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[2025-11-24] Clima di Cambiamento. La Sfida dei Giovani alla COP30 @ SCOMODO
CLIMA DI CAMBIAMENTO. LA SFIDA DEI GIOVANI ALLA COP30 SCOMODO - Via Carlo Emanuele I, 26 (lunedì, 24 novembre 18:00) WWF Italia, Save the Children, Mediterranea Saving Humans e Oxfam Italia si incontrano per offrire una prospettiva condivisa sulle sfide ambientali, sociali e legate ai diritti umani, mettendo a sistema conoscenze e competenze per un’azione comune. In un contesto globale segnato da crisi climatiche e disuguaglianze crescenti, il dialogo tra giovani e organizzazioni è fondamentale per immaginare e costruire un futuro più giusto e sostenibile. Questo evento è l’occasione per approfondire opportunità e responsabilità, favorendo un confronto aperto e costruttivo tra realtà diverse impegnate a tutela dell’interesse collettivo. Registrati all'evento: https://rb.gy/04cjp2
La Cop 30 e la guerra alla natura
-------------------------------------------------------------------------------- Foto MST – Movimento dos Trabalhadores Sem Terra -------------------------------------------------------------------------------- Sono un vecchio medico ospedaliero, negli ultimi anni di attività anche medico di base. Nei primi anni Novanta, avendo collaborato per diversi anni con il NAGA, una importante associazione di volontariato di Milano, ancora molto attiva, che cura ogni giorno i migranti senza permesso di soggiorno, ho imparato tante cose sul percorso di “malattia” di ogni persona, che è anche un fatto sociale e culturale, cose che non mi avevano insegnato né insegnano all’Università. Essendo nato e vissuto a Milano fino alla pensione conoscevo ben poco di Madre Natura e dei suoi cicli: ho iniziato a imparare qualcosa dal 2004, quando abbiamo cominciato ad andare in Brasile, conoscendo il Movimento Senza Terra-MST e vivendo per lunghi periodi negli accampamenti dei suoi meravigliosi contadini, che occupano le terre incolte, per restare contadini e non essere espulsi nelle tremende favelas delle megalopoli del Brasile, dove vivono oltre 16 milioni di persone, e dove in gran parte comandano le bande mafiose, spesso in “buoni” rapporti con la polizia. Siamo tornati in Brasile sei volte e siamo andati a conoscere anche i contadini e i popoli di Bolivia, Cile, Argentina, Cuba e Honduras in America Latina, un continente ancora “sotto il tacco”, non solo degli Usa, ma di tutto il colonialismo europeo, che lo ha invaso e massacrato nel 1500 e continua a condizionarlo, con speculazioni sulla sua produzione di materie prime ed export. Da 28 anni siamo fuggiti da Milano e dalla sua aria velenosa, come quella di tutta la Pianura Padana, la terza area per maggior inquinamento dell’aria in UE, dopo Polonia e Repubblica Ceca. Viviamo in una città della Liguria, a pochi metri dal mare, tutti giorni vediamo il nostro splendido Mediterraneo soffrire, ancor più di tutti mari e Oceani, e maledirci per l’inquinamento e il surriscaldamento dell’acqua marina di origine antropica, che continua a danneggiare il fitoplancton e quindi la metabolizzazione della CO2, che produce Ossigeno. I Mari e gli Oceani ricoprono il 70% della superficie terrestre e con l’atmosfera, comandano e regolano tutti i cicli naturali e quindi anche la terra (che è solo il 30%) e i suoi abitanti. Da qualche anno non andiamo in Brasile, ma siamo sempre grandi Amigos di Via Campesina Inter-nazionale (un movimento mondiale di 200 milioni di piccoli contadini) e dei contadini brasiliani Senza Terra, che sono diminuiti di numero per l’offensiva spietata delle multinazionali mondiali dell’Agrobusiness, che li espellono dalla terra (l’urbanizzazione in Brasile è arrivata al 92%, come in Argentina) e continuano a deforestare, per coltivare prodotti per i mangimi, da esportare per gli allevamenti intensivi in Europa e Cina. Questi prodotti agricoli sono soprattutto la soia Ogm e Mais Ogm, coltivati in Brasile (e anche in Argentina), dove si utilizzano pesticidi proibiti in UE (atrazina, acefato, clorotalonil e clorpirifos, i quattro più usati, pesticidi venduti in Brasile, anche da aziende con sede in Ue. In Italia, dove finora è proibito fare coltivazioni Ogm, mangiamo, beati, questi prodotti, spesso ultra-processati, di animali nutriti nei nostri allevamenti intensivi con questi foraggi, coltivati con pesticidi proibiti in Ue, perché patogeni… D’altronde sulle etichette di questi prodotti è proibito scrivere cosa ha mangiato l’animale: la multinazionale tedesca Bayer, che produce enormi quantità di pesticidi, anche proibiti, e medicinali non vuole. Il mondo sulla Foce del Rio La COP 30 è in corso in Brasile, a Belem, alla Foce del Rio delle Amazzoni, 6.400 chilometri, il secondo fiume più lungo del mondo, dopo il Nilo. Tranne che su media specializzati, finora se ne è parlato poco sui “grandi” media. I movimenti mondiali, soprattutto quelli contadini ed ecologisti, prevedono che ne uscirà ben poco. Joao Pedro Stedile, uno dei fondatori e leader del MST, ha detto pubblicamente che la COP30 sarà una grande farsa, nonostante l’urgenza di affrontare la crisi climatica in aumento vertiginoso, sopra-tutto il surriscaldamento globale, con conseguenti desertificazione, crisi idriche, eventi estremi ecc. Si parla genericamente di crisi climatica e di transizione ecologica, ma in realtà siamo nel caos climatico: l’unica sola via è smettere di fare la guerra a Madre Natura ed eliminare l’utilizzo di carbonfossili e la conseguente emissione di gas serra. Gli impegni assunti nel 2015 da 196 paesi, con l’Accordo di Parigi alla COP21, per limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C sono falliti, per “l’insufficienza degli stanziamenti finanziari, mentre 956 miliardi di dollari sono stati spesi dai governi nel 2023 in sussidi netti ai combustibili fossili. Le strategie di aumento della produzione dei 100 colossi mondiali del petrolio e del gas porterebbero le loro emissioni a superare di quasi tre volte i livelli compatibili con il limite degli 1,5°C. E tuttora le banche private investono nel fossile”. Re Petrolio continua a comandare, all’aumento delle Rinnovabili in molti paesi “ricchi” non corrisponde una diminuzione dei consumi di Petrolio e gas: ad esempio “in Italia nel terzo trimestre 2024, la produzione energetica da fonti rinnovabili è cresciuta dell’8%, ma accanto al calo del carbone, c’è stato un maggiore utilizzo di gas (+3%) e petrolio (+2,5%), con il primo in ripresa nella generazione elettrica e il secondo trainato dall’aumento della mobilità”. Abissali sono le differenze di consumi elettrici ed emissioni di CO2 tra i paesi ricchi e quelli del Sud del mondo, più che evidenti se confrontiamo i dati 2022 di Usa e Nigeria, due paesi con centinaia di milioni di abitanti: 1- Speranza vita: Usa Uomini 74 anni, Donne 80 anni, Nigeria Uomini 53 anni, Donne 54 2- Consumi elettrici/abitante: Usa12.393 kWh , Nigeria 144 kWh 3- Emissioni di CO2/ abitante: Usa 14,95 Ton., Nigeria 0,59 Tonnelate. Confrontiamo anche i dati 2022 del Brasile, una colonia fino al 1822, con 213 milioni di abitanti, grande 27 volte l’Italia (densità 25 abitanti per chilometro quadrato), e dell’Italia, 59 milioni abitanti (densità 195 ab. Kmq): 1- Speranza vita: Brasile Uomini 70 anni, Donne 76 anni, Italia Uomini 79 anni, Donne 86 2- Consumi elettrici/ab: Brasile 2710 kWh , Italia 4872 kWh 3- Emissioni di CO2/ab: Brasile 2,25 Ton., Italia 5,73 Ton. La “Cúpula dos Povos” A Belem (Stato del Parà), nei giorni scorsi si è svolta anche la Cupola dei Popoli, in parallelo alla riunione di COP30, organizzata dai movimenti dell’America Latina, compreso MST, a cui hanno partecipato 15 mila delegati di tutti i movimenti mondiali, per confrontarsi e sollecitare ai governi riuniti nella COP30 vere soluzioni, non quelle false come i Mercati del carbonio, la geoingegneria, il sequestro e stoccaggio del carbonio. Tutti i movimenti sono contro i crediti di carbonio, uno strumento finanziario, per cui un’entità, che non può ridurre direttamente le proprie emissioni, può acquistare il diritto a emettere CO2, compensando tale emissione attraverso investimenti in progetti che la riducono altrove. In un manifesto pubblicato alla vigilia della COP 30, 55 movimenti e organizzazioni di 14 paesi dell’America Latina e dei Caraibi si sono riuniti per respingere i mercati del carbonio e difendere i loro territori contro una valanga di progetti di compensazione del carbonio che sta causando danni in tutta la regione. Una nuova ricerca di Oxfam e del CARE Climate Justice Centre, pubblicata in ottobre rileva che per ogni 5 dollari ricevuti, i “paesi in via di sviluppo” ne restituiscono 7. A livello globale, quasi il 70% dei finanziamenti viene erogato sotto forma di prestiti anziché di sovvenzioni. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI PAOLO CACCIARI: Il neoimperialismo del carbonio -------------------------------------------------------------------------------- Il petrolio di Lula La Cop30 è presieduta da Lula, presidente del Brasile, il cui governo, ha aderito all’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, nel febbraio 2025. Dopo cinque anni di battaglia tra Petrobras, l’industria petrolifera statale brasiliana, e Ibama, l’organismo di controllo ambientale, il governo Lula ha autorizzato il 20 ottobre 2025 l’esplorazione, ai fini di successive trivellazioni di 19 Blocchi alla Foce del Rio delle Amazzoni. “Il progetto prevede la perforazione di un pozzo esplorativo nel Blocco 59, un sito offshore a 500 chilometri dalla foce del Rio delle Amazzoni e a 160 chilometri dalla costa, ad una profondità di oltre 2.800 metri. L’area, nota come Margine equatoriale, è considerata una promettente nuova frontiera petrolifera, sull’onda delle grandi scoperte offshore operate nella vicina Guyana. Secondo Petrobras, le trivellazioni, inizieranno immediatamente e dureranno cinque mesi. È un progetto prioritario per Lula, che sostiene che le maggiori entrate derivanti dal petrolio saranno fondamentali per finanziare la transizione climatica del Brasile, un Paese che, pur essendo l’8° produttore mondiale di petrolio, ricava circa metà della sua energia da fonti rinnovabili”. “Mentre lo shale oil sta calando, a livello mondiale quello estratto con trivellazioni offshore da acque profonde (Deep Water) vedrà un’impennata del 60% entro il 2030. Per trovare giacimenti di petrolio e gas sotto il fondo marino, le compagnie energetiche usano cannoni ad aria compressa per creare mappe sismiche”. Dopo la fase di esplorazione l’ANP, l’agenzia Nazionale Petrolio brasiliana, ha già concesso alle industrie petrolífere Petrobras, ExxonMobil, Chevron e CNPC 19 blocchi per lo sfruttamento di petrolio e gas alla Foce del Rio Amazonas: dieci blocchi alla statale Petrobras e alla ExxonMobil, in un consorzio 50/50 gli altri 9 blocchi a un consorzio composto da Chevron (65%) e dalla statale cinese CNPC (35%), che nel frattempo ha dato il via a trivellazioni in acque ultra-profonde, fino 11 mila metri per la ricerca di petrolio e gas, per cercare di affrancarsi dal petrolio straniero. In Brasile il petrolio è ora il principale prodotto di esportazione, avendo superato la soia. Nel 2006 c’è stata in Brasile la prima estrazione di Petrolio PreSal, a profondità fino ai 7000 metri, sotto uno strato di sale spesso fino a 2.500 metri, ma nell’ultimo trimestre 2024 la produzione di è diminuita del 3,4%, per la necessità di più frequenti fermate per manutenzione dell’estrazione dai pozzi, ma il petrolio da Presal, estratto nei bacini di Santos e Campos, rappresenta ancora a novembre 2024 il 71,5 della produzione totale di petrolio in Brasile. Anche per questa crisi del Presal il governo punta ad estrazioni offshore a minor profondità e in altre località del mare. Inoltre è da tener presente che il Brasile produce Petrolio greggio da raffinare, ma ha solo 14 raffinerie (l’Italia ne ha 11), molte vecchie e con limitazioni tecnologiche per la lavorazione del petrolio Pre-sal, che è più leggero e richiede adattamenti. Il Brasile esporta attualmente il 52,1% della sua produzione di petrolio (dati 2024 INEEP (Istituto per gli Studi Strategici su Petrolio, Gas e Biocarburanti). Questo petrolio finisce per essere raffinato in altri paesi e una parte torna persino in Brasile come combustibile. La Cina importa il 50% del petrolio estratto dal Presal non raffinato. Il Brasile importa ancora fino al 25% del suo gasolio (con cui alimenta camion, trattori, autobus e macchinari agricoli) e il 10% della benzina che consuma. In Brasile non c’è una sovranità energetica. I colli di bottiglia nella raffinazione mostrano una contraddizione che grava pesantemente sulle tasche dei brasiliani, secondo i dati dell’OEC. È bene sapere che in Brasile la popolazione è costretta a viaggiare in bus e auto, i binari per trasporto di treni passeggeri sono solo 1.500 chilometri, rispetto ai 30.129 mila Km per trasporto merci dei quali solo 1121 elettrificati. È un bene che in Brasile nel 2024 ci sia stato una diminuzione delle emissioni di CO2 del 16,7%, secondo l’Osservatorio brasiliano sul clima, una rete di ONG ambientaliste, attribuita al successo del governo di Lula nella lotta alla deforestazione, ma le enormi contraddizioni di Lula stanno esplodendo. Lula ha sempre considerato il petrolio fondamentale per lo sviluppo del Paese e nell’ultimo anno l’ha difesa più volte dal essere considerata responsabile dell’aumento dei prezzi dei combustibili, ma nell’ultimo anno ha chiesto a Petrobras di non pensare solo agli azionisti. I movimenti contro il dominio del petrolio Nell’ultimo mese come Comitato Amigos MST Italia abbiamo chiesto al MST la sua posizione ufficiale in merito all’autorizzazione per le trivellazioni alla foce del Rio delle Amazzoni, concessa dal governo Lula, che include, per il 65% aziende americane (ExxonMobil e Chevron). Abbiamo scritto: “Il Brasile fa parte dei BRICS (che includono anche governi razzisti e autoritari, come Iran, India, Egitto, ecc.) permetterà agli Stati Uniti di massacrare il Mar del Pará (un oceano che, essendo il più forte, reagirà inevitabilmente, con conseguenze gravi e non del tutto prevedibili per i cambiamenti climatici e anche per la regione amazzonica), tutto questo alla vigilia della COP 30, che il governo Lula presiederà?”. Stedile ci ha risposto: ”Avete assolutamente ragione. In effetti, stiamo vivendo molte contraddizioni in ambito ambientale sotto il governo Lula… ma le forze del capitale sono più forti. Tutta Via Campesina, i movimenti ambientalisti mondiali e tutti movimenti brasiliani lottano e lotteranno contro questo ecocidio”. Anche la Commissione per l’Ecologia Integrale dei vescovi brasiliani ha preso una posizione durissima: “La Conferenza episcopale brasiliana (CNBB) condanna le trivellazioni petrolifere nel Margine equatoriale e mette in guardia dall’incoerenza del governo in materia di clima” CNBB ha ricordato che due anni fa, Papa Francesco, nella sua esortazione Laudato Deum sulla crisi climatica, avvertiva: «Le compagnie petrolifere e del gas hanno l’ambizione di realizzare nuovi progetti per espandere ulteriormente la loro produzione. (…) Ciò significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti dei cambiamenti climatici» (LD 53)”. Vedremo come i movimenti riusciranno a incidere sulla COP 30 dei governi. La nostra lotta, senza guerra, continua, come ci hanno insegnato in America Latina. Ricordiamoci sempre le parole illuminanti di papa Bergoglio. ‘Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la Natura non perdona mai’, di certo non perché Madre Natura sia matrigna. Sono l’uomo e il patriarcato ad essere spesso patrigni. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La Cop 30 e la guerra alla natura proviene da Comune-info.
Il neoimperialismo del carbonio
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Mi devo ricredere. Le Cop (conferenze dell’Onu sul clima) non sono inutili kermes che Greta Thunberg, già quattro anni fa, bollava come: «Bla bla bla. Questo è tutto ciò che sentiamo dai nostri cosiddetti leader. Parole che suonano grandiose, ma che finora non hanno portato a nessuna azione». La Cop di Belem è servita a due cose: offrire visibilità ai popoli indigeni che si sono organizzati per rivendicare il proprio protagonismo nel difendere i luoghi più ricchi di biodiversità e più utili al contenimento del surriscaldamento climatico – foreste, ma non solo: lagune, zone montane, steppe -; secondo aspetto positivo, lasciare a casa Tramp che ha così palesato il suo isolamento dal resto del mondo e il suo menefreghismo per le sorti del pianeta. Per il resto anche questa Cop ha dimostrato tutta la sua incongruenza. Affidare alle trattative intergovernative il compito di ridurre gli impatti delle attività antropiche sulla biosfera è come spegnere l’incendio con la benzina. Non solo perché le politiche dei singoli stati nazionali sono ormai completamente asservite alle logiche economiche dominate dalle compagnie multinazionali e dai mercati finanziari globali, ma perché le conferenze interstatali spostano l’attenzione dalle cose da fare qui e ora, posto per posto, territorio per territorio, città per città, ad una dimensione planetaria generica, numerica astratta dove nessuno è responsabile e ognuno ritiene che sia qualcun altro a dover fare il primo passo. Su queste basi la “negoziazione” tra i governi si riduce ad una penosa disputa al ribasso sulle risorse che i paesi più industrializzati dovrebbero conferire come risarcimento ai paesi impoveriti più esposti ai colpi del cambiamento climatico. In compenso si discute su come beffare i paesi del Sud globale accaparrando i loro “crediti di carbonio” in eccedenza in modo da poter esternalizzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni dei gas climalteranti delle imprese più energivore localizzate nel Nord. Così come diceva Mark Twain, «Se hai un martello in testa, tutto ti sembra un chiodo», i centri di potere economici e politici non riescono a immaginare un modo per diminuire i gas serra che non sia mettere sul mercato permessi di inquinamento, tanti dollari a tonnellata. I nostri amici indigeni lo chiamano neoimperialismo del carbonio. Infine, non stupisce il fatto che nessuno sollevi la questione delle emissioni prodotte dagli apparati militari: il 5,5 per cento del totale in “tempo di pace”. Gli eserciti sono esentati dai protocolli e dai trattati internazionali anche solo dal rendicontare le loro emissioni. Si stima che se fossero uno stato sarebbero il quarto dopo Usa, Cina, India e prima della Russia. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GUIDO VIALE: > Belém, un elefante nella stanza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il neoimperialismo del carbonio proviene da Comune-info.
Belém, un elefante nella stanza
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- C’è un elefante nella stanza della COP30 in corso a Belém; un tema escluso dall’ordine del giorno, ma capace di pregiudicarne gli eventuali risultati (comunque scarsi, ma non più che nelle 29 COP che l’hanno preceduta). Quell’elefante è la guerra. Tutti sanno che guerra e lotta per il clima sono incompatibili, ma nessuno osa parlarne. Il tema non è all’ordine del giorno. Nessuno lo ha proposto. Perché? Molti non credono che la crisi climatica e ambientale sia una vera minaccia. Altri pensano che sia talmente complicato affrontarla che non vale nemmeno la pena tentare. Altri ancora, la maggioranza di quelli che sono lì sperando di raggiungere un risultato – e non per boicottarne lo svolgimento, come i 5.000 e più lobbisti dell’industria fossili e affini presenti – temono che sollevare il problema finirebbe per pregiudicare il poco che si può ottenere. Invece occorre parlarne. Per tante ragioni: alcune banali, altre meno. Innanzitutto, la guerra, che la si faccia o no, succhia una quantità incredibile di risorse finanziarie, tecnologiche e umane che potrebbero e dovrebbero essere destinate alla lotta per il clima e per la salvaguardia dell’ambiente (e per l’eguaglianza, che ne è la condizione): lo abbiamo visto con il Green Deal europeo: dal progetto (malaccorto) di incanalare “sviluppo” e profitti sulla strada della cura dell’ambiente alla decisione, ormai condivisa da tutti i governi, di fare della produzione di armi il motore dell’accumulazione del capitale. Nessuno di loro, guerra o no, si tirerà mai indietro. Poi le guerre in corso sono un potente fattore di rilancio dei fossili. Schiacciati dalle auto-sanzioni che si sono imposte, i paesi dell’Unione Europea si sono lanciati in una corsa alla scoperta o alla valorizzazione di risorse aggiuntive con cui sostituire le forniture di gas e petrolio russi, con tanti saluti alla transizione. La guerra, d’altronde, aumenta il consumo di combustibili e le relative emissioni: per spostare uomini e mezzi, per far funzionare e produrre sempre nuove armi. E ogni esplosione è un fuoco che brucia ossigeno e produce CO2. Poi la guerra distrugge non solo vite umane ma anche edifici e manufatti, fino a radere tutto al suolo; come a Gaza, ma anche in Donbass: tutte cose che andranno sostituite e ricostruite con altro dispendio di risorse e altre emissioni. Ma distrugge anche il suolo, le acque dei fiumi e la vita animale e vegetale, sia selvatica che coltivata o di allevamento che li abita, rendendoli sterili per anni o per sempre; e trasformando in fonti di emissioni quelli che erano pozzi di assorbimento del carbonio. La guerra è un incubatore di tecnologie della violenza rivolte contro la vita umana, i centri abitati, i manufatti e le infrastrutture, ma disponibili (dual use) a venir utilizzate anche nella guerra contro l’ambiente e la natura. La storia dei pesticidi, dei mezzi aerei per irrorali, dei razzi per provocare la pioggia o sventare la grandine e altro ancora è questa. Ma domani verranno sviluppate e impiegate per arginare il riscaldamento climatico con la geoingegneria: tecnologie “dure”, dagli effetti irreversibili, ideate e gestite da un qualsiasi “Stato maggiore” della lotta per il clima autonominato, sia di Stato che privato. Per mettere fuori gioco le tecnologie “dolci” e amiche della Terra – dall’alimentazione ai trasporti, da quelle dell’abitare alla rinaturalizzazione del territorio, dalla cura congiunta di uomini e ambiente (one health) alla salvaguardia della biodiversità – tutte cose praticabili solo attraverso una riorganizzazione della vita quotidiana con il coinvolgimento di tutti. La guerra produce profughi, milioni di “migranti”: sia direttamente, sia attraverso la distruzione dell’ambiente e la crisi climatica che alimenta. La lotta per la salvaguardia dell’ambiente e per il clima cerca invece di restituire a chi è investito da quei processi la possibilità e i mezzi per restare dov’è; per ricostruire su nuove basi le condizioni della vivibilità. La guerra porta alla militarizzazione non solo delle istituzioni, ma anche della vita quotidiana e delle culture che la sottendono: e a poco a poco – o anche rapidamente – invade tutti gli spazi: informazione, cultura, ricerca, scuola, lavoro, produzioni, mentalità e, ovviamente, “ordine pubblico”: cioè spazi di libertà. Tutti coloro che allo scoppio della guerra in Ucraina si sono compiaciuti della risposta puramente militare della Nato, dell’Unione Europea o del governo ucraino non si sono resi conto – allora e forse neanche adesso – di quanto quel loro entusiasmo abbia influito nel trasformare “lo spirito del tempo”: il linguaggio dei media, l’autocensura, il rancore, la priorità su tutto data alle armi, la perdita di un orizzonte di convivenza, il cinismo di fronte alla morte sia di “civili” che di combattenti, sia “nemici” che “amici”; e, ovviamente, l’indifferenza per il destino del nostro pianeta. La guerra promuove sudditanza e subordinazione da caserma, mentre la lotta per l’ambiente e per il clima produce autonomia, inventiva, spirito di collaborazione e di iniziativa dal basso: quello che occorre per affrontare il difficilissimo futuro che ci aspetta. Infine, tema di grande attualità, la guerra è sia fomite che copertura (per chi già la praticava alla grande) di corruzione: rende possibile accumulare potere e ricchezza alle spalle di chi viene mandato a morire al fronte o condannato a crepare nelle retrovie. Costi prezzi e destino delle armi sono segreti di Stato non controllabili (tanto poi scompaiono, distrutte), come lo è il conto delle vittime e dei danni: chi li maneggia e ci guadagna sta da sempre nelle retrovie mentre a morire sono sempre altri. Il contrario della lotta per la salvaguardia dell’ambiente: in prima linea nell’organizzarla e nel condurla ci sono sempre i “difensori dell’ambiente”; il numero ormai sterminato delle vittime della guerra che Governi e multinazionali che speculano distruggendo l’ambiente conducono contro madre Terra. Leggere l’enciclica Laudato sì farebbe bene a tutti i convocati a Belém. Ma i popoli indigeni presenti non ne hanno bisogno. La conoscono già. L’hanno ispirata loro. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI BRUNA BIANCHI: > Geoguerra e cambiamento climatico -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Belém, un elefante nella stanza proviene da Comune-info.
Ricchezze che bruciano
DOPO LE ULTIME CONFERENZE ONU SUL CLIMA OSPITATE DAI PAESI PETROLIFERI, IL BRASILE ACCOGLIE DAL 10 AL 21 NOVEMBRE LA COP NUMERO 30 A DIECI ANNI DALL’ACCORDO DI PARIGI E DOPO IL 2024, L’ANNO PIÙ CALDO DI SEMPRE. L’UNICA COSA CERTA IN QUESTO SCENARIO TREMENDO È CHE NON È POSSIBILE COMBATTERE I CAMBIAMENTI CLIMATICI SE NON VENGONO MESSE IN DISCUSSIONE LE DISUGUAGLIANZE ECONOMICHE: IL 10% PIÙ RICCO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE, INFATTI, È RESPONSABILE DEL 50% DELLE EMISSIONI TOTALI, MA A PAGARNE LE CONSEGUENZE SONO I PIÙ POVERI, IN PARTICOLARE IN ASIA PER ECCESSO DI PIOGGE E IN AFRICA PER LA LORO ASSENZA L’agricoltura di sussistenza è una delle principali vittime dei cambiamenti climatici ma, insieme ai principi e alle pratiche dell’agrecologia, è al tempo stesso una delle soluzioni più importanti. Foto MST – Movimento dos Trabalhadores Sem Terra -------------------------------------------------------------------------------- Lo aveva già detto Oxfam, ma ora lo ha sottolineato anche Joseph Stiglitz per conto del G20: non è possibile combattere i cambiamenti climatici se non combattiamo le disuguaglianze economiche perché è dimostrato che i maggiori emettitori di anidride carbonica sono i ricchi, ma a pagarne le conseguenze sono i più poveri. Un disaccoppiamento che vale non solo a livello geografico, ma anche sociale inteso come rapporto trasversale fra classi. Da un punto di vista geografico i metereologi hanno appurato che le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici le stanno subendo le regioni più povere, in particolare l’Asia meridionale e l’Africa Subsahariana. Con meccanismi opposti. In Asia per eccesso di piogge, in Africa per la loro assenza. Nel 2022 il Pakistan venne colpito da una vasta inondazione che provocò quasi 2mila morti e perdite per oltre 15 miliardi di dollari, di cui cinque attribuibili al settore agricolo. In Africa, invece, nella regione del Sahel il problema è la siccità. Paesi come Mali, Niger, Sudan, Somalia, negli ultimi anni hanno registrato cali di produttività agricola fino al 40% a causa della mancanza d’acqua. La riduzione dei raccolti agricoli ha come effetto immediato la fame, perché in Africa, come in molti altri paesi del Sud del mondo, una percentuale importante di famiglie pratica ancora l’agricoltura di sussistenza, ossia vive direttamente di ciò che produce. E quando non c’è più da mangiare e da bere, non rimane che andarsene. Il dramma degli sfollati per cause naturali destinato a peggiorare negli anni a venire. La Banca Mondiale calcola che da qui al 2050, oltre 216 milioni di persone potrebbero trovarsi costrette a migrare verso le città o i paesi limitrofi per sfuggire ai disastri provocati dai cambiamenti climatici. E non solo nei paesi del Sud, ma anche in quelli del Nord come testimonia l’Istituto norvegese Internal Displacement Monitoring Centre. Dei 22 milioni di sfollati per incendi, tifoni e allagamenti registrati nel 2024, ben sei appartengono agli Stati Uniti a causa dell’uragano Milton. Ma c’è da stare certi che pur trattandosi del paese più ricco del mondo, a essere colpite sono state le fasce più povere. Intanto perché i ricchi cercano di evitare le località più rischiose e quand’anche dovessero subire dei danni avrebbero i mezzi per risollevarsi rapidamente. Purtroppo per noi, i ricchi hanno anche i mezzi per condurre vite così lussuose, da emettere quantità stratosferiche di anidride carbonica. Quanto è successo a Venezia nel giugno 2025 ne è un esempio. Per tre giorni la città venne stravolta dalla presenza di Jeff Bezos, patron di Amazon e terzo individuo più ricco del mondo, che aveva invitato oltre duecento magnati per celebrare il suo matrimonio. Molti ritennero l’evento scandaloso per la montagna di soldi spesi, all’incirca 50 milioni di dollari, ma altri si sono concentrati sul tasso di inquinamento prodotto. Gli invitati più facoltosi avevano usato i propri aerei privati per unirsi ai festeggiamenti, tant’è che l’aeroporto di Venezia registrò l’atterraggio di ben 90 jet provenienti da ogni parte del mondo. Aerei che mediamente producono due tonnellate di anidride carbonica per ogni ora di volo, una quantità che rapportata al basso numero di passeggeri trasportati li rende da cinque a quattordici volte più inquinanti dei normali aerei di linea. L’organizzazione statunitense International Council on Clean Transportation ha appurato che nel 2023 sono stati effettuati tre milioni e mezzo di voli da parte di jet privati che complessivamente hanno bruciato oltre sei milioni di tonnellate di carburante per un totale di anidride carbonica prodotta pari a 19,5 milioni di tonnellate. Considerato che nell’Unione Europea le emissioni procapite annuali corrispondono a 10,7 tonnellate, nel 2023 i jet privati hanno emesso la stessa quantità di anidride carbonica prodotta in dodici mesi da 1,8 milioni di europei. Uno studio pubblicato nel 2023 da Oxfam ci informa che la responsabilità per l’inquinamento prodotto dalla CO2 è profondamente differenziata non solo per aree geografiche, ma soprattutto per livello di ricchezza. Il 10% più ricco della popolazione mondiale, è responsabile del 50% delle emissioni totali, con l’1% di cima che ne emette, da solo, il 16%. Il 50% più povero è responsabile appena dell’8%, mentre il 40% intermedio si intesta il rimanente 42%. Considerato che per impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre 1,5 gradi centigradi, nessuno di noi dovrebbe emettere più di 2,8 tonnellate di CO2 all’anno, si scopre che mentre il 50% più povero non ne emette neanche una tonnellata, il 40% intermedio ne emette il doppio del consentito, mentre il 10% più ricco ne emette nove volte di più e l’1% di cima addirittura ventisette volte di più. Per non parlare dei top 20 miliardari che con 8.000 tonnellate a testa sono sopra al consentito di oltre 2.800 volte. Quote che diventano ancora più scandalose se prendiamo in considerazione anche le emissioni derivanti dai loro investimenti in settori altamente inquinanti come gas, petrolio, acciaio, cemento. Il paradosso della situazione è che mentre contribuiscono così pesantemente al degrado del pianeta, i superricchi pensano di mettersi a posto con l’umanità donando qualche milione di dollari per attività filantropiche destinate al miglioramento ambientale. Bezos, ad esempio, dopo aver fondato il Bezos Earth Fund per la difesa del clima e della natura, si è impegnato a finanziarlo con 10 miliardi di dollari entro il 2030. Ma la vera strada da intraprendere per arrestare i cambiamenti climatici è quello di adottare stili di vita meno inquinanti. Un passo che i ricchi faranno solo quando avranno meno soldi da sperperare. Per questo tutti coloro che si battono per la difesa del pianeta sostengono che per vincere la battaglia climatica è indispensabile applicare serie politiche di redistribuzione della ricchezza. Che tradotto significa tasse più alte sui redditi e i patrimoni delle classi agiate con contemporaneo utilizzo dei fondi raccolti in due direzioni. Il primo, la cooperazione internazionale per aiutare le popolazioni più povere a superare le loro difficoltà. Il secondo, intervenire internamente per garantire maggiori servizi in campo sociale, sanitario e dei trasporti, necessari per permettere anche alle fasce più deboli di affrontare la transizione ecologica senza eccessivi scossoni. Questo, in fondo, era il sogno di Alex Langer quando diceva che la conversione ecologica avverrà solo se sarà socialmente desiderabile. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > L’accordo minato -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ricchezze che bruciano proviene da Comune-info.
[2025-11-09] Vi presentiamo la Manigolda @ CSOA Ex-Snia
VI PRESENTIAMO LA MANIGOLDA CSOA Ex-Snia - Via Prenestina 173 (domenica, 9 novembre 15:00) VI PRESENTIAMO LA MANIGOLDA 🤚 📍 CSOA exSnia 🗓 Domenica 9 novembre — dalle 15 Nasce La Manigolda, officina transfemminista e spazio vivo del quartiere: una cellula viva e di comunità, dove si riparano oggetti, si costruisce insieme, si condividono strumenti, pratiche e saperi. Ci presentiamo con un laboratorio di maschere in papier-mâché per prepararci al Climate Pride: una giornata di condivisione, arte e politica per dare volto (e voce) alle nostre alleanze più radicali — tra umanə, animali non umani e territori. 🐰 A seguire: cenetta vegan, spritz e musica. Questo laboratorio sarà aperto a tutte le alleanze: per il suo primo appuntamento la manigolda aprirà le porte a tutt3 e tutti!
[2025-11-06] Futuro Multispecie - Corpi, Terra e Giustizia Climatica @ La Carretteria Santa Libbirata
FUTURO MULTISPECIE - CORPI, TERRA E GIUSTIZIA CLIMATICA La Carretteria Santa Libbirata - Via Galeazzo Alessi, 96, 00176 Roma RM (giovedì, 6 novembre 19:00) 🦠 Verso il Climate Pride, la street parade nazionale del 15 novembre a Roma per chiedere giustizia climatica e sociale alla COP30, ci incontriamo per una serata di riflessione, condivisione e azione collettiva. Presentazione del libro Eva Virale con la Prof.ssa Angela Balzano Tra econtransfemminismo e resistenza, esploreremo storie di virus, corpi e comunità che si prendono cura del pianeta e si oppongono all’ingiustizia climatica. Cena sociale e DJ Set Un momento conviviale per incontrarci e chiudere la serata danzando verso un futuro interconnesso e multispecie. Ci vediamo il 6 novembre a partire dalle 19 presso Santa Liberata - La Carretteria (Via Galeazzo Alessi 96 - Roma)
Gaza e il clima
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Riccardo Troisi -------------------------------------------------------------------------------- Nei molti articoli di “geopolitica” sul futuro di Israele, della Palestina, dell’Ucraina, della Russia, dell’Europa, dell’Occidente, che ho avuto occasione di leggere manca un dato di fondo: come sarà il mondo dal punto di vista fisico, climatico, sociale, di qui a 10-20 anni? Avremo tempo e risorse per continuare a fare guerre, fabbricare armi sempre più micidiali, promuovere conflitti, oppure ci dovremo occupare di salvare le nostre case, le nostre città, i nostri territori dai disastri ambientali che si verificheranno sempre più spesso, sempre più intensamente, sempre più diffusamente, con conseguenze, anche economiche, sempre più gravi? Tutti, compresi i negazionisti climatici – e quelli che prestano fede o si lasciano ingannare da loro – sanno che il pianeta tutto e i singoli territori in cui ciascuno di noi vive non saranno più quelli di ora; ma non vogliono occuparsene perché lo considerano un problema troppo grande o troppo difficile da affrontare. Alcuni di noi, abitanti di questo pianeta, ne risentiranno in modo drammatico (alluvioni, tornado, incendi, siccità, ondate di calore, crisi idriche e di approvvigionamenti, innalzamento del livello dei mari e delle temperature, ecc.), altri in modo più lieve. Ma alcuni in misura tanto forte da costringerli a cercare la propria sopravvivenza altrove: secondo le previsioni più accreditate, nel corso del secolo, ma a partire da ora (la deadline, quando ancora se ne parlava, era stata posta intorno al 2030…) e dai prossimi decenni, circa la metà degli abitanti del pianeta – 4-5 miliardi di esseri umani – dovrà emigrare verso altri territori; per lo più verso l’emisfero settentrionale, liberato dai ghiacci e dal gelo dal riscaldamento globale. Siamo pronti ad affrontare queste migrazioni epocali? E in che modo? Questo è ciò che manca dalle mappe dei futurologi di governo e dei media, ma che è ben presente alle menti dei pochi membri dell’élite – soprattutto militari, soprattutto del Pentagono – che si misurano con i dati di fatto. Gli stessi che stanno imponendo una svolta radicale ai bilanci degli Stati, trasferendo quantità sterminate, e apparentemente insensate, di risorse dal sostegno all’esistenza delle rispettive popolazioni alle armi, alla guerra, allo sterminio. Quelle risorse economiche e “umane” oggi indirizzate al “riarmo” (come se non fossimo già abbastanza armati), ma soprattutto alla militarizzazione delle istituzioni e della società, e composte in misura crescente da strumenti di sorveglianza dual-use, domani saranno utilizzate per cercare di fermare i flussi incontrollati di migranti in cerca della propria sopravvivenza in altre regioni del pianeta. Che fare? Gaza ci ha mostrato tutta la determinazione con cui si è cercato di eliminare da un territorio piccolissimo come “la Striscia”, con una politica di sterminio programmato, una popolazione giudicata superflua o nemica. Ma quello era, e forse è ancora, solo un laboratorio. Domani quegli stessi mezzi, sempre più sofisticati e micidiali, potranno essere impiegati per cercare di fermare il flusso dei migranti ambientali e sociali in fuga dalle aree del nostro pianeta diventate invivibili. Se il genocidio del popolo di Gaza ha suscitato l’indignazione e una reazione di massa in molti paesi, ha dimostrato però di lasciare indifferenti, anzi, accondiscendenti, i loro Governi. Ed è di questo che dobbiamo preoccuparci. Per questo c’è stata, e dovrà continuare ad esserci, una mobilitazione così ampia per Gaza; soprattutto da parte di una generazione, quella di Greta, già impegnata con alterne vicende nella difesa del clima: una generazione che, a differenza di quelle precedenti, percepisce qual è la posta in gioco di questa tremenda aggressione. Grottesco quindi utilizzare la presenza di uno striscione che inneggiava al 7 Ottobre per attribuirne la condivisione alle decine e centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che si sono mobilitati contro il genocidio in atto. Ancora più grotteschi gli autodafè dei giornalisti che fino a ieri irridevano i giovani attaccati tutto il giorno ai cellulari e che oggi si accorgono che in tutto il mondo quei giovani i cellulari li usano per informarsi su ciò di cui i massmedia non parlano e per convocare le loro manifestazioni. A novembre si svolgerà a Belém la COP30 per il clima: nient’altro che una sfilata di decine di migliaia (fino a 100mila, come a Sharm-El-Sheikh tre anni fa) di “delegati” – molti della grande industria del petrolio e affini, molti diplomatici ignari dei problemi, ma anche molti esperti della materia resi impotenti dai primi – per fare finta di occuparsi del clima. Ma se non metteranno all’ordine del giorno quello che è il problema centrale dei prossimi decenni, prendendo innanzitutto una netta posizione contro le guerre e le armi che hanno offuscato l’urgenza della lotta per i clima, quell’incontro sarà nient’altro che una stanca ripetizione delle inutili COP che l’hanno preceduto. Il fatto è che i Governi di tutto il mondo si sono dimostrati incapaci di prendere sul serio la minaccia climatica che incombe su tutta l’umanità. Minaccia che può essere affrontata, – all’inizio sicuramente in modo inadeguato, ma via via in modo sempre più drastico, e replicabile, mano a mano che i disastri ambientali lo imporranno – solo se verrà presa in mano dalle popolazioni che ne sono colpite: con misure di adattamento alle condizioni sempre più ostiche in cui si verranno a trovare, come si è visto nel corso di molti dei disastri climatici che hanno colpito un territorio negli ultimi tempi. Ma poi anche con misure di prevenzione: tutte – dalla generazione energetica da fonti rinnovabili e diffuse all’alimentazione e all’agricoltura di prossimità, dall’edilizia all’assetto del territorio, dalla mobilità condivisa al contenimento del turismo e dello sport-spettacolo – che potranno avere effetti positivi anche sulla mitigazione, cioè sulla riduzione del ricorso ai combustibili fossili che i Governi – e chi li governa – non sanno accettare. E chi, di quelle popolazioni, potrà o si vedrà costretto a prendere l’iniziativa? Sicuramente le nuove generazioni: quelle solo l’altro ieri mobilitate per il clima e oggi per Gaza, ben consapevoli delle ragioni di fondo che le spingono a farlo. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Granello di sabbia -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Gaza e il clima proviene da Comune-info.
[2025-10-18] Futuro Ancestrale - Presentazione del libro di Ailton Krenak @ CSOA La Strada
FUTURO ANCESTRALE - PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI AILTON KRENAK CSOA La Strada - Via Passino, 24 (sabato, 18 ottobre 17:00) 🌍 Due giorni per intrecciare resistenze, desideri e futuri comuni. 📅 18 ottobre – ore 17 Presentazione del libro “Futuro Ancestrale”, un invito a immaginare un futuro che parte dalle radici. Appuntamenti inseriti nella rassegna “Comporre la resistenza per un mondo comune” di CSOA La Strada 📍 CSOA La Strada ✊ Verso la mobilitazione del 15 novembre, per una giustizia climatica sociale, queer e intersezionale.
[2025-10-17] Climate Pride - Festa di lancio @ CSOA La Strada
CLIMATE PRIDE - FESTA DI LANCIO CSOA La Strada - Via Passino, 24 (venerdì, 17 ottobre 22:00) 🌍 Due giorni per intrecciare resistenze, desideri e futuri comuni. 📅 17 ottobre – ore 22 Festa di lancio del Climate Pride Iniziamo insieme il percorso verso la mobilitazione internazionale del 15 novembre. Appuntamenti inseriti nella rassegna “Comporre la resistenza per un mondo comune” di CSOA La Strada 📍 CSOA La Strada ✊ Verso la mobilitazione del 15 novembre, per una giustizia climatica sociale, queer e intersezionale.