La Flotilla, le piazze e la vita che esondaNELLE PIAZZE PER LA PALESTINA, NEI PORTI BLOCCATI, NEI GESTI DI SOLIDARIETÀ
QUOTIDIANA, SONO AFFIORATE CON FORZA DIROMPENTE ALTRE LOGICHE DI VALORE: È
L’ETICA NON COME MORALE PRIVATA MA COME FORZA CHE CREA MONDI ALTRI. LA SFIDA ORA
È TRASFORMARE QUELLA SPINTA ETICA IN PRATICA DI OGNI GIORNO. “LE CUCINE
COLLETTIVE, LE RETI DI MUTUO AIUTO, I MEDIA INDIPENDENTI, LE ESPERIENZE
AGROECOLOGICHE E FEMMINISTE – SCRIVE MASSIMO DE ANGELIS – SONO GIÀ LABORATORI DI
QUESTA NUOVA POLITICA… DALLE PRATICHE DI QUARTIERE ALLE RETI INTERNAZIONALI DI
SOLIDARIETÀ, LA POSSIBILITÀ DI ALTRI MONDI SI COSTRUISCE SOLO SE CIÒ CHE NASCE
IN BASSO RIESCE A COMUNICARE, A INTRECCIARSI, A ESONDARE… OLTRE TUTTI I CONFINI,
IDENTITARI, NAZIONALI E TEMATICI… FINCHÉ LA VITA CONTINUERÀ A ESONDARE, LA
SPERANZA TROVERÀ SEMPRE IL MODO DI RIMETTERSI IN MARE…”
Torino, 3 ottobre. Foto Acmos
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Nei giorni successivi all’attacco israeliano alla Global Sumud Flotilla, milioni
di persone sono scese in piazza in Italia e nel mondo. Non solo per solidarietà
con Gaza, ma per dire no all’indifferenza, alla complicità, alla rassegnazione.
In Italia in particolare, il movimento ha contato due scioperi generalizzati
(che a differenza degli scioperi generali non coinvolgono solo i lavoratori
salariati a contratto determinato), e infiniti altri presidi e iniziative.
Milioni di persone, in più di cento città, hanno trasformato l’indignazione in
movimento. Ma ciò che più colpisce non è la quantità: è la qualità di questo
respiro collettivo. Una moltitudine fatta di bambini, insegnanti, anziani,
famiglie, operai, lesbiche, migranti, e aggiungete voi tutte le tipologie di
differenze più o meno identitarie che volete: erano lì, se non erano in qualche
bar a lamentarsi che “tanto non serve a niente” o “ma a me che me ne frega della
Palestina”. Perfino i prigionieri hanno scioperato!
Le piazze per la Palestina e la Global Sumud Flotilla hanno aperto una breccia
nella normalità di un mondo che fa del genocidio uno spettacolo quotidiano
disarmante. È un movimento che nasce sicuramente da una pulsione etica — intesa
non come insieme di precetti morali, ma come forza immanente della vita che
reagisce all’ingiustizia e manifesta un conatus teso alla sovversione della
ripugnante gerarchia dei valori che rende possibile il genocidio. Ma l’etica
diventa politica quando il respiro dei corpi si fa comune, stravolge vecchi
confini e riconosce collettivamente la differenza che fa la differenza, la linea
rossa che ci separa da un potere carnefice. Come recita quel bellissimo cartello
mostrato a Roma: “Pensavamo di liberare la Palestina, e invece la Palestina sta
liberando noi”.
Ciò che si è espresso in queste piazze è stata una pulsazione vitale, un alito
di vita, come lo ha chiamato Enrico Euli su Comune (La vita dentro e contro la
morte): la riaffermazione della vita contro la morte, dell’agire collettivo
contro l’anestesia del potere. Improvvisamente, ci siamo scoperti non più solo
disincantati, non più solo cinici, né solo rassegnati. Questa esplosione mostra
un’oscillazione tra due sentimenti che in tanti, più o meno condividiamo: da un
lato la consapevolezza dell’impotenza di fronte al mostro della guerra, del
tecno-fascismo globale, della catastrofe ecologica e morale in cui siamo
immersi; dall’altro la spinta irresistibile a reagire, a scendere in strada, a
dire no, anche sapendo che la battaglia sembra persa. Questa ambivalenza non è
una debolezza, ma la condizione reale dell’agire oggi. È il terreno su cui si
gioca il rapporto, l’intreccio tra etica e politica.
Dentro questa vibrazione si intrecciano etica e politica, pratica e valore,
locale e planetario: un nuovo campo di possibilità che abbiamo chiamato sumud —
perseveranza, radicamento, respiro. Perché quando la morte diventa sistema e la
pace un’industria degli armamenti, ogni gesto di vita che esonda è già politico.
Ogni barca che salpa, ogni corteo che attraversa la città, ogni kefiah attorno
al collo dice la stessa cosa: non nel mio nome. Una disobbedienza che attraversa
il mare per rompere l’assedio, smascherare l’ignavia dei governi occidentali e
portare aiuti a una popolazione condannata alla fame. Valori relazionali e d’uso
riarticolati di fronte a un sistema che tende a imporre il dominio esclusivo del
valore di scambio e del comando imperiale.
Franco (Bifo) Berardi (Una sollevazione etica. E adesso?) ha descritto la
mobilitazione come una “rivolta etica”, e lo è, ma non nel senso moralistico del
termine. L’etica di cui parliamo qui non è un codice, è un campo di forze. È
l’emergere e il manifestarsi di altri criteri di valore, di altre misure del
possibile, dentro la cooperazione sociale. E questo altro è il portato di corpi
che si mettono in gioco. Lea Melandri (I corpi e la responsabilità collettiva)
lo ha colto bene: le piazze hanno rimesso al centro ciò che per secoli è stato
considerato “fuori tema” – i corpi, la vita intima, le esperienze dell’umano.
Come nel Sessantotto, i “soggetti imprevisti” – donne, giovani, persone comuni –
sono tornati sulla scena, portando con sé il senso di una responsabilità
condivisa. In un tempo in cui la politica istituzionale appare spenta, la
politicità rinasce nella presenza: nelle mani, nei passi, nelle voci, negli
sguardi.
Amador Fernández-Savater (La flotilla è un atto di disobbedienza politica) lo
dice con chiarezza: la Flotilla “non è un’iniziativa umanitaria, ma un atto di
disobbedienza politica”. È la giustizia che ritrova la propria spada, non nella
violenza, ma nella forza dei corpi in movimento. Il linguaggio umanitario separa
la cura dalla politica; la Flotilla le ricompone. Portare pane e medicine, in
questo contesto, significa sfidare la logica della guerra. È una crepa nel
dominio, un atto di valore. E in tanti ci siamo riconosciuti in questo atto di
valore.
Parlare di etica, in fondo, significa parlare di prassi di valore: l’etica non è
un altrove della vita, ma il modo in cui, attraverso la cooperazione sociale e i
legami quotidiani che ci intrecciano a molteplici circuiti produttivi,
produciamo e riproduciamo non solo beni, ma anche valori, relazioni e
significati. Il capitalismo, tuttavia, gerarchizza questi processi, ponendo al
vertice il valore di scambio – e i profitti e le logiche di comando che lo
accompagnano – e subordinando ad esso i valori d’uso e relazionali.
Nel mio lavoro chiamo prassi di valore questo terreno di pratiche attraverso cui
le persone producono e riproducono insieme materia e senso: beni, relazioni,
significati. Ogni società è attraversata da diversi domini del valore –
relazionali, d’uso, di scambio, di comando – in costante tensione. Il
capitalismo li ordina in una piramide, ma la vita quotidiana sfugge sempre a
tale riduzione: in ogni gesto di solidarietà, di cura o di disobbedienza
emergono altre forme di valore che sovvertono la gerarchia dominante e
ricompongono i valori relazionali e d’uso.
Nelle piazze per la Palestina, nei porti bloccati, nei gesti di solidarietà
quotidiana, sono affiorate con forza dirompente queste altre logiche di valore:
relazionali, vitali, orientate alla vita e non al profitto. Sono state il luogo
in cui la potenza relazionale dei corpi ha sfidato il comando, in cui l’uso e la
cura si sono contrapposti alla logica dello scambio e della guerra. L’etica,
così intesa, non è una morale privata ma una forza costituente, e quindi
politica: il desiderio di riorganizzare la vita e la cooperazione sociale
secondo ciò che vale davvero.
Viviamo in un mondo che ci chiede ogni giorno di adattarci: di lavorare,
consumare, tacere, mentre il sistema distrugge le condizioni della vita. Eppure,
nello stesso mondo, affiora una contro-pulsazione: quella di chi non si
rassegna, di chi sente che anche un piccolo gesto di cura, una manifestazione,
un atto di disobbedienza, ha un valore intrinseco, anche se non produce
risultati immediati. Tra l’adattamento disincantato e il desiderio di
diserzione, tra la rassegnazione e la speranza, si muove la tensione che
chiamiamo etica. Ed è da questa tensione che può nascere, di nuovo, la politica.
Ma ogni forza etica è fragile se non trova forme di organizzazione.
L’ambivalenza del nostro tempo – tra impotenza e desiderio – non si supera con
la sola indignazione. Serve continuità, serve durata, servono contesti di
cooperazione reale, dove insieme possiamo liberarci, anche materialmente, anche
per gradi, dall’egemonia di questo potere e dalle sue regole di vita. Da qui la
sfida: trasformare la spinta etica in pratica quotidiana. Non solo scendere in
piazza, ma creare mondi. Le cucine collettive, le reti di mutuo aiuto, i media
indipendenti, le esperienze agroecologiche e femministe sono già laboratori di
questa nuova politica: non rappresentativa, ma costituente. Queste esperienze –
locali, concrete, radicate nei territori – non sono un rifugio, ma punti di
partenza. Ogni volta che una comunità si organizza per vivere diversamente, apre
una breccia nell’ordine dominante e crea le condizioni per una connessione più
ampia. Dalle pratiche di quartiere alle reti internazionali di solidarietà, la
possibilità di altri mondi si costruisce solo se ciò che nasce dal basso riesce
a comunicare, a intrecciarsi, a esondare.
È in questo orizzonte che si colloca il richiamo di Sandro Mezzadra (su
Euronomade) Esondare: il movimento deve continuare a esondare, uscire dai
confini nazionali, perché solo in questa trasversalità può mettere in
discussione la disparità delle forze. Esondare non è solo diffondersi, ma
esistere e resistere a ogni scala: dal locale al planetario, dal simbolico al
materiale, dal quotidiano all’infrastrutturale. La guerra e il genocidio sono
processi globali, che intrecciano finanza, logistica, diplomazia e media. Ma
sono anche processi che si giocano nelle quotidianità della vita, come momenti
situati di quei processi globali. Per opporvisi, serve una contro-rete di
pratiche e solidarietà, un comune transazionale che colleghi le lotte in porti,
università, campagne e quartieri del mondo e che apra e riesca a concatenare
spazi altri di cooperazione sociale. L’esondazione, in questa chiave, è una
prassi del valore che dilata la cooperazione sociale oltre tutti i confini —
identitari, nazionali e tematici — facendo comunicare i domini del valore tra
popoli e territori, tra il Mediterraneo e l’America Latina, tra i movimenti
ecologisti, del lavoro, migranti e di liberazione. Non cancella le differenze,
le accorda. Genera un nuovo respiro planetario: una politica senza centro fisso,
radicata nel movimento stesso della vita che si difende e della cooperazione
sociale che cerca di riconfigurarsi su nuove basi.
Nelle piazze per Gaza, questo respiro si è sentito chiaramente. Non l’unità
rigida di un partito, ma la polifonia di una jam session: dissonanze e
improvvisazioni che cercano armonia. Si è percepito il ritmo del commoning, il
fare in comune come arte e come necessità. L’etica diventa ritmo, la politica
diventa danza, e il respiro – come nella musica jazz – diventa forza collettiva.
La Flotilla, allora, non è un atto isolato, ma un segno di transizione:
dall’umanitario al comune, dal soccorso alla solidarietà, dal gesto alla
trasformazione. Ogni volta che la vita afferma se stessa contro la morte, si
produce una bellezza che è anche potenza materiale. È la politica come creazione
di condizioni di vita condivisa.
Oggi, di fronte alla catastrofe, il gesto più semplice e più difficile resta
quello di continuare a respirare. Ma respirare, da soli, non basta. Le piazze,
le barche, le reti di solidarietà ci dicono che il respiro può ancora diventare
comune, armonizzato, persistente.
Esistere oggi è sempre più resistere e resistere significa trasformare l’etica
in politica, la compassione in cooperazione, la semplice sopravvivenza in vita
condivisa.
Finché c’è respiro comune, la storia non è finita. E finché la vita continuerà a
esondare, la speranza troverà sempre il modo di rimettersi in mare.
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