
Il vento di Genova
Comune-info - Saturday, August 30, 2025Quello che sta accadendo a Genova, negli ultimi mesi ma, ancor più, in questi giorni di fine agosto, nessuno lo aveva previsto. Il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) non ha mai smesso la sua intensa campagna di lotta contro il traffico delle armi nel porto di Genova, in collaborazione con i portuali di altre città. CALP e Music For Peace, che da tempo invia beni di prima necessità in Palestina, hanno avviato una raccolta di 40 tonnellate di cibo, che partirà a bordo delle barche che da Genova si uniranno alla Global Sumud Flotilla, diretta a Gaza. La cosa strabiliante è che questa raccolta è durata solo cinque giorni: associazioni di ogni tipo hanno messo in piedi punti di raccolta nei quartieri e in altre località. Una mobilitazione popolare, con queste caratteristiche, mai vista prima a Genova (ma situazioni simili si registrano anche in altre città), in cui emerge prima di tutto l’orgoglio di essere partecipe, con un gesto solidale, pratico, a una campagna importante e che rimarrà nella memoria della città. Non è vero che nel buio non accade nulla…

Alcuni mesi fa, in tre o quattro persone abbiamo iniziato a discutere di un termine poco presente nel dizionario ristretto a cui facciamo ricorso quando analizziamo le macerie del nostro presente e, di conseguenza, a cosa si può ancora fare ricorso per cercare un punto di ripartenza. Il termine in questione è orgoglio. Lo stimolo è venuto dalle manifestazioni oceaniche che – in quel periodo di ogni anno – attraversano tante città del mondo: i pride del movimento LGBTQI. Ci siamo chiesti cosa ci sia dentro quel lemma che connota gli eventi di piazza più frequentati degli ultimi anni, forse venti, o giù di lì. C’è sicuramente la volontà di rivendicare, orgogliosamente, un elemento identitario (termine di per sé scivoloso, ma al momento utile) che, in molti casi, viene stigmatizzato, o, negli ambienti più oscurantisti, associato a una malattia. Quell’orgoglio identitario viene riconosciuto e fatto proprio da centinaia di migliaia di persone, a prescindere da orientamento e autodefinizione sessuale. È questa condivisione di massa che più interessa in ciò che si intende discutere qui.
Cercando di andare oltre la specificità di quel movimento, siamo arrivati a definire l’orgoglio nei seguenti termini. L’orgoglio è una forza relazionata alle tensioni positive che animano l’agire secondo coscienza, in senso ampio. È un’agentività che muove dall’interno del soggetto, dove l’orgoglio risiede, dotandosi di visibilità relazionale ed emotiva, tramite molteplici stati: soddisfazione, piacere, gratificazione, godimento, così come frustrazione, rabbia, paura. L’orgoglio produce quegli stati, ma non vi coincide completamente. Si potrebbe dire che si situa a un livello più profondo, in un substrato del nostro essere agenti, dove riesce a mantenersi vivo anche nelle condizioni più avverse. Lì è dove l’orgoglio incontra e alimenta la passione, da cui, a sua volta, viene alimentato. Potremmo dire che orgoglio e passione viaggiano sempre insieme.
L’orgoglio, se vogliamo stabilire un altro parallelo, ha una diretta risonanza con l’etica. Non un’etica astratta, trascendentale, inafferrabile: la nostra etica personale, che si sveglia ogni giorno con ognuno di noi e che ci chiede di agire in modo da farci sentire orgogliosi di noi stessi/stesse. Cosa di per sé sempre più difficile – almeno per chi si colloca in posizione oppositiva allo stato di cose presenti -, ma non impossibile.
L’orgoglio, in sintesi, si colloca su un piano di interiorità politica, da cui muove l’agire spinto dalla passione etica. Non si tratta di un’interiorità chiusa, autoreferenziale e originaria. Al contrario, è uno spazio sempre in trasformazione che vive nella sua costante relazione con l’esterno. La definizione di interiorità serve in questo caso a dare l’idea del rapporto che il soggetto ha con se stesso, di un’affezione che attua su di sé.
Quello che sta accadendo a Genova, negli ultimi mesi ma, ancor più, in questi giorni di fine agosto, ha a che vedere con tutto questo. Due organizzazioni, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) e Music For Peace (MFP), hanno deciso di dare un’accelerata al lavoro che, ciascuna secondo le proprie prerogative, svolgono ormai da tempo. Il CALP, dal 2019, ha avviato una intensa campagna di lotta contro il traffico delle armi nel porto di Genova, in collaborazione con i portuali di altre città europee e/o mediterranee. MFP, dal canto suo, invia beni di prima necessità a Gaza – e non solo – da molto tempo. Invii che si sono bloccati con la guerra genocida in corso. Hanno deciso, insieme, di avviare una raccolta di 40 tonnellate di cibo, che partirà domenica 31 agosto a bordo delle barche che da Genova si uniranno alla numerosissima Global Sumud Flotilla, diretta a Gaza. La cosa strabiliante è che questa raccolta è durata solo cinque giorni. Una coda infinita di persone davanti all’ingresso di MFP ha consegnato, al quinto giorno, circa duecento tonnellate di prodotti rigorosamente definiti dall’organizzazione. Associazioni di ogni tipo hanno messo in piedi punti di raccolta nei quartieri e in altre località. Una mobilitazione popolare, con queste caratteristiche, mai vista prima.
La città, la sua parte migliore, ha risposto in massa a questo appello, così come aveva già fatto in occasione delle manifestazioni organizzate dal CALP per il blocco delle navi in porto, anche se con numeri più ridotti. Probabilmente, un ruolo lo ha avuto anche la posizione assunta dalla giunta Salis, con il riconoscimento, sia pur simbolico, dello stato di Palestina, avvenuto in concomitanza con l’ultimo blocco di una nave nel porto di Genova da parte del CALP.
Quello su cui si vuole porre l’accento è ciò che questa mobilitazione mostra, tenendo a mente quanto detto in apertura.
Bastava sostare una mezz’ora da MFP e ci si rendeva conto di come a muovere le migliaia di persone accorse a portare cibo fosse qualcosa di almeno parzialmente diverso dalla disponibilità a mobilitarsi in senso più tradizionale. Considerati i numeri, è molto probabile che una parte significativa di chi ha portato cibo non sia mai scesa in piazza con il CALP per il blocco delle navi, o in solidarietà verso il popolo palestinese, dove la partecipazione è stata sempre molto inferiore.
Sempre in quella mezz’ora di sosta fuori la struttura era possibile notare anche la diversa la composizione sociale della moltitudine popolare che vi è accorsa, rispetto sia a quella dei manifestanti, sia ai frequentatori abituali delle attività organizzate da MFP.
Si può sostenere che, in questo caso, si tratti di un coinvolgimento meno forte, più facile da attivare da parte di coloro che non si sentono disponibili ad altre forme di solidarietà attiva, o attivista. Del resto, si va a comprare (a proposito, la Coop più vicina alla sede di MFP mercoledì sera aveva gli scaffali vuoti), si arriva, si consegna ai volontari, e si va via.
Questa è senz’altro una ragione dello scarto quantitativo e qualitativo che separa questa manifestazione da altre.
L’aspetto, forse, più interessante è però un altro. Così come in occasione dei pride, quello che ha mosso migliaia di persone sembra essere ascrivibile alla volontà di essere partecipi di un evento che mette al centro un diritto civile, il primo, il diritto alla vita. La partecipazione a momenti di questa natura richiama alla superficie un sentimento che, capovolgendo uno dei più famosi hashtag frase che circola sui social, si potrebbe sintetizzare con “anche in mio nome”. Non è una delega ad altri, è una manifestazione di quell’agentività di cui si è detto, che mette in primo piano l’orgoglio di essere partecipe, con un gesto solidale, pratico, a una campagna che rimarrà nella memoria di questa città.
Ci troviamo dinnanzi a un processo che forse nessuno tra coloro che si muovono da anni, o decenni, negli ambienti della solidarietà militante si sarebbe aspettato così imponente. Da qui a lasciarsi trasportare dall’ottimismo di chi vi vede l’inizio di un nuovo corso, il passo è un po’ lungo, e non tiene debitamente in conto il contesto generale in cui si inserisce.
Ce lo ricorda Ece Temelkuran, una scrittrice turca molto attiva politicamente, che ha scritto in un articolo pubblicato anche da Internazionale parole molto amare, cariche di profondo realismo. “Quando la gente è ignorata nonostante tutti i suoi sforzi e il concetto di cittadinanza diventa politicamente superato, le persone tendono a fare scelte politiche che mettono in discussione la nostra immagine idealistica di esseri umani amanti della libertà, della dignità e dell’azione politica”. “Dopo un po’, nessun livello di immoralità, nessun atto politico vergognoso commesso dal potere susciterà l’indignazione o la ribellione a cui eravamo abituati”.
È tutto vero, quelli sono i tratti distintivi del nostro presente. Forse è per questa ragione che, come si è detto all’inizio, si è cercato di ragionare su un termine inusuale all’interno delle analisi che siamo soliti fare su soggetti, potere, forme di lotta. “C’è bisogno di nuovi nomi”, come recita il titolo di un bel romanzo di NoViolet Bulawayo, per orientarci nel buio che ci circonda.
All’inizio si è detto che la discussione sul termine orgoglio ha coinvolto tre o quattro persone. È parzialmente vero, perché, in realtà, subito dopo le prime riflessioni, è stata condotta una piccola indagine, senza nessuna pretesa di essere statisticamente rappresentativa, neppure di una parte ridottissima della popolazione. Le si può forse attribuire – a voler essere generosi – una rappresentatività sociologica: ognuno dei partecipanti racchiude in sé una o più caratteristiche sociali, culturali, anagrafiche, che si è scelto di collocare alla base di questo piccolo lavoro. Nessuno di loro, inoltre, ha una marcata storia di “militanza” nel senso più tradizionale del termine. È stato inviato un messaggio via WhatsApp a oltre trenta persone, tutte under 40. Il messaggio conteneva una domanda che invitava a descrivere dove e come il proprio agire consente di percepire una sensazione di orgoglio per ciò che si fa, in relazione alle proprie caratteristiche personali. Di queste, hanno risposto in diciassette. Tra di loro vi sono lavoratori e lavoratrici della logistica e dei magazzini, operatori e operatrici nel sociale, una ricercatrice universitaria, una danzatrice, una psicologa che opera nei servizi per il lavoro, un ferroviere, due collaboratrici dei servizi per il lavoro, una volontaria, un operatore della pulizia dei siti per conto delle Big Tech (il pesce spazzino dell’acquario, come si definisce lui stesso), un addetto ai servizi di ristorazione, un sindacalista. Due di questi, inoltre, non sono di origine italiana.
Le risposte ottenute sono molto interessanti e meriterebbero una lettura integrale, cosa non possibile all’interno di questo articolo. Vale comunque la pena fare una sintetica descrizione di alcuni degli ambiti in cui viene percepito il proprio agire con orgoglio, riportando alcune parole inviate nelle risposte. Sicuramente c’è la dimensione lavorativa, al cui interno agire con coraggio e determinazione (“il mio essere una combattente”, dice Simonetta). Oppure, sempre nel lavoro, instaurare “rapporti solidali, di vicinanza, di reciproco sostegno” (Simone). C’è, molto presente, l’impegno nel volontariato, che si traduce per Piera “nella capacità di stabilire relazioni di riconoscimento e cura degli altri”, o, per Filippo, l’impegno che lo porta a fare un laboratorio di musica in carcere. “Trovo che quelle quattro ore dentro siano quasi un momento sacro, sicuramente carico d’importanza. E questo ha un impatto su di me, perché è la cosa che mi fa dare (ogni tanto) pacca sulla spalla la mattina quando mi guardo allo specchio ed è anche l’esperienza più formativa che abbia fatto negli ultimi anni”. Vi è poi, per i due rispondenti non di origine italiana, il legame tra orgoglio e cultura d’origine e, di conseguenza, la relazione che si instaura con il contesto attuale. “Mi sento molto orgoglioso di essere riuscito a mantenere la mia cultura qui, in questo mi ha anche aiutato il rispetto che ho per i miei genitori. Per me è una vittoria”, dice Touré. Daouda indica due cose: la prima è, anche per lui, la propria cultura d’origine, soprattutto in ambito religioso. “La seconda è il modo in cui ho affrontato la mia nuova vita qui, l’impegno che ho messo nell’imparare la lingua, nello studio, nel lavoro e con le nuove amicizie che mi sono fatto”.
Simonetta, Simone, Piera, Filippo, Touré, Daouda e tutti gli altri che hanno contribuito a questa indagine sono dei con-ricercatori, anche se sono stati definiti frettolosamente rispondenti. I loro contributi si inseriscono in un obiettivo di lavoro di più lungo periodo, più ampio, e anche ambizioso. Ha a che vedere con la definizione e la costruzione di una città etica, in cui attivisticamente e orgogliosamente vivere. Una “cartografia delle potenze” in grado di sperimentare e produrre forme di vita orientate a una salubrità sociale, politica, economica e culturale che interessi una comunità urbana e ognuno dei suoi componenti.
Il CALP e MFP hanno tracciato un percorso che va in questa direzione, e non solo in questo magico fine agosto, da molto prima. Non sono gli unici, certo; la galassia dell’azione secondo coscienza è molto più ampia e in minima misura se ne è data visibilità qui.
La condivisione di principi, metodologie applicative, obiettivi da raggiungere (per poterli subito dopo superare) dovrebbe essere la linea da seguire. Se si vuole parlare di rete, questa deve essere vista, come scrisse Bruno Latour, non tanto come network (il lavoro delle reti), ma come worknet (la rete dei lavori), dando centralità al produrre che genera e amplia le reti, piuttosto che alle reti che generano lavori.
È un impegno che dovremmo prenderci, per provare a contrastare lo scenario che ha descritto Temelkuran, con la consapevolezza che si tratti di un percorso molto lungo. Come per la Global Sumud Flotilla, che un buon vento ci gonfi le vele.
* Stefano Rota è un ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. La sua più recente pubblicazione collettiva è La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online di lingua italiana e portoghese.
APPUNTAMENTI: ROMA, 8 SETTEMBRE

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