Il centro non può reggereIN TUTTO IL MONDO MILIONI DI PERSONE IN QUESTO MOMENTO DESIDERANO CHE TRA
QUALCHE ANNO TRUMP, ORBÁN, MODI, ERDOGAN, MELONI SIANO SOLO UN RICORDO, UN
BRUTTO SOGNO. DESIDERANO DIRIGERSI VERSO IL CENTRO, AD ESEMPIO, PER FAR VINCERE
AI DEMOCRATICI LE ELEZIONI STATUNITENSI DI MEDIO TERMINE. EPPURE DOBBIAMO
CONSIDERARE CHE IL CENTRO NON HA RETTO, NON HA POTUTO REGGERE. LE SOLUZIONI
KEYNESIANE NON POSSONO PIÙ REGGERE. DOBBIAMO CONSIDERARE CHE LE ELEZIONI NON
SONO UNO SPAZIO DI CAMBIAMENTO IN PROFONDITÀ. POSSIAMO PENSARE IN MODO DIVERSO?
DOV’È LA SPERANZA IN QUESTA SITUAZIONE? DOV’È LA SPERANZA MENTRE IL MONDO GUARDA
COSA ACCADE A GAZA? IN UN SIMPOSIO CONTRO IL CAPITALISMO ORGANIZZATO ADDIRITTURA
ALLA HARVARD BUSINESS SCHOOL, JOHN HOLLOWAY HA DETTO CHE LA SPERANZA È
INNANZITUTTO UN GRIDO DI RIFIUTO, UN NO. IN QUALCHE MODO, DOBBIAMO ENTRARE IN
CONTATTO PERFINO CON LA RABBIA RISENTITA CHE STA DIETRO L’ASCESA DELLA DESTRA E
RECLAMARLA COME NOSTRA, VIVENDO UNA NUOVA CULTURA POLITICA ANTI-IDENTITARIA, UNA
POLITICA CHE CERCA E DISCUTE. DOBBIAMO PENSARE A UN MONDO BASATO SUL
RICONOSCIMENTO RECIPROCO DELLE DIGNITÀ. “UNA FOLLIA. UNA FOLLIA È PRESENTARSI
ALLA HARVARD BUSINESS SCHOOL E DIRE CHE DOBBIAMO ABOLIRE IL CAPITALISMO. EPPURE
È UNA FOLLIA NECESSARIA…”. POSSIAMO PENSARE DUNQUE PARTENDO DALLA DISPERAZIONE,
CHE NON È ANGOSCIA. L’ANGOSCIA È IL RIFIUTO DI CERCARE UNA RISPOSTA, È UNA RESA,
UNA COMPLICITÀ. LA DISPERAZIONE INVECE È LA SPERANZA NELLA TEMPESTA, LA SPERANZA
NELLA, CONTRO E OLTRE LA TEMPESTA. È LA LOTTA PER CREARE UN MONDO DIVERSO
Roma, 10 maggio 2025. Foto di Nilde Guiducci
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1. Gaza. Sperare è come esprimere l’indicibile. Gaza. L’estrema espressione del
dolore nel mondo di oggi. Dolore. Resistenza. Speranza.
Gaza. Impossibile venire qui (l’autore si riferisce a convegno promosso a
Harvard Business School di Boston, Ndr) senza confessarvi la mia esitazione nel
parlare proprio nel cuore del paese che promuove e sostiene l’uccisione e la
mutilazione spietata e sistematica di migliaia e migliaia di persone, molte
delle quali bambini, l’annichilimento della speranza.
Gaza. Vengo qui nonostante i miei dubbi, per esprimere la mia solidarietà con
voi, che vivete in questo paese, nonostante il governo che subite ora e il
governo che avete sofferto in passato. E per esprimere il mio più profondo
rispetto e ammirazione per gli organizzatori di un evento con parole sovversive
e pericolose come Razza, Genere e persino Equità. E per tutti voi che, in un
modo o nell’altro, state camminando nella direzione sbagliata.
Gaza, perché nulla mostra più chiaramente gli orrori del capitalismo
contemporaneo, le terribili conseguenze di un sistema sociale governato dal
denaro. Gaza, perché dobbiamo rompere il silenzio, il terribile silenzio di
complicità che incombe sul mondo, la normalizzazione dell’angoscia. L’angoscia
incombe su di noi. Ha molti nomi: Gaza, Sudan, il riscaldamento globale, il
massacro della biodiversità, Trump, Milei, Orbán, la crescente minaccia di una
guerra nucleare. Eppure, in mezzo a tutto questo, siamo venuti qui per dire No,
è tempo di parlare di speranza, persino di speranza radicale.
Non possiamo tuttavia accettare l’angoscia, perché uccide il pensiero
scientifico. Ci resta solo una domanda scientifica: come si può rompere la
dinamica sociale che ci spinge verso la nostra stessa autodistruzione,
l’autodistruzione dell’umanità?
A questa domanda non si può rispondere con l’angoscia. L’angoscia è il rifiuto
di cercare una risposta, una resa, una complicità, per quanto riluttante.
Diciamo no all’Angoscia. Anche se questo non ci regala una speranza vacua e
felice. C’è una parola che assomiglia all’angoscia, ma diversa: Disperazione
[l’autore elabora il ragionamento su due termini che suonano simili ma non sono
sinonimi: despair, che traduciamo come angoscia (afflizione o sconforto), porta
alla rassegnazione; desperation, che traduciamo come disperazione, porta
all’azione estrema, Ndt].
La Disperazione non è angoscia. È il rifiuto di affliggersi, il rifiuto di
rinunciare alla rabbia e alla speranza, anche in un mondo che ci dice che siamo
pazzi se pensiamo ancora che un altro mondo è possibile. Nei dizionari, la
disperazione è spesso equiparata all’angoscia, ma non è così. Ho trovato una
definizione che si avvicina di più a ciò che sento: “Disperato: mostrare la
volontà di correre qualsiasi rischio per cambiare una situazione negativa o
pericolosa”. Forse non “qualsiasi rischio”, ma sì, la furia di cambiare una
situazione negativa o pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione
pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione negativa, dove la
situazione negativa è il capitalismo contemporaneo.
La disperazione di cambiare il mondo perché sappiamo che non deve essere così,
che abbiamo la capacità di creare qualcosa di diverso. La disperazione include
la frustrazione, la frustrazione di ciò che potremmo fare, la frustrazione della
nostra ricchezza, della nostra capacità di creare qualcosa di diverso.
La disperazione è la speranza nella tempesta, la speranza nella e contro la
tempesta, la speranza nella-contro-e-oltre la tempesta. Forse l’unico modo di
parlare di speranza radicale oggi è attraverso la disperazione, disperata
speranza-contro-speranza [i latini avrebbero usato l’espressione “spes contra
spem”, NdT]. La speranza come negazione dell’anti-speranza. La speranza come
resistenza.
Chi segue queste cose (e dovreste farlo, perché sono stati gli esponenti più
eloquenti della speranza negli ultimi trent’anni) si renderà conto che la mia
attenzione alla disperazione riecheggia l’intervento di Marcos nell’incontro di
dicembre organizzato dagli Zapatisti. La sfida, ha suggerito, è quella di
“organizzare la nostra disperazione”.
2. Probabilmente tutti noi che siamo qui abbiamo un senso di comune
disperazione. Il capitalismo in sé genera disperazione. In tutti i modi
possibili. A livello personale, con la profonda e crescente incertezza della
vita: come posso entrare all’università o trovare un lavoro, come posso ottenere
la cattedra, trovare un posto decente dove vivere, in che tipo di mondo vivranno
i miei figli, come posso far nascere dei bambini in un mondo come questo? Tutto
ciò fa parte di una crescente disperazione sociale: guardate cosa sta succedendo
ai migranti, guardate la distruzione della biodiversità da cui dipende la vita
umana, guardate il riscaldamento del pianeta, sempre più fuori controllo,
guardate l’ascesa della nuova Destra, guardate il crescente pericolo di nuove
guerre.
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Foro Quarticciolo ribelleUna donna del movimento sudafricano Abhalali
baseMjondolo, “coloro che vivono nelle baracche”
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Allora, da dove prendiamo la nostra disperazione, la nostra speranza, malgrado
tutto? La cosa più ovvia, nella situazione attuale, è dirigersi verso il centro,
sperare che i Democratici possano vincere le elezioni di medio termine, che né
Trump né Vance vincano le elezioni del 2028, che tra dieci anni guarderemo a
Orbán, Meloni, Modi, Erdogan, Trump come a un brutto sogno, una sfortunata
parentesi nella storia, che ci sarà un ritorno a qualcosa che possiamo
riconoscere come civiltà.
Ma c’è una frase che è stata spesso citata negli ultimi anni. La frase, “il
centro non può reggere”, viene da una poesia di W.B. Yeats, “La seconda venuta”
(in coda la poesia completa).
Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga
il falco non può udire il falconiere;
ogni cosa crolla; il centro non può reggere;
assoluta l’anarchia dilaga nel mondo,
dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque
il rito dell’innocenza annega.
Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori
rigurgitano furia di passioni.
Il centro non può reggere. Ovviamente, qui negli Stati Uniti e in altri Paesi,
il centro non ha retto. Eppure rimane resta come una sorta di calamita per la
nostalgia, un’attrazione irresistibile per il mondo che si sta disgregando
intorno a noi. Questa spinta nostalgica verso un ritorno alla normalità è
probabilmente ineludibile, forse persino desiderabile. Eppure dobbiamo
considerare che il centro non ha retto, non ha potuto reggere, e che forse
dobbiamo andare oltre la lotta per il suo ripristino.
3. Ora pensiamo al centro attraverso la prospettiva dell’attuale offensiva. Gli
attacchi al pensiero critico nelle università, gli attacchi ai migranti, la
dissoluzione dell’ordine mondiale basato sul diritto, e così via. Forse, più in
generale, possiamo pensare al centro come a una sorta di contratto sociale
globale, una sorta di normalità stabilita dopo la Seconda guerra mondiale che
comprende un’idea di democrazia come auspicabile, livelli minimi di benessere
sociale, un certo modo di intendere la politica, del tipo di relazioni che
dovrebbero esistere tra gli Stati, una certa idea dei diritti umani e dello
Stato di diritto.
Non voglio certo idealizzare questa normalità. È una fase della civiltà del
denaro, una civiltà criminale basata sullo sfruttamento, il razzismo, il
sessismo, il colonialismo, la repressione, l’incarcerazione e la distruzione di
altre forme di vita.
Ciononostante, esiste una sorta di normalità, una sorta di contratto sociale, a
volte indicato come stato sociale keynesiano, in seguito attaccato radicalmente
da quello che molti chiamano neoliberismo. Eppure questo stato, se visto
soprattutto dal punto di vista del presente, ha mostrato più continuità di
quanto possa sembrare: lo stesso sistema di relazioni tra gli Stati, un
simbolico rispetto per la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto.
4. Questo centro è stato messo sempre più in discussione dopo la crisi
finanziaria del 2008. È allora evidente che non può essere dato per scontato.
A prescindere dal fatto che si trovi o meno attraente quella normalità, o almeno
migliore di quella che viene ora imposta, ci sono almeno due ragioni per pensare
che non sia più realistica.
In primo luogo, essa aveva una base materiale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale,
è stata il risultato della grande ristrutturazione del capitale ottenuta
attraverso la distruzione e il massacro della guerra. Questa spinta alla
produttività e alla redditività è stata sempre più compressa a partire dalla
fine degli anni Sessanta e dall’inizio degli anni Settanta. Dopo il crollo di
Bretton Woods e il cambiamento di politica sotto Reagan e Thatcher, la
riproduzione del capitalismo si è basata sempre più sulla costante espansione
del debito, cioè non sul plusvalore effettivamente prodotto ma sull’aspettativa
di una futura produzione di plusvalore. Negli ultimi quarant’anni c’è stata
un’espansione senza precedenti del debito su scala globale, che ha significato
un’espansione della fragilità sistemica, espressione del divario tra
l’accumulazione di valore e la sua espressione monetaria. Questa fragilità è
amministrata principalmente dalla Fed e da altre banche centrali, ma è esplosa
con la crisi finanziaria del 2007/8 e la minaccia di collasso rimane latente e
costante. In altre parole, la base economica della normalità a cui siamo stati
abituati è diventata sempre più fragile. Il neoliberismo, lungi dall’essere la
politica di un capitale trionfante, è (o era) la politica della sua crisi.
L’altra ragione per dubitare della possibilità di ripristinare il centro è il
grado di rabbia e disperazione che ha generato. La promessa di una crescente
prosperità personale in cambio dell’accettazione del sistema, ignorandone la
forza distruttiva, ovvero una parte cruciale del contratto sociale del
dopoguerra, non è stata mantenuta per gran parte della popolazione, negli ultimi
quarant’anni o quasi. L’accumulo apparentemente casuale di enormi ricchezze da
parte di pochi ha contribuito a incanalare la rabbia in rancore. Come ha detto
Abahlali baseMjondolo, l’importante movimento degli abitanti delle baracche in
Sudafrica, dopo le rivolte razziali nel 2020, “Abahlali ha sempre avvertito che
la rabbia dei poveri può andare in molte direzioni. Abbiamo avvertito più e più
volte che siamo seduti su una bomba a orologeria”.
Il centro, la normalità degli ultimi anni, è stato costruito su due bombe a
orologeria: la fragilità finanziaria e il crescente risentimento. Probabilmente
non è auspicabile né realistico ricrearlo. Dobbiamo certamente lottare per la
difesa della democrazia liberale, ma dobbiamo guardare oltre, andare più avanti
e chiederci se la situazione attuale possa creare una svolta nello sviluppo di
una politica radicale della speranza.
5. Se il centro non può reggere, può farlo la destra? Non possiamo saperlo. Di
certo ci sta spingendo in direzioni che vanno al di là della nostra capacità di
immaginare, in termini di distruzione climatica e possibilità di una guerra
nucleare, forse riuscirà a creare un incubo per l’umanità. Ma è anche possibile
che crolli, da un lato, di fronte all’opposizione popolare, e dall’altro, delle
forze del mercato: paradossalmente ciò accade a causa della sua incapacità di
comprendere e accettare la realtà del potere del denaro.
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Incontro di Mediterranea al Centro Fonti di San Lorenzo, Recanati
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Dov’è dunque la speranza in questa situazione? Innanzitutto, deve essere un
grido di rifiuto, un No. Mi piace pensare che questo sia qualcosa che tutti noi
qui condividiamo. Si riflette nelle proteste di massa degli ultimi fine
settimana e si spera che queste continuino a crescere, crescere e crescere.
Ma dove può portarci questo No? Forse al centro, alla democrazia liberale. Forse
alle prossime elezioni le persone ragionevoli vinceranno, i risentiti
perderanno. Ma allora la fragilità continuerà a crescere e anche il
risentimento. In qualche modo, dobbiamo entrare in contatto con la rabbia
risentita che sta dietro l’ascesa della destra e reclamarla come nostra. La
nostra risposta non può essere “Siate ragionevoli, mettete da parte la vostra
rabbia!”, ma piuttosto “Condividiamo la vostra rabbia contro un sistema che ci
umilia e ci uccide. Proviamo a vedere come sviluppare la nostra rabbia in modo
diverso”. La speranza oggi è davvero una questione di come incanalare la nostra
rabbia.
La rabbia dei poveri può andare in molte direzioni, dice Abahlali. Una direzione
sembra essere dominante al momento: la rabbia come rancore. Ma c’è anche
un’altra rabbia, espressa da migliaia e migliaia di movimenti in tutto il mondo
(e, speriamo, da questa conferenza).
Si tratta di quella che gli Zapatisti chiamano “digna rabia”. Un’espressione
difficile da tradurre, ma forse si può chiamare rabbia dignitosa, o rabbia
giusta: una rabbia che nasce dall’oppressione quotidiana della società esistente
e ci indirizza verso un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle nostre
dignità. In altre parole, una rabbia contro il modo in cui sono organizzate le
relazioni sociali (capitalismo) che spinge verso la creazione di un altro mondo,
un mondo fatto di molti mondi. Una rabbia contro il dominio del denaro e una
spinta verso lo sviluppo della vita.
Una rabbia fatta di risentimento e una rabbia fatta di speranza. Qui c’è una
questione di grammatica, la grammatica dell’identificazione. Il risentimento
produce identificazione: dirige la sua rabbia contro gruppi specifici di
persone, siano essi migranti o accademici di Harvard. Si scaglia contro l’élite
come gruppo di persone, ma non mette in discussione il sistema che produce
l’élite o i migranti. L’ascesa della destra è un’esplosione di politica
identitaria che disumanizza, trattando i gruppi di persone come oggetti o
categorie astratte. L’identificazione è un processo che parte da una rabbia
indefinita e la concentra su oggetti umani specifici, che siano neri, arabi,
ebrei, stranieri, trans. Il processo di identificazione viene rafforzato dai
gruppi di destra, ma è anche profondamente radicato nella società esistente. Lo
Stato è un processo di identificazione: la sua stessa esistenza è la
proclamazione di una netta distinzione tra “noi” e gli altri, gli stranieri, che
possiamo maltrattare e, quando necessario, uccidere. L’esistenza stessa dello
Stato come forma di organizzazione sociale è un processo di costruzione di
“alterità”, una scuola di fascismo e di guerra. Cittadini.
Una politica della speranza parte dalla stessa rabbia identificata dalla destra,
ma resiste al processo di identificazione. Inondandolo.
Una politica della speranza è necessariamente una politica anti-identitaria, non
nel senso di negare l’identità, ma nel senso di andare verso, contro e oltre di
essa. Siamo indigeni, ma la nostra lotta va oltre, per un mondo basato sul
riconoscimento della dignità umana. Siamo Curdi, una nazione oppressa, ma la
nostra lotta va oltre, per la creazione di un mondo diverso. Lottiamo contro il
riscaldamento globale, sappiamo che non è solo una questione di combustibili
fossili, combattiamo invece contro un mondo in cui lo sviluppo è plasmato dalla
ricerca del profitto. Laddove una politica identitaria chiude per dare risposte,
una politica della speranza apre e pone domande. Preguntando caminamos,
camminiamo facendo domande, come dicono gli Zapatisti.
Una politica della speranza è una politica che chiede, cerca, discute. La sua
forma di organizzazione ha una lunga storia, costantemente rinnovata:
l’assemblea, il consiglio, il comune, una forma di organizzazione pensata per
promuovere l’espressione di opinioni e la discussione di soluzioni, lontana
dallo Stato o dal partito che stabilisce la linea da seguire. Un luogo come
questo dove possiamo dissentire, dove possiamo dire “questo è quello che voglio
dire”. Tu cosa ne pensi?”. Un luogo in cui si condivide la rabbia e le etichette
si confondono semplicemente grazie a quella condivisione.
6. La speranza, quindi, è una rabbia dignitosa, una rabbia determinata ad
abolire un sistema sociale che ci sta distruggendo, e determinata a creare un
mondo basato sul riconoscimento reciproco delle dignità. Una follia. Una follia
è presentarsi alla Harvard Business School e dire che dobbiamo abolire il
capitalismo. Eppure è una follia necessaria. Ci sono molti segnali che indicano
il perdurare dell’attuale forma di organizzazione sociale come incompatibile con
la sopravvivenza della vita umana. Certo, il capitalismo è sempre stato una
combinazione di creazione e distruzione, ma ora è il suo lato distruttivo a
dominare sempre di più. La speranza è follia. La speranza è disperazione che
cammina sull’orlo dell’abisso dell’angoscia. Ma dobbiamo accettare la nostra
follia, per esprimerla con forza. Perché dobbiamo vincere. Questa volta, noi, i
soliti sconfitti, dobbiamo vincere, o altrimenti sedere a godersi la corsa verso
la catastrofe, verso la possibile estinzione.
7. Concludo con una piccola storia raccontata da Marcos nell’incontro
organizzato dagli Zapatisti alla fine di dicembre. Egli racconta come i giovani
Zapatisti, tecnicamente avanzati, che sono riusciti a organizzare la diretta
streaming dell’evento, sono riusciti anche a stabilire un collegamento
telefonico con una comunità indigena dell’anno 2145. Così Marcos chiama la
comunità e al telefono risponde una ragazzina. Marcos chiede “Come state?” e lei
risponde “Dipende”. E Marcos pensa “che risposta assurda, perché non poteva
rispondere un adulto?”. E dice, un po’ più forte: “Come stai Tu?”. E la ragazza
ripete, più chiaramente: “Dipende. Da te”. Dipende. Da noi. Se quella ragazzina
esisterà mai. O in quali condizioni. La speranza non è un gioco o una virtù, è
la lotta per creare un mondo diverso.
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La Seconda Venuta (W. B. Yeats)
Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga
il falco non può udire il falconiere;
ogni cosa crolla; il centro non può reggere;
assoluta l’anarchia dilaga nel mondo,
dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque
il rito dell’innocenza annega.
Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori
rigurgitano furia di passioni.
Qualche rivelazione di certo s’avvicina
la Seconda Venuta, di certo s’avvicina
la Seconda Venuta! E non appena pronunciata
un’immensa immagine emanata dallo Spiritus Mundi
mi turba la vista: in qualche luogo tra le sabbie del deserto
una forma dal corpo di leone e dalla testa d’uomo,
occhi vuoti e impietosi come il sole,
avanza sulle lente cosce, mentre attorno
vorticano le ombre degli sdegnati uccelli del deserto
La tenebra ancora torna, ma ora so
che venti secoli d’un sonno di pietra
furono oppressione e incubo per una culla a dondolo,
e quale bestia informe, giunto infine il suo tempo
avanza senza grazia per Betlemme, a prender vita?
(Traduzione di Alfredo Rienzi, 2016) – (larecherche.it)
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Questo testo è stato preparato per un simposio promosso alla Harvard Business
School dal titolo Radical Hope. Traduzione per Comune di Marcella Ravaglia.
Nell’archivio di Comune gli articoli di Holloway sono leggibili qui. Il suo
ultimo libro è La speranza in un tempo senza speranza (Ed. Punto Rosso).
John Holloway e Marcella Ravaglia hanno aderito alla campagna Partire dalla
speranza e non dalla paura
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La versione dell’articolo in inglese:
Centre cannot HoldDownload
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L'articolo Il centro non può reggere proviene da Comune-info.