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Per capire il mondo occorre andare sui propri incerti confini
-------------------------------------------------------------------------------- Polo civico Esquilino, Roma, 8 novembre 2025: prima presentazione del libro “Gridare, fare, pensare mondi nuovi” pubblicato da Eleuthera, con testi di Marco Calabria -------------------------------------------------------------------------------- Marco non era un mio amico di lunga data. Non so quando ci siamo conosciuti la prima volta, ma è come se lo fossimo da sempre. Non per mio merito, sono piuttosto timido e taciturno, ma Marco era un diluvio, bastava accennare a un argomento qualsiasi, che poi lui prendeva il sopravvento senza mai smettere. Era facile diventare suo amico. Eppure a fronte di tanto entusiasmo per la vita, la passione per la politica, a volte mi sembrava di scorgere nei suoi occhi una sorta di tristezza, non so se chiamarla tristezza, forse nostalgia. Talvolta mi sono chiesto se la mia impressione fosse giusta e, se lo fosse, quale nostalgia rimpiangesse. Non saprei rispondere. Una volta ci siamo visti in una nostra casa vicino Roma, c’era suo figlio Martín, hanno dormito da noi. Si capiva che amava Martín. Ho visto quella sofferenza di chi è chiamato a dividersi tra l’amore del figlio e la vita politica che lo portava lontano da lui o, almeno, a non stare con lui quanto avrebbe desiderato. Mi parlava dei suoi viaggi politici, delle persone che aveva conosciuto e di quelle famose che aveva incontrato e io che avevo una vita piuttosto modesta, tra casa e università, fantasticavo lontani paesi che non ho mai visto e avventure che non ho mai avuto. Ho letto il libro Gridare, fare, pensare mondi nuovi e i suoi scritti e ci ho ritrovato quella febbre, quella passione che avevo intuito quando ci siamo conosciuti. Quando mia moglie e io proponemmo a lui e alla redazione di Comune di fare un’indagine sui centri sociali nella capitale, parlando di comunità e di fratellanze, lui era solito fare una battuta: “Chi pulisce i cessi?”, come a dire che la vita in comunità era comunque cosa difficile. Mi è facile pensare che quella sua febbre politica sia anche responsabile, so di dire una cosa sciocca, della sua morte prematura, come una febbre causata da una grande sofferenza per i tempi che viviamo. Perché credo che ci siano persone che sulle proprie e deboli spalle si caricano dei mali e delle sofferenze di tutto il mondo; loro soffrono più di ogni altro che pure condivide le stesse idee. Ma forse sto sottovalutando, con questo mio cianciare, il grande impegno politico di Marco sempre nelle retrovie come accade a persone che autenticamente sentono la passione e non la esibiscono. Non ci sono più modelli di riferimento per creare quella società di cui parlava Marco. Spetta a ognuno di noi cercarla perché nessuna generazione possiede il monopolio della verità e chi vuole provare a capire il mondo deve imparare ad andare sui propri incerti confini, come faceva Marco. Le ragioni storiche della sinistra torneranno allora di nuovo utili, ma solo dopo averle attraversate e lasciate per un attimo alle spalle. Ho sempre avuto molta stima (sebbene poco coraggio per imitarli) per coloro che vivono esattamente come pensano: San Francesco, ad esempio, Marco, ma anche tante (perché sono tante) persone che conosciamo: non ricche, radicali, spesso solitarie, che non arretrano mai e fanno della loro sconfitta una vittoria. Non sono una categoria, si dirà, nemmeno una classe ma chissà se da queste retrovie non possa nascere il nuovo: un nuovo linguaggio, una nuova solidarietà, una nuova fratellanza o sorellanza. Un discorso pre-politico il mio, ma forse anch’esso necessario per un cambiamento. -------------------------------------------------------------------------------- In onore della sua scomparsa, con mia moglie Claudia, scrivemmo una poesia: Caro Marco, sei stato sempre uno sconfitto, ma proprio per questo sempre vincitore. Il mondo reale (quella cappa di conformismo complice) ti ha appena sfiorato, lo allontanavi col tuo sorriso contagioso. Volevi la Luna e non il dito,guardavi le nubi, nell’azzurro del cielo. Stare insieme era la tua vita,senza soldi era la tua borsa. Se c’è un “Che” nel nostro paese,quello sei tu, sempre in cerca di nuove speranze. L’albero che ci hai regalato – San Bartolomeo si chiama –, ci ricorda la tua passione e svetta sereno verso il cielo. [Claudia Mineide ed Enzo Scandurra] -------------------------------------------------------------------------------- Questa invece una sua poesia “Contro la morte” scritta nel lontano 1978: Siate incapaci di accettare la realtà! Vi prego.Sembra incredibile persino a mema anche adesso, dilaniato,non morirò. Non morirò, perché sono vita,sangue, piedi e pensiero; vita.Alle cinque e quaranta del mattino, in cucina,disperatamente, convulsamente vivo.Contro i mulini del vento disumanoe le paure di volare e di utopia.E ancora nuoto tra le rapidesolo per un motivo:vi amo. [M.C., Torino, 10 settembre 1978] -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Per capire il mondo occorre andare sui propri incerti confini proviene da Comune-info.
Omaggio a Marco Calabria
UNA SALA PIENA, AL POLO CIVICO ESQUILINO DI ROMA, HA ACCOLTO SABATO 8 NOVEMBRE (MALGRADO METRO CHIUSE, BUS DEVIATI, TRAFFICO), LA PRIMA PRESENTAZIONE DI GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI, L’ANTOLOGIA CURATA DA GIANLUCA CARMOSINO E PUBBLICATA DA ELÈUTHERA CHE RACCOGLIE TESTI DI MARCO CALABRIA. IL LIBRO È UNA BUSSOLA CHE AIUTA A COMPRENDERE I POPOLI E LE ESPERIENZE CHE OVUNQUE STANNO PERCORRENDO SENTIERI COMPLETAMENTE NUOVI, ALTERNATIVI ALLE LOGICHE DEL CAPITALISMO, E PER QUESTO FRAGILI E IMPERFETTI, TRACCIANDO LA STRADA MAN MANO CHE AVANZANO. L’INTERVENTO DI RAÚL ZIBECHI CHE, IN COLLEGAMENTO DA MONTEVIDEO, HA APERTO L’INCONTRO La morte di un amico è una ferita al cuore. La scomparsa di Marco è molto più della morte di una persona cara, è la perdita di una memoria storica inestimabile in un momento in cui il capitalismo sta lottando proprio per cancellare la memoria collettiva di popoli, classe e individuo. È, quindi, doppiamente dolorosa. In un anno abbiamo pero Marco Calabria e Aldo Zanchetta. Due amici, due compagni di lotta, due luci che hanno illuminato le nostre vite, anche nei giorni più bui, e nutrito la speranza in un modo diverso. Marco sapeva trovare alternative al capitalismo nelle piccole cose della vita quotidiana, come ha accennato Stefania Consigliere nella sua recente intervista su Comune (Perché è difficile riconoscere mondi nuovi). Sebbene fosse un fervente ammiratore di Mao (cosa che condividevamo), la sua casa aveva un grande terrazzo dove centinaia di piante e piccoli alberi competevano con la grigia monotonia del cemento urbano. I suoi gatti e quelli del quartiere scorrazzavano li, mente Marco fumava una sigaretta dopo l’altra. Amava la natura con la stessa semplice ammirazione con cui amava giocare o ascoltare i bambini, ai quali dedicava attenzione e rispetto, senza il minimo accenno di paternalismo. Por essendo un uomo bianco, occidentale e urbano, capì lo zapatismo senza essere mai stato in Chiapas, così come capì i popoli in movimento in tutta l’America Latina. Comprendere è un atto creativo, ci ha detto Keyserling. Creare è una pratica sociale, individuale e collettiva che implica andar oltre l’esistente, reinventandolo nel materiale e del simbolico. In questo senso, Marco era un creatore fantasioso di nuovi mondi, sapeva riconoscere quando qualcosa di diverso stava nascendo. Credo che il miglior omaggio che possiamo rendere a Marco oggi, a un anno dalla sua silenziosa scomparsa, sia continuare a comprendere i popoli che stanno percorrendo sentieri completamente nuovi, inediti e originali, tracciando la strada man mano che avanzano, come diceva Antonio Machado. Grazie, Marco, per averci dato così tanto, senza aspettare nulla in cambio. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Omaggio a Marco Calabria proviene da Comune-info.
La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazza
LA TREGUA NON NASCE NEL VUOTO: È IL FRUTTO DI UNA COMBINAZIONE DI CONTROPULSAZIONI SOCIALI (MANIFESTAZIONI, BLOCCHI NEI PORTI, SCIOPERI, AZIONI DI SOLIDARIETÀ…), CRISI DIPLOMATICHE E PERDITA DI LEGITTIMITÀ CHE HANNO COSTRETTO IL COMANDO A CAMBIARE RITMO. “IL CESSATE IL FUOCO NON È UN ATTO DI COSCIENZA MA UNA MANOVRA DI SOPRAVVIVENZA DEL SISTEMA… – SCRIVE MASSIMO DE ANGELIS – NEI PROSSIMI MESI, TRE SCENARI RESTANO IN TENSIONE… IN CIASCUNO DI QUESTI, I MOVIMENTI RESTANO DECISIVI…” Foto Prc Parma -------------------------------------------------------------------------------- L’ha detto la nostra presidente del Consiglio, lo ripetono quanti giustificano la propria ignavia di fronte al genocidio: le manifestazioni non servono, le bandiere non fermano i missili, la pace si costruisce “lavorando in silenzio”. Eppure, la cronologia degli eventi smentisce questa favoletta per adulti stanchi. Senza le piazze, senza la moltitudine di voci e di corpi che hanno reso impossibile l’indifferenza, non ci sarebbe stato alcun cessate il fuoco a Gaza. Negli ultimi mesi, una mobilitazione globale — estesa, plurale e persistente — ha incrinato la strategia bellica di Stati Uniti, Israele e dei loro alleati. Dalle università statunitensi alle piazze europee, dai porti italiani alle città australiane, africane e del Sudest asiatico, milioni di persone hanno costretto Donald Trump — fino ad allora garante della macchina di guerra — a imporre una tregua e a riaprire i negoziati. È stato uno spasmo sistemico: la solidarietà con la Palestina ha agito come contropulsazione dentro il ritmo del comando, interrompendone la coerenza funzionale. Le bombe si sono fermate, almeno per ora, anche se l’ingiustizia continua. Gli eventi parlano chiaro. In decine di porti — da Genova, Ravenna e Livorno a Oakland, Melbourne e al Pireo — lavoratori, sindacati e reti civili hanno organizzato blocchi, scioperi e rallentamenti che hanno toccato i flussi reali della logistica bellica. In Italia, i camion diretti in Israele sono stati fermati a Ravenna, mentre i portuali di Genova hanno interrotto le operazioni in segno di protesta. Al tempo stesso, la Global Sumud Flotilla muoveva verso Gaza, trasformando la solidarietà in forza materiale. Episodi simili negli Stati Uniti, in Grecia e in Australia hanno reso la guerra più costosa e visibile nelle catene di approvvigionamento globali. Laddove fino a un anno fa regnava il silenzio, come in Germania, le piazze si sono riempite; a Londra, anziani e persone con disabilità si sono fatti arrestare per sostenere le azioni di disobbedienza civile del movimento Palestine Action, paradossalmente classificato dal governo laburista come “terrorista”. Negli Stati Uniti, il consenso all’offensiva israeliana è crollato: a fine luglio solo il 32 per cento degli statunitensi la sosteneva, contro un 60 per cento contrario (sondaggio Gallup confermato dal Brookings Institute). È il minimo storico, e per la Casa Bianca un rischio politico enorme. Anche in Israele le pressioni interne sono aumentate: famiglie degli ostaggi e manifestanti hanno invocato una tregua e uno scambio, mentre i sondaggi di settembre e ottobre mostravano una maggioranza favorevole a un accordo negoziato. Poi lo scarto diplomatico: il raid israeliano a Doha contro membri di Hamas ha irritato il Qatar — mediatore chiave e alleato di Washington — innescando un effetto domino che ha condotto, il 14 ottobre, all’accordo di Sharm el-Sheikh firmato da Trump con Egitto, Qatar e Turchia. In quel clima, la pressione delle piazze internazionali ha amplificato il costo politico e morale di ogni sgarbo diplomatico, spingendo il comando a contenersi. Sul piano simbolico e giuridico, le misure provvisorie della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Sudafrica contro Israele hanno offerto ai movimenti un’arma potente: la guerra è apparsa non solo immorale, ma illegittima. La sequenza temporale è eloquente: settimane di scioperi e blocchi, crollo del consenso negli Usa, proteste interne in Israele, raid fallito a Doha, summit e firma del cessate il fuoco con lo scambio di venti ostaggi israeliani e duemila prigionieri palestinesi. La tregua, insomma, non nasce nel vuoto: è il frutto di una combinazione di contropulsazioni sociali, crisi diplomatiche e perdita di legittimità che hanno costretto il comando a cambiare ritmo, non per coscienza, ma per necessità. Le mobilitazioni nei cinque continenti, la Flotilla, i boicottaggi, hanno creato un evento di risonanza vitale. Hanno prodotto quella che, nel linguaggio cibernetico, è una varietà sistemica superiore alla capacità di controllo del potere. In concreto, hanno moltiplicato le variabili indipendenti che il sistema — tra Casa Bianca, Pentagono, Netanyahu e il complesso militare-finanziario — doveva tenere sotto controllo, alzando vertiginosamente i costi politici ed economici dello status quo. Quando la varietà dell’ambiente supera quella del comando, il sistema è costretto a cambiare ritmo per non implodere. Le piazze hanno così interferito con le frequenze operative del potere, imponendogli un adattamento strategico. Il cessate il fuoco non è un atto di coscienza — chi sponsorizza la guerra non cerca la pace — ma una manovra di sopravvivenza del sistema. Trump, fino a poche settimane prima sostenitore incondizionato dell’esercito israeliano, ha dovuto simulare un gesto di pace per ristabilire equilibrio interno e interrompere temporaneamente la catena genocida. Ma questa riconfigurazione resta transitoria: il comando ha solo cambiato fase per evitare la rottura, non la propria logica. L’impatto delle mobilitazioni si è manifestato su più piani: politico (crisi di legittimità nel discorso ufficiale statunitense), logistico (colpiti i gangli materiali della macchina di guerra), sociale (nuovo linguaggio pubblico: Gaza come simbolo universale della disumanizzazione), simbolico (la parola genocidio divenuta descrittore corrente, rafforzata dalla precedente idea trumpiana di trasformare Gaza in “riviera”). Questo momento segna il conflitto tra due ritmi vitali inconciliabili. Da un lato, il battito del comando, che riproduce dominio e capitale, trasforma la crisi in metodo di governo e la guerra in routine amministrativa. Dall’altro, il battito del comune, che si organizza attorno alla vita, alla cura, alla solidarietà e al diritto collettivo di esistere. Nelle settimane e mesi che hanno preceduto la tregua, queste due pulsazioni si sono scontrate apertamente: la moltitudine globale, con le sue piazze, porti e università, ha infranto la regolarità del potere, introducendo una varietà di forze e linguaggi che il centro non era più in grado di controllare. Il risultato è stato una condizione di risonanza instabile: la vita ha imposto la propria frequenza dentro il corpo rigido del comando, costringendolo a piegarsi, a mutare ritmo, a mascherare la ritrazione come “gesto di pace”. Il cessate il fuoco e il piano in venti punti non sono segni di coscienza, ma sintomi di instabilità: la risposta forzata di un sistema che, per non collassare, ha dovuto concedere una pausa al proprio stesso battito. Quando Trump ha detto a Netanyahu che “Israele non può mettersi contro il mondo”, ha pronunciato la frase che fotografa la mutazione in corso: il “mondo” evocato non è solo quello delle cancellerie, ma la moltitudine che si è mossa, cioè milioni di persone, reti civili, sindacati, università, porti, città, comunità religiose e digitali. È il mondo come ambiente vivente che, mobilitandosi, ha accresciuto la propria varietà fino a renderla ingovernabile entro i parametri del potere. È il mondo che, per un attimo, come un quarto di secolo prima scrisse il New York Times a proposito del movimento anti (o alter)-globalizzazione, è tornato a farsi superpotenza. Trump ha riconosciuto, forse senza volerlo, la validità della legge di Ashby: quando la varietà dell’ambiente supera quella del comando, quest’ultimo non può più controllare l’insieme se non diversificandosi o cedendo. Il cessate il fuoco non è quindi un gesto di magnanimità, ma una resa temporanea dinanzi a un ambiente che pulsa su frequenze più complesse e diffuse di quanto la sua architettura gerarchica possa sostenere. In questo senso, la frase di Trump è il sintomo di una crisi di controllo: il potere si scopre attraversato da una contro-pulsazione mondiale che ne ridefinisce i limiti. È la traduzione politica di una risonanza instabile: l’ordine del comando non riesce più ad assorbire la complessità che la vita — nelle sue infinite forme di solidarietà, protesta e cura — continua a generare. Il discorso alla Knesset e la ricomposizione del comando Ma non facciamoci illusioni: il potere, quando si piega, lo fa per riprendere fiato. Mentre la moltitudine respirava insieme, Trump è salito sul palco del comando per trasformare la ritrazione in trionfo, la resa in racconto di vittoria. Così il sistema tenta di riappropriarsi del ritmo che gli è sfuggito: mette in scena la pace come spettacolo, la tregua come atto di potere, sé stesso come regista della storia. Nel cuore della tregua, Trump ha convertito la Knesset in un palcoscenico: ha proclamato “l’alba storica di un nuovo Medio Oriente”, intestandosi cessate il fuoco, liberazione degli ostaggi e una pace capace — a sentir lui — di ridisegnare la regione; ha presentato il “piano in 20 punti” come architrave del dopoguerra, presentandolo come via maestra per rafforzare Israele e allargare gli Accordi di Abramo; e da imperatore, ha chiesto il perdono per Netanyahu, invadendo la sfera giudiziaria israeliana. L’aula lo ha celebrato con ovazioni, mentre i deputati che mostravano cartelli “Recognise Palestine” venivano allontanati: l’immagine perfetta di un consenso performato e di un dissenso amministrato in maniera da Trump definito “efficiente”, utile a riprodurre la retorica del “nuovo inizio” sgombrando la scena da note stonate. Quell’enfasi stride con la storia palestinese: ottant’anni di espulsioni, occupazione, colonie, check-point, bombardamenti, leggi d’apartheid. Chiamare “nuova alba” ciò che segue a decenni di notte significa mascherare la violenza strutturale col linguaggio del rinnovamento. Non ridefinisce: congela. Reinscrive la tregua nella narrazione coloniale che chiama “ordine” l’occupazione, “sicurezza” la segregazione e “pace” la soppressione dell’autodeterminazione. Il discorso di Trump è una pulsazione di ricomposizione del comando articolato su sei vettori. Su quello dello scopo, sposta la guerra nel passato e recita la “costruzione della pace storica”, convertendo la continuità della violenza in mito fondativo. Su quello dell’agenzia, non media: sovrasta, ingloba l’alleato e lega Washington al baricentro politico israeliano. Su quello della gestione della crisi rovescia la trama: l’escalation diventa prova di leadership, vittime e rovine materia di auto-legittimazione. Sposta poi l’attenzione: la distruzione di Gaza e l’occupazione della Cisgiordania scivolano fuori campo, restano “incubi finiti” chiusi dal carisma del leader. Sul piano degli strumenti, la Knesset diventa dispositivo: si sigilla l’alleanza personale, si ritualizza la centralità del piano, si testano i limiti del dissenso. E quando Trump compiaciuto ricorda che “Netanyahu ha sempre chiesto nuove armi, e le ha usate bene”, esibisce la logica nuda della strumentalità: l’efficienza dell’annientamento come metrica di successo. Dire “le ha usate bene” significa normalizzare il genocidio come competenza tecnica: macerie, corpi, ospedali colpiti come prova di “buona amministrazione” militare. È l’osceno al servizio della burocrazia della morte. Infine, la ricalibrazione delle soglie: formule enfatiche e apparato simbolico fissano come “standard minimo” l’adesione alla tregua nei termini del piano; la critica diventa anti-israeliana o anti-presidenziale. L’espulsione dei deputati dissenzienti non è incidente: è grammatica della soglia. Questo impianto risponde e tenta di neutralizzare la contro-pulsazione che ha reso possibile la tregua. Ciò che la piazza ha imposto — cessate il fuoco, scambio, riapertura del dossier politico — viene riscritto come iniziativa presidenziale; l’abbraccio a Netanyahu e l’appello al perdono offrono copertura a un vertice delegittimato, mentre la gestione del dissenso comunica che nella “commemorazione” della pace non c’è spazio per la giustizia. La questione palestinese — che il discorso di Trump alla Knesset aveva accuratamente eluso — riemerge nel punto 19 del piano come una promessa condizionata, quasi un promemoria diplomatico più che un impegno politico. Vi si legge che “con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele del programma di riforme dell’Autorità Palestinese, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese”. È una formulazione studiata per suonare bene e non cambiare nulla: la statualità diventa un premio futuro, subordinato alla “fedeltà” a un programma di riforme dettato dall’esterno. Non un diritto, ma una concessione da meritare. Così il comando trasforma l’autodeterminazione in meccanismo di condizionamento. A Hamas, per ora, è riconosciuto il ruolo di polizia interna per impedire che la tregua diventi spazio politico; la Cisgiordania scivola nel freeze & fragment di colonizzazione diffusa. Il nodo della rappresentanza viene rinviato per neutralizzarlo: silenzio su Marwan Barghouti e su qualsiasi leadership credibile. Ne risulta il prototipo del protettorato post-bellico: Gaza sarà amministrata da tecnocrati, per ora vigilata da Hamas, finanziata da partner regionali; “riconciliazione” come maschera di continuità dell’occupazione. Intanto, lo spazio politico dal basso — riapertosi dalla Unity Intifada del 2021 contro l’indurimento dell’assedio a Gaza e della vita dei palestinesi in Cisgiordania, fino ai bombardamenti recenti — rischia di essere imbrigliato nella “ricostruzione controllata”. In questi anni, una “micro-democrazia dell’emergenza” ha retto la vita: comitati di quartiere, reti di donne, cooperative, università, e una rete di cucine comunitarie (oltre 190, fino a 650.000 pasti al giorno nel giugno 2024 a Gaza) hanno mediato bisogni, aiuti, sicurezza. Oggi quel tessuto viene spinto nel recinto tecnocratico: l’autodeterminazione subordinata a parametri di sicurezza e governance; si parla di “riforme”, si pratica “normalizzazione”. Il risultato è chiaro: un popolo senza possibilità di scegliere chi lo rappresenta resta prigioniero anche nella tregua. Gaza rischia il protettorato sorvegliato; la Cisgiordania, un mosaico di enclave sempre più frammentate. Mentre il piano proclama “l’alba di un nuovo Medio Oriente”, costruisce un crepuscolo prolungato della sovranità palestinese: l’autodeterminazione promessa come aspirazione, negata come fatto. Perciò il discorso di Trump al parlamento israeliano funziona da ponte, non da approdo. Ponte verso cosa? Tutto dipende dalle contro-pulsazioni: se i movimenti trasformano la pressione in struttura (condizionalità, monitoraggi pubblici, coalizioni transnazionali, campagna su rappresentanza e prigionieri politici), la recita della Knesset resterà un esercizio di stile; se la mobilitazione scende sotto una soglia critica, quella scena diventerà la prova generale del ritorno all’ordine. Scenari in movimento Il cessate il fuoco e il piano a venti punti non rappresentano la fine del conflitto, ma l’apertura di un campo di battaglia politico e sociale. Nei prossimi mesi, tre scenari restano in tensione. Il primo — il più probabile — è quello di una stabilizzazione tecnocratica del conflitto: Gaza trasformata in un protettorato amministrato da esperti e sponsor occidentali, mentre la Cisgiordania scivola nel freeze & fragment di colonizzazione e annessione silenziosa. Il secondo è quello della ricomposizione palestinese, con una leadership legittimata e popolare, resa possibile — a detta di molti — solo dalla liberazione di Marwan Barghouti, oggi ostinatamente trattenuto da Israele. Ma una leadership politica unitaria potrà emergere solo se saprà intrecciarsi con la forza costituente dal basso che la società palestinese ha già dimostrato: la capacità di organizzare la vita nel pieno della distruzione, di trasformare la sopravvivenza in solidarietà e la solidarietà in progetto politico. Infine, il terzo scenario è quello del ritorno all’escalation: se i meccanismi di scambio, liberazione e ricostruzione salteranno, la pulsazione del comando tornerà a prevalere con la violenza. In ciascuno di questi scenari, i movimenti restano decisivi. Nella governance tecnocratica, devono imporre condizioni chiare e vincolanti sugli aiuti e sulla rappresentanza palestinese, evitando che Gaza diventi un esperimento di “umanitarismo neocoloniale”. Nella prospettiva della ricomposizione, devono trasformare la campagna per la liberazione di Barghouti in un simbolo della sovranità popolare palestinese e della lotta globale contro il potere coloniale. Nel caso del freeze & fragment, devono spostare l’attenzione internazionale sulla Cisgiordania, documentando la colonizzazione, smascherando la falsa “normalità” e colpendo economicamente le catene di profitto legate agli insediamenti. E se la tregua dovesse infrangersi, dovranno tornare a occupare in massa la scena pubblica, rendendo immediatamente visibile e insostenibile ogni nuovo atto di guerra. In tutti i casi, la posta in gioco è la stessa: impedire che la tregua si richiuda in una pace neocoloniale e mantenere aperto lo spazio di autodeterminazione dal basso che la società palestinese — insieme alla solidarietà globale — ha faticosamente riaperto. Solo così la pulsazione del comune — la riproduzione della vita, della cura, della dignità — potrà continuare a interferire con la pulsazione del comando, impedendole di richiudere la finestra che si è aperta. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazza proviene da Comune-info.
La Flotilla, le piazze e la vita che esonda
NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA, NEI PORTI BLOCCATI, NEI GESTI DI SOLIDARIETÀ QUOTIDIANA, SONO AFFIORATE CON FORZA DIROMPENTE ALTRE LOGICHE DI VALORE: È L’ETICA NON COME MORALE PRIVATA MA COME FORZA CHE CREA MONDI ALTRI. LA SFIDA ORA È TRASFORMARE QUELLA SPINTA ETICA IN PRATICA DI OGNI GIORNO. “LE CUCINE COLLETTIVE, LE RETI DI MUTUO AIUTO, I MEDIA INDIPENDENTI, LE ESPERIENZE AGROECOLOGICHE E FEMMINISTE – SCRIVE MASSIMO DE ANGELIS – SONO GIÀ LABORATORI DI QUESTA NUOVA POLITICA… DALLE PRATICHE DI QUARTIERE ALLE RETI INTERNAZIONALI DI SOLIDARIETÀ, LA POSSIBILITÀ DI ALTRI MONDI SI COSTRUISCE SOLO SE CIÒ CHE NASCE IN BASSO RIESCE A COMUNICARE, A INTRECCIARSI, A ESONDARE… OLTRE TUTTI I CONFINI, IDENTITARI, NAZIONALI E TEMATICI… FINCHÉ LA VITA CONTINUERÀ A ESONDARE, LA SPERANZA TROVERÀ SEMPRE IL MODO DI RIMETTERSI IN MARE…” Torino, 3 ottobre. Foto Acmos -------------------------------------------------------------------------------- Nei giorni successivi all’attacco israeliano alla Global Sumud Flotilla, milioni di persone sono scese in piazza in Italia e nel mondo. Non solo per solidarietà con Gaza, ma per dire no all’indifferenza, alla complicità, alla rassegnazione. In Italia in particolare, il movimento ha contato due scioperi generalizzati (che a differenza degli scioperi generali non coinvolgono solo i lavoratori salariati a contratto determinato), e infiniti altri presidi e iniziative. Milioni di persone, in più di cento città, hanno trasformato l’indignazione in movimento. Ma ciò che più colpisce non è la quantità: è la qualità di questo respiro collettivo. Una moltitudine fatta di bambini, insegnanti, anziani, famiglie, operai, lesbiche, migranti, e aggiungete voi tutte le tipologie di differenze più o meno identitarie che volete: erano lì, se non erano in qualche bar a lamentarsi che “tanto non serve a niente” o “ma a me che me ne frega della Palestina”. Perfino i prigionieri hanno scioperato! Le piazze per la Palestina e la Global Sumud Flotilla hanno aperto una breccia nella normalità di un mondo che fa del genocidio uno spettacolo quotidiano disarmante. È un movimento che nasce sicuramente da una pulsione etica — intesa non come insieme di precetti morali, ma come forza immanente della vita che reagisce all’ingiustizia e manifesta un conatus teso alla sovversione della ripugnante gerarchia dei valori che rende possibile il genocidio. Ma l’etica diventa politica quando il respiro dei corpi si fa comune, stravolge vecchi confini e riconosce collettivamente la differenza che fa la differenza, la linea rossa che ci separa da un potere carnefice. Come recita quel bellissimo cartello mostrato a Roma: “Pensavamo di liberare la Palestina, e invece la Palestina sta liberando noi”. Ciò che si è espresso in queste piazze è stata una pulsazione vitale, un alito di vita, come lo ha chiamato Enrico Euli su Comune (La vita dentro e contro la morte): la riaffermazione della vita contro la morte, dell’agire collettivo contro l’anestesia del potere. Improvvisamente, ci siamo scoperti non più solo disincantati, non più solo cinici, né solo rassegnati. Questa esplosione mostra un’oscillazione tra due sentimenti che in tanti, più o meno condividiamo: da un lato la consapevolezza dell’impotenza di fronte al mostro della guerra, del tecno-fascismo globale, della catastrofe ecologica e morale in cui siamo immersi; dall’altro la spinta irresistibile a reagire, a scendere in strada, a dire no, anche sapendo che la battaglia sembra persa. Questa ambivalenza non è una debolezza, ma la condizione reale dell’agire oggi. È il terreno su cui si gioca il rapporto, l’intreccio tra etica e politica. Dentro questa vibrazione si intrecciano etica e politica, pratica e valore, locale e planetario: un nuovo campo di possibilità che abbiamo chiamato sumud — perseveranza, radicamento, respiro. Perché quando la morte diventa sistema e la pace un’industria degli armamenti, ogni gesto di vita che esonda è già politico. Ogni barca che salpa, ogni corteo che attraversa la città, ogni kefiah attorno al collo dice la stessa cosa: non nel mio nome. Una disobbedienza che attraversa il mare per rompere l’assedio, smascherare l’ignavia dei governi occidentali e portare aiuti a una popolazione condannata alla fame. Valori relazionali e d’uso riarticolati di fronte a un sistema che tende a imporre il dominio esclusivo del valore di scambio e del comando imperiale. Franco (Bifo) Berardi (Una sollevazione etica. E adesso?) ha descritto la mobilitazione come una “rivolta etica”, e lo è, ma non nel senso moralistico del termine. L’etica di cui parliamo qui non è un codice, è un campo di forze. È l’emergere e il manifestarsi di altri criteri di valore, di altre misure del possibile, dentro la cooperazione sociale. E questo altro è il portato di corpi che si mettono in gioco. Lea Melandri (I corpi e la responsabilità collettiva) lo ha colto bene: le piazze hanno rimesso al centro ciò che per secoli è stato considerato “fuori tema” – i corpi, la vita intima, le esperienze dell’umano. Come nel Sessantotto, i “soggetti imprevisti” – donne, giovani, persone comuni – sono tornati sulla scena, portando con sé il senso di una responsabilità condivisa. In un tempo in cui la politica istituzionale appare spenta, la politicità rinasce nella presenza: nelle mani, nei passi, nelle voci, negli sguardi. Amador Fernández-Savater (La flotilla è un atto di disobbedienza politica) lo dice con chiarezza: la Flotilla “non è un’iniziativa umanitaria, ma un atto di disobbedienza politica”. È la giustizia che ritrova la propria spada, non nella violenza, ma nella forza dei corpi in movimento. Il linguaggio umanitario separa la cura dalla politica; la Flotilla le ricompone. Portare pane e medicine, in questo contesto, significa sfidare la logica della guerra. È una crepa nel dominio, un atto di valore. E in tanti ci siamo riconosciuti in questo atto di valore. Parlare di etica, in fondo, significa parlare di prassi di valore: l’etica non è un altrove della vita, ma il modo in cui, attraverso la cooperazione sociale e i legami quotidiani che ci intrecciano a molteplici circuiti produttivi, produciamo e riproduciamo non solo beni, ma anche valori, relazioni e significati. Il capitalismo, tuttavia, gerarchizza questi processi, ponendo al vertice il valore di scambio – e i profitti e le logiche di comando che lo accompagnano – e subordinando ad esso i valori d’uso e relazionali. Nel mio lavoro chiamo prassi di valore questo terreno di pratiche attraverso cui le persone producono e riproducono insieme materia e senso: beni, relazioni, significati. Ogni società è attraversata da diversi domini del valore – relazionali, d’uso, di scambio, di comando – in costante tensione. Il capitalismo li ordina in una piramide, ma la vita quotidiana sfugge sempre a tale riduzione: in ogni gesto di solidarietà, di cura o di disobbedienza emergono altre forme di valore che sovvertono la gerarchia dominante e ricompongono i valori relazionali e d’uso. Nelle piazze per la Palestina, nei porti bloccati, nei gesti di solidarietà quotidiana, sono affiorate con forza dirompente queste altre logiche di valore: relazionali, vitali, orientate alla vita e non al profitto. Sono state il luogo in cui la potenza relazionale dei corpi ha sfidato il comando, in cui l’uso e la cura si sono contrapposti alla logica dello scambio e della guerra. L’etica, così intesa, non è una morale privata ma una forza costituente, e quindi politica: il desiderio di riorganizzare la vita e la cooperazione sociale secondo ciò che vale davvero. Viviamo in un mondo che ci chiede ogni giorno di adattarci: di lavorare, consumare, tacere, mentre il sistema distrugge le condizioni della vita. Eppure, nello stesso mondo, affiora una contro-pulsazione: quella di chi non si rassegna, di chi sente che anche un piccolo gesto di cura, una manifestazione, un atto di disobbedienza, ha un valore intrinseco, anche se non produce risultati immediati. Tra l’adattamento disincantato e il desiderio di diserzione, tra la rassegnazione e la speranza, si muove la tensione che chiamiamo etica. Ed è da questa tensione che può nascere, di nuovo, la politica. Ma ogni forza etica è fragile se non trova forme di organizzazione. L’ambivalenza del nostro tempo – tra impotenza e desiderio – non si supera con la sola indignazione. Serve continuità, serve durata, servono contesti di cooperazione reale, dove insieme possiamo liberarci, anche materialmente, anche per gradi, dall’egemonia di questo potere e dalle sue regole di vita. Da qui la sfida: trasformare la spinta etica in pratica quotidiana. Non solo scendere in piazza, ma creare mondi. Le cucine collettive, le reti di mutuo aiuto, i media indipendenti, le esperienze agroecologiche e femministe sono già laboratori di questa nuova politica: non rappresentativa, ma costituente. Queste esperienze – locali, concrete, radicate nei territori – non sono un rifugio, ma punti di partenza. Ogni volta che una comunità si organizza per vivere diversamente, apre una breccia nell’ordine dominante e crea le condizioni per una connessione più ampia. Dalle pratiche di quartiere alle reti internazionali di solidarietà, la possibilità di altri mondi si costruisce solo se ciò che nasce dal basso riesce a comunicare, a intrecciarsi, a esondare. È in questo orizzonte che si colloca il richiamo di Sandro Mezzadra (su Euronomade) Esondare: il movimento deve continuare a esondare, uscire dai confini nazionali, perché solo in questa trasversalità può mettere in discussione la disparità delle forze. Esondare non è solo diffondersi, ma esistere e resistere a ogni scala: dal locale al planetario, dal simbolico al materiale, dal quotidiano all’infrastrutturale. La guerra e il genocidio sono processi globali, che intrecciano finanza, logistica, diplomazia e media. Ma sono anche processi che si giocano nelle quotidianità della vita, come momenti situati di quei processi globali. Per opporvisi, serve una contro-rete di pratiche e solidarietà, un comune transazionale che colleghi le lotte in porti, università, campagne e quartieri del mondo e che apra e riesca a concatenare spazi altri di cooperazione sociale. L’esondazione, in questa chiave, è una prassi del valore che dilata la cooperazione sociale oltre tutti i confini — identitari, nazionali e tematici — facendo comunicare i domini del valore tra popoli e territori, tra il Mediterraneo e l’America Latina, tra i movimenti ecologisti, del lavoro, migranti e di liberazione. Non cancella le differenze, le accorda. Genera un nuovo respiro planetario: una politica senza centro fisso, radicata nel movimento stesso della vita che si difende e della cooperazione sociale che cerca di riconfigurarsi su nuove basi. Nelle piazze per Gaza, questo respiro si è sentito chiaramente. Non l’unità rigida di un partito, ma la polifonia di una jam session: dissonanze e improvvisazioni che cercano armonia. Si è percepito il ritmo del commoning, il fare in comune come arte e come necessità. L’etica diventa ritmo, la politica diventa danza, e il respiro – come nella musica jazz – diventa forza collettiva. La Flotilla, allora, non è un atto isolato, ma un segno di transizione: dall’umanitario al comune, dal soccorso alla solidarietà, dal gesto alla trasformazione. Ogni volta che la vita afferma se stessa contro la morte, si produce una bellezza che è anche potenza materiale. È la politica come creazione di condizioni di vita condivisa. Oggi, di fronte alla catastrofe, il gesto più semplice e più difficile resta quello di continuare a respirare. Ma respirare, da soli, non basta. Le piazze, le barche, le reti di solidarietà ci dicono che il respiro può ancora diventare comune, armonizzato, persistente. Esistere oggi è sempre più resistere e resistere significa trasformare l’etica in politica, la compassione in cooperazione, la semplice sopravvivenza in vita condivisa. Finché c’è respiro comune, la storia non è finita. E finché la vita continuerà a esondare, la speranza troverà sempre il modo di rimettersi in mare. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La Flotilla, le piazze e la vita che esonda proviene da Comune-info.
Grazie per quello che fate
-------------------------------------------------------------------------------- Aderisco. Grazie per quello che fate e… buon lavoro! [Cristina Di Molfetta] Tutte le adesioni alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Grazie per quello che fate proviene da Comune-info.
Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto
SCAFFALE. «GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI», UNA RACCOLTA DI ARTICOLI E INTERVISTE, PER ELEUTHERA. UN OMAGGIO AL GIORNALISTA E CRITICO SCOMPARSO IMPROVVISAMENTE LO SCORSO ANNO -------------------------------------------------------------------------------- Gridare, fare, pensare mondi nuovi è il titolo della raccolta di articoli e interviste di Marco Calabria, critico e giornalista di inchiesta sociale, scomparso all’improvviso l’anno scorso, dopo aver condotto la magnifica vita operosa del cronista globale che è stato viaggiatore a cavallo (in realtà amava la bicicletta) tra lo scorso e questo secolo. Marco Calabria è stato caporedattore al “manifesto”, creatore del settimanale “Carta”, uno dei punti di riferimento dei movimenti altermondialisti, continuato nell’esperienza forte del portale Comune-info.net, ed è stato poeta e artefice di riviste e iniziative importanti, “Ombre lunghe”, “Lunaria”, “Sbilanciamoci!”, sviluppate lungo l’idea dei cantieri sociali nel primo decennio di questi difficili anni duemila. Il punto di intersezione che ha individuato la sua posizione di vita si trova all’incrocio di due coordinate: la verticale biografica della generazione per la quale “il personale è politico”; e l’orizzontale, spaziale di movimento che è stata la superficie di esplorazione, di ricerca e di composizione di altri mondi in questo mondo. Questa superficie di lettura, di scrittura e di pratica sociale emerge dalle pagine della raccolta, curata per Eleuthera dai redattori di “Comune” Gianluca Carmosino e Riccardo Troisi, che ne hanno ripreso e sviluppato temi, immagini, idee e scritture, e prefata da Raùl Zibechi, con una selezione di articoli che dalla metà degli anni novanta arriva al 2023, attraversando i momenti topici dell’ultima storia politica delle resistenze, delle rivolte e delle rivendicazioni globali e locali contro il tempo del capitalismo. Sul portale se ne possono leggere altre prove, compreso l’inizio memorabile del suo lavoro. I due eventi che in qualche modo hanno avviato la passione di Marco Calabria sono stati il ’77 sul piazzale della “Sapienza”- Università di Roma, che ha formato la gloriosa generazione dei diciottenni che hanno cacciato il segretario della CGIL Luciano Lama, e il lavoro al “Manifesto”, unica, vera fucina di giornalismo con la G maiuscola, non replicabile, e pressoché irreperibile tra le testate attuali, dedite per lo più alla sedentarietà monotona e sintetica dei social. Il luogo bio-politico della generazione ’77 è il fuori-testo a partire dal quale si è dipanata l’intensa attività editoriale e di pensiero di Calabria. Dal ’77 provengono infatti gli influssi originali del suo lavoro: l’autonomia sociale, il femminismo anti-emancipatorio della differenza, il rifiuto del lavoro e della rappresentanza, lo sguardo essenziale sulla microfisica dei poteri, il sottoproletariato urbano rivoltoso e l’ironia dissacrante di un immaginario che, se pur in un breve spazio di tempo, ha realizzato i propri sogni, la rabbia salutare contro centralismi democratici e compromesso storico. Questo fenomenale universo, che ha attraversato gli anni della sconfitta e del disincanto, ha costituito il giornalismo come esperienza critica, come “giornalismo filosofico”, diceva Michel Foucault, uno degli intervistati nel volume che Calabria curò per il “manifesto”, con la magnifica prefazione di Rossana Rossanda. Quando una sera del 1982 il giovane redattore la incontra, Rossanda «dopo aver scambiato qualche frase su come quel che facevano potesse interessare i più giovani e quel che gli anni settanta avevano significato, chiese: “Sarebbe un gran peccato che questa nostra storia non interesserà più nessuno”…». (Le interviste, il manifesto e il mondo). In quel momento, si può immaginare che il lavoro di Marco Calabria assume il senso del giornalismo come passione politica, come sguardo di parte per la verità del mondo, contro le menzogne del potere. Questa pratica critica era per sé movimento, esodo dalla società del lavoro e dai dispositivi di disciplina, l’andare continuo e sperimentare modi, forme di vita, ricerche e materiali per la fuoriuscita dal capitalismo. “Bisogna muoversi di continuo” è stato il suo principio di vita, per sperimentare la nuova lingua dei movimenti sociali di fine secolo e inizi del terzo millennio. In questo cammino, che riconosciamo comune, ci sono Eduardo Galeano, Toni Negri, Franco “Bifo” Berardi, Gustavo Esteva, il subcomandante Marcos, il Chiapas e il sudamerica, cioè una delle parti potenti dell’intelletto collettivo che continua a fare storia del presente. Di questa storia avrebbero fatto segno le traduzioni del testo di John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, sintesi della pratica dei movimenti altermondialisti sull’esempio zapatista e di Disperdere il potere, del teorico e cronachista dei “sottoscala” del mondo, Ràul Zibechi. Nella prefazione scrive che Marco “era parte di quell’altro mondo che non solo sognava, ma di cui sentiva i battiti”, perché forse, come Walter Benjamin, era anche lui un poeta dell’inappariscente. Questa compresenza biografico-politica proviene a sua volta dal pacifismo anarchico di Danilo Dolci che diede una definizione di “dominio” come agente infestante i territori psico-sociali più che i luoghi simbolici del potere. Della lezione di Dolci, Calabria assumeva l’orientamento: evitare di intendere il dominio come il grande Moloch, come lo stato-Leviatano; piuttosto avvertirlo nella dispersione dei rapporti di potere che investono diversi strati delle società e attraversano la soggettività. Quella di Calabria era un’identità in transito, come egli stesso ha definito la vicenda biografica di Carolina Meloni Gonzales, filosofa politica femminista, in esilio dal golpe in Argentina, autrice di Transterrados. Questo è lo spazio politico in cui Calabria ha “fatto” movimento, cioè ha perseguito la pratica del comune che ha animato l’informazione indipendente tra Genova 2001 e l’invasione dell’Iraq (2003). Il settimanale “Carta” viene da là, dall’invenzione di località globali che hanno connesso moltitudini e territori. In un testo del 2012, molto teorico e non astratto, Senza dominio, leggiamo che per sottrarsi alla servitù volontaria oltre all’immaginazione serve restare in silenzio anche per lunghi periodi per imparare ad ascoltare. Togliere parole. Vivere senza dominio non significa reprimere un istinto, ma anzi, aggiungiamo, portarlo all’estremo quando si avverte la cattura e farlo diventare intelligente quando si pensa di essere liberi. Leggendo il libro si cammina domandando come ha insegnato lo zapatismo, ed è sulla superficie del mondo da viaggiare, soprattutto per contrastarne la turistizzazione, che si fa tappa sulla storia recente delle insorgenze che sono “dentro e contro”, ma per andare fuori e lontano, per disertare – ultima prova in vita del mondo in rovina. Nella raccolta ci sono le testimonianze dirette di rivendicazioni e conflitti che sono lotte per la sopravvivenza, comunque animate dalla speranza che è fragile, discontinua e disarmata. La prima guerra di Bosnia, Taranto e la morte per ILVA, le operazioni sporche del Plan Colombia in Honduras, le lotte campesine, le prime rivolte popolari per l’acqua e le inchieste sugli spazi sociali a Roma sono i capitoli della raccolta che riepiloga l’epoca dei movimenti restituendo centralità alle periferie prima che la ferocia euroatlantica suscitasse le ibride alleanze dell’ex-sud del mondo. C’è inoltre la testimonianza più efficace della guerra ai migranti, combattuta agli inizi degli anni ottanta con la Rete antirazzista e che bisogna confrontare con gli ultimi rapporti sull’accoglienza. Nell’Introduzione al Rapporto del 2020 (“Benvenuti ovunque”) leggiamo la differenza tra le migrazioni viste allora come problema di accoglienza e la guerra attuale alle e ai migranti, affondati, respinti e deportati, – bersagli del razzismo di stato e dell’ossessione identitaria, dispositivo di sicurezza applicato all’intera popolazione. Calabria aveva un’attenzione speciale per i bambini, le scuole, le classi, quelle nei quartieri considerati “disagiati” e in cui invece c’è la maggiore ricchezza psico-sociale non catturata. Si può supporre cosa avrebbe scritto delle ridicole avvilenti “riforme” del ministero dell’Istruzione e Merito. Ma preferiamo prevedere come si faceva nel ’77 che “un risotto li sommergerà”. Perché comunque essere scelti per l’esilio sull’esempio della grande filosofa Maria Zambrano, apre molteplici divenire: essere nomadi, essere leggeri, essere particelle, essere impercettibili e fare l’amore come l’ape e l’orchidea. -------------------------------------------------------------------------------- Una versione ridotta è apparsa su il manifesto (che ringraziamo) del 23 settembre 2025. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto proviene da Comune-info.