La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazzaLA TREGUA NON NASCE NEL VUOTO: È IL FRUTTO DI UNA COMBINAZIONE DI
CONTROPULSAZIONI SOCIALI (MANIFESTAZIONI, BLOCCHI NEI PORTI, SCIOPERI, AZIONI DI
SOLIDARIETÀ…), CRISI DIPLOMATICHE E PERDITA DI LEGITTIMITÀ CHE HANNO COSTRETTO
IL COMANDO A CAMBIARE RITMO. “IL CESSATE IL FUOCO NON È UN ATTO DI COSCIENZA MA
UNA MANOVRA DI SOPRAVVIVENZA DEL SISTEMA… – SCRIVE MASSIMO DE ANGELIS – NEI
PROSSIMI MESI, TRE SCENARI RESTANO IN TENSIONE… IN CIASCUNO DI QUESTI, I
MOVIMENTI RESTANO DECISIVI…”
Foto Prc Parma
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L’ha detto la nostra presidente del Consiglio, lo ripetono quanti giustificano
la propria ignavia di fronte al genocidio: le manifestazioni non servono, le
bandiere non fermano i missili, la pace si costruisce “lavorando in silenzio”.
Eppure, la cronologia degli eventi smentisce questa favoletta per adulti
stanchi. Senza le piazze, senza la moltitudine di voci e di corpi che hanno reso
impossibile l’indifferenza, non ci sarebbe stato alcun cessate il fuoco a Gaza.
Negli ultimi mesi, una mobilitazione globale — estesa, plurale e persistente —
ha incrinato la strategia bellica di Stati Uniti, Israele e dei loro alleati.
Dalle università statunitensi alle piazze europee, dai porti italiani alle città
australiane, africane e del Sudest asiatico, milioni di persone hanno costretto
Donald Trump — fino ad allora garante della macchina di guerra — a imporre una
tregua e a riaprire i negoziati. È stato uno spasmo sistemico: la solidarietà
con la Palestina ha agito come contropulsazione dentro il ritmo del comando,
interrompendone la coerenza funzionale. Le bombe si sono fermate, almeno per
ora, anche se l’ingiustizia continua.
Gli eventi parlano chiaro. In decine di porti — da Genova, Ravenna e Livorno a
Oakland, Melbourne e al Pireo — lavoratori, sindacati e reti civili hanno
organizzato blocchi, scioperi e rallentamenti che hanno toccato i flussi reali
della logistica bellica. In Italia, i camion diretti in Israele sono stati
fermati a Ravenna, mentre i portuali di Genova hanno interrotto le operazioni in
segno di protesta. Al tempo stesso, la Global Sumud Flotilla muoveva verso Gaza,
trasformando la solidarietà in forza materiale. Episodi simili negli Stati
Uniti, in Grecia e in Australia hanno reso la guerra più costosa e visibile
nelle catene di approvvigionamento globali. Laddove fino a un anno fa regnava il
silenzio, come in Germania, le piazze si sono riempite; a Londra, anziani e
persone con disabilità si sono fatti arrestare per sostenere le azioni di
disobbedienza civile del movimento Palestine Action, paradossalmente
classificato dal governo laburista come “terrorista”.
Negli Stati Uniti, il consenso all’offensiva israeliana è crollato: a fine
luglio solo il 32 per cento degli statunitensi la sosteneva, contro un 60 per
cento contrario (sondaggio Gallup confermato dal Brookings Institute). È il
minimo storico, e per la Casa Bianca un rischio politico enorme. Anche in
Israele le pressioni interne sono aumentate: famiglie degli ostaggi e
manifestanti hanno invocato una tregua e uno scambio, mentre i sondaggi di
settembre e ottobre mostravano una maggioranza favorevole a un accordo
negoziato.
Poi lo scarto diplomatico: il raid israeliano a Doha contro membri di Hamas ha
irritato il Qatar — mediatore chiave e alleato di Washington — innescando un
effetto domino che ha condotto, il 14 ottobre, all’accordo di Sharm el-Sheikh
firmato da Trump con Egitto, Qatar e Turchia. In quel clima, la pressione delle
piazze internazionali ha amplificato il costo politico e morale di ogni sgarbo
diplomatico, spingendo il comando a contenersi.
Sul piano simbolico e giuridico, le misure provvisorie della Corte
Internazionale di Giustizia nel caso Sudafrica contro Israele hanno offerto ai
movimenti un’arma potente: la guerra è apparsa non solo immorale, ma
illegittima.
La sequenza temporale è eloquente: settimane di scioperi e blocchi, crollo del
consenso negli Usa, proteste interne in Israele, raid fallito a Doha, summit e
firma del cessate il fuoco con lo scambio di venti ostaggi israeliani e duemila
prigionieri palestinesi. La tregua, insomma, non nasce nel vuoto: è il frutto di
una combinazione di contropulsazioni sociali, crisi diplomatiche e perdita di
legittimità che hanno costretto il comando a cambiare ritmo, non per coscienza,
ma per necessità.
Le mobilitazioni nei cinque continenti, la Flotilla, i boicottaggi, hanno creato
un evento di risonanza vitale. Hanno prodotto quella che, nel linguaggio
cibernetico, è una varietà sistemica superiore alla capacità di controllo del
potere. In concreto, hanno moltiplicato le variabili indipendenti che il sistema
— tra Casa Bianca, Pentagono, Netanyahu e il complesso militare-finanziario —
doveva tenere sotto controllo, alzando vertiginosamente i costi politici ed
economici dello status quo. Quando la varietà dell’ambiente supera quella del
comando, il sistema è costretto a cambiare ritmo per non implodere.
Le piazze hanno così interferito con le frequenze operative del potere,
imponendogli un adattamento strategico. Il cessate il fuoco non è un atto di
coscienza — chi sponsorizza la guerra non cerca la pace — ma una manovra di
sopravvivenza del sistema. Trump, fino a poche settimane prima sostenitore
incondizionato dell’esercito israeliano, ha dovuto simulare un gesto di pace per
ristabilire equilibrio interno e interrompere temporaneamente la catena
genocida. Ma questa riconfigurazione resta transitoria: il comando ha solo
cambiato fase per evitare la rottura, non la propria logica.
L’impatto delle mobilitazioni si è manifestato su più piani: politico (crisi di
legittimità nel discorso ufficiale statunitense), logistico (colpiti i gangli
materiali della macchina di guerra), sociale (nuovo linguaggio pubblico: Gaza
come simbolo universale della disumanizzazione), simbolico (la parola genocidio
divenuta descrittore corrente, rafforzata dalla precedente idea trumpiana di
trasformare Gaza in “riviera”).
Questo momento segna il conflitto tra due ritmi vitali inconciliabili. Da un
lato, il battito del comando, che riproduce dominio e capitale, trasforma la
crisi in metodo di governo e la guerra in routine amministrativa. Dall’altro, il
battito del comune, che si organizza attorno alla vita, alla cura, alla
solidarietà e al diritto collettivo di esistere. Nelle settimane e mesi che
hanno preceduto la tregua, queste due pulsazioni si sono scontrate apertamente:
la moltitudine globale, con le sue piazze, porti e università, ha infranto la
regolarità del potere, introducendo una varietà di forze e linguaggi che il
centro non era più in grado di controllare.
Il risultato è stato una condizione di risonanza instabile: la vita ha imposto
la propria frequenza dentro il corpo rigido del comando, costringendolo a
piegarsi, a mutare ritmo, a mascherare la ritrazione come “gesto di pace”. Il
cessate il fuoco e il piano in venti punti non sono segni di coscienza, ma
sintomi di instabilità: la risposta forzata di un sistema che, per non
collassare, ha dovuto concedere una pausa al proprio stesso battito.
Quando Trump ha detto a Netanyahu che “Israele non può mettersi contro il
mondo”, ha pronunciato la frase che fotografa la mutazione in corso: il “mondo”
evocato non è solo quello delle cancellerie, ma la moltitudine che si è mossa,
cioè milioni di persone, reti civili, sindacati, università, porti, città,
comunità religiose e digitali. È il mondo come ambiente vivente che,
mobilitandosi, ha accresciuto la propria varietà fino a renderla ingovernabile
entro i parametri del potere. È il mondo che, per un attimo, come un quarto di
secolo prima scrisse il New York Times a proposito del movimento anti (o
alter)-globalizzazione, è tornato a farsi superpotenza.
Trump ha riconosciuto, forse senza volerlo, la validità della legge di Ashby:
quando la varietà dell’ambiente supera quella del comando, quest’ultimo non può
più controllare l’insieme se non diversificandosi o cedendo. Il cessate il fuoco
non è quindi un gesto di magnanimità, ma una resa temporanea dinanzi a un
ambiente che pulsa su frequenze più complesse e diffuse di quanto la sua
architettura gerarchica possa sostenere. In questo senso, la frase di Trump è il
sintomo di una crisi di controllo: il potere si scopre attraversato da una
contro-pulsazione mondiale che ne ridefinisce i limiti. È la traduzione politica
di una risonanza instabile: l’ordine del comando non riesce più ad assorbire la
complessità che la vita — nelle sue infinite forme di solidarietà, protesta e
cura — continua a generare.
Il discorso alla Knesset e la ricomposizione del comando
Ma non facciamoci illusioni: il potere, quando si piega, lo fa per riprendere
fiato. Mentre la moltitudine respirava insieme, Trump è salito sul palco del
comando per trasformare la ritrazione in trionfo, la resa in racconto di
vittoria. Così il sistema tenta di riappropriarsi del ritmo che gli è sfuggito:
mette in scena la pace come spettacolo, la tregua come atto di potere, sé stesso
come regista della storia.
Nel cuore della tregua, Trump ha convertito la Knesset in un palcoscenico: ha
proclamato “l’alba storica di un nuovo Medio Oriente”, intestandosi cessate il
fuoco, liberazione degli ostaggi e una pace capace — a sentir lui — di
ridisegnare la regione; ha presentato il “piano in 20 punti” come architrave del
dopoguerra, presentandolo come via maestra per rafforzare Israele e allargare
gli Accordi di Abramo; e da imperatore, ha chiesto il perdono per Netanyahu,
invadendo la sfera giudiziaria israeliana. L’aula lo ha celebrato con ovazioni,
mentre i deputati che mostravano cartelli “Recognise Palestine” venivano
allontanati: l’immagine perfetta di un consenso performato e di un dissenso
amministrato in maniera da Trump definito “efficiente”, utile a riprodurre la
retorica del “nuovo inizio” sgombrando la scena da note stonate.
Quell’enfasi stride con la storia palestinese: ottant’anni di espulsioni,
occupazione, colonie, check-point, bombardamenti, leggi d’apartheid. Chiamare
“nuova alba” ciò che segue a decenni di notte significa mascherare la violenza
strutturale col linguaggio del rinnovamento. Non ridefinisce: congela.
Reinscrive la tregua nella narrazione coloniale che chiama “ordine”
l’occupazione, “sicurezza” la segregazione e “pace” la soppressione
dell’autodeterminazione.
Il discorso di Trump è una pulsazione di ricomposizione del comando articolato
su sei vettori. Su quello dello scopo, sposta la guerra nel passato e recita la
“costruzione della pace storica”, convertendo la continuità della violenza in
mito fondativo. Su quello dell’agenzia, non media: sovrasta, ingloba l’alleato e
lega Washington al baricentro politico israeliano. Su quello della gestione
della crisi rovescia la trama: l’escalation diventa prova di leadership, vittime
e rovine materia di auto-legittimazione. Sposta poi l’attenzione: la distruzione
di Gaza e l’occupazione della Cisgiordania scivolano fuori campo, restano
“incubi finiti” chiusi dal carisma del leader. Sul piano degli strumenti, la
Knesset diventa dispositivo: si sigilla l’alleanza personale, si ritualizza la
centralità del piano, si testano i limiti del dissenso. E quando Trump
compiaciuto ricorda che “Netanyahu ha sempre chiesto nuove armi, e le ha usate
bene”, esibisce la logica nuda della strumentalità: l’efficienza
dell’annientamento come metrica di successo. Dire “le ha usate bene” significa
normalizzare il genocidio come competenza tecnica: macerie, corpi, ospedali
colpiti come prova di “buona amministrazione” militare. È l’osceno al servizio
della burocrazia della morte.
Infine, la ricalibrazione delle soglie: formule enfatiche e apparato simbolico
fissano come “standard minimo” l’adesione alla tregua nei termini del piano; la
critica diventa anti-israeliana o anti-presidenziale. L’espulsione dei deputati
dissenzienti non è incidente: è grammatica della soglia.
Questo impianto risponde e tenta di neutralizzare la contro-pulsazione che ha
reso possibile la tregua. Ciò che la piazza ha imposto — cessate il fuoco,
scambio, riapertura del dossier politico — viene riscritto come iniziativa
presidenziale; l’abbraccio a Netanyahu e l’appello al perdono offrono copertura
a un vertice delegittimato, mentre la gestione del dissenso comunica che nella
“commemorazione” della pace non c’è spazio per la giustizia.
La questione palestinese — che il discorso di Trump alla Knesset aveva
accuratamente eluso — riemerge nel punto 19 del piano come una promessa
condizionata, quasi un promemoria diplomatico più che un impegno politico. Vi si
legge che “con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele
del programma di riforme dell’Autorità Palestinese, potrebbero finalmente
crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la
statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo
palestinese”. È una formulazione studiata per suonare bene e non cambiare nulla:
la statualità diventa un premio futuro, subordinato alla “fedeltà” a un
programma di riforme dettato dall’esterno. Non un diritto, ma una concessione da
meritare.
Così il comando trasforma l’autodeterminazione in meccanismo di condizionamento.
A Hamas, per ora, è riconosciuto il ruolo di polizia interna per impedire che la
tregua diventi spazio politico; la Cisgiordania scivola nel freeze & fragment di
colonizzazione diffusa. Il nodo della rappresentanza viene rinviato per
neutralizzarlo: silenzio su Marwan Barghouti e su qualsiasi leadership
credibile. Ne risulta il prototipo del protettorato post-bellico: Gaza sarà
amministrata da tecnocrati, per ora vigilata da Hamas, finanziata da partner
regionali; “riconciliazione” come maschera di continuità dell’occupazione.
Intanto, lo spazio politico dal basso — riapertosi dalla Unity Intifada del 2021
contro l’indurimento dell’assedio a Gaza e della vita dei palestinesi in
Cisgiordania, fino ai bombardamenti recenti — rischia di essere imbrigliato
nella “ricostruzione controllata”. In questi anni, una “micro-democrazia
dell’emergenza” ha retto la vita: comitati di quartiere, reti di donne,
cooperative, università, e una rete di cucine comunitarie (oltre 190, fino a
650.000 pasti al giorno nel giugno 2024 a Gaza) hanno mediato bisogni, aiuti,
sicurezza. Oggi quel tessuto viene spinto nel recinto tecnocratico:
l’autodeterminazione subordinata a parametri di sicurezza e governance; si parla
di “riforme”, si pratica “normalizzazione”. Il risultato è chiaro: un popolo
senza possibilità di scegliere chi lo rappresenta resta prigioniero anche nella
tregua. Gaza rischia il protettorato sorvegliato; la Cisgiordania, un mosaico di
enclave sempre più frammentate. Mentre il piano proclama “l’alba di un nuovo
Medio Oriente”, costruisce un crepuscolo prolungato della sovranità palestinese:
l’autodeterminazione promessa come aspirazione, negata come fatto.
Perciò il discorso di Trump al parlamento israeliano funziona da ponte, non da
approdo. Ponte verso cosa? Tutto dipende dalle contro-pulsazioni: se i movimenti
trasformano la pressione in struttura (condizionalità, monitoraggi pubblici,
coalizioni transnazionali, campagna su rappresentanza e prigionieri politici),
la recita della Knesset resterà un esercizio di stile; se la mobilitazione
scende sotto una soglia critica, quella scena diventerà la prova generale del
ritorno all’ordine.
Scenari in movimento
Il cessate il fuoco e il piano a venti punti non rappresentano la fine del
conflitto, ma l’apertura di un campo di battaglia politico e sociale.
Nei prossimi mesi, tre scenari restano in tensione.
Il primo — il più probabile — è quello di una stabilizzazione tecnocratica del
conflitto: Gaza trasformata in un protettorato amministrato da esperti e sponsor
occidentali, mentre la Cisgiordania scivola nel freeze & fragment di
colonizzazione e annessione silenziosa.
Il secondo è quello della ricomposizione palestinese, con una leadership
legittimata e popolare, resa possibile — a detta di molti — solo dalla
liberazione di Marwan Barghouti, oggi ostinatamente trattenuto da Israele. Ma
una leadership politica unitaria potrà emergere solo se saprà intrecciarsi con
la forza costituente dal basso che la società palestinese ha già dimostrato: la
capacità di organizzare la vita nel pieno della distruzione, di trasformare la
sopravvivenza in solidarietà e la solidarietà in progetto politico.
Infine, il terzo scenario è quello del ritorno all’escalation: se i meccanismi
di scambio, liberazione e ricostruzione salteranno, la pulsazione del comando
tornerà a prevalere con la violenza.
In ciascuno di questi scenari, i movimenti restano decisivi. Nella governance
tecnocratica, devono imporre condizioni chiare e vincolanti sugli aiuti e sulla
rappresentanza palestinese, evitando che Gaza diventi un esperimento di
“umanitarismo neocoloniale”. Nella prospettiva della ricomposizione, devono
trasformare la campagna per la liberazione di Barghouti in un simbolo della
sovranità popolare palestinese e della lotta globale contro il potere coloniale.
Nel caso del freeze & fragment, devono spostare l’attenzione internazionale
sulla Cisgiordania, documentando la colonizzazione, smascherando la falsa
“normalità” e colpendo economicamente le catene di profitto legate agli
insediamenti. E se la tregua dovesse infrangersi, dovranno tornare a occupare in
massa la scena pubblica, rendendo immediatamente visibile e insostenibile ogni
nuovo atto di guerra.
In tutti i casi, la posta in gioco è la stessa: impedire che la tregua si
richiuda in una pace neocoloniale e mantenere aperto lo spazio di
autodeterminazione dal basso che la società palestinese — insieme alla
solidarietà globale — ha faticosamente riaperto. Solo così la pulsazione del
comune — la riproduzione della vita, della cura, della dignità — potrà
continuare a interferire con la pulsazione del comando, impedendole di
richiudere la finestra che si è aperta.
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