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La sfiducia verso gli altri mondi
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Occasionalmente, anche se raramente, troviamo echi nel modo in cui vediamo il mondo, e in particolare, il nostro mondo. Una recente intervista sul sito Comune, condotta da Gianluca Carmosino con l’antropologa italiana Stefania Consigliere, è particolarmente stimolante. Intitolata “Perché è difficile riconoscere nuovi mondi?“, presenta una prospettiva interessante. L’antropologa sostiene che altri mondi, o mondi nuovi, esistano già, anche se appaiono disorganizzati e imperfetti. Individua due ragioni che ci impediscono di vederli, riconoscerli e dare loro l’importanza che meritano. La prima è “lo sguardo coloniale”. A suo avviso, “se un mondo non è tecnologicamente avanzato, ad esempio, o non ha una struttura sociale come la nostra, è un mondo un po’ selvaggio, meno desiderabile e primitivo”. Si tratta di un’“arroganza coloniale” che non è affatto esclusiva dell’Europa o del Nord del mondo, ma è atteggiamento consueto tra la sinistra e gli accademici latinoamericani, che tendono a guardare con distacco e disprezzo le iniziative provenienti dal basso e dalla sinistra. Una riflessione che condividiamo. Il secondo tema affrontato riguarda “l’approccio eroico all’idea di cambiamento”, ereditato dalla nozione tradizionale di “rivoluzione come presa del potere, con il momento magico escatologico nel quale finalmente arriviamo alle leve del comando e dirigiamo la macchina dove ci piace…”. Riesce a collegare la presa del potere statale con “la tentazione del dominio”, che, secondo l’autrice, risulta essere l’aspetto meno esplorato dei movimenti antisistemici. Credo che entrambe le riflessioni siano molto importanti, a patto che riusciamo ad accoglierle come un nostro problema e non come un problema altrui, lontano da noi. Tutti noi che sosteniamo lo zapatismo abbiamo sperimentato persone di sinistra e di altri movimenti che alzavano le spalle quando raccontavamo loro di aver partecipato a un incontro e di aver condiviso le nostre esperienze con i compagni, o che stavamo sostenendo la costruzione di un ospedale, di una scuola o la distribuzione di caffè biologico. L’immagine eroica degli operai bolscevichi che entrano nel Palazzo d’Inverno sembra davvero importante, mentre partecipare a un evento per ascoltare e imparare sembra secondario, quasi irrilevante. Una citazione della scrittrice Simone Weil nell’intervista sopracitata riassume questo atteggiamento avanguardista di non ascolto: “… l’attenzione è la più alta e rara delle virtù. Quindi stare attenti, stare in ascolto, sentirsi, anziché performare”. Questi sono i passaggi preliminari necessari per intraprendere azioni profonde e, quindi, durature. L’immagine della presa del potere come ingresso al palazzo è diventata una cartolina, un’immagine che racchiude le idee semplicistiche di rivoluzione che hanno così profondamente permeato l’immaginario della sinistra mondiale. Tutto ciò che non si allinea con questo è quasi una perdita di tempo. Un grosso problema di questa sinistra è che decontestualizza il prima e il dopo del benedetto binomio “rivoluzione = presa del potere”, isolando quell’evento e trasformandolo in un paradigma di ciò che è desiderabile, dell’unica cosa che ha veramente valore. Ma quel passo è sempre stato preceduto, in ogni caso, da migliaia di piccole azioni che non sembravano importanti, né si sapeva che potessero portare ad azioni più grandi. Un fornaio indipendentista catalano scrisse delle centinaia di forni per il pane di Barcellona, che lavoravano tonnellate di farina ogni giorno per mano di migliaia di persone, come un importante antecedente alla rivoluzione di Barcellona del 1936, seguita al colpo di stato di Franco. Sono appena tornato dal Perù, dove ho avuto una lunga conversazione con uno dei consulenti più esperti dell’organizzazione amazzonica AIDESEP (Associazione Interetnica per lo Sviluppo della Foresta Pluviale Peruviana), che riunisce quasi 2.500 comunità in nove federazioni. Abbiamo parlato a lungo dei 15 governi autonomi che altrettante comunità hanno creato a causa dell’impossibilità di dialogo e negoziazione con il governo di Lima. Quando gli ho chiesto perché i popoli indigeni delle Ande, Quechua e Aymara, non abbiano intrapreso un percorso simile, il suo racconto mi ha sorpreso. La CONACAMI (Confederazione Nazionale delle Comunità del Perù Colpite dall’Attività Mineraria), che rappresentava più della metà delle sei comunità andine del Paese, ha iniziato a discutere la possibilità di adottare un’identità indigena, poiché fino ad allora le organizzazioni si identificavano solo come contadine. Adottare un orientamento indigeno significava rompere con la tradizione di mobilitarsi per rivendicare qualcosa dallo Stato, poiché non riuscivano a concepire altra opzione che negoziare per ottenere risorse. La posizione indigena fu sostenuta, tra gli altri, dal nostro compagno Hugo Blanco. Tuttavia, i partiti di sinistra peruviani si rifiutarono di consentire questo passo, perché ritenevano di perdere il controllo della “loro” base, rigorosamente controllata dalle gerarchie di partito e da movimenti come il PCC (Confederazione Contadina Peruviana). Usarono la minaccia di tagliare i finanziamenti al movimento attraverso le ONG da loro controllate come ricatto, riuscendo così a bloccare questo passo storico che avrebbe condotto i popoli andini verso percorsi più vicini alla costruzione dell’autonomia. Sollevo questa questione perché sento che, oltre allo sguardo coloniale e alla visione eroica dei cambiamenti che analizza Consigliere, ci sono gli interessi personali e politici meschini di coloro che vivono a scapito dello sforzo dei popoli e usano la loro influenza per ottenere qualche tipo di vantaggio. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Desinformemonos con il titolo La desconfianza de la izquierda hacia los mundos otros -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI L’INTERVISTA A STEFANIA CONSIGLIERE: > Perché è difficile riconoscere mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La sfiducia verso gli altri mondi proviene da Comune-info.
Omaggio a Marco Calabria
UNA SALA PIENA, AL POLO CIVICO ESQUILINO DI ROMA, HA ACCOLTO SABATO 8 NOVEMBRE (MALGRADO METRO CHIUSE, BUS DEVIATI, TRAFFICO), LA PRIMA PRESENTAZIONE DI GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI, L’ANTOLOGIA CURATA DA GIANLUCA CARMOSINO E PUBBLICATA DA ELÈUTHERA CHE RACCOGLIE TESTI DI MARCO CALABRIA. IL LIBRO È UNA BUSSOLA CHE AIUTA A COMPRENDERE I POPOLI E LE ESPERIENZE CHE OVUNQUE STANNO PERCORRENDO SENTIERI COMPLETAMENTE NUOVI, ALTERNATIVI ALLE LOGICHE DEL CAPITALISMO, E PER QUESTO FRAGILI E IMPERFETTI, TRACCIANDO LA STRADA MAN MANO CHE AVANZANO. L’INTERVENTO DI RAÚL ZIBECHI CHE, IN COLLEGAMENTO DA MONTEVIDEO, HA APERTO L’INCONTRO La morte di un amico è una ferita al cuore. La scomparsa di Marco è molto più della morte di una persona cara, è la perdita di una memoria storica inestimabile in un momento in cui il capitalismo sta lottando proprio per cancellare la memoria collettiva di popoli, classe e individuo. È, quindi, doppiamente dolorosa. In un anno abbiamo pero Marco Calabria e Aldo Zanchetta. Due amici, due compagni di lotta, due luci che hanno illuminato le nostre vite, anche nei giorni più bui, e nutrito la speranza in un modo diverso. Marco sapeva trovare alternative al capitalismo nelle piccole cose della vita quotidiana, come ha accennato Stefania Consigliere nella sua recente intervista su Comune (Perché è difficile riconoscere mondi nuovi). Sebbene fosse un fervente ammiratore di Mao (cosa che condividevamo), la sua casa aveva un grande terrazzo dove centinaia di piante e piccoli alberi competevano con la grigia monotonia del cemento urbano. I suoi gatti e quelli del quartiere scorrazzavano li, mente Marco fumava una sigaretta dopo l’altra. Amava la natura con la stessa semplice ammirazione con cui amava giocare o ascoltare i bambini, ai quali dedicava attenzione e rispetto, senza il minimo accenno di paternalismo. Por essendo un uomo bianco, occidentale e urbano, capì lo zapatismo senza essere mai stato in Chiapas, così come capì i popoli in movimento in tutta l’America Latina. Comprendere è un atto creativo, ci ha detto Keyserling. Creare è una pratica sociale, individuale e collettiva che implica andar oltre l’esistente, reinventandolo nel materiale e del simbolico. In questo senso, Marco era un creatore fantasioso di nuovi mondi, sapeva riconoscere quando qualcosa di diverso stava nascendo. Credo che il miglior omaggio che possiamo rendere a Marco oggi, a un anno dalla sua silenziosa scomparsa, sia continuare a comprendere i popoli che stanno percorrendo sentieri completamente nuovi, inediti e originali, tracciando la strada man mano che avanzano, come diceva Antonio Machado. Grazie, Marco, per averci dato così tanto, senza aspettare nulla in cambio. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Omaggio a Marco Calabria proviene da Comune-info.
Perché è difficile riconoscere mondi nuovi
LO SGUARDO COLONIALE E L’IMPOSTAZIONE EROICA DELL’IDEA DI CAMBIAMENTO, DICE STEFANIA CONSIGLIERE, CONTINUANO A LOGORARE LA CAPACITÀ DI RICONOSCERE L’ESISTENZA DI MONDI NUOVI E RISCHIANO COSÌ DI SPEGNERLI: QUEI MONDI PRENDONO FORMA NON COME SCONVOLGIMENTI, MA COME CONTINUA ATTENZIONE ALLA QUALITÀ DELLE RELAZIONI CHE COSTRUIAMO OGNI GIORNO. QUESTA INTERVISTA È STATA REALIZZATA IN VISTA DELLA DUE GIORNI “PARTIRE DALLA SPERANZA E NON DALLA PAURA”, PROMOSSA DALLA REDAZIONE DI COMUNE, A ROMA, IL 7 E 8 NOVEMBRE (PROGRAMMA IN CODA) Soulpalco, gruppo di musica popolare di Napoli. Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- Stefania Consigliere insegna presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Genova. Le sue ricerche, in particolare su immaginario e rivoluzione, raccolte in numerosi articoli e libri, tra cui Favole del reincanto (DeriveApprodi), sono un riferimento essenziale per tanti e tante. Consigliere sostiene che mondi altri, disorganici e imperfetti, sono già qui, ma siamo spesso incapaci di individuarli per diverse ragioni. In questa intervista parliamo di pensare mondi nuovi, di relazioni di potere, dell’attenzione come capacità preziosa. Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza in esilio durante gli anni del fascismo e del nazismo. Anche tu, in Favole del reincanto, sostieni che i mondi nuovi che cerchiamo sono già qui, per quanto fragili e limitati. Come possiamo oggi, in questi tempi cupi, imparare a pensare, individuare e proteggere mondi nuovi? Ho l’impressione che ci siano due cose, nella nostra tradizione culturale ampia, quella della modernità occidentale, che in questo momento ci impediscono di riconoscere i mondi altri, e quindi poi, a maggior ragione, di proteggerli e dar loro spazio. La prima è molto semplice da enunciare, ma richiede una lunghissima lavorazione, nel senso che è qualcosa di talmente connaturato con il modo in cui cresciamo da diventare parte di noi: ed è lo sguardo coloniale. Siamo plasmati da uno sguardo che squalifica ancora ciò che non è “noi”, anche in punti in cui ci piacerebbe fare qualcosa di diverso o immaginiamo di stare già facendo qualcosa di diverso. Questa cosa la vediamo moltissimo come Laboratorio Mondi Multipli, un piccolo gruppo di cinque persone dentro l’Università di Genova: facciamo consulenza antropologica a persone assolutamente ben intenzionate nel loro rapporto con l’alterità culturale e però, anche fra noi la tendenza è un po’ sempre quella di pensare che, alla fin fine, se un mondo non è tanto progredito, bisognerebbe poter virgolettare il parlato, se non è altrettanto progredito tecnologicamente, ad esempio, o come forme di strutturazione sociale quanto il nostro, in definitiva è un mondo un po’ selvaggio, comunque meno desiderabile, primitivo. Questo sguardo coloniale, ahimè, ce l’abbiamo, nonostante noi, e richiede molto allenamento. Secondo me è un allenamento estremamente proficuo: un po’ perché ci toglie da quella tracotanza colonialista che ci mette nel mondo in una posizione più civile, e dall’altro lato perché è ciò che permette di riconoscere pienamente, di riconoscere amorevolmente, e magari anche passionalmente, che i mondi fatti diversamente dal nostro forse non sono inferiori. Forse sono altrettanto complessi, magari più belli, più desiderabili, magari hanno invece un sacco di indicazioni da darci. E questo mi sembra il primo grande, fondamentale blocco. Il secondo impedimento che vedi? È di nuovo, qualcosa che fa parte anche della tradizione politica in cui noi cerchiamo in qualche modo di muoverci, o che sentiamo più vicina: c’è un po’ un’impostazione eroica dell’idea di cambiamento. Forse siamo ancora vittime della vecchia idea di rivoluzione come presa del potere, con il momento magico escatologico nel quale finalmente arriviamo alle leve del comando e dirigiamo la macchina dove ci piace. Ma la questione non è prendere il potere, ma come stare nelle relazioni. Non tanto prendere la macchina e dirigerla da un’altra parte, ma sentire in noi la tentazione del potere, la tentazione del dominio, le parti non lavorate, penso, per esempio, a quella colonialista. Quindi, a me sembra che il punto sarebbe proprio quello di stare in modo completamente altro nella relazione di potere, come anche nel pensare una struttura differente. Questo, per restare in termini molto generali, forse perfino troppo generali rispetto alla domanda. Per arrivare invece proprio al nocciolo della domanda che tu hai posto, mi verrebbe da dire che, in questo momento, sono “altri” tutti gli spazi, per quanto temporalmente o geograficamente limitati, piccolissimi, affaticati, che permettono l’esistenza, anche temporanea, di una logica altra di funzionamento. Spazi che escono dal tritacarne del funzionamento ordinario, che sostanzialmente è fatto di soprusi, di competizione, di violenza, di violenza strutturale: una violenza solidificata dentro i modi, dentro le istituzioni, di cui nemmeno più ci accorgiamo. Sono già mondi altri tutti gli spazi nei quali si ragiona di mutuo sostegno invece che di competizione; nei quali si ragiona di cura, degli umani, ma più in generale del vivente, invece che di sfruttamento e distruzione; nei quali il punto è stare attenti. Simone Weil diceva che l’attenzione è la più alta e la più rara delle virtù. Quindi stare attenti, stare in ascolto, sentirsi, anziché performare. Sono mondi altri quelli che stanno in presenza, con i corpi, con i visi, con gli odori, con i timbri, invece che a distanza. E sono alternativi e potentissimi tutti gli spazi che cercano margini di autonomia: che sia autonomia affettiva, energetica, di salute, alimentare, o, mi viene da aggiungere così, in corsa, autonomia relazionale, quindi relazioni che si strutturano al di fuori della strutturazione comandata, ingabbiata. Tutti questi spazi di autonomia sono mondi altri. Ma come si presentano oggi questi mondi altri? Chiaramente, ed è tragico dirlo, in questo momento storico, adesso più che mai, proprio negli ultimi anni, anzi negli ultimi mesi, questi mondi differenti si configurano immediatamente come luoghi di diserzione. Nel senso che qualsiasi forma di autonomia noi si vada cercando, in questa epoca buia, è già una diserzione da una qualche forma di comando, e in particolare negli ultimi tempi anche proprio come diserzione da una guerra che ci stanno gettando addosso, che stanno lungamente preparando con i soliti mezzi della paura e della propaganda. Per cui qualsiasi luogo di diserzione esistenziale e di ricerca di autonomia minima è già un mondo altro, e quindi… è già trattato come se fosse criminale. Esplorare la vita di ogni giorno, trasformare le relazioni con i non umani e accogliere i saperi di non occidentali sono solo azioni di legittima difesa, più o meno illusorie, dal realismo capitalista oppure possono favorire la creazione di mondi diversi? Parto da un aneddoto, a proposito di questa storia della vita quotidiana… che cos’è la vita quotidiana? Piero Coppo, amico per vent’anni, etnopsichiatra, raccontava che a un certo punto, in una manifestazione fra il ’67 e il ’68, era rimasto folgorato da un volantino che riportava una frase di Raoul Vaneigem che diceva: “Chi parla di rivoluzione senza pensare al quotidiano ha un cadavere in bocca”. La rivoluzione come trasformazione delle relazioni più piccole, apparentemente più infime, ad esempio come ci rapportiamo a un albero, alla collina dietro casa, a un gatto, al passante che piange o che urla… Tutta questa roba qui è il terriccio stesso che permette di vivere, o che non permette più di vivere, quando viene in qualche modo disseccato o reso sterile. Però volevo entrare nell’alternativa che poni: cioè, è un’illusione o è qualcosa che ci porta altrove? Che è chiaramente il dubbio che tutti quanti abbiamo continuamente in testa, in qualsiasi cosa facciamo: “Ma sarà qualcosa che vale la pena di fare oppure sto perdendo il mio tempo?” Ecco, qui io sento in questa alternativa proprio il funzionamento dell’“alternativa infernale” di cui hanno scritto alcuni autori francesi. È come se facessimo sempre fatica, dentro la logica aristotelica stretta e il pensiero al quale siamo addestrati, a immaginare che forse sono vere tutte e due le cose. Sono vere entrambe perché ci muoviamo nella fascia che potremmo definire come immaginario: tutto ciò che precede la solidificazione di un mondo umano e che continuamente accompagna questo mondo. I sogni, le fantasie, i fantasmi antichi o quelli recenti, i timori, la voce degli antenati… tutto ciò che non ha una forma solida, facilmente riconoscibile, e che permette la nascita, l’emersione, la solidificazione dei mondi. Nella fascia dell’immaginario è chiaro che, comunque ci muoviamo, siamo in un terreno che non è né un’illusione destinata a svanire né qualcosa di già solido: è qualcosa di potenziale. Allora, la domanda forse potrebbe essere: quando noi ci muoviamo in questa fascia, in cui stiamo cercando di far esistere relazioni differenti, pezzi di mondo diversi, che cosa ci permette di essere più efficaci? Quando sogniamo, che cosa rende i nostri sogni felici, non nel senso di allegri ma di attivi? Ecco, a me pare che la forza propellente che permette di transitare dall’immaginario alla realtà condivisa fra umani sia la fiducia. Se stiamo in quei processi con un certo grado di fiducia nel processo, negli altri, in quello che possiamo fare, nelle entità umane e non umane che convochiamo per i nostri processi, quelli hanno molta più probabilità di trasformarsi in qualcosa di solido. Se invece andiamo già disillusi, disincantati, con l’impressione che “tanto è solo un bel sogno che poi lascia tutto intatto…”, siamo invece nel meccanismo hollywoodiano del “passiamoci due ore sognando qualcosa di diverso per poi rientrare consolati, ma in modo un po’ stupido, nel tritacarne quotidiano”. E chiaramente qui il discorso si farebbe enorme, sarebbe molto bello seguirlo, ma forse ci vorrebbe qualche giornata o qualche notte intorno al fuoco. Raccogliamo la tua proposta, prima o poi promuoveremo un incontro intorno a un fuoco. Grazie. Ma cos’è esattamente l’immaginario? Quando si parla di immaginario si parla di disincanto e reincanto, quindi anche del lunghissimo addestramento, che dura ormai da quattro secoli, che abbiamo subito, e talora facciamo subire, a essere assolutamente certi, convinti, tetragoni sull’idea che le uniche intenzionalità attive siano quelle umane. Che animali, piante, cieli, paesaggi non abbiano intenzionalità, non siano attivi, non c’entrino niente con la storia, e che le uniche forme di causalità siano quelle meccaniche, come le biglie sul tavolo da biliardo che si scontrano e si muovono secondo certi vettori. Io ho l’impressione che il disincanto sia proprio questo: la credenza che le sole causalità siano meccaniche e le sole intenzionalità siano umane. E queste credenze si possono smontare. Mi viene in mente, ad esempio, l’opera di Lévi-Strauss o certe parti piuttosto visionarie dell’antropologia, quando parlano di efficacia simbolica, di causalità di ordine non immediatamente meccanico. Ma si smontano anche semplicemente con un approccio ecologico all’idea che i posti che noi abitiamo sono innanzitutto relazionali; che la relazione è ciò che permette a noi di continuare a esistere, ai luoghi di vivere, e così via. Queste relazioni non sono semplicemente quelle che siamo addestrati a immaginare. Tanto per dire: noi siamo vivi e tentiamo di pensare, di guardare criticamente al mondo, di lottare, di stare vicini, di sostenerci, di amarci, perché… mangiamo. Allora, da dove arriva il nostro cibo? Perché respiriamo? Com’è fatta la nostra aria, che cosa la inquina? Perché abbiamo dei sogni? Cosa entra a tradimento nei nostri sogni e li piega a forme di vita che troviamo ingrate? Chi fa i nostri abiti, e dove? Quanto costa ecologicamente fare un abito? E via dicendo. Tutto questo guardare alle connessioni da cui dipendiamo e alle causalità non umane che agiscono continuamente è qualcosa a cui non siamo più addestrati, ma che era la raccomandazione sia del vecchio materialismo di tradizione marxiana, sia del buddismo: “Tu devi sapere esattamente dove sei messo, come sono fatte le relazioni del mondo nel punto in cui lo abiti, per onorare il fatto che un sacco di cose ti tengono in vita, ti permettono di continuare a mangiare, a respirare, a vestirti, ad amare, a desiderare…”. Ecco, questa tessitura costitutiva è fatta di umani ma anche di non umani, e imparare a riconoscere che cosa agisce effettivamente nei nostri mondi sarebbe, penso, un gran bel modo per muovere dolcemente, e senza voli pindarici, verso forme di reincanto. Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio, l’ultimo libro di Amitav Ghosh, il saggista e romanziere indiano, dal punto di vista di un occidentale, è geniale, perché in 400 pagine mostra fino a che punto un’entità non umana come il papavero da oppio sia stata una forza propellente del colonialismo. Ecco, è esattamente quel tipo di sguardo che forse dovremmo cominciare a sviluppare: lo sguardo che vede tutte le relazioni, e che nelle relazioni riconosce movimenti, intenzioni, desideri, spostamenti, vettori che non sono soltanto quelli umani a detrimento di tutti gli altri. -------------------------------------------------------------------------------- L’intervista è stata realizzata – in collaborazione con Riccardo Troisi – in vista della due giorni di iniziative “Partire dalla speranza e non dalla paura”, promossa dalla redazione di Comune presso il Polo civico Esquilino, a Roma, venerdì 7 e sabato 8 novembre: -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUEST’ALTRO ARTICOLO DI STEFANIA CONSIGLIERE: > Disperate speranze -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché è difficile riconoscere mondi nuovi proviene da Comune-info.
Ribellarsi facendo, qui e ora
GAZA, UN GENOCIDIO DAVANTI AGLI OCCHI DEL MONDO, METTE IN CRISI LA CULTURA POLITICA NON SOLO DI CHI DOMINA. SIAMO ALL’INIZIO DI UN TEMPO NUOVO. ABBIAMO BISOGNO DI ESPERIENZE PER RE-IMPARARE A NAVIGARE, ESPERIENZE AD ESEMPIO DI CURA, COME QUELLA CHE VIVONO OGNI GIORNO LE PERSONE CHE SI INCONTRANO NELLA “PIAZZA DEL MONDO” DI TRIESTE, CROCEVIA DEI MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA. “FARE ESPERIENZA OGGI È UN PRIVILEGIO, COME AVERE UNA BUSSOLA PER CHI È SPERDUTO IN MEZZO AL MARE… – SCRIVE GIAN ANDREA FRANCHI – STA A NOI MOSTRARE SE LA FLOTILLA E SOPRATTUTTO LE MANIFESTAZIONI IN EUROPA E IN VARIE PARTI DEL MONDO POSSONO ESSERE L’INIZIO DI ESPERIENZA E QUINDI DI POLITICA… ANCHE SE FARE MANIFESTAZIONI È MOLTO PIÙ FACILE DI UN AGIRE COSTRUTTIVO QUOTIDIANO E LOCALE: QUI STA IL PUNTO. DOBBIAMO COSTRUIRE LA NOSTRA SELVA LACANDONA…” Molti che vengono a trovarci, qui a Trieste, dove ogni giorno con Linea d’ombra incontriamo i migranti che arrivano dalla cosiddetta rotta Balcanica, e spesso ci dicono che nella piazza del Mondo di Trieste si fa esperienza. Ma che cosa vuol dire questa parola comune e quindi dal significato sfuggente? Per definire il concetto di esperienza possiamo fare riferimento a Walter Benjamin. Da quasi un secolo, Benjamin ci offre una meditazione pregnante sulla possibilità e quindi sulla capacità di fare esperienza, partendo dalle ricadute sociali degli effetti della Prima guerra mondiale. Fra queste ricadute, fondamentale è stata, appunto, l’incapacità di fare esperienza: “… l’arte di narrare si avvia al tramonto […] È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa, la più sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”. “Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? […] Una generazione che era ancora andata a scuola con il tram a cavalli, si trovava sotto il cielo aperto, in un paesaggio di cui nulla era rimasto immutato, tranne le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”1. Oggi l’incapacità di fare esperienza ha raggiunto un culmine mai toccato prima nei confronti di ciò che è letteralmente inesperibile, indicibile: la distruzione quotidiana di una popolazione inerme di fronte a tutto il mondo, offerta o imposta ogni giorno e ogni notte dall’invasiva potenza elettronica della produzione di immagini su dispositivi di uso quotidiano, come i cellulari, ormai capillarmente diffusi. E questo accade in un contesto già gravemente segnato da un altro dato fondamentale di lunga durata, meno visibile forse ma anche più grave, se possibile: l’alterazione, che ormai appare inarrestabile, dell’equilibrio ambientale della vita sulla terra, dovuta all’attività umana, anzi per essere doverosamente più preciso: di una parte minoritaria degli umani. Se “storia” implica narrazione – lo stabilirsi di un nesso comunicativo fra le generazioni che si succedono nel corso del tempo, fra chi viene al mondo e chi se ne va, fra chi nasce e chi muore -, questi due passaggi epocali confluenti ci mettono di fronte a una frattura storica mai avvenuta prima. In tale contesto, in cui ci troviamo tuffati come in un mare senza sponde, come è possibile fare esperienza? Io credevo di aver avuto questo privilegio. Mi era stato offerto in un gesto comunicativo originario e radicale, che agisce alla base della vita: il gesto di cura per mano di donna che, scalzando un piede ferito da un lungo cammino, ha cominciato, di fronte a una lingua sconosciuta, a curarlo, entrando quindi con lui in un radicale rapporto. Questo gesto si è inserito, peraltro, in un contesto culturale di pensiero femminista, che mi era noto. Ma un conto è la conoscenza intellettuale, un altro – appunto – l’esperienza. Fare esperienza oggi è un privilegio, come avere una bussola per chi è sperduto in mezzo al mare. Salvo illusioni, di cui bisogna sempre tener conto come orizzonte di riserva per un pensiero critico attivo che ha conosciuto la potenza delle illusioni. La potenza dell’illusione, infatti, nasconde spesso l’incapacità di fare esperienza, nutrendosi di emozioni rivestite di immagini e di parole, non di pensieri: oggi più che mai prima, con l’in-flusso soffocante dell’informazione elettronica. Nella piazza del Mondo di Trieste si fa dunque esperienza. Si fa anche esperienza di un altro confine, oltre a quello che scatta contro i migranti, che meglio si chiamerebbe frontiera. Si fa esperienza del confine fra loro e noi che è stato chiamato da un sociologo e attivista la “differenza abissale” e che, per rimanere in tema, possiamo chiamare il confine abissale: il confine non facilmente superabile fra “culture” molto diverse e condizioni di vita radicalmente diverse dalla nostra, come sono quelle di chi viene da paesi in cui sopravvivere è difficile, rischiando molte volte la vita per arrivare dove noi lo incontriamo, tentando di accoglierlo. Ma si fa esperienza anche di un altro confine, in apparenza molto meno drammatico, in realtà molto legato al dramma, anzi alla tragedia, di cui sopra, che riguarda noi stessi direttamente, anzi intimamente. Intendo dire che facciamo esperienza del confine tra umanitarismo e politica. Si tratta di una differenza fondamentale nell’agire sociale che deriva dal confine tra due forme di vita che chiamerò vita privata (privata dunque di qualcosa…) e vita comunitaria. Con “vita privata” intendo la vita normale (ovvero che risponde a norme) nelle nostre società rette dalla cultura dell’economia di mercato in cui l’essere umano si rappresenta nella figura dell’individuo, separato e contrapposto agli altri, sulla base di un’ontologia sociale della concorrenza e della proprietà, in cui rientra la cerchia insulare degli “affetti”. Con “vita comunitaria” intendo il fine intrinseco della politica, pensata esclusivamente come impegno nel cuore della società volto a rompere l’individualismo nel tentativo, appunto, di costruire comunità: una vita sociale composta di relazioni basate sul dato ontologico che la soggettività nasce dalla relazione e non la precede; nasce dal riconoscimento reciproco fra singoli, non fra individui che non si possono riconoscere ma soltanto contrapporsi o comunque relazionarsi estrinsecamente. “Singolo” è la parola con cui indico il carattere strutturalmente relazionale della soggettività: non c’è un “io” prima dell’”altro”; il gioco essenziale fra “io” e “sé” nasce dal riconoscimento dell’altro che poi diventa reciproco. Ciò accade sulla base della cura, altra nozione essenziale per un pensiero politico, il cui evento originario è l’esser accolti alla nascita. Generalmente con “politica” si intende soprattutto il livello istituzionale: lo Stato, con annessi e connessi, che è gestione del potere in una società e in stretto necessario legame con il soprastante potere detto “economico”. Dovremmo invece imparare a riservare il termine politica solo all’impegno dentro la società, fra la gente, in cui il privato e il pubblico, almeno tendenzialmente, si dissolvono. In tale contesto non deve esserci potere che può esser agito solo in situazioni circoscritte e su precisa delega collettiva sempre temporanea. Con “umanitarismo” intendo, invece, un impegno nel disagio e nella sofferenza sociali che resta al di fuori della soglia politica perché non risale alle cause di quel disagio e di quella sofferenza nel tentativo di superarle. In tal modo se ne rende complice. In qualunque società infatti una certa quantità e qualità di cura reciproca è necessaria affinché la società stessa non si disgreghi. Vi sono innumerevoli forme a tutti i livelli di presenza della cura nelle società. Nel cosiddetto Occidente, il potere ha imparato che senza una certa quantità e qualità di cura la società stessa tende a disgregarsi. In Occidente e soprattutto in Europa negli anni Sessanta-Settanta c’è stato un notevole aumento della cura pubblica, anche e soprattutto per effetto di movimenti sociali. Da qualche decennio è evidente che la cura pubblica sta diminuendo fortemente. In molti paesi del mondo la cura è al livello minimo. In altri è al disotto del livello minimo: sono paesi in disgregazione – penso, ad esempio, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, ad alcuni paesi africani e del Sud Asia orientale, ma ce ne sono molti. Oltre alla cura pubblica, cioè di matrice statale, c’è anche una cura da parte di gruppi sociali che però non si pongono il problema delle cause della sofferenza, ma si limitano a curare le conseguenze: è appunto la cura umanitaria, essenziale per sostenere la società, soprattutto oggi che la cura è in diminuzione ovunque e inoltre viene “privatizzata” nel senso che diventa una produzione economica per generare valore di scambio. Tradizionalmente la Chiesa cattolica è la più importante produttrice di cura umanitaria nel nostro paese. Oggi, però, ricollegandomi all’incipit di questo scritto, siamo all’inizio di un tempo storico assolutamente nuovo che cambia tutte le carte in tavola. Credo, infatti, che quel che avviene a partire dal 7 ottobre del 2023 in Gaza, ovviamente ricaduto anche in Cisgiordania e su tutto il popolo palestinese, tutt’altro che concluso con l’esibizione della finta pax americana – ovvero un genocidio davanti agli occhi del mondo intero – sia la dichiarazione pubblica fattuale che è possibile anzi “desiderabile” una società senza cura: una società retta dal nudo potere del valore di scambio, di cui la diffusione di una cultura mercantile della guerra è la conseguenza. Questo avvenimento pubblico è tale da produrre una rottura radicale nella continuità storica del tramandamento e quindi nella nostra capacità di fare esperienza. Noi non siamo – non siamo ancora, forse – in grado di fare esperienza di quel che accade a Gaza. Ma quel che accade a Gaza reagisce su tutto ciò che facciamo, anche nella piazza del Mondo di Trieste, che rischia continuamente di venir riassorbita, quindi, nell’umanitario, sul cui confine oscilliamo sempre. Peraltro fra questo recente fenomeno migratorio e quel che accade a Gaza c’è un nesso significativo nel nome del disprezzo razziale della vita, antica e fondamentale tradizione europea. Questo nesso è la politica di morte dell’Unione europea che di morti ha riempito il Mediterraneo e in minor misura anche la rotta che giunge ai Balcani. Una politica di morte che l’Europa, e in particolare l’Italia, agisce con Libia e Tunisia: anche noi quindi, cittadini europei e italiani, siamo direttamente coinvolti… Sta a noi mostrare se la Sumud flottiglia e soprattutto le manifestazioni in Europa e in varie parti del mondo possono essere, forse, un primo impulso a un inizio di esperienza e quindi di politica… anche se fare manifestazioni è molto più facile di un agire costruttivo quotidiano e locale: qui sta il punto. Dobbiamo costruire la nostra Selva Lacandona: le nostre piccole selve da unire nella grande… (e qui non posso far punto ma solo puntini…). -------------------------------------------------------------------------------- 1 Walter Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Traduzione e cura di Renato Solmi, Einaudi Torino, seconda edizione 1982, pp. 248 e 247 -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ribellarsi facendo, qui e ora proviene da Comune-info.
La Flotilla, le piazze e la vita che esonda
NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA, NEI PORTI BLOCCATI, NEI GESTI DI SOLIDARIETÀ QUOTIDIANA, SONO AFFIORATE CON FORZA DIROMPENTE ALTRE LOGICHE DI VALORE: È L’ETICA NON COME MORALE PRIVATA MA COME FORZA CHE CREA MONDI ALTRI. LA SFIDA ORA È TRASFORMARE QUELLA SPINTA ETICA IN PRATICA DI OGNI GIORNO. “LE CUCINE COLLETTIVE, LE RETI DI MUTUO AIUTO, I MEDIA INDIPENDENTI, LE ESPERIENZE AGROECOLOGICHE E FEMMINISTE – SCRIVE MASSIMO DE ANGELIS – SONO GIÀ LABORATORI DI QUESTA NUOVA POLITICA… DALLE PRATICHE DI QUARTIERE ALLE RETI INTERNAZIONALI DI SOLIDARIETÀ, LA POSSIBILITÀ DI ALTRI MONDI SI COSTRUISCE SOLO SE CIÒ CHE NASCE IN BASSO RIESCE A COMUNICARE, A INTRECCIARSI, A ESONDARE… OLTRE TUTTI I CONFINI, IDENTITARI, NAZIONALI E TEMATICI… FINCHÉ LA VITA CONTINUERÀ A ESONDARE, LA SPERANZA TROVERÀ SEMPRE IL MODO DI RIMETTERSI IN MARE…” Torino, 3 ottobre. Foto Acmos -------------------------------------------------------------------------------- Nei giorni successivi all’attacco israeliano alla Global Sumud Flotilla, milioni di persone sono scese in piazza in Italia e nel mondo. Non solo per solidarietà con Gaza, ma per dire no all’indifferenza, alla complicità, alla rassegnazione. In Italia in particolare, il movimento ha contato due scioperi generalizzati (che a differenza degli scioperi generali non coinvolgono solo i lavoratori salariati a contratto determinato), e infiniti altri presidi e iniziative. Milioni di persone, in più di cento città, hanno trasformato l’indignazione in movimento. Ma ciò che più colpisce non è la quantità: è la qualità di questo respiro collettivo. Una moltitudine fatta di bambini, insegnanti, anziani, famiglie, operai, lesbiche, migranti, e aggiungete voi tutte le tipologie di differenze più o meno identitarie che volete: erano lì, se non erano in qualche bar a lamentarsi che “tanto non serve a niente” o “ma a me che me ne frega della Palestina”. Perfino i prigionieri hanno scioperato! Le piazze per la Palestina e la Global Sumud Flotilla hanno aperto una breccia nella normalità di un mondo che fa del genocidio uno spettacolo quotidiano disarmante. È un movimento che nasce sicuramente da una pulsione etica — intesa non come insieme di precetti morali, ma come forza immanente della vita che reagisce all’ingiustizia e manifesta un conatus teso alla sovversione della ripugnante gerarchia dei valori che rende possibile il genocidio. Ma l’etica diventa politica quando il respiro dei corpi si fa comune, stravolge vecchi confini e riconosce collettivamente la differenza che fa la differenza, la linea rossa che ci separa da un potere carnefice. Come recita quel bellissimo cartello mostrato a Roma: “Pensavamo di liberare la Palestina, e invece la Palestina sta liberando noi”. Ciò che si è espresso in queste piazze è stata una pulsazione vitale, un alito di vita, come lo ha chiamato Enrico Euli su Comune (La vita dentro e contro la morte): la riaffermazione della vita contro la morte, dell’agire collettivo contro l’anestesia del potere. Improvvisamente, ci siamo scoperti non più solo disincantati, non più solo cinici, né solo rassegnati. Questa esplosione mostra un’oscillazione tra due sentimenti che in tanti, più o meno condividiamo: da un lato la consapevolezza dell’impotenza di fronte al mostro della guerra, del tecno-fascismo globale, della catastrofe ecologica e morale in cui siamo immersi; dall’altro la spinta irresistibile a reagire, a scendere in strada, a dire no, anche sapendo che la battaglia sembra persa. Questa ambivalenza non è una debolezza, ma la condizione reale dell’agire oggi. È il terreno su cui si gioca il rapporto, l’intreccio tra etica e politica. Dentro questa vibrazione si intrecciano etica e politica, pratica e valore, locale e planetario: un nuovo campo di possibilità che abbiamo chiamato sumud — perseveranza, radicamento, respiro. Perché quando la morte diventa sistema e la pace un’industria degli armamenti, ogni gesto di vita che esonda è già politico. Ogni barca che salpa, ogni corteo che attraversa la città, ogni kefiah attorno al collo dice la stessa cosa: non nel mio nome. Una disobbedienza che attraversa il mare per rompere l’assedio, smascherare l’ignavia dei governi occidentali e portare aiuti a una popolazione condannata alla fame. Valori relazionali e d’uso riarticolati di fronte a un sistema che tende a imporre il dominio esclusivo del valore di scambio e del comando imperiale. Franco (Bifo) Berardi (Una sollevazione etica. E adesso?) ha descritto la mobilitazione come una “rivolta etica”, e lo è, ma non nel senso moralistico del termine. L’etica di cui parliamo qui non è un codice, è un campo di forze. È l’emergere e il manifestarsi di altri criteri di valore, di altre misure del possibile, dentro la cooperazione sociale. E questo altro è il portato di corpi che si mettono in gioco. Lea Melandri (I corpi e la responsabilità collettiva) lo ha colto bene: le piazze hanno rimesso al centro ciò che per secoli è stato considerato “fuori tema” – i corpi, la vita intima, le esperienze dell’umano. Come nel Sessantotto, i “soggetti imprevisti” – donne, giovani, persone comuni – sono tornati sulla scena, portando con sé il senso di una responsabilità condivisa. In un tempo in cui la politica istituzionale appare spenta, la politicità rinasce nella presenza: nelle mani, nei passi, nelle voci, negli sguardi. Amador Fernández-Savater (La flotilla è un atto di disobbedienza politica) lo dice con chiarezza: la Flotilla “non è un’iniziativa umanitaria, ma un atto di disobbedienza politica”. È la giustizia che ritrova la propria spada, non nella violenza, ma nella forza dei corpi in movimento. Il linguaggio umanitario separa la cura dalla politica; la Flotilla le ricompone. Portare pane e medicine, in questo contesto, significa sfidare la logica della guerra. È una crepa nel dominio, un atto di valore. E in tanti ci siamo riconosciuti in questo atto di valore. Parlare di etica, in fondo, significa parlare di prassi di valore: l’etica non è un altrove della vita, ma il modo in cui, attraverso la cooperazione sociale e i legami quotidiani che ci intrecciano a molteplici circuiti produttivi, produciamo e riproduciamo non solo beni, ma anche valori, relazioni e significati. Il capitalismo, tuttavia, gerarchizza questi processi, ponendo al vertice il valore di scambio – e i profitti e le logiche di comando che lo accompagnano – e subordinando ad esso i valori d’uso e relazionali. Nel mio lavoro chiamo prassi di valore questo terreno di pratiche attraverso cui le persone producono e riproducono insieme materia e senso: beni, relazioni, significati. Ogni società è attraversata da diversi domini del valore – relazionali, d’uso, di scambio, di comando – in costante tensione. Il capitalismo li ordina in una piramide, ma la vita quotidiana sfugge sempre a tale riduzione: in ogni gesto di solidarietà, di cura o di disobbedienza emergono altre forme di valore che sovvertono la gerarchia dominante e ricompongono i valori relazionali e d’uso. Nelle piazze per la Palestina, nei porti bloccati, nei gesti di solidarietà quotidiana, sono affiorate con forza dirompente queste altre logiche di valore: relazionali, vitali, orientate alla vita e non al profitto. Sono state il luogo in cui la potenza relazionale dei corpi ha sfidato il comando, in cui l’uso e la cura si sono contrapposti alla logica dello scambio e della guerra. L’etica, così intesa, non è una morale privata ma una forza costituente, e quindi politica: il desiderio di riorganizzare la vita e la cooperazione sociale secondo ciò che vale davvero. Viviamo in un mondo che ci chiede ogni giorno di adattarci: di lavorare, consumare, tacere, mentre il sistema distrugge le condizioni della vita. Eppure, nello stesso mondo, affiora una contro-pulsazione: quella di chi non si rassegna, di chi sente che anche un piccolo gesto di cura, una manifestazione, un atto di disobbedienza, ha un valore intrinseco, anche se non produce risultati immediati. Tra l’adattamento disincantato e il desiderio di diserzione, tra la rassegnazione e la speranza, si muove la tensione che chiamiamo etica. Ed è da questa tensione che può nascere, di nuovo, la politica. Ma ogni forza etica è fragile se non trova forme di organizzazione. L’ambivalenza del nostro tempo – tra impotenza e desiderio – non si supera con la sola indignazione. Serve continuità, serve durata, servono contesti di cooperazione reale, dove insieme possiamo liberarci, anche materialmente, anche per gradi, dall’egemonia di questo potere e dalle sue regole di vita. Da qui la sfida: trasformare la spinta etica in pratica quotidiana. Non solo scendere in piazza, ma creare mondi. Le cucine collettive, le reti di mutuo aiuto, i media indipendenti, le esperienze agroecologiche e femministe sono già laboratori di questa nuova politica: non rappresentativa, ma costituente. Queste esperienze – locali, concrete, radicate nei territori – non sono un rifugio, ma punti di partenza. Ogni volta che una comunità si organizza per vivere diversamente, apre una breccia nell’ordine dominante e crea le condizioni per una connessione più ampia. Dalle pratiche di quartiere alle reti internazionali di solidarietà, la possibilità di altri mondi si costruisce solo se ciò che nasce dal basso riesce a comunicare, a intrecciarsi, a esondare. È in questo orizzonte che si colloca il richiamo di Sandro Mezzadra (su Euronomade) Esondare: il movimento deve continuare a esondare, uscire dai confini nazionali, perché solo in questa trasversalità può mettere in discussione la disparità delle forze. Esondare non è solo diffondersi, ma esistere e resistere a ogni scala: dal locale al planetario, dal simbolico al materiale, dal quotidiano all’infrastrutturale. La guerra e il genocidio sono processi globali, che intrecciano finanza, logistica, diplomazia e media. Ma sono anche processi che si giocano nelle quotidianità della vita, come momenti situati di quei processi globali. Per opporvisi, serve una contro-rete di pratiche e solidarietà, un comune transazionale che colleghi le lotte in porti, università, campagne e quartieri del mondo e che apra e riesca a concatenare spazi altri di cooperazione sociale. L’esondazione, in questa chiave, è una prassi del valore che dilata la cooperazione sociale oltre tutti i confini — identitari, nazionali e tematici — facendo comunicare i domini del valore tra popoli e territori, tra il Mediterraneo e l’America Latina, tra i movimenti ecologisti, del lavoro, migranti e di liberazione. Non cancella le differenze, le accorda. Genera un nuovo respiro planetario: una politica senza centro fisso, radicata nel movimento stesso della vita che si difende e della cooperazione sociale che cerca di riconfigurarsi su nuove basi. Nelle piazze per Gaza, questo respiro si è sentito chiaramente. Non l’unità rigida di un partito, ma la polifonia di una jam session: dissonanze e improvvisazioni che cercano armonia. Si è percepito il ritmo del commoning, il fare in comune come arte e come necessità. L’etica diventa ritmo, la politica diventa danza, e il respiro – come nella musica jazz – diventa forza collettiva. La Flotilla, allora, non è un atto isolato, ma un segno di transizione: dall’umanitario al comune, dal soccorso alla solidarietà, dal gesto alla trasformazione. Ogni volta che la vita afferma se stessa contro la morte, si produce una bellezza che è anche potenza materiale. È la politica come creazione di condizioni di vita condivisa. Oggi, di fronte alla catastrofe, il gesto più semplice e più difficile resta quello di continuare a respirare. Ma respirare, da soli, non basta. Le piazze, le barche, le reti di solidarietà ci dicono che il respiro può ancora diventare comune, armonizzato, persistente. Esistere oggi è sempre più resistere e resistere significa trasformare l’etica in politica, la compassione in cooperazione, la semplice sopravvivenza in vita condivisa. Finché c’è respiro comune, la storia non è finita. E finché la vita continuerà a esondare, la speranza troverà sempre il modo di rimettersi in mare. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La Flotilla, le piazze e la vita che esonda proviene da Comune-info.
Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto
SCAFFALE. «GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI», UNA RACCOLTA DI ARTICOLI E INTERVISTE, PER ELEUTHERA. UN OMAGGIO AL GIORNALISTA E CRITICO SCOMPARSO IMPROVVISAMENTE LO SCORSO ANNO -------------------------------------------------------------------------------- Gridare, fare, pensare mondi nuovi è il titolo della raccolta di articoli e interviste di Marco Calabria, critico e giornalista di inchiesta sociale, scomparso all’improvviso l’anno scorso, dopo aver condotto la magnifica vita operosa del cronista globale che è stato viaggiatore a cavallo (in realtà amava la bicicletta) tra lo scorso e questo secolo. Marco Calabria è stato caporedattore al “manifesto”, creatore del settimanale “Carta”, uno dei punti di riferimento dei movimenti altermondialisti, continuato nell’esperienza forte del portale Comune-info.net, ed è stato poeta e artefice di riviste e iniziative importanti, “Ombre lunghe”, “Lunaria”, “Sbilanciamoci!”, sviluppate lungo l’idea dei cantieri sociali nel primo decennio di questi difficili anni duemila. Il punto di intersezione che ha individuato la sua posizione di vita si trova all’incrocio di due coordinate: la verticale biografica della generazione per la quale “il personale è politico”; e l’orizzontale, spaziale di movimento che è stata la superficie di esplorazione, di ricerca e di composizione di altri mondi in questo mondo. Questa superficie di lettura, di scrittura e di pratica sociale emerge dalle pagine della raccolta, curata per Eleuthera dai redattori di “Comune” Gianluca Carmosino e Riccardo Troisi, che ne hanno ripreso e sviluppato temi, immagini, idee e scritture, e prefata da Raùl Zibechi, con una selezione di articoli che dalla metà degli anni novanta arriva al 2023, attraversando i momenti topici dell’ultima storia politica delle resistenze, delle rivolte e delle rivendicazioni globali e locali contro il tempo del capitalismo. Sul portale se ne possono leggere altre prove, compreso l’inizio memorabile del suo lavoro. I due eventi che in qualche modo hanno avviato la passione di Marco Calabria sono stati il ’77 sul piazzale della “Sapienza”- Università di Roma, che ha formato la gloriosa generazione dei diciottenni che hanno cacciato il segretario della CGIL Luciano Lama, e il lavoro al “Manifesto”, unica, vera fucina di giornalismo con la G maiuscola, non replicabile, e pressoché irreperibile tra le testate attuali, dedite per lo più alla sedentarietà monotona e sintetica dei social. Il luogo bio-politico della generazione ’77 è il fuori-testo a partire dal quale si è dipanata l’intensa attività editoriale e di pensiero di Calabria. Dal ’77 provengono infatti gli influssi originali del suo lavoro: l’autonomia sociale, il femminismo anti-emancipatorio della differenza, il rifiuto del lavoro e della rappresentanza, lo sguardo essenziale sulla microfisica dei poteri, il sottoproletariato urbano rivoltoso e l’ironia dissacrante di un immaginario che, se pur in un breve spazio di tempo, ha realizzato i propri sogni, la rabbia salutare contro centralismi democratici e compromesso storico. Questo fenomenale universo, che ha attraversato gli anni della sconfitta e del disincanto, ha costituito il giornalismo come esperienza critica, come “giornalismo filosofico”, diceva Michel Foucault, uno degli intervistati nel volume che Calabria curò per il “manifesto”, con la magnifica prefazione di Rossana Rossanda. Quando una sera del 1982 il giovane redattore la incontra, Rossanda «dopo aver scambiato qualche frase su come quel che facevano potesse interessare i più giovani e quel che gli anni settanta avevano significato, chiese: “Sarebbe un gran peccato che questa nostra storia non interesserà più nessuno”…». (Le interviste, il manifesto e il mondo). In quel momento, si può immaginare che il lavoro di Marco Calabria assume il senso del giornalismo come passione politica, come sguardo di parte per la verità del mondo, contro le menzogne del potere. Questa pratica critica era per sé movimento, esodo dalla società del lavoro e dai dispositivi di disciplina, l’andare continuo e sperimentare modi, forme di vita, ricerche e materiali per la fuoriuscita dal capitalismo. “Bisogna muoversi di continuo” è stato il suo principio di vita, per sperimentare la nuova lingua dei movimenti sociali di fine secolo e inizi del terzo millennio. In questo cammino, che riconosciamo comune, ci sono Eduardo Galeano, Toni Negri, Franco “Bifo” Berardi, Gustavo Esteva, il subcomandante Marcos, il Chiapas e il sudamerica, cioè una delle parti potenti dell’intelletto collettivo che continua a fare storia del presente. Di questa storia avrebbero fatto segno le traduzioni del testo di John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, sintesi della pratica dei movimenti altermondialisti sull’esempio zapatista e di Disperdere il potere, del teorico e cronachista dei “sottoscala” del mondo, Ràul Zibechi. Nella prefazione scrive che Marco “era parte di quell’altro mondo che non solo sognava, ma di cui sentiva i battiti”, perché forse, come Walter Benjamin, era anche lui un poeta dell’inappariscente. Questa compresenza biografico-politica proviene a sua volta dal pacifismo anarchico di Danilo Dolci che diede una definizione di “dominio” come agente infestante i territori psico-sociali più che i luoghi simbolici del potere. Della lezione di Dolci, Calabria assumeva l’orientamento: evitare di intendere il dominio come il grande Moloch, come lo stato-Leviatano; piuttosto avvertirlo nella dispersione dei rapporti di potere che investono diversi strati delle società e attraversano la soggettività. Quella di Calabria era un’identità in transito, come egli stesso ha definito la vicenda biografica di Carolina Meloni Gonzales, filosofa politica femminista, in esilio dal golpe in Argentina, autrice di Transterrados. Questo è lo spazio politico in cui Calabria ha “fatto” movimento, cioè ha perseguito la pratica del comune che ha animato l’informazione indipendente tra Genova 2001 e l’invasione dell’Iraq (2003). Il settimanale “Carta” viene da là, dall’invenzione di località globali che hanno connesso moltitudini e territori. In un testo del 2012, molto teorico e non astratto, Senza dominio, leggiamo che per sottrarsi alla servitù volontaria oltre all’immaginazione serve restare in silenzio anche per lunghi periodi per imparare ad ascoltare. Togliere parole. Vivere senza dominio non significa reprimere un istinto, ma anzi, aggiungiamo, portarlo all’estremo quando si avverte la cattura e farlo diventare intelligente quando si pensa di essere liberi. Leggendo il libro si cammina domandando come ha insegnato lo zapatismo, ed è sulla superficie del mondo da viaggiare, soprattutto per contrastarne la turistizzazione, che si fa tappa sulla storia recente delle insorgenze che sono “dentro e contro”, ma per andare fuori e lontano, per disertare – ultima prova in vita del mondo in rovina. Nella raccolta ci sono le testimonianze dirette di rivendicazioni e conflitti che sono lotte per la sopravvivenza, comunque animate dalla speranza che è fragile, discontinua e disarmata. La prima guerra di Bosnia, Taranto e la morte per ILVA, le operazioni sporche del Plan Colombia in Honduras, le lotte campesine, le prime rivolte popolari per l’acqua e le inchieste sugli spazi sociali a Roma sono i capitoli della raccolta che riepiloga l’epoca dei movimenti restituendo centralità alle periferie prima che la ferocia euroatlantica suscitasse le ibride alleanze dell’ex-sud del mondo. C’è inoltre la testimonianza più efficace della guerra ai migranti, combattuta agli inizi degli anni ottanta con la Rete antirazzista e che bisogna confrontare con gli ultimi rapporti sull’accoglienza. Nell’Introduzione al Rapporto del 2020 (“Benvenuti ovunque”) leggiamo la differenza tra le migrazioni viste allora come problema di accoglienza e la guerra attuale alle e ai migranti, affondati, respinti e deportati, – bersagli del razzismo di stato e dell’ossessione identitaria, dispositivo di sicurezza applicato all’intera popolazione. Calabria aveva un’attenzione speciale per i bambini, le scuole, le classi, quelle nei quartieri considerati “disagiati” e in cui invece c’è la maggiore ricchezza psico-sociale non catturata. Si può supporre cosa avrebbe scritto delle ridicole avvilenti “riforme” del ministero dell’Istruzione e Merito. Ma preferiamo prevedere come si faceva nel ’77 che “un risotto li sommergerà”. Perché comunque essere scelti per l’esilio sull’esempio della grande filosofa Maria Zambrano, apre molteplici divenire: essere nomadi, essere leggeri, essere particelle, essere impercettibili e fare l’amore come l’ape e l’orchidea. -------------------------------------------------------------------------------- Una versione ridotta è apparsa su il manifesto (che ringraziamo) del 23 settembre 2025. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto proviene da Comune-info.
Valerio V.
-------------------------------------------------------------------------------- Lo scambio di vedute era stato aspro, ideologico, quasi surreale. S’era fatto tardi e il cortile buio del palazzone dove la mattina s’infilavano i duemila studenti romani del liceo Archimede era avvolto da un silenzio raro. «Ma insomma la rivoluzione con chi la vuoi fare? Pensi che un giorno la gente possa seguire noi, qualche migliaio di stupide avanguardie? La rivoluzione culturale ha detto: lasciate che nel movimento le masse si educhino da sole». La tramontana sollevava il cappuccio dell’eskimo coprendogli il viso e ricacciava in gola il fumo che usciva denso con le nostre parole. Valerio ebbe un gesto di collera, la reazione comune di un giovanissimo «autonomo» verso un «professorino del ‘pacifesto’» già alle prese con la maturità. La pace, nel febbraio del ’77, era un insulto. Era la pace dei padroni e poteva servire solo a tenerci buoni. Quelli del manifesto, poi, la sapevano lunga in fatto di astrazioni teoriche utili solo a rimandare l’ora X. «Non lo so, ci devo pensare», disse Valerio. Poi, per un istante che con gli anni si è fatto interminabile, i fari di un’auto accesero il suo viso: rideva. Quel sorriso di lupetto, capace di intenerire chiunque. Tre anni dopo, il 22 febbraio del 1980, tre persone suonarono alla porta di casa Verbano, in via Monte Bianco. «Siamo amici di suo figlio, vorremmo parlargli», dissero. La signora Rina aprì la porta. Venne legata e imbavagliata con il marito mentre i fascisti, incappucciati, aspettavano che Valerio rientrasse. Un colpo alla nuca, sparato col silenziatore, spense per sempre quel sorriso di lupetto e chiuse il conto con i dubbi e le passioni rivoluzionarie. La signora Rina riuscì ad aprire col mento la porta della stanza in cui l’avevano chiusa. Fece in tempo a vedere gli ultimi istanti del suo ragazzo che moriva, tre giorni prima di compiere 19 anni. Un silenzio lungo 26 anni copre i nomi degli assassini e il dossier sui neofascisti che Valerio aveva raccolto. Un dossier scomparso, forse, fra le mani del giudice Mario Amato, ucciso dai Nar il 24 giugno del 1980. In aprile, Rina Zappelli avrà 82 anni. Ricorda le ultime parole di suo marito, Sardo Verbano: «Speriamo che almeno tu, col tempo, riuscirai a sapere». Lei vive ancora per questo, per sapere. Nel quartiere di Montesacro, una via prenderà il nome di Valerio grazie a un’iniziativa di Massimiliano Smeriglio. L’avvocato Guido Calvi pensa che si possa «riaprire il caso». Strano destino, quello di certe parole: oggi i fascisti fanno i ministri, i pochi che parlano [sottovoce] di rivoluzione hanno smesso di sognare il sol dell’avvenire e il risveglio delle masse e cercano relazioni sociali anticapitaliste qui e adesso. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Carta nel novembre 2005 (come editoriale senza titolo) -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Valerio V. proviene da Comune-info.
Ascoltare i morti
LA CULTURA POLITICA ZAPATISTA IMPLICA CRITICA E AUTOCRITICA E COMPORTA UN NUOVO MODO DI PENSARE E DI FARE Foto di Red de Apoyo Iztapalapa Sexta, che ringraziamo -------------------------------------------------------------------------------- L’assemblea dei morti, caduti nella lotta, dialoga con gli zapatisti vivi. Questo scambio è stato rappresentato nel primo spettacolo dell’Incontro di Ribellioni e Resistenze, “Algunas partes del todo“, al Semenzaio di Morelia dal 2 al 16 agosto. I morti spiegano ai combattenti attuali che nella storia delle rivoluzioni e delle lotte la piramide si riproduce sempre; ci sono sempre alcuni in cima. E chiedono loro di non ripetere i loro errori perché, se lo facessero, la piramide permarrebbe, e con essa le stesse oppressioni contro cui si sono ribellati. Ecco quanto è semplice la storia del XX secolo, vista dal basso. La cultura politica zapatista comporta cambiamenti fondamentali rispetto a ciò che generazioni di ribelli hanno appreso e riprodotto fino ad oggi. Non si tratta di piccoli cambiamenti di stile o di parole, ma di una trasformazione radicale e profonda che implica critica e autocritica, portando a un nuovo modo di vedere e di fare. Se consideriamo ogni singolo aspetto della lotta rivoluzionaria, possiamo comprendere la profondità dei contrasti tra lo zapatismo e la vecchia cultura politica di sinistra. Negli anni Settanta, uno degli slogan che ci guidava era: “Siate come il Che”. Da un lato, faceva appello a un’etica di impegno militante, di mettere a repentaglio il proprio corpo e dare la vita se necessario, che trovo ancora valida. Dall’altro, ci invitava a seguire le sue orme, il che trovo problematico perché propone un percorso senza aver fatto una valutazione autocritica. Dal 1994, l’EZLN ha intrapreso un cammino proprio, tracciato dai popoli organizzati e non dall’avanguardia, che è stata presto rovesciata, forse mettendo al timone il CCRI (Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno). Il motto “comandare obbedendo” implica una rottura completa con i modelli d’avanguardia che obbediscono solo a ciò che viene deciso dalla leadership dell’avanguardia, ovvero maschi, bianchi o meticci, con istruzione universitaria, ben parlanti e poca o nessuna disponibilità ad ascoltare la gente. Una rivoluzione in lotta. Ma così diversa, così distinta, che molti militanti non hanno la capacità o la volontà di comprendere, di accettare che le cose non debbano essere come prima. Per quanto l’EZLN cerchi di spiegare di essere un movimento diverso, non è facile per chi rimane fedele alla vecchia cultura politica comprendere in cosa consistano la proposta e i modi di fare zapatisti. Una prima questione si riferisce a quel dialogo tra morti e vivi, che si riassume nella piramide e nella necessità di distruggerla o abbatterla, non di capovolgerla, come ha sottolineato il Capitano Marcos in uno dei suoi recenti comunicati. Una seconda questione riguarda i concetti di trionfo e sconfitta, per fare solo un esempio. Per la vecchia cultura, il trionfo è la presa del potere o, nella versione elettorale, l’accesso al Palazzo del Governo. Si tratta di riunire molte persone, che chiamano “masse”, che sono quindi inerti, attratte dall’attuale capo o leader, che devono semplicemente seguire. Per avere successo, non è solo necessario essere numerosi, ma anche unirsi e unificare i propri ranghi in modo da poter essere guidati dall’alto della piramide. In questa cultura, la piramide non solo è necessaria, ma diventa il centro, e questo dipende da chi sta in cima, sotto questo o quel nome. Potrebbe essere Evo Morales o chiunque altro, e quando se ne va, tutto crolla perché ha prosciugato l’energia collettiva, disorganizzando le persone, che ripongono tutto al di fuori di sé, nell’attuale capo o leader. Per il popolo, trionfare, guadagnare, significa rimanere persone. Qualcosa che non implica entrare nel palazzo, prendere il potere dagli altri, cosa che non serve a nulla e indebolisce il popolo. Si tratta di costruire il nostro: salute, istruzione, potere, o come vogliamo chiamare quel modo di prendere decisioni e di farle rispettare. In terzo luogo, il dialogo con i morti richiede una valutazione delle rivoluzioni passate. Tutte sono cominciate con la crisi degli stati nazionali, e tutte li hanno resi più forti, più potenti, mentre le loro società sono diventate più fragili e dipendenti. In breve, più piramidi, più alte, più imponenti. Questa è la triste realtà di tutte le rivoluzioni, sebbene abbiano portato anche cose positive al popolo. C’è molto di più che si riassume nei sette principi zapatisti. La cultura dell’avanguardia è molto simile a quella della sinistra elettorale: consiste nel prendere il potere. Ecco perché sono passati così facilmente dalla guerriglia alle elezioni. Lo zapatismo rappresenta qualcosa di diverso. Rifiuta l’omogeneità come tentativo di dominio fascista; rifiuta l’unità perché si realizza sotto la guida di qualcuno, individuale o collettivo. Niente di più, niente di meno. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ascoltare i morti proviene da Comune-info.
Nota sul Comune
PER GLI ZAPATISTI IL “COMUNE” NON È UNA VERITÀ CONSOLIDATA MA UNA PAROLA CHE RIGUARDA IL CONCETTO DI LOTTA E CHE IMPLICA UN CAMPO APERTO DI DISCUSSIONE. SAPPIAMO PERÒ CHE IL COMUNE È QUALCOSA DI ORGANIZZATO IN BASSO. SAPPIAMO PURE CHE NELLA LORO IDEA DI CAMBIARE IL MONDO IN PROFONDITÀ C’È IL RIFIUTO CONVINTO DELLA LOTTA FONDATA SU CATEGORIE DI DOMINIO COME EGEMONIA E IDENTITÀ. SAPPIAMO, INOLTRE, CHE TUTTO CIÒ IMPLICA UNA CRITICA DELLE FORME DI POTERE DEL CAPITALE, A COMINCIARE DALLO STATO In memoria di Gero, promotore del CELMRAZ, Centro Ribelle Autonomo Zapatista per le Lingue Spagnole e Maya di Oventik Cosa si intende per “Comune”, di cui gli zapatisti parlano oggi con particolare enfasi? Qual è il suo concetto e la sua incarnazione pratica? Questo non mi è sufficientemente chiaro e, poiché sono molto interessato all’argomento, mi sono concesso la seguente riflessione, a rischio di un’alta probabilità di errore. Ma è un rischio necessario. Perché seguendo il metodo o la via zapatista, possiamo basarci sulla prospettiva che “Comune” non è una verità consolidata, ma piuttosto una parola che implica un campo aperto di discussione. E questo perché quella parola, per come la intendo io, è un modo di nominare diverse lotte che nascono dall’antagonismo della forma capitalista delle relazioni sociali. In questo senso, diamo per scontato che “Comune” sia parte di un processo in costruzione “dal basso e verso sinistra”; come detto sopra, è qualcosa di aperto, e non qualcosa di dato, definito e cristallizzato in una forma sociale già evoluta. Di certo, sappiamo che il Comune è una parte fondamentale delle lotte zapatiste, nella cui esperienza la critica della proprietà in ogni sua forma (il tema della non-proprietà) è un asse centrale. Tuttavia, non è difficile rendersi conto che ciò che nomina va oltre quella particolare esperienza, e che al suo interno esiste un livello più generale che ci interpella ed è legato al concetto stesso di lotta. Questa domanda appare più chiara quando ci poniamo la domanda sul comune del Comune. Qual è il comune del Comune? L’essenza della domanda ci spinge verso una risposta affermativa e una definizione (è questo, è quello, ecc.). Tuttavia, dovremmo piuttosto sottolineare la negatività manifestata in particolari lotte: la forza di ciò che viene negato nella forma di classe delle relazioni sociali; il traboccamento di quella forma da parte di ciò che viene negato; la crisi di quella forma dovuta a questo traboccamento. In questo senso, ciò che ci interessa sottolineare è che il tema del Comune apre la possibilità di una discussione attorno all’idea di lotta di classe, con una particolarità: non sussumerla in un campo già teoricamente cristallizzato, ma aprirne criticamente il concetto. Sviluppare un’argomentazione ampia e approfondita su questo tema esula dallo scopo di questa breve nota, che mira solo a esprimere intuitivamente un approccio personale all’argomento. Tenendo presente ciò, ci interessa sottolineare che l’idea di lotta di classe ha una sua storia, e che non è stata univoca, ma piuttosto un campo di disputa teorica con conseguenze pratiche. Un tratto che va evidenziato in questa storia è la positivizzazione e la reificazione del concetto. In questo spostamento, l’idea di lotta di classe ha gradualmente perso il suo contenuto critico-dialettico. La caduta dell’URSS ci ha rimandati al 1917, questa volta per interrogarci su una sconfitta storica. La domanda ci perseguita, ed è parte del nostro sogno anticapitalista. In questo senso, come possiamo mettere in relazione il Comune con una controlettura dell’idea reificata di lotta di classe? Per un approccio, è necessario considerare l’idea di rivoluzione che gli zapatisti hanno dispiegato nelle loro dichiarazioni e nella loro pratica. Come è noto, questa idea rifiuta la lotta come soluzione pratica ed epistemica, espressa in categorie di dominio come egemonia, omogeneità, identità e altre; ciò implica una critica delle forme di potere del capitale, in particolare dello Stato. Hanno sostenuto che lo Stato non è una soluzione ma un problema (ciò non implica un rifiuto astratto del soggetto, ma piuttosto la necessità di sviluppare, dal basso, un’altra politica, coerente con la critica di questa forma). Il Comune dello zapatismo non va confuso con l’idea di una comunità particolare; e, in generale, con una politica epistemicamente fondata su una chiusura identitaria. In questo senso, si può dire che il Comune designa qualcosa che non può essere afferrato con categorie di totalità, ma piuttosto in termini di crisi della totalità e della sua critica, fondata sulla necessità di abolire il lavoro astratto come nucleo della forma di classe delle relazioni sociali. In altre parole, il Comune può essere inteso come categoria critica solo in termini negativi (non identitari). Perché ciò che chiamiamo beni comuni è ciò che viene negato nella classe come forma di dominio del capitale; ma è anche il negativo della classe e, in quanto tale, la testimonianza di una possibilità storica, quella della dissoluzione della classe e di un universale che si riproduce in e attraverso quella forma. In questo senso, sarebbe necessario dire che la classe è una categoria contraddittoria. Da un lato, è una forma di relazioni sociali e, in quanto tale, condensa il dominio del sistema, dell’universale; dall’altro, è la possibilità oggettiva di creare un mondo liberato dalla forma di classe delle relazioni sociali. Vale la pena parlare, quindi, di “Comune” come un modo per dare un nome alla lotta per quest’altro mondo. A volte questo viene presentato come un’atmosfera, come un’aria, come qualcosa che va oltre definizioni specifiche e dimensioni operative; tuttavia, il Comune è qualcosa di organizzato dal basso, dal cuore della lotta, che è anche un’idea. Ogni lotta ha il suo linguaggio specifico. Il linguaggio comune della lotta non è l’imposizione di un linguaggio generale dall’astrazione del pensiero, ma emerge piuttosto dalla comunicazione delle lotte. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. Traduzione di Comune. Sociologo e storico guatemalteco, Sergio Tischler insegna all’Università di Puebla, in Messico, dove vive da molti anni. Alcuni suoi saggi sono stati tradotti in più lingue. Con John Holloway e Fernando Matamoros è autore di Negativity and Revolution. Adorno and Political Activism (Pluto press). In Italia, nel 2010 è apparso un volume di cui è tra gli autori: Zapatismo: tracce di ricerca (editpress). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Nota sul Comune proviene da Comune-info.
L’orizzonte strategico non è più a sinistra
OGNI TANTO, LA SINISTRA SI ENTUSIASMA PER LE ULTIME NOVITÀ MEDIATICHE CHE PROMETTONO TEMPI FELICI. IN QUESTI GIORNI, I NOMI DEL SOCIALISTA ZOHRAN MAMDANI, COME POSSIBILE SINDACO DI NEW YORK, E DI JEANETTE JARA, COME CANDIDATA ALLA PRESIDENZA PER I PROGRESSISTI CILENI, SONO MOTIVO DI GIOIA PER TANTI. ENTUSIASMI ANCHE PIÙ FORTI SI SONO REGISTRATI QUALCHE ANNO FA ANCHE IN EUROPA CON L’ASCESA DI PODEMOS IN SPAGNA E SYRIZA IN GRECIA. MA PER RICONOSCERE QUALCOSA IN GRADO DI RICONSEGNARE SIGNIFICATO ALLA PAROLA SINISTRA FORSE BISOGNEREBBE CAMBIARE SGUARDO, DARE MENO IMPORTANZA ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA. IN AMÉRICA LATINA, AD ESEMPIO, SECONDO RAÚL ZIBECHI, SONO LE RIAPPROPRIAZIONI TERRITORIALI, PROMOSSE DA ATTORI COLLETTIVI NELLE AREE RURALI E URBANE, A POSSEDERE “LA PROFONDITÀ STRATEGICA CHE LA SINISTRA HA PERSO ASSESTANDOSI NELLA ZONA DI COMFORT DELLO STATO E DELLE ISTITUZIONI…” Tratta dalla pag. fb della rete brasiliana Teia Dos Povos  -------------------------------------------------------------------------------- Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza. Per alcuni analisti e per il quotidiano di sinistra Sin Permiso, la vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha causato un “terremoto politico” così profondo che, secondo l’analista, “le ramificazioni di questa inversione di tendenza si faranno sentire per anni, in tutti gli Stati Uniti e nel mondo sviluppato”. Essendo socialista, musulmano e filo-palestinese, la sinistra si illude che il suo arrivo a sindaco della città simbolo cambierà le cose, nonostante tutte le prove contrarie. Per il settimanale di sinistra El Siglo, il comunista cileno Jara incarna “la reale possibilità che il popolo governi con la propria voce, le proprie richieste e la propria dignità in prima linea”. Per i media progressisti, come Página 12 in Argentina, il semplice fatto che Jara non provenga dall’élite incarna “la speranza di una vita migliore”. La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci. Credo sia necessario ricordare le esplosioni di passione che hanno caratterizzato l’ascesa di Podemos in Spagna e l’ascesa al potere di Syriza in Grecia. Sono solo fuochi d’artificio destinati a tenere a galla una sinistra traballante, che ha perso ogni spessore strategico, incapace di andare oltre effimere manovre tattiche che non cambiano nulla e vengono presto dimenticate. Mi sembra strano che molti cileni stiano di nuovo cadendo nella trappola. Sono stati ingannati da figure come la leader studentesca Camila Vallejo, che nel 2011 promise di cambiare il Paese e che l’opportunista quotidiano britannico The Guardian ha paragonato al Subcomandante Marcos. Sono ancora più sorpreso che la memoria collettiva non possa nemmeno risalire al 2019, quando un’Assemblea Costituente (convocata dalla destra e solo da una figura di sinistra, l’attuale presidente Gabriel Boric) ha spinto gran parte del movimento sociale a sciogliere le assemblee regionali e a recarsi alle urne. Vorrei fare un paragone. Lo scorso fine settimana, tre compagni brasiliani vicini alla Teia dos Povos (la straordinaria Rete brasiliane dei Popoli riunisce comunità, popoli e organizzazioni politiche rurali e urbane che promuovono percorsi di emancipazione collettiva per costruire un’alleanza nera, indigena e popolare, “il nostro obiettivo non è essere un movimento sociale che abbracci gli altri, vogliamo camminare insieme, non produrre un’unità monolitica…”, ndr) hanno visitato una mezza dozzina di riappropriazioni (bonifiche territoriali) del popolo Guarani Kaiowá nello stato del Mato Grosso do Sul, vicino al confine con il Paraguay. Negli scambi che abbiamo avuto, hanno descritto la potenza di questi spazi, uno dei quali occupa seicento ettari, la diversità delle colture e la forza delle comunità riterritorializzate. Uno degli insediamenti sta contestando 11.000 ettari di terreno con l’agroindustria, sebbene “si trovino in una situazione di grande vulnerabilità, con attacchi notturni da parte di uomini armati dei proprietari terrieri con cui si contendono il territorio ancestrale, che passano a bordo di camion 4×4 e sparano alla comunità. Sono riusciti a rimanere nella zona a intermittenza per 47 anni di riappropriazione”, dice la compagna Silvia Adoue. Riguardo a quello spazio, Pakurity, compa Esteban del Cerro scrive su Quilombo Invisível che dalla riconquista del 1986, “ci sono stati decenni di permanenza e movimento a Pakurity attraverso altri mezzi: lavori temporanei nell’azienda, utilizzo della foresta vicina per l’estrazione di piante medicinali, erbe, radici e frutta, caccia e pesca; spostamenti di famiglie nella regione; memoria dei defunti e degli antenati”. Il testo conclude: “Da nord a sud del continente, i popoli indigeni si fanno portavoce del grido zapatista per i beni comuni e la non-proprietà, e le riconquiste continuano a chiarire che la via dell’insurrezione è la via per la vittoria. L’insurrezione dimostra anche che il recupero delle terre ci dà speranza, anche in mezzo alle trincee, per un nuovo modo di relazionarci con gli esseri viventi“. La terra trasformata in territorio apre orizzonti di vita. Le riappropriazioni territoriali in tutto il continente, sostenute da attori collettivi nelle aree rurali e urbane, possiedono la profondità strategica che la sinistra ha perso assestandosi nella zona di comfort dello Stato e delle istituzioni. Non sorprende più che coloro che celebrano minime “vittorie” elettorali stiano voltando le spalle alle lotte che stanno ricostruendo il movimento popolare, impegnandosi per la sopravvivenza collettiva durante la tempesta sistemica che ci sta colpendo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada (qui con l’autorizzazione dell’autore, che da oltre dieci anni di prende cura anche di Comune). Traduzione di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIORGIO AGAMBEN: > Il medioevo prossimo venturo -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’orizzonte strategico non è più a sinistra proviene da Comune-info.