Tag - Rivoluzione

Nota sul Comune
PER GLI ZAPATISTI IL “COMUNE” NON È UNA VERITÀ CONSOLIDATA MA UNA PAROLA CHE RIGUARDA IL CONCETTO DI LOTTA E CHE IMPLICA UN CAMPO APERTO DI DISCUSSIONE. SAPPIAMO PERÒ CHE IL COMUNE È QUALCOSA DI ORGANIZZATO IN BASSO. SAPPIAMO PURE CHE NELLA LORO IDEA DI CAMBIARE IL MONDO IN PROFONDITÀ C’È IL RIFIUTO CONVINTO DELLA LOTTA FONDATA SU CATEGORIE DI DOMINIO COME EGEMONIA E IDENTITÀ. SAPPIAMO, INOLTRE, CHE TUTTO CIÒ IMPLICA UNA CRITICA DELLE FORME DI POTERE DEL CAPITALE, A COMINCIARE DALLO STATO In memoria di Gero, promotore del CELMRAZ, Centro Ribelle Autonomo Zapatista per le Lingue Spagnole e Maya di Oventik Cosa si intende per “Comune”, di cui gli zapatisti parlano oggi con particolare enfasi? Qual è il suo concetto e la sua incarnazione pratica? Questo non mi è sufficientemente chiaro e, poiché sono molto interessato all’argomento, mi sono concesso la seguente riflessione, a rischio di un’alta probabilità di errore. Ma è un rischio necessario. Perché seguendo il metodo o la via zapatista, possiamo basarci sulla prospettiva che “Comune” non è una verità consolidata, ma piuttosto una parola che implica un campo aperto di discussione. E questo perché quella parola, per come la intendo io, è un modo di nominare diverse lotte che nascono dall’antagonismo della forma capitalista delle relazioni sociali. In questo senso, diamo per scontato che “Comune” sia parte di un processo in costruzione “dal basso e verso sinistra”; come detto sopra, è qualcosa di aperto, e non qualcosa di dato, definito e cristallizzato in una forma sociale già evoluta. Di certo, sappiamo che il Comune è una parte fondamentale delle lotte zapatiste, nella cui esperienza la critica della proprietà in ogni sua forma (il tema della non-proprietà) è un asse centrale. Tuttavia, non è difficile rendersi conto che ciò che nomina va oltre quella particolare esperienza, e che al suo interno esiste un livello più generale che ci interpella ed è legato al concetto stesso di lotta. Questa domanda appare più chiara quando ci poniamo la domanda sul comune del Comune. Qual è il comune del Comune? L’essenza della domanda ci spinge verso una risposta affermativa e una definizione (è questo, è quello, ecc.). Tuttavia, dovremmo piuttosto sottolineare la negatività manifestata in particolari lotte: la forza di ciò che viene negato nella forma di classe delle relazioni sociali; il traboccamento di quella forma da parte di ciò che viene negato; la crisi di quella forma dovuta a questo traboccamento. In questo senso, ciò che ci interessa sottolineare è che il tema del Comune apre la possibilità di una discussione attorno all’idea di lotta di classe, con una particolarità: non sussumerla in un campo già teoricamente cristallizzato, ma aprirne criticamente il concetto. Sviluppare un’argomentazione ampia e approfondita su questo tema esula dallo scopo di questa breve nota, che mira solo a esprimere intuitivamente un approccio personale all’argomento. Tenendo presente ciò, ci interessa sottolineare che l’idea di lotta di classe ha una sua storia, e che non è stata univoca, ma piuttosto un campo di disputa teorica con conseguenze pratiche. Un tratto che va evidenziato in questa storia è la positivizzazione e la reificazione del concetto. In questo spostamento, l’idea di lotta di classe ha gradualmente perso il suo contenuto critico-dialettico. La caduta dell’URSS ci ha rimandati al 1917, questa volta per interrogarci su una sconfitta storica. La domanda ci perseguita, ed è parte del nostro sogno anticapitalista. In questo senso, come possiamo mettere in relazione il Comune con una controlettura dell’idea reificata di lotta di classe? Per un approccio, è necessario considerare l’idea di rivoluzione che gli zapatisti hanno dispiegato nelle loro dichiarazioni e nella loro pratica. Come è noto, questa idea rifiuta la lotta come soluzione pratica ed epistemica, espressa in categorie di dominio come egemonia, omogeneità, identità e altre; ciò implica una critica delle forme di potere del capitale, in particolare dello Stato. Hanno sostenuto che lo Stato non è una soluzione ma un problema (ciò non implica un rifiuto astratto del soggetto, ma piuttosto la necessità di sviluppare, dal basso, un’altra politica, coerente con la critica di questa forma). Il Comune dello zapatismo non va confuso con l’idea di una comunità particolare; e, in generale, con una politica epistemicamente fondata su una chiusura identitaria. In questo senso, si può dire che il Comune designa qualcosa che non può essere afferrato con categorie di totalità, ma piuttosto in termini di crisi della totalità e della sua critica, fondata sulla necessità di abolire il lavoro astratto come nucleo della forma di classe delle relazioni sociali. In altre parole, il Comune può essere inteso come categoria critica solo in termini negativi (non identitari). Perché ciò che chiamiamo beni comuni è ciò che viene negato nella classe come forma di dominio del capitale; ma è anche il negativo della classe e, in quanto tale, la testimonianza di una possibilità storica, quella della dissoluzione della classe e di un universale che si riproduce in e attraverso quella forma. In questo senso, sarebbe necessario dire che la classe è una categoria contraddittoria. Da un lato, è una forma di relazioni sociali e, in quanto tale, condensa il dominio del sistema, dell’universale; dall’altro, è la possibilità oggettiva di creare un mondo liberato dalla forma di classe delle relazioni sociali. Vale la pena parlare, quindi, di “Comune” come un modo per dare un nome alla lotta per quest’altro mondo. A volte questo viene presentato come un’atmosfera, come un’aria, come qualcosa che va oltre definizioni specifiche e dimensioni operative; tuttavia, il Comune è qualcosa di organizzato dal basso, dal cuore della lotta, che è anche un’idea. Ogni lotta ha il suo linguaggio specifico. Il linguaggio comune della lotta non è l’imposizione di un linguaggio generale dall’astrazione del pensiero, ma emerge piuttosto dalla comunicazione delle lotte. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. Traduzione di Comune. Sociologo e storico guatemalteco, Sergio Tischler insegna all’Università di Puebla, in Messico, dove vive da molti anni. Alcuni suoi saggi sono stati tradotti in più lingue. Con John Holloway e Fernando Matamoros è autore di Negativity and Revolution. Adorno and Political Activism (Pluto press). In Italia, nel 2010 è apparso un volume di cui è tra gli autori: Zapatismo: tracce di ricerca (editpress). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Nota sul Comune proviene da Comune-info.
L’orizzonte strategico non è più a sinistra
OGNI TANTO, LA SINISTRA SI ENTUSIASMA PER LE ULTIME NOVITÀ MEDIATICHE CHE PROMETTONO TEMPI FELICI. IN QUESTI GIORNI, I NOMI DEL SOCIALISTA ZOHRAN MAMDANI, COME POSSIBILE SINDACO DI NEW YORK, E DI JEANETTE JARA, COME CANDIDATA ALLA PRESIDENZA PER I PROGRESSISTI CILENI, SONO MOTIVO DI GIOIA PER TANTI. ENTUSIASMI ANCHE PIÙ FORTI SI SONO REGISTRATI QUALCHE ANNO FA ANCHE IN EUROPA CON L’ASCESA DI PODEMOS IN SPAGNA E SYRIZA IN GRECIA. MA PER RICONOSCERE QUALCOSA IN GRADO DI RICONSEGNARE SIGNIFICATO ALLA PAROLA SINISTRA FORSE BISOGNEREBBE CAMBIARE SGUARDO, DARE MENO IMPORTANZA ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA. IN AMÉRICA LATINA, AD ESEMPIO, SECONDO RAÚL ZIBECHI, SONO LE RIAPPROPRIAZIONI TERRITORIALI, PROMOSSE DA ATTORI COLLETTIVI NELLE AREE RURALI E URBANE, A POSSEDERE “LA PROFONDITÀ STRATEGICA CHE LA SINISTRA HA PERSO ASSESTANDOSI NELLA ZONA DI COMFORT DELLO STATO E DELLE ISTITUZIONI…” Tratta dalla pag. fb della rete brasiliana Teia Dos Povos  -------------------------------------------------------------------------------- Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza. Per alcuni analisti e per il quotidiano di sinistra Sin Permiso, la vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha causato un “terremoto politico” così profondo che, secondo l’analista, “le ramificazioni di questa inversione di tendenza si faranno sentire per anni, in tutti gli Stati Uniti e nel mondo sviluppato”. Essendo socialista, musulmano e filo-palestinese, la sinistra si illude che il suo arrivo a sindaco della città simbolo cambierà le cose, nonostante tutte le prove contrarie. Per il settimanale di sinistra El Siglo, il comunista cileno Jara incarna “la reale possibilità che il popolo governi con la propria voce, le proprie richieste e la propria dignità in prima linea”. Per i media progressisti, come Página 12 in Argentina, il semplice fatto che Jara non provenga dall’élite incarna “la speranza di una vita migliore”. La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci. Credo sia necessario ricordare le esplosioni di passione che hanno caratterizzato l’ascesa di Podemos in Spagna e l’ascesa al potere di Syriza in Grecia. Sono solo fuochi d’artificio destinati a tenere a galla una sinistra traballante, che ha perso ogni spessore strategico, incapace di andare oltre effimere manovre tattiche che non cambiano nulla e vengono presto dimenticate. Mi sembra strano che molti cileni stiano di nuovo cadendo nella trappola. Sono stati ingannati da figure come la leader studentesca Camila Vallejo, che nel 2011 promise di cambiare il Paese e che l’opportunista quotidiano britannico The Guardian ha paragonato al Subcomandante Marcos. Sono ancora più sorpreso che la memoria collettiva non possa nemmeno risalire al 2019, quando un’Assemblea Costituente (convocata dalla destra e solo da una figura di sinistra, l’attuale presidente Gabriel Boric) ha spinto gran parte del movimento sociale a sciogliere le assemblee regionali e a recarsi alle urne. Vorrei fare un paragone. Lo scorso fine settimana, tre compagni brasiliani vicini alla Teia dos Povos (la straordinaria Rete brasiliane dei Popoli riunisce comunità, popoli e organizzazioni politiche rurali e urbane che promuovono percorsi di emancipazione collettiva per costruire un’alleanza nera, indigena e popolare, “il nostro obiettivo non è essere un movimento sociale che abbracci gli altri, vogliamo camminare insieme, non produrre un’unità monolitica…”, ndr) hanno visitato una mezza dozzina di riappropriazioni (bonifiche territoriali) del popolo Guarani Kaiowá nello stato del Mato Grosso do Sul, vicino al confine con il Paraguay. Negli scambi che abbiamo avuto, hanno descritto la potenza di questi spazi, uno dei quali occupa seicento ettari, la diversità delle colture e la forza delle comunità riterritorializzate. Uno degli insediamenti sta contestando 11.000 ettari di terreno con l’agroindustria, sebbene “si trovino in una situazione di grande vulnerabilità, con attacchi notturni da parte di uomini armati dei proprietari terrieri con cui si contendono il territorio ancestrale, che passano a bordo di camion 4×4 e sparano alla comunità. Sono riusciti a rimanere nella zona a intermittenza per 47 anni di riappropriazione”, dice la compagna Silvia Adoue. Riguardo a quello spazio, Pakurity, compa Esteban del Cerro scrive su Quilombo Invisível che dalla riconquista del 1986, “ci sono stati decenni di permanenza e movimento a Pakurity attraverso altri mezzi: lavori temporanei nell’azienda, utilizzo della foresta vicina per l’estrazione di piante medicinali, erbe, radici e frutta, caccia e pesca; spostamenti di famiglie nella regione; memoria dei defunti e degli antenati”. Il testo conclude: “Da nord a sud del continente, i popoli indigeni si fanno portavoce del grido zapatista per i beni comuni e la non-proprietà, e le riconquiste continuano a chiarire che la via dell’insurrezione è la via per la vittoria. L’insurrezione dimostra anche che il recupero delle terre ci dà speranza, anche in mezzo alle trincee, per un nuovo modo di relazionarci con gli esseri viventi“. La terra trasformata in territorio apre orizzonti di vita. Le riappropriazioni territoriali in tutto il continente, sostenute da attori collettivi nelle aree rurali e urbane, possiedono la profondità strategica che la sinistra ha perso assestandosi nella zona di comfort dello Stato e delle istituzioni. Non sorprende più che coloro che celebrano minime “vittorie” elettorali stiano voltando le spalle alle lotte che stanno ricostruendo il movimento popolare, impegnandosi per la sopravvivenza collettiva durante la tempesta sistemica che ci sta colpendo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada (qui con l’autorizzazione dell’autore, che da oltre dieci anni di prende cura anche di Comune). Traduzione di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIORGIO AGAMBEN: > Il medioevo prossimo venturo -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’orizzonte strategico non è più a sinistra proviene da Comune-info.
Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente
ABBIAMO BISOGNO DI IMPARARE FORME CONCRETE DI RESISTENZA ALL’OLOCAUSTO CAPITALISTA CHE OGGI EMERGONO DENTRO, CONTRO E OLTRE IL SUO PERIMETRO ASFISSIANTE. “LA COLLABORAZIONE NEI COMPITI CHE FAVORISCONO LE OPPORTUNITÀ DELLA SUSSISTENZA COLLETTIVA, COME COLTIVARE LA TERRA O COSTRUIRE CASE, È UN PROCESSO CHE POTENZIALMENTE TRASFORMA LA NECESSITÀ IN ETICA… – SCRIVE STAVROS STAVRIDES – GLI SFORZI DELLA SOPRAVVIVENZA COLLETTIVA FANNO EMERGERE FORME DI CONVIVENZA BASATE SULLA MUTUA DIPENDENZA…”. I MODI ATTRAVERSO I QUALI IN TUTTO IL MONDO DONNE E UOMINI LOTTANO OGNI GIORNO PER SOPRAVVIVERE POSSONO CREARE DEI SENTIERI VERSO L’EMANCIPAZIONE COLLETTIVA, ANCHE SE NON SIAMO ABITUATI A CONSIDERARE QUESTA PROSPETTIVA Foto tratta dalla pag. fb del Movimento dos Trabalhadores Sem Terra (MST) -------------------------------------------------------------------------------- L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il patriarcato scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe attuale non è inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e sperimentare con fatti che dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno bisogno di imparare dalle concrete resistenze all’olocausto capitalista che oggi emergono dentro, contro e oltre il suo perimetro asfissiante. Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a modelli basati su generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o etiche che cercano di afferrare il significato delle azioni degli altri? Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista: “consumiamo tutto ciò che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”, consoliamoci guardando come altri già vivono in questa catastrofe con la speranza di poterle sfuggire”. È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei loro mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a mantenersi vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono gli afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i discendenti degli schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una naturalizzazione di un’identità brutalmente forzata – a manifestare nella pratica la propria volontà di continuare a essere differenti e liberi per conferire forma al loro proprio mondo? Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi, questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”. Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva, necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione. La collaborazione nei compiti che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come coltivare la terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente trasforma la necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione possono trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi fondamentali. Solo per fare un esempio: il Mutirão in Brasile (parola con radici nella lingua tupí guaraní) è un processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e che si basa sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone senza terra e senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta che produce nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione di cura con la terra (Stavrides, 2024). -------------------------------------------------------------------------------- Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”) -------------------------------------------------------------------------------- Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima (condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda, emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo usare il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di cooperazione che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si pone la questione dell’accesso equo e della distribuzione del potere, questione inevitabile oltre al come la ricerca della sopravvivenza collettiva affronti questa questione. Se la catastrofe smaschera le differenze spesso accuratamente nascoste, gli sforzi della sopravvivenza collettiva fanno emergere forme di convivenza basate sulla mutua dipendenza. Gli sforzi individuali, specialmente tra coloro che sono i più vulnerabili e ignorati (a meno che non li si consideri dall’esterno come inutili) si rivelano ogni volta più sterili. Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche collettive e le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica nascono nella intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione sociale. Forse in un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi delle regole predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità degli atti che apparentemente seguono le tipologie predominanti del comportamento se distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello. Questa possibilità la suggerisce Giorgio Agamben: “… un paradigma implica un movimento che passa di singolarità in singolarità e, senza mai abbandonare la singolarità, trasforma ogni caso singolare in un esempio di una regola generale che non può mai enunciarsi a priori” (2009:22). Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente la generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo per presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una comparazione analogica. I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio la vita del fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie vite, uniche come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare questa pratica imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti comparati. La base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri nell’altro. La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa di molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il paradigma, come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare sospensione della propria specificità del suo significato. La sua singolarità, in un certo senso, rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la coniugazione del verbo “amare” per mostrare la regola della coniugazione di verbi simili). Un gesto paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola si formi a partire da tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E l’esempio è certamente uno di quelli. Agamben conclude: “Il caso paradigmatico si converte in ciò nel sospendere e, allo stesso tempo, nell’esprimere la sua appartenenza al gruppo, in modo che non sia mai possibile separare il suo modello dalla sua singolarità” (ibid. 31). Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in questa maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo perché identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre l’unicità dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione di differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di schemi dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano regole che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi. In questo senso, ogni azione è un esempio. -------------------------------------------------------------------------------- I bambini e le bambine del Palestine Youth Club di Shatila al Centro storico Lebowski di Firenze (luglio 2025): foto di Chiara Benelli (che ringraziamo) per Un ponte per -------------------------------------------------------------------------------- In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto differente o un insieme di pratiche differenti possono considerarsi controesempi se li paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non come un’eccezione: l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di essa come un verbo “irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si assomigliano nel non seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste nel dire che l’eccezione non sta al di fuori della regola, bensì ne è solo la sua sospensione. Per questo, le eccezioni rilevano gli elementi costitutivi della regola dalla quale si separa ogni eccezione particolare. Il detto popolare che recita che l’eccezione conferma la regola sembra rivelare più di quanto appare in un primo momento. Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando si trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma specifica. Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non dovrebbero descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole dominanti o espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una delle maniere di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia, più che una condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di sopravvivenza quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli immediati della catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri verso l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è necessariamente integrata in queste tattiche. Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La loro forza risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi sociali organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma anche grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare questi atti come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire delle teorie di emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto importante: il ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a confronto una molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In altre parole, l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in circostanze specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel rispettare il carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata, abbiamo quindi la necessità di considerare l’emancipazione sociale come il trionfo dell’inventiva collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati di inventiva possono emancipare sé stessi. -------------------------------------------------------------------------------- Stavros Stavrides è professore alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo sostegno. Nell’archivio di Comune, altri suoi articoli sono leggibili qui. Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. Traduzione di Massimo Zincone. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente proviene da Comune-info.
Il centro non può reggere
IN TUTTO IL MONDO MILIONI DI PERSONE IN QUESTO MOMENTO DESIDERANO CHE TRA QUALCHE ANNO TRUMP, ORBÁN, MODI, ERDOGAN, MELONI SIANO SOLO UN RICORDO, UN BRUTTO SOGNO. DESIDERANO DIRIGERSI VERSO IL CENTRO, AD ESEMPIO, PER FAR VINCERE AI DEMOCRATICI LE ELEZIONI STATUNITENSI DI MEDIO TERMINE. EPPURE DOBBIAMO CONSIDERARE CHE IL CENTRO NON HA RETTO, NON HA POTUTO REGGERE. LE SOLUZIONI KEYNESIANE NON POSSONO PIÙ REGGERE. DOBBIAMO CONSIDERARE CHE LE ELEZIONI NON SONO UNO SPAZIO DI CAMBIAMENTO IN PROFONDITÀ. POSSIAMO PENSARE IN MODO DIVERSO? DOV’È LA SPERANZA IN QUESTA SITUAZIONE? DOV’È LA SPERANZA MENTRE IL MONDO GUARDA COSA ACCADE A GAZA? IN UN SIMPOSIO CONTRO IL CAPITALISMO ORGANIZZATO ADDIRITTURA ALLA HARVARD BUSINESS SCHOOL, JOHN HOLLOWAY HA DETTO CHE LA SPERANZA È INNANZITUTTO UN GRIDO DI RIFIUTO, UN NO. IN QUALCHE MODO, DOBBIAMO ENTRARE IN CONTATTO PERFINO CON LA RABBIA RISENTITA CHE STA DIETRO L’ASCESA DELLA DESTRA E RECLAMARLA COME NOSTRA, VIVENDO UNA NUOVA CULTURA POLITICA ANTI-IDENTITARIA, UNA POLITICA CHE CERCA E DISCUTE. DOBBIAMO PENSARE A UN MONDO BASATO SUL RICONOSCIMENTO RECIPROCO DELLE DIGNITÀ. “UNA FOLLIA. UNA FOLLIA È PRESENTARSI ALLA HARVARD BUSINESS SCHOOL E DIRE CHE DOBBIAMO ABOLIRE IL CAPITALISMO. EPPURE È UNA FOLLIA NECESSARIA…”. POSSIAMO PENSARE DUNQUE PARTENDO DALLA DISPERAZIONE, CHE NON È ANGOSCIA. L’ANGOSCIA È IL RIFIUTO DI CERCARE UNA RISPOSTA, È UNA RESA, UNA COMPLICITÀ. LA DISPERAZIONE INVECE È LA SPERANZA NELLA TEMPESTA, LA SPERANZA NELLA, CONTRO E OLTRE LA TEMPESTA. È LA LOTTA PER CREARE UN MONDO DIVERSO Roma, 10 maggio 2025. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- 1. Gaza. Sperare è come esprimere l’indicibile. Gaza. L’estrema espressione del dolore nel mondo di oggi. Dolore. Resistenza. Speranza. Gaza. Impossibile venire qui (l’autore si riferisce a convegno promosso a Harvard Business School di Boston, Ndr) senza confessarvi la mia esitazione nel parlare proprio nel cuore del paese che promuove e sostiene l’uccisione e la mutilazione spietata e sistematica di migliaia e migliaia di persone, molte delle quali bambini, l’annichilimento della speranza. Gaza. Vengo qui nonostante i miei dubbi, per esprimere la mia solidarietà con voi, che vivete in questo paese, nonostante il governo che subite ora e il governo che avete sofferto in passato. E per esprimere il mio più profondo rispetto e ammirazione per gli organizzatori di un evento con parole sovversive e pericolose come Razza, Genere e persino Equità. E per tutti voi che, in un modo o nell’altro, state camminando nella direzione sbagliata. Gaza, perché nulla mostra più chiaramente gli orrori del capitalismo contemporaneo, le terribili conseguenze di un sistema sociale governato dal denaro. Gaza, perché dobbiamo rompere il silenzio, il terribile silenzio di complicità che incombe sul mondo, la normalizzazione dell’angoscia. L’angoscia incombe su di noi. Ha molti nomi: Gaza, Sudan, il riscaldamento globale, il massacro della biodiversità, Trump, Milei, Orbán, la crescente minaccia di una guerra nucleare. Eppure, in mezzo a tutto questo, siamo venuti qui per dire No, è tempo di parlare di speranza, persino di speranza radicale. Non possiamo tuttavia accettare l’angoscia, perché uccide il pensiero scientifico. Ci resta solo una domanda scientifica: come si può rompere la dinamica sociale che ci spinge verso la nostra stessa autodistruzione, l’autodistruzione dell’umanità? A questa domanda non si può rispondere con l’angoscia. L’angoscia è il rifiuto di cercare una risposta, una resa, una complicità, per quanto riluttante. Diciamo no all’Angoscia. Anche se questo non ci regala una speranza vacua e felice. C’è una parola che assomiglia all’angoscia, ma diversa: Disperazione [l’autore elabora il ragionamento su due termini che suonano simili ma non sono sinonimi: despair, che traduciamo come angoscia (afflizione o sconforto), porta alla rassegnazione; desperation, che traduciamo come disperazione, porta all’azione estrema, Ndt]. La Disperazione non è angoscia. È il rifiuto di affliggersi, il rifiuto di rinunciare alla rabbia e alla speranza, anche in un mondo che ci dice che siamo pazzi se pensiamo ancora che un altro mondo è possibile. Nei dizionari, la disperazione è spesso equiparata all’angoscia, ma non è così. Ho trovato una definizione che si avvicina di più a ciò che sento: “Disperato: mostrare la volontà di correre qualsiasi rischio per cambiare una situazione negativa o pericolosa”. Forse non “qualsiasi rischio”, ma sì, la furia di cambiare una situazione negativa o pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione negativa, dove la situazione negativa è il capitalismo contemporaneo. La disperazione di cambiare il mondo perché sappiamo che non deve essere così, che abbiamo la capacità di creare qualcosa di diverso. La disperazione include la frustrazione, la frustrazione di ciò che potremmo fare, la frustrazione della nostra ricchezza, della nostra capacità di creare qualcosa di diverso. La disperazione è la speranza nella tempesta, la speranza nella e contro la tempesta, la speranza nella-contro-e-oltre la tempesta. Forse l’unico modo di parlare di speranza radicale oggi è attraverso la disperazione, disperata speranza-contro-speranza [i latini avrebbero usato l’espressione “spes contra spem”, NdT]. La speranza come negazione dell’anti-speranza. La speranza come resistenza. Chi segue queste cose (e dovreste farlo, perché sono stati gli esponenti più eloquenti della speranza negli ultimi trent’anni) si renderà conto che la mia attenzione alla disperazione riecheggia l’intervento di Marcos nell’incontro di dicembre organizzato dagli Zapatisti. La sfida, ha suggerito, è quella di “organizzare la nostra disperazione”. 2. Probabilmente tutti noi che siamo qui abbiamo un senso di comune disperazione. Il capitalismo in sé genera disperazione. In tutti i modi possibili. A livello personale, con la profonda e crescente incertezza della vita: come posso entrare all’università o trovare un lavoro, come posso ottenere la cattedra, trovare un posto decente dove vivere, in che tipo di mondo vivranno i miei figli, come posso far nascere dei bambini in un mondo come questo? Tutto ciò fa parte di una crescente disperazione sociale: guardate cosa sta succedendo ai migranti, guardate la distruzione della biodiversità da cui dipende la vita umana, guardate il riscaldamento del pianeta, sempre più fuori controllo, guardate l’ascesa della nuova Destra, guardate il crescente pericolo di nuove guerre. -------------------------------------------------------------------------------- Foro Quarticciolo ribelleUna donna del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo, “coloro che vivono nelle baracche” -------------------------------------------------------------------------------- Allora, da dove prendiamo la nostra disperazione, la nostra speranza, malgrado tutto? La cosa più ovvia, nella situazione attuale, è dirigersi verso il centro, sperare che i Democratici possano vincere le elezioni di medio termine, che né Trump né Vance vincano le elezioni del 2028, che tra dieci anni guarderemo a Orbán, Meloni, Modi, Erdogan, Trump come a un brutto sogno, una sfortunata parentesi nella storia, che ci sarà un ritorno a qualcosa che possiamo riconoscere come civiltà. Ma c’è una frase che è stata spesso citata negli ultimi anni. La frase, “il centro non può reggere”, viene da una poesia di W.B. Yeats, “La seconda venuta” (in coda la poesia completa). Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga il falco non può udire il falconiere; ogni cosa crolla; il centro non può reggere; assoluta l’anarchia dilaga nel mondo, dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque il rito dell’innocenza annega. Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori rigurgitano furia di passioni. Il centro non può reggere. Ovviamente, qui negli Stati Uniti e in altri Paesi, il centro non ha retto. Eppure rimane resta come una sorta di calamita per la nostalgia, un’attrazione irresistibile per il mondo che si sta disgregando intorno a noi. Questa spinta nostalgica verso un ritorno alla normalità è probabilmente ineludibile, forse persino desiderabile. Eppure dobbiamo considerare che il centro non ha retto, non ha potuto reggere, e che forse dobbiamo andare oltre la lotta per il suo ripristino. 3. Ora pensiamo al centro attraverso la prospettiva dell’attuale offensiva. Gli attacchi al pensiero critico nelle università, gli attacchi ai migranti, la dissoluzione dell’ordine mondiale basato sul diritto, e così via. Forse, più in generale, possiamo pensare al centro come a una sorta di contratto sociale globale, una sorta di normalità stabilita dopo la Seconda guerra mondiale che comprende un’idea di democrazia come auspicabile, livelli minimi di benessere sociale, un certo modo di intendere la politica, del tipo di relazioni che dovrebbero esistere tra gli Stati, una certa idea dei diritti umani e dello Stato di diritto. Non voglio certo idealizzare questa normalità. È una fase della civiltà del denaro, una civiltà criminale basata sullo sfruttamento, il razzismo, il sessismo, il colonialismo, la repressione, l’incarcerazione e la distruzione di altre forme di vita. Ciononostante, esiste una sorta di normalità, una sorta di contratto sociale, a volte indicato come stato sociale keynesiano, in seguito attaccato radicalmente da quello che molti chiamano neoliberismo. Eppure questo stato, se visto soprattutto dal punto di vista del presente, ha mostrato più continuità di quanto possa sembrare: lo stesso sistema di relazioni tra gli Stati, un simbolico rispetto per la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto. 4. Questo centro è stato messo sempre più in discussione dopo la crisi finanziaria del 2008. È allora evidente che non può essere dato per scontato. A prescindere dal fatto che si trovi o meno attraente quella normalità, o almeno migliore di quella che viene ora imposta, ci sono almeno due ragioni per pensare che non sia più realistica. In primo luogo, essa aveva una base materiale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata il risultato della grande ristrutturazione del capitale ottenuta attraverso la distruzione e il massacro della guerra. Questa spinta alla produttività e alla redditività è stata sempre più compressa a partire dalla fine degli anni Sessanta e dall’inizio degli anni Settanta. Dopo il crollo di Bretton Woods e il cambiamento di politica sotto Reagan e Thatcher, la riproduzione del capitalismo si è basata sempre più sulla costante espansione del debito, cioè non sul plusvalore effettivamente prodotto ma sull’aspettativa di una futura produzione di plusvalore. Negli ultimi quarant’anni c’è stata un’espansione senza precedenti del debito su scala globale, che ha significato un’espansione della fragilità sistemica, espressione del divario tra l’accumulazione di valore e la sua espressione monetaria. Questa fragilità è amministrata principalmente dalla Fed e da altre banche centrali, ma è esplosa con la crisi finanziaria del 2007/8 e la minaccia di collasso rimane latente e costante. In altre parole, la base economica della normalità a cui siamo stati abituati è diventata sempre più fragile. Il neoliberismo, lungi dall’essere la politica di un capitale trionfante, è (o era) la politica della sua crisi. L’altra ragione per dubitare della possibilità di ripristinare il centro è il grado di rabbia e disperazione che ha generato. La promessa di una crescente prosperità personale in cambio dell’accettazione del sistema, ignorandone la forza distruttiva, ovvero una parte cruciale del contratto sociale del dopoguerra, non è stata mantenuta per gran parte della popolazione, negli ultimi quarant’anni o quasi. L’accumulo apparentemente casuale di enormi ricchezze da parte di pochi ha contribuito a incanalare la rabbia in rancore. Come ha detto Abahlali baseMjondolo, l’importante movimento degli abitanti delle baracche in Sudafrica, dopo le rivolte razziali nel 2020, “Abahlali ha sempre avvertito che la rabbia dei poveri può andare in molte direzioni. Abbiamo avvertito più e più volte che siamo seduti su una bomba a orologeria”. Il centro, la normalità degli ultimi anni, è stato costruito su due bombe a orologeria: la fragilità finanziaria e il crescente risentimento. Probabilmente non è auspicabile né realistico ricrearlo. Dobbiamo certamente lottare per la difesa della democrazia liberale, ma dobbiamo guardare oltre, andare più avanti e chiederci se la situazione attuale possa creare una svolta nello sviluppo di una politica radicale della speranza. 5. Se il centro non può reggere, può farlo la destra? Non possiamo saperlo. Di certo ci sta spingendo in direzioni che vanno al di là della nostra capacità di immaginare, in termini di distruzione climatica e possibilità di una guerra nucleare, forse riuscirà a creare un incubo per l’umanità. Ma è anche possibile che crolli, da un lato, di fronte all’opposizione popolare, e dall’altro, delle forze del mercato: paradossalmente ciò accade a causa della sua incapacità di comprendere e accettare la realtà del potere del denaro. -------------------------------------------------------------------------------- Incontro di Mediterranea al Centro Fonti di San Lorenzo, Recanati -------------------------------------------------------------------------------- Dov’è dunque la speranza in questa situazione? Innanzitutto, deve essere un grido di rifiuto, un No. Mi piace pensare che questo sia qualcosa che tutti noi qui condividiamo. Si riflette nelle proteste di massa degli ultimi fine settimana e si spera che queste continuino a crescere, crescere e crescere. Ma dove può portarci questo No? Forse al centro, alla democrazia liberale. Forse alle prossime elezioni le persone ragionevoli vinceranno, i risentiti perderanno. Ma allora la fragilità continuerà a crescere e anche il risentimento. In qualche modo, dobbiamo entrare in contatto con la rabbia risentita che sta dietro l’ascesa della destra e reclamarla come nostra. La nostra risposta non può essere “Siate ragionevoli, mettete da parte la vostra rabbia!”, ma piuttosto “Condividiamo la vostra rabbia contro un sistema che ci umilia e ci uccide. Proviamo a vedere come sviluppare la nostra rabbia in modo diverso”. La speranza oggi è davvero una questione di come incanalare la nostra rabbia. La rabbia dei poveri può andare in molte direzioni, dice Abahlali. Una direzione sembra essere dominante al momento: la rabbia come rancore. Ma c’è anche un’altra rabbia, espressa da migliaia e migliaia di movimenti in tutto il mondo (e, speriamo, da questa conferenza). Si tratta di quella che gli Zapatisti chiamano “digna rabia”. Un’espressione difficile da tradurre, ma forse si può chiamare rabbia dignitosa, o rabbia giusta: una rabbia che nasce dall’oppressione quotidiana della società esistente e ci indirizza verso un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle nostre dignità. In altre parole, una rabbia contro il modo in cui sono organizzate le relazioni sociali (capitalismo) che spinge verso la creazione di un altro mondo, un mondo fatto di molti mondi. Una rabbia contro il dominio del denaro e una spinta verso lo sviluppo della vita. Una rabbia fatta di risentimento e una rabbia fatta di speranza. Qui c’è una questione di grammatica, la grammatica dell’identificazione. Il risentimento produce identificazione: dirige la sua rabbia contro gruppi specifici di persone, siano essi migranti o accademici di Harvard. Si scaglia contro l’élite come gruppo di persone, ma non mette in discussione il sistema che produce l’élite o i migranti. L’ascesa della destra è un’esplosione di politica identitaria che disumanizza, trattando i gruppi di persone come oggetti o categorie astratte. L’identificazione è un processo che parte da una rabbia indefinita e la concentra su oggetti umani specifici, che siano neri, arabi, ebrei, stranieri, trans. Il processo di identificazione viene rafforzato dai gruppi di destra, ma è anche profondamente radicato nella società esistente. Lo Stato è un processo di identificazione: la sua stessa esistenza è la proclamazione di una netta distinzione tra “noi” e gli altri, gli stranieri, che possiamo maltrattare e, quando necessario, uccidere. L’esistenza stessa dello Stato come forma di organizzazione sociale è un processo di costruzione di “alterità”, una scuola di fascismo e di guerra. Cittadini. Una politica della speranza parte dalla stessa rabbia identificata dalla destra, ma resiste al processo di identificazione. Inondandolo. Una politica della speranza è necessariamente una politica anti-identitaria, non nel senso di negare l’identità, ma nel senso di andare verso, contro e oltre di essa. Siamo indigeni, ma la nostra lotta va oltre, per un mondo basato sul riconoscimento della dignità umana. Siamo Curdi, una nazione oppressa, ma la nostra lotta va oltre, per la creazione di un mondo diverso. Lottiamo contro il riscaldamento globale, sappiamo che non è solo una questione di combustibili fossili, combattiamo invece contro un mondo in cui lo sviluppo è plasmato dalla ricerca del profitto. Laddove una politica identitaria chiude per dare risposte, una politica della speranza apre e pone domande. Preguntando caminamos, camminiamo facendo domande, come dicono gli Zapatisti. Una politica della speranza è una politica che chiede, cerca, discute. La sua forma di organizzazione ha una lunga storia, costantemente rinnovata: l’assemblea, il consiglio, il comune, una forma di organizzazione pensata per promuovere l’espressione di opinioni e la discussione di soluzioni, lontana dallo Stato o dal partito che stabilisce la linea da seguire. Un luogo come questo dove possiamo dissentire, dove possiamo dire “questo è quello che voglio dire”. Tu cosa ne pensi?”. Un luogo in cui si condivide la rabbia e le etichette si confondono semplicemente grazie a quella condivisione. 6. La speranza, quindi, è una rabbia dignitosa, una rabbia determinata ad abolire un sistema sociale che ci sta distruggendo, e determinata a creare un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle dignità. Una follia. Una follia è presentarsi alla Harvard Business School e dire che dobbiamo abolire il capitalismo. Eppure è una follia necessaria. Ci sono molti segnali che indicano il perdurare dell’attuale forma di organizzazione sociale come incompatibile con la sopravvivenza della vita umana. Certo, il capitalismo è sempre stato una combinazione di creazione e distruzione, ma ora è il suo lato distruttivo a dominare sempre di più. La speranza è follia. La speranza è disperazione che cammina sull’orlo dell’abisso dell’angoscia. Ma dobbiamo accettare la nostra follia, per esprimerla con forza. Perché dobbiamo vincere. Questa volta, noi, i soliti sconfitti, dobbiamo vincere, o altrimenti sedere a godersi la corsa verso la catastrofe, verso la possibile estinzione. 7. Concludo con una piccola storia raccontata da Marcos nell’incontro organizzato dagli Zapatisti alla fine di dicembre. Egli racconta come i giovani Zapatisti, tecnicamente avanzati, che sono riusciti a organizzare la diretta streaming dell’evento, sono riusciti anche a stabilire un collegamento telefonico con una comunità indigena dell’anno 2145. Così Marcos chiama la comunità e al telefono risponde una ragazzina. Marcos chiede “Come state?” e lei risponde “Dipende”. E Marcos pensa “che risposta assurda, perché non poteva rispondere un adulto?”. E dice, un po’ più forte: “Come stai Tu?”. E la ragazza ripete, più chiaramente: “Dipende. Da te”. Dipende. Da noi. Se quella ragazzina esisterà mai. O in quali condizioni. La speranza non è un gioco o una virtù, è la lotta per creare un mondo diverso. -------------------------------------------------------------------------------- La Seconda Venuta (W. B. Yeats) Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga il falco non può udire il falconiere; ogni cosa crolla; il centro non può reggere; assoluta l’anarchia dilaga nel mondo, dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque il rito dell’innocenza annega. Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori rigurgitano furia di passioni. Qualche rivelazione di certo s’avvicina la Seconda Venuta, di certo s’avvicina la Seconda Venuta! E non appena pronunciata un’immensa immagine emanata dallo Spiritus Mundi mi turba la vista: in qualche luogo tra le sabbie del deserto una forma dal corpo di leone e dalla testa d’uomo, occhi vuoti e impietosi come il sole, avanza sulle lente cosce, mentre attorno vorticano le ombre degli sdegnati uccelli del deserto La tenebra ancora torna, ma ora so che venti secoli d’un sonno di pietra furono oppressione e incubo per una culla a dondolo, e quale bestia informe, giunto infine il suo tempo avanza senza grazia per Betlemme, a prender vita? (Traduzione di Alfredo Rienzi, 2016) – (larecherche.it) -------------------------------------------------------------------------------- Questo testo è stato preparato per un simposio promosso alla Harvard Business School dal titolo Radical Hope. Traduzione per Comune di Marcella Ravaglia. Nell’archivio di Comune gli articoli di Holloway sono leggibili qui. Il suo ultimo libro è La speranza in un tempo senza speranza (Ed. Punto Rosso). John Holloway e Marcella Ravaglia hanno aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- La versione dell’articolo in inglese: Centre cannot HoldDownload -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il centro non può reggere proviene da Comune-info.
Gli imperi cadono dall’interno
DA QUANDO TRUMP È TORNATO ALLA CASA BIANCA SONO STATE PRESENTATE 41 PROPOSTE DI LEGGE ANTI-PROTESTA IN 22 STATI: SI TRATTA DI SANZIONI PENALI PER PROTESTE PACIFICHE CHE PRENDONO DI MIRA STUDENTI UNIVERSITARI, MANIFESTANTI CONTRO LA GUERRA E PER IL CLIMA. È STATO ANCHE CREATO UN NUOVO REATO PER LE AZIONI CHE INTERROMPONO I GASDOTTI PROGETTATI O IN FUNZIONE, IN RISPOSTA ALLE STRAORDINARIE PROTESTE DEL 2016 GUIDATE DAI NATIVI AMERICANI CONTRO L’OLEODOTTO A STANDING ROCK, NEL DAKOTA DEL NORD (FOTO). SECONDO RAÚL ZIBECHI, LA CRESCENTE MILITARIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ, NON SOLO NEGLI STATI UNITI, È UNA RISPOSTA ALL’ASCESA DELL’AZIONE COLLETTIVA: CHI È IN ALTO SA BENE CHE GLI IMPERI CADONO DALL’INTERNO, A CAUSA DELLA RESISTENZA ATTIVA O PASSIVA DEI POPOLI. “SE QUALCUNO PUÒ SCONFIGGERE L’ESTREMA DESTRA IN TUTTO IL MONDO NON SARÀ LA CINA. COSÌ COME DOBBIAMO CAPIRE CHE L’ESTREMA DESTRA CHE DEVASTA IL MONDO È UNA REAZIONE AL CAMMINO DEI POPOLI E AL COLLASSO IN CORSO, DOBBIAMO ANCHE ACCETTARE CHE SOLO I POPOLI E LE COLLETTIVITÀ ORGANIZZATE POSSONO FRENARLI. SAPERE CHE QUELLO CHE FANNO È PERCHÉ CI TEMONO, DOVREBBE DARCI CORAGGIO IN TEMPI COSÌ DURI. NON DOVREMMO LASCIARCI DISTRARRE DAI LEADER” Foto Standing Rock Dakota Access Pipeline Opposition -------------------------------------------------------------------------------- Mentre la questione dei dazi acquista sempre più importanza, la cultura egemonica ritiene che sarà la Cina a sconfiggere gli Stati Uniti di Donald Trump, poiché si troverebbe in una posizione economica, sociale, politica e tecnologica migliore per soppiantarne l’egemonia, aprendo la strada a un mondo multipolare. L’intera analisi si concentra sulle caratteristiche personali di Trump e su ciò che la Cina sta facendo per contrastarlo. Le persone, i veri protagonisti, restano nell’ombra. La crescente militarizzazione di società come gli Stati Uniti è una risposta all’ascesa dell’azione collettiva, che sta costringendo l’intero spettro politico a spostarsi sempre più verso l’estrema destra e a fare della repressione il suo argomento principale. Chi è in alto è molto chiaro, perché è una costante della storia che gli imperi cadono dall’interno, a causa della resistenza attiva o passiva del popolo. Un recente articolo del Guardian del 9 aprile, intitolato “Gli Stati Uniti intensificano la repressione delle proteste pacifiche sotto Trump“, affronta la questione in dettaglio. È sorprendente che a scriverlo sia stata Katharine Viner, caporedattrice del giornale, cosa insolita che dimostra l’importanza attribuita all’argomento. Inizia dicendo che nei primi quattro mesi di quest’anno sono state presentate 41 proposte di legge anti-protesta in 22 stati, rispetto a un totale di 52 nel 2024 e 26 nel 2023, secondo il tracker dell’International Center for Nonprofit Law. Secondo l’autore, si tratta di sanzioni penali per proteste pacifiche, tutelate dalla Costituzione, che prendono di mira “studenti universitari, manifestanti contro la guerra e attivisti per il clima con dure pene detentive e multe salate, una repressione che, avvertono gli esperti, rischia di erodere i diritti del Primo Emendamento alla libertà di parola, di riunione e di petizione”. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CLAUDIO TOSI: > #50501 -------------------------------------------------------------------------------- Degno di nota è anche il Safe and Secure Transportation of American Energy Act, che crea un nuovo reato applicabile alle proteste che interrompono i gasdotti progettati o in funzione, “che sarebbe punibile fino a vent’anni di carcere e multe fino a 250.000 dollari per i singoli individui o 500.000 dollari per le organizzazioni”. Questa legislazione repressiva rappresenta un notevole passo avanti rispetto alle proteste del 2016 guidate dai nativi americani contro l’oleodotto a Standing Rock, nel Dakota del Nord. Il direttore del Guardian sostiene che le nuove disposizioni mirano a “scoraggiare le persone dal parlare apertamente, oltre a essere incredibilmente repressive”. Ogni volta che un movimento scende in piazza, i legislatori rispondono spesso con progetti di legge sempre più repressivi. Nel 2021, sono state presentate 92 proposte di legge in 35 stati in risposta alla rivolta sociale scatenata dall’omicidio di George Floyd da parte di agenti di polizia a Minneapolis, Minnesota. Jenna Leventoff dell’American Civil Liberties Union (ACLU) sostiene che la serie di leggi anti-protesta “mirano a spaventare le persone e a scoraggiarle dal protestare o, peggio, a criminalizzare l’esercizio dei diritti costituzionali”. Citato da Viner, David Armiak, direttore della ricerca presso il Center for Media and Democracy, sostiene: “L’enorme numero e varietà di proposte di legge anti-protesta introdotte in soli tre mesi, unite alla revoca dei visti per studenti e alla scomparsa degli studenti manifestanti da parte dell’amministrazione dell’autoproclamato ‘presidente della legge e dell’ordine’, indicano una tendenza verso il fascismo”. Naomi Klein e Astra Taylor hanno sostenuto domenica scorsa sullo stesso giornale che “dobbiamo riconoscere che non abbiamo di fronte avversari familiari. Siamo di fronte al fascismo della fine dei tempi”. Nell’articolo “The Rise of End-Times Fascism“, sostengono che questi movimenti di estrema destra “mancano di una visione credibile per un futuro di speranza”, a differenza del fascismo classico. Per chi sta in alto, il crollo è una sorta di “regolamentazione” dell’umanità. Il trumpista Steve Bannon sostiene che il mondo sta andando all’inferno perché “gli infedeli stanno sfondando i muri di contenimento”. Ecco perché si barricano nei bunker e sognano persino di fuggire su Marte, come lo stesso Elon Musk. Questo è ciò che stanno facendo: militarizzando, reprimendo e costruendo i loro mondi senza i poveri. Se qualcuno può sconfiggere l’estrema destra in tutto il mondo non sarà la Cina. Così come dobbiamo capire che l’estrema destra che devasta il mondo è una reazione al cammino dei popoli e al collasso in corso, dobbiamo anche accettare che solo i popoli e le collettività organizzate possono frenarli. Sapere che quello che fanno è perché ci temono, dovrebbe darci coraggio in tempi così duri. Non dovremmo lasciarci distrarre dai leader. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su La Jornada e qui con l’autorizzazione dell’autore (traduzione di Comune). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ALESSANDRA ALGOSTINO: > Un paese che si identifica con ordine e polizia -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Gli imperi cadono dall’interno proviene da Comune-info.