La Flotilla, le piazze e la vita che esonda

Comune-info - Monday, October 6, 2025

Nelle piazze per la Palestina, nei porti bloccati, nei gesti di solidarietà quotidiana, sono affiorate con forza dirompente altre logiche di valore: è l’etica non come morale privata ma come forza che crea mondi altri. La sfida ora è trasformare quella spinta etica in pratica di ogni giorno. “Le cucine collettive, le reti di mutuo aiuto, i media indipendenti, le esperienze agroecologiche e femministe – scrive Massimo De Angelis – sono già laboratori di questa nuova politica… Dalle pratiche di quartiere alle reti internazionali di solidarietà, la possibilità di altri mondi si costruisce solo se ciò che nasce in basso riesce a comunicare, a intrecciarsi, a esondare… oltre tutti i confini, identitari, nazionali e tematici… Finché la vita continuerà a esondare, la speranza troverà sempre il modo di rimettersi in mare…”

Torino, 3 ottobre. Foto Acmos

Nei giorni successivi all’attacco israeliano alla Global Sumud Flotilla, milioni di persone sono scese in piazza in Italia e nel mondo. Non solo per solidarietà con Gaza, ma per dire no all’indifferenza, alla complicità, alla rassegnazione. In Italia in particolare, il movimento ha contato due scioperi generalizzati (che a differenza degli scioperi generali non coinvolgono solo i lavoratori salariati a contratto determinato), e infiniti altri presidi e iniziative. Milioni di persone, in più di cento città, hanno trasformato l’indignazione in movimento. Ma ciò che più colpisce non è la quantità: è la qualità di questo respiro collettivo. Una moltitudine fatta di bambini, insegnanti, anziani, famiglie, operai, lesbiche, migranti, e aggiungete voi tutte le tipologie di differenze più o meno identitarie che volete: erano lì, se non erano in qualche bar a lamentarsi che “tanto non serve a niente” o “ma a me che me ne frega della Palestina”. Perfino i prigionieri hanno scioperato!

Le piazze per la Palestina e la Global Sumud Flotilla hanno aperto una breccia nella normalità di un mondo che fa del genocidio uno spettacolo quotidiano disarmante. È un movimento che nasce sicuramente da una pulsione etica — intesa non come insieme di precetti morali, ma come forza immanente della vita che reagisce all’ingiustizia e manifesta un conatus teso alla sovversione della ripugnante gerarchia dei valori che rende possibile il genocidio. Ma l’etica diventa politica quando il respiro dei corpi si fa comune, stravolge vecchi confini e riconosce collettivamente la differenza che fa la differenza, la linea rossa che ci separa da un potere carnefice. Come recita quel bellissimo cartello mostrato a Roma: “Pensavamo di liberare la Palestina, e invece la Palestina sta liberando noi”.

Ciò che si è espresso in queste piazze è stata una pulsazione vitale, un alito di vita, come lo ha chiamato Enrico Euli su Comune (La vita dentro e contro la morte): la riaffermazione della vita contro la morte, dell’agire collettivo contro l’anestesia del potere. Improvvisamente, ci siamo scoperti non più solo disincantati, non più solo cinici, né solo rassegnati. Questa esplosione mostra un’oscillazione tra due sentimenti che in tanti, più o meno condividiamo: da un lato la consapevolezza dell’impotenza di fronte al mostro della guerra, del tecno-fascismo globale, della catastrofe ecologica e morale in cui siamo immersi; dall’altro la spinta irresistibile a reagire, a scendere in strada, a dire no, anche sapendo che la battaglia sembra persa. Questa ambivalenza non è una debolezza, ma la condizione reale dell’agire oggi. È il terreno su cui si gioca il rapporto, l’intreccio tra etica e politica.

Dentro questa vibrazione si intrecciano etica e politica, pratica e valore, locale e planetario: un nuovo campo di possibilità che abbiamo chiamato sumud — perseveranza, radicamento, respiro. Perché quando la morte diventa sistema e la pace un’industria degli armamenti, ogni gesto di vita che esonda è già politico. Ogni barca che salpa, ogni corteo che attraversa la città, ogni kefiah attorno al collo dice la stessa cosa: non nel mio nome. Una disobbedienza che attraversa il mare per rompere l’assedio, smascherare l’ignavia dei governi occidentali e portare aiuti a una popolazione condannata alla fame. Valori relazionali e d’uso riarticolati di fronte a un sistema che tende a imporre il dominio esclusivo del valore di scambio e del comando imperiale.

Franco (Bifo) Berardi (Una sollevazione etica. E adesso?) ha descritto la mobilitazione come una “rivolta etica”, e lo è, ma non nel senso moralistico del termine. L’etica di cui parliamo qui non è un codice, è un campo di forze. È l’emergere e il manifestarsi di altri criteri di valore, di altre misure del possibile, dentro la cooperazione sociale. E questo altro è il portato di corpi che si mettono in gioco. Lea Melandri (I corpi e la responsabilità collettiva) lo ha colto bene: le piazze hanno rimesso al centro ciò che per secoli è stato considerato “fuori tema” – i corpi, la vita intima, le esperienze dell’umano. Come nel Sessantotto, i “soggetti imprevisti” – donne, giovani, persone comuni – sono tornati sulla scena, portando con sé il senso di una responsabilità condivisa. In un tempo in cui la politica istituzionale appare spenta, la politicità rinasce nella presenza: nelle mani, nei passi, nelle voci, negli sguardi.

Amador Fernández-Savater (La flotilla è un atto di disobbedienza politica) lo dice con chiarezza: la Flotilla “non è un’iniziativa umanitaria, ma un atto di disobbedienza politica”. È la giustizia che ritrova la propria spada, non nella violenza, ma nella forza dei corpi in movimento. Il linguaggio umanitario separa la cura dalla politica; la Flotilla le ricompone. Portare pane e medicine, in questo contesto, significa sfidare la logica della guerra. È una crepa nel dominio, un atto di valore. E in tanti ci siamo riconosciuti in questo atto di valore.

Parlare di etica, in fondo, significa parlare di prassi di valore: l’etica non è un altrove della vita, ma il modo in cui, attraverso la cooperazione sociale e i legami quotidiani che ci intrecciano a molteplici circuiti produttivi, produciamo e riproduciamo non solo beni, ma anche valori, relazioni e significati. Il capitalismo, tuttavia, gerarchizza questi processi, ponendo al vertice il valore di scambio – e i profitti e le logiche di comando che lo accompagnano – e subordinando ad esso i valori d’uso e relazionali.

Nel mio lavoro chiamo prassi di valore questo terreno di pratiche attraverso cui le persone producono e riproducono insieme materia e senso: beni, relazioni, significati. Ogni società è attraversata da diversi domini del valore – relazionali, d’uso, di scambio, di comando – in costante tensione. Il capitalismo li ordina in una piramide, ma la vita quotidiana sfugge sempre a tale riduzione: in ogni gesto di solidarietà, di cura o di disobbedienza emergono altre forme di valore che sovvertono la gerarchia dominante e ricompongono i valori relazionali e d’uso.

Nelle piazze per la Palestina, nei porti bloccati, nei gesti di solidarietà quotidiana, sono affiorate con forza dirompente queste altre logiche di valore: relazionali, vitali, orientate alla vita e non al profitto. Sono state il luogo in cui la potenza relazionale dei corpi ha sfidato il comando, in cui l’uso e la cura si sono contrapposti alla logica dello scambio e della guerra. L’etica, così intesa, non è una morale privata ma una forza costituente, e quindi politica: il desiderio di riorganizzare la vita e la cooperazione sociale secondo ciò che vale davvero.

Viviamo in un mondo che ci chiede ogni giorno di adattarci: di lavorare, consumare, tacere, mentre il sistema distrugge le condizioni della vita. Eppure, nello stesso mondo, affiora una contro-pulsazione: quella di chi non si rassegna, di chi sente che anche un piccolo gesto di cura, una manifestazione, un atto di disobbedienza, ha un valore intrinseco, anche se non produce risultati immediati. Tra l’adattamento disincantato e il desiderio di diserzione, tra la rassegnazione e la speranza, si muove la tensione che chiamiamo etica. Ed è da questa tensione che può nascere, di nuovo, la politica.

Ma ogni forza etica è fragile se non trova forme di organizzazione. L’ambivalenza del nostro tempo – tra impotenza e desiderio – non si supera con la sola indignazione. Serve continuità, serve durata, servono contesti di cooperazione reale, dove insieme possiamo liberarci, anche materialmente, anche per gradi, dall’egemonia di questo potere e dalle sue regole di vita. Da qui la sfida: trasformare la spinta etica in pratica quotidiana. Non solo scendere in piazza, ma creare mondi. Le cucine collettive, le reti di mutuo aiuto, i media indipendenti, le esperienze agroecologiche e femministe sono già laboratori di questa nuova politica: non rappresentativa, ma costituente. Queste esperienze – locali, concrete, radicate nei territori – non sono un rifugio, ma punti di partenza. Ogni volta che una comunità si organizza per vivere diversamente, apre una breccia nell’ordine dominante e crea le condizioni per una connessione più ampia. Dalle pratiche di quartiere alle reti internazionali di solidarietà, la possibilità di altri mondi si costruisce solo se ciò che nasce dal basso riesce a comunicare, a intrecciarsi, a esondare.

È in questo orizzonte che si colloca il richiamo di Sandro Mezzadra (su Euronomade) Esondare: il movimento deve continuare a esondare, uscire dai confini nazionali, perché solo in questa trasversalità può mettere in discussione la disparità delle forze. Esondare non è solo diffondersi, ma esistere e resistere a ogni scala: dal locale al planetario, dal simbolico al materiale, dal quotidiano all’infrastrutturale. La guerra e il genocidio sono processi globali, che intrecciano finanza, logistica, diplomazia e media. Ma sono anche processi che si giocano nelle quotidianità della vita, come momenti situati di quei processi globali. Per opporvisi, serve una contro-rete di pratiche e solidarietà, un comune transazionale che colleghi le lotte in porti, università, campagne e quartieri del mondo e che apra e riesca a concatenare spazi altri di cooperazione sociale. L’esondazione, in questa chiave, è una prassi del valore che dilata la cooperazione sociale oltre tutti i confini — identitari, nazionali e tematici — facendo comunicare i domini del valore tra popoli e territori, tra il Mediterraneo e l’America Latina, tra i movimenti ecologisti, del lavoro, migranti e di liberazione. Non cancella le differenze, le accorda. Genera un nuovo respiro planetario: una politica senza centro fisso, radicata nel movimento stesso della vita che si difende e della cooperazione sociale che cerca di riconfigurarsi su nuove basi.

Nelle piazze per Gaza, questo respiro si è sentito chiaramente. Non l’unità rigida di un partito, ma la polifonia di una jam session: dissonanze e improvvisazioni che cercano armonia. Si è percepito il ritmo del commoning, il fare in comune come arte e come necessità. L’etica diventa ritmo, la politica diventa danza, e il respiro – come nella musica jazz – diventa forza collettiva.

La Flotilla, allora, non è un atto isolato, ma un segno di transizione: dall’umanitario al comune, dal soccorso alla solidarietà, dal gesto alla trasformazione. Ogni volta che la vita afferma se stessa contro la morte, si produce una bellezza che è anche potenza materiale. È la politica come creazione di condizioni di vita condivisa.

Oggi, di fronte alla catastrofe, il gesto più semplice e più difficile resta quello di continuare a respirare. Ma respirare, da soli, non basta. Le piazze, le barche, le reti di solidarietà ci dicono che il respiro può ancora diventare comune, armonizzato, persistente.

Esistere oggi è sempre più resistere e resistere significa trasformare l’etica in politica, la compassione in cooperazione, la semplice sopravvivenza in vita condivisa.

Finché c’è respiro comune, la storia non è finita. E finché la vita continuerà a esondare, la speranza troverà sempre il modo di rimettersi in mare.

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