei danni è una storia, raccontata da Nives Baldoni, a rendere visibile ai nostri occhi l’impatto di questi eventi estremi sulle persone con disabilità e a farci percepire perché se sei una persona con disabilità si “riacutizza ogni cosa”, come dice la presidente dell’associazione. Luca (nome di fantasia), 34 anni, con un disturbo dello spettro autistico, insieme a sua madre ha dovuto abbandonare il proprio appartamento, dichiarato inagibile, subito dopo le alluvioni del 2023. «Questo ragazzo, dopo venti giorni trascorsi presso amici a cui la mamma aveva chiesto ospitalità, è fuggito», racconta Baldoni, «continuava a dire: non è casa mia». Stando alla presidente dell’associazione, la madre di Luca è riuscita a rientrare nel vecchio appartamento dopo una trattativa con il Comune, ma hanno vissuto per mesi senza corrente, riscaldamento e acqua calda. «Oggi, tutte le volte che piove, questo ragazzo dice: mamma noi stiamo in questa casa, non andiamo via». Se la storia di Luca ci permette di accendere una luce per vedere l’impatto della crisi climatica sulla vita quotidiana di chi è più vulnerabile, i dati confermano quanto siamo di fronte a una questione globale, che richiede risposte strutturali per non lasciare indietro nessuno. I report dell’Onu, dell‘Organizzazione Mondiale della Sanità, gli studi scientifici, tutti concordi nell’affermare che le persone con disabilità sono sproporzionatamente colpite dal cambiamento climatico. «Il cambiamento climatico sta minacciando direttamente e in modo sproporzionato il diritto alla salute delle persone con disabilità a causa delle temperature sempre più elevate, degli elevati inquinanti atmosferici e della crescente esposizione a eventi meteorologici estremi, che includono ondate di calore, inondazioni, uragani e incendi»: è un passaggio chiave dell’articolo “Climate change and the right to health of people with disabilities”, pubblicato sulla rivista scientifica Lancet a dicembre 2021: «Sorprendentemente, il tasso di mortalità globale delle persone con disabilità in caso di calamità naturali è fino a quattro volte superiore a quello delle persone senza disabilità, a causa della scarsità di pianificazione inclusiva, informazioni accessibili, sistemi di allerta precoce, trasporti e atteggiamenti discriminatori all’interno delle istituzioni e tra gli individui». Ma cosa rende queste persone così esposte ai rischi legati al cambiamento climatico? «Essendo le persone con disabilità quelle che sono state rese vulnerabili – nel senso che la nostra vulnerabilità è una costruzione sociale: noi non siamo vulnerabili, siamo resi vulnerabili, perché in questi millenni non abbiamo avuto accesso agli stessi diritti, alle stesse opportunità e servizi –, appare evidente che nel momento in cui dobbiamo rispondere a eventi estremi che richiedono evacuazioni rapide, infrastrutture e informazioni accessibili, la cosa diventa estremamente complicata», spiega Giampiero Griffo, componente del consiglio mondiale di Disabled Peoples’International (DPI), un’organizzazione per i diritti umani impegnata nella tutela dei diritti delle persone con disabilità. «Ci ritroviamo a essere meno protetti perché nell’emergenza di un evento estremo e in generale nelle situazioni di rischio si è lontani dall’aver compreso come trattare le persone con disabilità», aggiunge Griffo. In questo senso, l’esperto cita l’articolo 11 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che affronta le “situazioni di rischio ed emergenze umanitarie”, «anche se alla fine nessuno si attrezza». Perché è così difficile tenere conto anche delle persone con disabilità nelle politiche di mitigazione e adattamento? «Perché siamo tutti nati e cresciuti in una società abilista che appunto è pensata da e per persone abili», è la risposta chiara di Erika Moranduzzo, esperta di diritti umani nel contesto cambiamento climatico e attualmente ricercatrice presso l’Università di Leeds nel Regno Unito. «Le persone con disabilità sono circa il 15 per cento della popolazione mondiale, dunque la più ampia minoranza esistente. Ci ricordano quanto siamo vulnerabili. La disabilità non è, infatti, qualcosa di unico, ma è una parte intrinseca della vita umana. Ciò significa che siamo tutti esposti a disabilità e questo vale soprattutto nel contesto del cambiamento climatico», aggiunge l’esperta. Inoltre, «come per altri gruppi sociali, le persone con disabilità non sono solo vittime sproporzionalmente impattate dal cambiamento climatico, ma sono agenti di cambiamento», spiega ancora. In poche parole, «accendono la luce su modi di immaginare il mondo che portano beneficio a tutti, non solo alle persone con disabilità», chiosa Moranduzzo. E “agente di cambiamento” è esattamente ciò che prova a essere ogni giorno Daniele Sicherhof, in carrozzina dall’età di 18 anni a causa di un incidente sul lavoro, che in Val di Non alleva mucche della razza Grigio Alpina, completamente scomparse dopo gli anni Sessanta e oggi Presidio Slow Food. Sogna anche di ripiantare, accanto all’attuale ettaro e mezzo di classiche mele Golden, la cosiddetta mela renetta del Canada, anch’essa a rischio di scomparire perché invisa alla grande distribuzione. Insieme a suo fratello, Daniele conduce una piccola azienda biologica. «Lavorare in agricoltura vuol dire seguire la natura». Il cambiamento climatico qui si fa sentire, con inverni più miti rispetto al passato e danni alle colture causati dalle gelate primaverili. Quando parte la stagione, Daniele Sicherhof vive “con il cellulare in mano” per seguire le previsioni meteo e organizzare il lavoro di conseguenza, perché «è il tempo che comanda», dice. Nel 2008, riprendendo l’attività del nonno, Daniele ha progettato un caseificio accessibile, una stalla senza barriere architettoniche e ha adattato anche il trattore, così da poterlo guidare. Convinto sostenitore del biologico, racconta di dare alle mucche solo erba, fieno, e un po’ di cereali a mezzogiorno, perché «crediamo in un’agricoltura che dia reddito, prodotti buoni e salutari con il minor impatto ambientale possibile». Daniele critica il modello dell’allenamento intensivo, dove «devi fare quintali di latte e poi come lo fai e la qualità del latte vengono dopo» e, attraverso visite guidate nella sua azienda, cerca di sensibilizzare le persone. Perché essere un agente del cambiamento è una bella responsabilità e dare il buon esempio è un gran bel modo per iniziare a cambiare qualcosa. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Se dentro di te hai un mondo di angoscia e di rabbia proviene da Comune-info.