Tag - antispecismo

Proteggere il lupo cattivo
UN GRUPPO DI PERSONE APPASSIONATE DELLA NATURA E DEL LUPO HA SCRITTO UNA LETTERA APERTA DAL TITOLO “BASTA FAKE NEWS SUL LUPO” PER METTERE IN DISCUSSIONE L’IMMAGINE, ALIMENTATA DA INFONDATI ALLARMISMI, PERCEPITA DALLE PERSONE COMUNI CHE È UNICAMENTE QUELLA DEL LUPO CATTIVO. OCCORRE RIBADIRE UNA REALTÀ SEMPLICE, DICE LA LETTERA CHE RACCOGLIE INTERVENTI DIFFERENTI SOTTOSCRITTI DA DIVERSE ASSOCIAZIONI: IL LUPO È UN PREDATORE CHE, SE LASCIATO IN PACE, NON RAPPRESENTA ALCUN PERICOLO VERSO L’ESSERE UMANO PERCHÉ NON È CONCEPITO DAL LUPO COME UNA POSSIBILE PREDA. “È TEMPO DI ABBANDONARE L’IMMAGINARIO DEL LUPO MANGIATORE DI NONNE E BAMBINE INDIFESE CHE DEBBONO ESSERE SALVATE DALL’UOMO ARMATO DI FUCILE E RACCONTARE AI BAMBINI ALTRE VERSIONI E ALTRE STORIE – SCRIVE BRUNA BIANCHI, TRA LE AUTRICI DELLA LETTERA APERTA – CHE LI AIUTINO NON GIÀ AD ACCETTARE L’UCCISIONE, MA CHE PARLINO DI RISPETTO E AMMIRAZIONE, CHE ALLARGHINO LA MENTE E IL CUORE, COME LE STORIE TRATTE DALLA RICCA TRADIZIONE DELLA CULTURA DEI NATIVI AMERICANI E DEGLI ESQUIMESI, O COME LA FIABA CHE LEV TOLSTOJ SCRISSE NEL 1908, IL LUPO…”. A PROPOSITO, CONOSCIAMO QUELLA FIABA? Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- “Gentilissimi tutti, con la presente, in qualità di esperti e cittadini impegnati da tempo per un corretto rapporto fra fauna selvatica e attività umane, desideriamo proporre elementi di necessaria considerazione perché sia fornita all’opinione pubblica un’equilibrata e obiettiva informazione sul lupo scevra da sensazionalismi ed elementi privi di riscontro scientifico.  Negli ultimi anni, la comunicazione messa in atto da molti giornalisti si è dimostrata totalmente priva di nozioni scientifiche, e al contempo colma di inesattezze, nonché di notizie non corrispondenti al vero, basti vedere gli innumerevoli articoli nei quali si parla di fantomatiche reintroduzioni del lupo, quando in realtà, la sua espansione è frutto solo ed esclusivamente di dinamiche naturali, o ai tantissimi casi di cani lupi cecoslovacchi che vengono puntualmente spacciati per lupi, o ai tanti testi filo-allarmistici corredati da titoloni a lettere cubitali “Allarme lupi”, “ALLARME! Lupi avvistati in zone urbane, LA GENTE HA PAURA” , e così via. Crediamo fermamente che ci sia bisogno di una comunicazione basata sulla consapevolezza e sul rispetto, sia nei confronti di un animale selvatico che è, a tutti gli effetti, un componente fondamentale per l’equilibrio ecosistemico, e sia nei confronti degli utenti che, invece di imparare, ricevono e assorbono questi scritti in maniera totalmente sbagliata e nociva, l’immagine che viene percepita dalla collettività è unicamente quella insana del lupo cattivo e non per quello che è realmente, un predatore ma che, se lasciato in pace, non rappresenta alcun pericolo verso l’essere umano, in quanto quest’ultimo non è concepito dal lupo come una possibile preda. -------------------------------------------------------------------------------- “Negli ultimi tempi assistiamo a una crescente diffusione di notizie allarmistiche sui lupi, spesso prive di un reale fondamento scientifico e basate su episodi decontestualizzati. Titoli sensazionalistici e immagini di lupi avvistati vicino ai centri abitati generano paure infondate tra i cittadini, contribuendo a una percezione distorta della realtà. I lupi, come confermato da studi scientifici e dagli enti di tutela della fauna, non rappresentano un pericolo per l’uomo. Sono animali schivi, il cui ritorno nei nostri territori è segno di un ecosistema più sano. L’aumento degli avvistamenti è dovuto, oltre alla maggiore disponibilità di cibo, anche alla diffusione di fototrappole, videocamere di sorveglianza e smartphone, che permettono di documentare situazioni che in passato passavano inosservate. Inoltre, il disturbo causato da alcune attività umane – come la caccia, il taglio indiscriminato dei boschi, la frammentazione degli habitat e il consumo di suolo – li costringe sempre più spesso a uscire allo scoperto e ad avvicinarsi ai centri abitati. Partecipare agli eventi organizzati da esperti, associazioni di volontari, guardie ecologiche e polizia locale addetta alla fauna selvatica aiuta a conoscere meglio la biologia del lupo. Ad esempio, un aumento degli avvistamenti si registra nei primi mesi dell’anno, quando i giovani lupi in dispersione, non trovando un territorio libero, si avvicinano temporaneamente alle attività umane. Questa fase è naturale e transitoria: come arriva un giovane lupo, così se ne andrà, talvolta nello stesso giorno o nel giro di poche settimane. A queste considerazioni, si unisce la mia diretta esperienza sul campo e di tanti altri che vivono i territori selvatici Come ricercatore e fotografo naturalista da oltre 40 anni, posso affermare con certezza: i lupi non sono un pericolo per noi umani. Pur entrando spesso nei loro territori, non ho mai avvertito la minima sensazione di essere attaccato, anzi mi sono sentito io l’intruso. Al contrario, il mio unico timore deriva da alcuni animali umani, in particolare coloro che svolgono l’attività venatoria (legale e illegale). L’incontro con cacciatori o pescatori illegali, anche in aree protette, in qualsiasi periodo dell’anno, è ciò che realmente mi spaventa e mi fa sentire in pericolo mentre attraverso i boschi e i sentieri del nostro bel Paese. Per questo motivo, invitiamo gli addetti stampa e i giornalisti a consultare esperti locali o nazionali di fauna selvatica prima di pubblicare notizie allarmistiche. Questi professionisti saranno lieti di fornire informazioni corrette, consentendo di realizzare articoli basati su dati scientifici. Chi legge saprà apprezzare nel tempo un’informazione responsabile e affidabile. La protezione dell’ambiente, e quindi anche dei lupi, dipende molto dalla qualità dell’informazione diffusa dai giornali, dai siti web, dai social e da tutti i media. Attenersi ai fatti e rispettare l’articolo 9 della Costituzione italiana, che sancisce la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, non è solo un dovere professionale, ma un atto di responsabilità verso le future generazioni. Chiediamo ai media e ai politici di trattare l’argomento con maggiore attenzione, consultando esperti e diffondendo informazioni corrette. Creare allarmismo non solo danneggia la percezione di questa specie protetta, ma alimenta tensioni inutili tra cittadini e istituzioni” (Antonio Iannibelli – Fotografo naturalista, guardia ecologica volontaria, studioso di lupi) -------------------------------------------------------------------------------- “La paura del selvatico, in questo caso del lupo, non è biologica, ma culturale. Ovvero non appartiene alla nostra storia bio-evolutiva di animali umani, ma da una cultura oscurantista lunga secoli se non millenni, che oggi è il caso di lasciare all’oblio del tempo. Diversamente da quanto narrato infatti, i nostri antenati preistorici non vivevano nella paura, ma nell’animalità, cioè avevano piena conoscenza del mondo naturale. Noi a quel modo di percepire e vivere il mondo dobbiamo, anzi abbiamo l’obbligo etico, di riferirci. Per questo la conoscenza dei lupi, ma anche di altri selvatici, dovrebbe essere quasi scuola dell’obbligo. Invece delle inutili ore di religione o educazione fisica, andrebbero introdotte nelle scuole ore di educazione all’animalità. In questo senso anche i media possono, devono, fare la loro parte, evitando di seminare terrore antiscientifico, ma invece spronando a conoscere, ad usare un ragionamento scientifico, a tornare ad una logica animale che noi tutti possediamo dalla nascita, ma che ignoriamo, dimentichiamo, neghiamo. I lupi rappresentano un valore, soprattutto in questi tempi oscuri, un valore per l’ambiente, per la biodiversità, per la società”. (Francesco De Giorgio – Etologo antispecista. Presidente di Sparta Riserva dell’Animalità)  -------------------------------------------------------------------------------- Per tutti i motivi sopra riportati, riteniamo che sia di fondamentale importanza, soprattutto in un momento così critico e nefasto per la fauna selvatica, che i giornalisti si avvalgano di quel principio fondamentale chiamato etica, e che si adoperino in una comunicazione sana ed equilibrata, come deontologia comanda, onde evitare allarmismo, isteria collettiva e gente che si sentirà legittimata ad agire con metodi subdoli e irrispettosi delle leggi vigenti. -------------------------------------------------------------------------------- “Il Lupo (Canis lupus) è tutelato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 12 della Direttiva n. 92/43/CEE sulla salvaguardia degli habitat naturali e seminaturali, la fauna e la flora, rientrando negli allegati II e IV, lettera a) ed è specie particolarmente protetta ai sensi dell’art. 2 della legge n. 157/1992 e s.m.i. È, inoltre, tutelato in quanto presente nell’Allegato II della Convenzione internazionale relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa (Berna, 19 settembre 1979), esecutiva in Italia con la legge n. 503/1981. L’uccisione di un esemplare di Lupo è sanzionata penalmente dall’art. 30 della legge n. 157/1992 e s.m.i., in caso di uccisione da parte di soggetto privo di autorizzazione alla caccia può integrare anche il reato di cui all’art. 625 cod. pen. (furto aggravato ai danni dello Stato). La diffusione di notizie false o tendenziose riguardo il Lupo può integrare gli estremi dell’art. 656 cod. pen., mentre il procurato allarme può integrare gli estremi previsti nell’art. 658 cod. pen.” (Gruppo d’Intervento Giuridico Onlus – Associazione ambientalista)  -------------------------------------------------------------------------------- “Ultimamente, affrontare serenamente il tema legato alla tutela della Natura, sembra essere un’ impresa davvero ardua; ci si siede un attimo, si accede ai social con la speranza di estraniarsi da tutte le notizie nefaste inerenti alle guerre, ai femminicidi, alla criminalità che, ormai, ha raggiunto livelli inenarrabili, agli innumerevoli fatti di cronaca nera che purtroppo vedono coinvolti anche tantissimi bambini, e ci si trova, invece, a essere letteralmente bombardati da articoli sul lupo, o meglio, contro il lupo, un continuo martellamento che ha la funzione di una vera e propria coercizione cognitiva, lupi descritti come demoni enormi e cattivi, lupi onnipresenti e famelici, lupi, e ancora lupi… Essendo un’assidua frequentatrice di boschi, sinceramente, non ho mai riscontrato pericolosità negli animali selvatici che, nella maggior parte delle volte, si sono dimostrati elusivi, schivi e non interessati alla mia persona, anzi, mi è capitato, più e più volte, di vederli scappare via non appena si fossero resi conto della mia presenza; fortunatamente, la comunicazione fuorviante messa in atto da molte testate giornalistiche, non mi ha portata a rinunciare alla mia passione: conoscere, studiare e difendere la Vita selvatica. Oggi come oggi, in un mondo reale davvero violento, è necessario che ogni testata giornalistica si esprima in rispetto di tutti gli utenti che, come me, desiderano essere informati in maniera corretta, e non resi “schiavi” di paure ataviche e ingiustificate. Credo fermamente che sia doveroso, da parte di chi gestisce le testate giornalistiche sui social, intervenire tempestivamente onde alienare e condannare i commenti di tutti coloro che istighino al bracconaggio, o che, in qualche maniera usino un linguaggio offensivo e irrispettoso, anche questi sono forme di violenza a tutti gli effetti che vengono percepite, e assorbite, da tanti minorenni lasciati, purtroppo, da soli davanti a un cellulare, o a un PC che sia, c’è davvero bisogno di una comunicazione costruttiva e istruttiva, la prepotenza e sopraffazione non devono essere tollerabili, è innegabile che una comunicazione faziosa e fuorviante sia causa di comportamenti scellerati, e persino di atti illeciti; camminate tranquillamente nei boschi, ma prestate attenzione agli esseri umani che sono soliti lasciare montagne di rifiuti, appiccare incendi, a commettere altri gravissimi reati , e queste pratiche non appartengono di certo alla fauna selvatica che, se lasciata in pace, non rappresenta fonte di pericolo, basta rispettare alcune regole come quella di non dare cibo, non inseguire, non disturbare, non avvicinarsi, e tenere i nostri cani al guinzaglio, per il resto, Viva il lupo! (Daniela Stabile – Attivista/volontaria, appassionata di fauna selvatica, ma prima di tutto un’utente che respinge fortemente gli attacchi incessanti alla propria mente, e al lupo)  -------------------------------------------------------------------------------- “Chi ha paura del lupo?” IO VOGLIO MOLTO BENE AL LUPO, poiché è il migliore amico del nostro popolo; oltre a ciò, egli ulula alla luna e per questo motivo ci dona gioia. Mi piace, come lui parla con noi. Il lupo è realmente il nostro migliore fratello. Egli ulula di notte, e noi ce ne rallegriamo. Fa un bel suono Il suo modo di ululare. (Recheis-Bydlinski, Sai che gli alberi parlano?, 2011, p. 100). Così ha scritto un bambino di nove anni in una delle “scuole di sopravvivenza” fondate negli anni Settanta del Novecento per i nativi americani. Lì Eddie Jaye Benton ha potuto conservare una cultura millenaria di ammirazione, rispetto, reverenza per ogni creatura vivente, in particolare per il lupo, l’animale che nella cultura occidentale è stato demonizzato, torturato e perseguitato per secoli con un accanimento che non ha eguali. Un tale rovesciamento completo di civiltà oggi sta raggiungendo il suo apice. L’immagine demoniaca del lupo, predatore insaziabile che non risparmia gli umani, riemerge con insistenza nei media. Perché questa irresponsabile campagna di denigrazione basata su disinformazione, immaginari antichi, fantasie di invasione e sull’idea di un nemico irriducibile con il quale la convivenza è impossibile e la cui sola esistenza è pericolosa? Chi la fomenta e a chi giova? Da dove proviene, in particolare la rabbia degli allevatori, come quella suscitata da un disegno infantile, apparso sul “Diario amico” , una pubblicazione distribuita nelle scuole del Verbanio Cusio Ossola, che ritrae mucche in atteggiamento di protesta contro il loro sfruttamento, invita a mangiare frutta e verdura, osa dire la verità, ovvero che gli allevamenti sono crudeli? A far esplodere la rabbia sono state alcune frasi di una bambina di 12 anni scritte a corredo del disegno, eppure, del “Diario amico” si è chiesta la soppressione e la questione è stata portata al Parlamento. È “l’ideologia vegan-animalista”, a parere della CIA-Agricoltori delle Alpi, a dover essere bandita dalle scuole, una “ideologia” che descrive il bosco (la natura, la vita) come un luogo dove si possono incontrare “simpatici animali”, ma in cui si annida il predatore. La paura è sempre stato il mezzo privilegiato per esercitare il dominio specie sull’infanzia, ma bambini e bambine, come antidoto alla paura hanno la risorsa della compassione, si identificano istintivamente con l’animale sfruttato e maltrattato e, a differenza di tante persone adulte, non sono inclini all’apatia e all’indifferenza. La compassione può essere offensiva solo in un mondo dominato dalla violenza, da una visione della vita come teatro di lotta, guadagno e affermazione di potere. E dovremmo dire loro anche che gli animali sono oggetti, che esistono solo per la nostra utilità? Si possono uccidere per svago o per nutrirsene, anche se non è per noi una questione di sopravvivenza? Non è del lupo che dobbiamo avere paura, ma di questa volontà di soffocare anche il più piccolo segno di protesta che non esita a ricorrere all’intimidazione dell’infanzia, comportamento ben poco onorevole. I messaggi rivolti all’infanzia, infatti, sono in misura crescente rivolti all’uccisione: è giusto nutrirsi di animali tormentati e uccisi, è doveroso accettare la guerra, è un piacere la caccia, il tutto ammantato di false teorie e distorsioni. È tempo di abbandonare l’immaginario del lupo mangiatore di nonne e bambine indifese che debbono essere salvate dall’uomo armato di fucile e raccontare ai bambini altre versioni e altre storie che li aiutino non già ad accettare l’uccisione, ma che parlino di rispetto e ammirazione, che allarghino la mente e il cuore, come le storie tratte dalla ricca tradizione della cultura dei nativi americani e degli Esquimesi, o come la fiaba che Lev Tolstoj scrisse nel 1908, Il lupo, in cui il romanziere e autore influente di pedagogia antiautoritaria suggerisce ai bambini di rinunciare all’alimentazione carnea e coltivare un rapporto con la natura improntato alla nonviolenza.  Invece di dare risonanza a infondati allarmismi, di far risuonare l’eterno grido “Al lupo! Al lupo!”, la stampa potrebbe avere un ruolo importante nel contrastare la spirale della violenza: raccogliere e diffondere voci diverse e tratte da diverse fonti, ad esempio dando conto di quelle ricerche che hanno dimostrato come la riduzione del numero dei lupi non incida che in percentuale minima sull’uccisione di pecore e bovini, o quelle che hanno accertato che i lupi isolati, senza il supporto di un branco decimato dalla caccia, non possono che rivolgersi agli animali domestici. E in altri mille modi che la sensibilità e l’informazione rigorosa di giornalisti e giornaliste potranno suggerire loro”. (Bruna Bianchi – Docente di Storia delle donne e Storia del pensiero politico all’Università Ca’ Foscari di Venezia, studiosa del pacifismo, del femminismo e della nonviolenza, scrive costantemente su Comune) -------------------------------------------------------------------------------- Con la speranza che si possa intraprendere un cammino davvero istruttivo, e certi di un’ ampia collaborazione da parte dei signori giornalisti affinché il lupo, la fauna selvatica, e gli stessi esseri umani, smettano di essere strumentalizzati, porgiamo i nostri più cordiali saluti. Le parti scriventi: Bruna Bianchi, Daniela Stabile, Stefano Deliperi, Antonio Iannibelli, Francesco De Giorgio, Sottoscrivono il testo le seguenti associazioni: AVC Associazione Vittime Italian Wild Wolf Network, Gruppo D’ Intervento Giuridico, Sparta Riserva Dell’ Animalità, CABS Italia, l’antibracconaggio  -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI BRUNA BIANCHI: > I lupi, la caccia, la guerra -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Proteggere il lupo cattivo proviene da Comune-info.
20…25 2025 – L’arte di far tremare il patriarcato
IN QUESTO PODCAST PUBBLICHIAMO LE GRAFICHE CHE CI SONO ARRIVATE DELLU ARTISTX CHE HANNO RISPOSTO ALLA CHIAMATA ALLE ARTI DI FERMARE IL PATRIARCATO La grafica di Dima Zovich che è diventate la copertina del podcast della puntata di TRANSfemmINonda del 22 novembre 2025. Come sempre interpreta alla perfezione i titoli e gli slogan dello spazio radio di TRANSfemmINonda e QUEERzionario e dell’assemblea Corpi e Terra Arya ci ha mandato una delle sue foto accompagnata da questo audio foto di Arya le grafiche di Marea la foto di Tina con l’audio che ce la presenta Tina foto aggiungiamo queste grafiche condivise nella lista NUDM proposte dall’assemblea territoriale di Padova e quella di Jenny che ha fatto la copertina per la chiamata alle firme contro lo sfratto di Agripunk perché quando parliamo di liberazione parliamo di liberazione dei corpi tutti! Ringraziamo tutte le persone per aver contribuito con la loro arte a fermare il patriarcato
Siamo tutt3 Agripunk: firmiamo e fermiamo lo sfratto!
#AGRIPUNK NON SI SFRATTA #AGRIPUNKBENECOMUNE FIRMIAMO LA PETIZIONE SU CHANGE.ORG Vuoi saperne di più? Ascolta il nostro audio … sentirai le voci di Mari e di tantx compa dell3 Reiett3, la collettiva transfemminista e antispecista di Pisa che insieme all’assemblea Corpi e Terra di NON unə di meno sostiene la campagna #Agripunknonsisfratta audio articolo Agripunk FIRMATE Ti ricordiamo anche che ci sono tanti altri modi per sostenere questa campagna per cui ti rimandiamo alla pagina INSTAGRAM e al sito di Agripunk
Associazione Ecofilosofica di Treviso organizza 5 incontri su ecosofia, decrescita, antispecismo e fitoalimurgia
> L’Associazione Ecofilosofica di Treviso organizza 5 incontri su ecosofia, > decrescita, antispecismo e fitoalimurgia. Ecco di seguito i 5 appuntamenti tra > novembre e dicembre 2025. > > Domenica 23 novembre ore 18, presso Libreria Lovat: LA GRANDE TRANSIZIONE. IL > DECLINO DELLA CIVILTA’ INDUSTRIALE E LA RISPOSTA DELLA DECRESCITA (Bollati > Boringhieri) con l’autore Mauro Bonaiuti (Univ. di > Torino) https://www.filosofiatv.org/eventi_files/572_Mauro% > 20bonaiuti%20locandina.pdf > > Sabato 29 novembre ore 15, presso Centro Kennedy (Villorba): PIANTE CURATIVE E > CULINARIE, con Silvana Busatto https://www.filosofiatv.org/ > eventi_files/573_piante%20curative%202%20.pdf > > A seguire, 3 incontri (su piattaforma on line) della serie PLURIVERSO: UNA > COSMOVISIONE PER LA DECRESCITA > > Mercoledì 3 dicembre ore 21: PANIKKAR – LATOUCHE: PER USCIRE DAL PENSIERO > UNICO con Gloria Germani e Lorenzo Poli > > Mercoledì 10 dicembre ore 21: DECRESCITA E ECOLOGIA PROFONDA con Fabio Balocco > e Guido Dalla Casa > > Mercoledì 17 dicembre ore 21: CICLO DELLA CARNE, ANTISPECISMO E DECRESCITA con > Adriano Fragano (Veganzetta) e Paolo Scroccaro > > Ecco la locandina dei 3 incontri, con indicazioni per > accedere: https://www.filosofiatv.org/eventi_files/574_locandina% > 20pluriverso-1.pdf   in collaborazione con Pressenza International Agency, > Assoc. Tutto è Uno, Decrescita Felice Social Network (vai al nuovo > sito www.decrescita.com ) > > QUADERNO DI ECOFILOSOFIA n. 81 – autunno 2025: qui trovate la copertina con > l’indice completo. Uno strumento indispensabile per orientarsi nel contesto > odierno  https://www.filosofiatv.org/eventi_files/571_QUADERNO% > 2081%20copertina.pdf > > PRO-MEMORIA per gli interessati/e: chi non si è mai associato/a e desidera > iscriversi alla Associazione (o solo ricevere per 12 mesi i Quaderni di > Ecofilosofia), è invitato a compilare il modulo di riferimento e ad inviarlo > a info@filosofiatv.org , lo trovate qui http://www.filosofiatv.org/ > eventi_files/499_491_DOMANDA%20DI%20ISCRIZIONE%20AEF.pdf > > > ECOFILOSOFIA PER UN PENSIERO CRITICO ADATTO AL NOSTRO TEMPO: NEWS E > > DOCUMENTI – novembre 2025   www.filosofiatv.org    info@filosofiatv.org > > Vuoi collaborare e proporre dei materiali in  sintonia  con i nostri > orientamenti culturali? Scrivi a info@filosofiatv.org > > ASSOCIAZIONE ECO-FILOSOFICA Redazione Italia
[2025-11-06] Futuro Multispecie - Corpi, Terra e Giustizia Climatica @ La Carretteria Santa Libbirata
FUTURO MULTISPECIE - CORPI, TERRA E GIUSTIZIA CLIMATICA La Carretteria Santa Libbirata - Via Galeazzo Alessi, 96, 00176 Roma RM (giovedì, 6 novembre 19:00) 🦠 Verso il Climate Pride, la street parade nazionale del 15 novembre a Roma per chiedere giustizia climatica e sociale alla COP30, ci incontriamo per una serata di riflessione, condivisione e azione collettiva. Presentazione del libro Eva Virale con la Prof.ssa Angela Balzano Tra econtransfemminismo e resistenza, esploreremo storie di virus, corpi e comunità che si prendono cura del pianeta e si oppongono all’ingiustizia climatica. Cena sociale e DJ Set Un momento conviviale per incontrarci e chiudere la serata danzando verso un futuro interconnesso e multispecie. Ci vediamo il 6 novembre a partire dalle 19 presso Santa Liberata - La Carretteria (Via Galeazzo Alessi 96 - Roma)
I lupi, la caccia, la guerra
SI MOLTIPLICANO IN MOLTE PARTI DEL MONDO LE PRESSIONI PER LA LIBERALIZZAZIONE COMPLETA DELLA CACCIA. IN ITALIA, IL DDL SULLA CACCIA ORA IN DISCUSSIONE AL SENATO, UN’AGGRESSIONE SENZA PRECEDENTI ALLA FAUNA SELVATICA, SI INSERISCE IN QUESTO CONTESTO GENERALE DI ASSALTO ALLA NATURA. FORSE NESSUN ALTRO ANIMALE È STATO TANTO ESECRATO E DEMONIZZATO DALL’UNIVERSO DEI CACCIATORI COME IL LUPO. SCRIVE BRUNA BIANCHI: “NELLA VISIONE PATRIARCALE DELLA VITA FONDATA SULLA VIOLENZA, LE RISPOSTE AI PROBLEMI CAUSATI DALL’INTERVENTO UMANO SULLA NATURA – ESTRATTIVISMO, DEFORESTAZIONE, DEFAUNIZZAZIONE – SI PRESENTANO SEMPRE NELLA FORMA DELLA DISTRUZIONE E INNALZANO IL GRADO DELLA VIOLENZA… L’ANALOGIA TRA CACCIA È GUERRA NON È UNA SEMPLICE CORRELAZIONE TRA ATTIVITÀ SIMILI, ESSE SONO LEGATE DALLA STESSA VISIONE DELLA VITA E DELLA NATURA COME TEATRO DI LOTTA, CONQUISTA E AFFERMAZIONE DI POTERE… LA LIBERALIZZAZIONE DELLA CACCIA È UN ASPETTO DEL PROCESSO DELLA MILITARIZZAZIONE VOLTO A PROMUOVERE E RAFFORZARE UN MODELLO DI MASCOLINITÀ EGEMONICA…”. unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- [I lupi, la caccia, la guerra1] Mentre la perdita di habitat, il cambiamento climatico, l’inquinamento, e non da ultimo le guerre decimano la fauna selvatica, si moltiplicano in molte parti del mondo le pressioni per la liberalizzazione pressoché completa della caccia infrangendo le barriere erette grazie all’impegno di tanti attivisti e attiviste e al sostegno di gran parte dell’opinione pubblica. Ciò sta avvenendo in Europa, in Svezia, negli Stati Uniti, in Australia. In alcuni stati africani sono stati eliminati i divieti alla caccia all’elefante per il commercio dell’avorio e dei trofei e in Tanzania la popolazione Masai viene espulsa dalle sue terre con lo scopo di trasformarle in riserve di caccia. Contemporaneamente in molti paesi i progetti di reinserimento di lupi e orsi, che a partire dagli anni Novanta avevano favorito il ripristino del naturale equilibrio tra prede e predatori, sono stati interrotti, i loro scopi ripudiati, i loro risultati compromessi o annientati. In Italia il Ddl ora in discussione al Senato, contro il quale si sono schierate 55 associazioni, mai ascoltate nelle fasi di elaborazione del provvedimento, si inserisce in questo contesto generale di aggressione alla natura. Esso prevede la possibilità di cacciare ai valichi montani per abbattere gli uccelli migratori diretti verso i luoghi di nidificazione, nelle zone protette, in aree demaniali e lungo i fiumi; si potranno prendere di mira uccellini di pochi grammi, utilizzare richiami vivi e della loro cattura fare commercio. Se approvata, una tale liberalizzazione avrà gravissime ripercussioni sulla biodiversità, accelererà processi di estinzione, aumenterà l’inquinamento da piombo, richiamerà sul territorio italiano i cacciatori di altri paesi, rafforzerà il potere dei produttori di armi e la loro influenza politica2. Le conseguenze più gravi saranno quelle sul piano morale poiché il Ddl favorisce un modo di intendere il posto dell’umanità nel mondo improntato alla violenza, alla sopraffazione, all’avidità; induce a sopprimere sentimenti di empatia e legittima la crudeltà come fonte di piacere. Per quanto riguarda i grandi predatori, anche in Italia i progetti di reinserimento, che negli ultimi decenni avevano consentito loro di riabitare una piccola parte delle terre che avevano percorso per secoli, sono sotto attacco. Il numero attuale dei lupi, valutato in 20.000 in tutta Europa, è stato considerato insostenibile. La recente direttiva approvata dal Parlamento europeo, e riconosciuta dal governo italiano come conforme all’interesse nazionale, ha già declassato il lupo da specie “strettamente protetta” a specie protetta, primo passo verso la caccia indiscriminata. Viziata da una visione antropocentrica e dalla logica del dominio, la direttiva lamenta l’aumento delle aggressioni a greggi e armenti e ignora alcune delle sue cause più rilevanti, ovvero la riduzione delle prede naturali dei lupi in conseguenza di caccia indiscriminata e bracconaggio. Nel “nostro” mondo non c’è posto per il lupo né per gli orsi che, reintrodotti nel Trentino, ora si vorrebbero ancora una volta sradicare. Se i grandi predatori minacciano gli allevamenti, ostacolano l’agricoltura, l’espansione edilizia e della viabilità, se si avvicinano alle abitazioni, sottraggono le prede ai cacciatori, occupano spazi destinati al turismo, la guerra aperta è dichiarata, una guerra che in un contesto di gravissima crisi ecologica non può che tendere all’estinzione. Caccia ed estinzioni Quando la Caccia inizia non c’è futuro per nessuno di noi perché il mondo [dell’animale] che si restringe è anche il nostro. (Visionary Night) Così ha scritto in una lunga poesia dedicata all’orso Sara Wright, ecofemminista, etologa e psicoanalista junghiana. La caccia – per divertimento o commercio – spinge sull’orlo del collasso interi ecosistemi e aggrava costantemente processi di estinzione. L’estinzione di una specie animale, risultato di millenni di evoluzione, è al contempo estinzione dell’esperienza umana nella natura, una alienazione che affligge in particolare i bambini e i ragazzi3. Con l’estinzione di una delle creature che abitano la Terra, il suo modo di vivere e sentire, la sua presenza, la sua voce, una parte del mondo scompare. “Ogni sensazione di ogni essere vivente, ha scritto Vinciane Despret, è un modo attraverso il quale il mondo vive e percepisce sé stesso e attraverso il quale esiste”. Questo senso di dolorosa perdita è stato così espresso dall’ornitologo statunitense William Beebe in un passo posto ad esergo a L’ultimo dei chiurli, un’opera dedicata all’uccellino europeo migratore: La bellezza e il genio di un’opera d’arte possono essere ricreati, anche se la sua prima espressione materiale è andata distrutta; un’armonia svanita può ancora ispirare il compositore, ma quando l’ultimo esemplare di una specie di esseri viventi cessa di respirare, un altro cielo e un’altra terra devono passare prima che uno così possa esistere di nuovo4. Dal chiurlo dal becco sottile, al piccione migratore, dal giaguaro alla tigre della Tasmania, dalla foca dei Caraibi, al lupo delle Falkland, al canguro notturno, all’aquila di mare, l’elenco degli esseri che non rivedremo mai più si allunga di giorno in giorno e la caccia ne è in molti casi la principale responsabile. La guerra al “nemico animale” e il suo sterminio – insetti, lupi, bisonti, volpi volanti, orsi, linci, e molte altre specie – condotta come ogni guerra in nome del diritto all’“autodifesa”, ha trascinato sull’orlo del collasso interi ecosistemi che sostengono la vita umana e non umana. Già Rachel Carson nel 1962 in Primavera silenziosa aveva ammonito sulle “disastrose conseguenze cui si va incontro quando si tenta di sconvolgere gli ordinamenti della natura”. La biologa statunitense non si riferiva solo agli insetti insensatamente sterminati con i pesticidi, un “elisir di morte” che stava compromettendo la rete della vita, ma anche ai cervi kaibab dell’Arizona che in seguito alla eliminazione di lupi, coyote e puma, si erano moltiplicati a tal punto da non trovare più vegetazione con cui sostentarsi; e mentre i suoli si andavano degradando, i cervi “cominciarono a morire in numero maggiore di quello che nel passato finiva nelle fauci dei predatori”5. A causa dell’incapacità di comprendere la complessità delle interrelazioni tra i viventi, dei processi ecologici ed evolutivi, di sentirsi parte della comunità planetaria, la forza generativa del pianeta si sta esaurendo. L’accelerazione di questi processi non a caso ha coinciso con l’aumento della conflittualità a livello internazionale e con la corsa al riarmo. “La caccia, perfetta immagine della guerra senza colpevolezza”6 Nella visione patriarcale della vita fondata sulla violenza, le risposte ai problemi causati dall’intervento umano sulla natura – estrattivismo, deforestazione, defaunizzazione – si presentano sempre nella forma della distruzione e innalzano il grado della violenza. Come la competizione per l’accaparramento delle ultime risorse sfocia guerre sanguinose e genocidi, così la lotta per l’ultimo animale, per scovarlo e ucciderlo in ogni luogo e stagione, tende a varcare ogni limite. L’analogia tra caccia è guerra non è una semplice correlazione tra attività simili, esse sono legate dalla stessa visione della vita e della natura come teatro di lotta, conquista e affermazione di potere. Cacciare gli animali per divertimento insegna agli uomini a godere del senso della vittoria, a versare il sangue senza sentirsene colpevoli, tanto che si può affermare che la liberalizzazione della caccia è un aspetto del processo della militarizzazione volto a promuovere e rafforzare un modello di mascolinità egemonica e militarizzata, personalità inclini a oggettivare gli esseri viventi considerandoli prede, siano esse animali, donne o ogni possibile “nemico”. Ha scritto Andrée Collard nel suo classico saggio sulla caccia dal punto di vista ecofemminista,Shots in the Dark: Alla base [della] caccia c’è un meccanismo che identifica la preda, la insegue, compete per essa e si impegna a colpirla per primo. Questo avviene in modo palese quando la preda si chiama donna, animale o terra, ma si estende a qualsiasi fobia che si impadronisca e ossessioni una nazione, che si tratti di un’altra nazione o di una razza diversa da quella dei gruppi al potere. La caccia, com’è noto, è stata considerata un eccellente addestramento alla guerra e l’immagine della guerra come impresa sportiva ha una lunga storia. Per indurre i giovani a lanciarsi nell’avventura della morte, occultare le sofferenze, i traumi, le mutilazioni, le ferite, le vite stroncate, la guerra è stata spesso descritta con immagini derivate dalle scene di caccia, una attività piacevole, virile, avventurosa e, soprattutto, eterna, ancestrale e come tale indiscutibile. Questa interpretazione della caccia nelle sue connessioni con la guerra come importante stadio evolutivo, sostenuta da una lunga serie di false teorie sviluppatesi negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, ma già da lungo tempo è stata screditata7, negli ultimi anni sta riemergendo. Valga per tutti l’esempio biologo statunitense Jim Heffelfinger, già impegnato nelle agenzie federali per la “conservazione” della fauna selvatica, che nel suo articolo dal titolo La caccia è una questione di sicurezza nazionale, ha scritto: La coevoluzione tra caccia e mentalità guerriera può essere tracciata come un filo ininterrotto lungo tutto lo sviluppo della nostra razza umana. Alcuni hanno ipotizzato che lo sviluppo di un linguaggio complesso e di un pensiero astratto negli esseri umani sia dovuto alla necessità di pianificare strategie di caccia coordinate. Si tratta delle stesse abilità possedute dai migliori guerrieri. Ma anche un semplice contadino abituato a cacciare poteva diventare un buon soldato. A conferma di ciò portava l’esempio di un giovane del Tennessee: Ho eliminato prima il sesto uomo; poi il quinto; poi il quarto; poi il terzo; e così via. È così che spariamo ai tacchini selvatici a casa. Vede, non vogliamo che quelli in prima linea sappiano che stiamo prendendo quelli dietro, così loro continuano ad arrivare finché non li prendiamo tutti. La testimonianza si riferiva ai campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Oggi, concludeva il biologo, “con la crescente popolarità delle armi da fuoco, comprese le varianti AR-15 (fucili semiautomatici leggeri), il futuro del nostro esercito e la forza della nostra sicurezza nazionale appaiono ancora più ottimistici”. Se i cacciatori, dunque, rappresentano una informale riserva militare, è importante coltivare le loro abilità, specialmente nell’uso delle armi, e assecondare le loro passioni. In cosa consistono queste passioni? Molto è stato scritto su questo tema e non è possibile affrontarlo qui, neppure per accenni, ma vale la pena richiamare l’attenzione su alcune tesi avanzate dal filosofo e sociologo José Ortega y Gasset in Discorso sulla caccia, l’opera più letta e influente sulla natura di questa attività, che possono in parte spiegare la ferocia con cui sono stati perseguitati i grandi predatori, in primo luogo i lupi che oggi sono tornati nel mirino dei cacciatori. Lupicidio e genocidio Siamo le ombre dei boschi sussurri argentati che si dissolvono […] prima del mattino. Voci solitarie si uniscono in un canto, nel gemito del vento. La nostra eredità, solo una manciata di echi morenti. (Wolves of Sorrow di Kathleen Malley). La caccia, nella sua essenza, scriveva Ortega nel 1942, è un’affermazione di potere su un essere inferiore, l’animale, il quale non ha una vera vita, ma si “lascia semplicemente vivere”. Stroncare quelle vite non ha quindi alcuna rilevanza sul piano morale. Più oltre nella sua trattazione definiva la caccia una presa di possesso” e “la morte [della preda] è il modo più naturale di possederla”8. Se potere e possesso sono alla base della forza seduttiva ed eccitante della caccia – e per descriverla in molti hanno usato analogie con la sessualità, altro tema che meriterà un’analisi attenta –, quale potere più grande di quello di sentirsi arbitri della vita e della morte di un grande predatore nell’illusione di impadronirsi della sua forza, del suo coraggio, della sua intelligenza, della sua bellezza riducendolo a un mucchio di pelliccia insanguinata? Forse nessun altro animale è stato tanto esecrato e demonizzato come il lupo. Dagli Stati Uniti, alla Russia, all’Europa, all’Asia, la guerra al lupo, perseguita per secoli, a partire dall’Ottocento, con lo sviluppo dell’allevamento e dell’agricoltura, ha assunto i caratteri dello sterminio. Da allora i lupi sono stati uccisi con il fucile, nei boschi, dagli elicotteri e dagli aerei, con i veleni, le tagliole; sono stati feriti e lasciati morire, finiti con il bastone, soffocati per le pelli e i trofei, torturati per odio. I cacciatori cosiddetti “sportivi” sono stati determinanti nello sterminio del lupo. Lo confermano le parole di Aldo Leopold, ecologo, cacciatore, fautore di progetti volti a favorire l’incremento di quelle specie animali che i cacciatori amano uccidere e che convinse i cacciatori “sportivi” a collaborare con i progetti statali di sterminio del lupo e del leone della prateria. Ricordando l’incontro e l’uccisione di una lupa, scrisse: “pensavo che un minor numero di lupi significasse abbondanza di cervi e che zero lupi fosse il paradiso dei cacciatori”. In quel paradiso un predatore sarebbe stato sostituito da un altro, ben più nefasto perché non uccide per la propria sussistenza, ma per il piacere di farlo, e pertanto tendenzialmente senza alcun limite. La caccia non ha solo spinto alcuni tipi di lupi nella “nera notte dell’estinzione” – come quelli originari di alcune isole giapponesi – e ridotto altri a poche decine di individui, come quelli del lupo arabo e del Messico, non ha solo messo in moto un processo di degradazione ecologica e di estinzione a catena di altre specie animali e vegetali, ma è stata anche strumento del genocidio. È quanto accadde a partire dal 1870 con lo sterminio dei bisonti che percorrevano le Grandi pianure americane, le antiche prede dei lupi e fonte di sostentamento per i popoli nativi. Lupi, bisonti e “indiani” furono sterminati con la stessa determinazione e spietatezza, obbedendo alla stessa logica del “o noi o loro” che non lascia spazio per la coesistenza e la reciprocità. Nelle terre che i bisonti attraversavano fertilizzandole, una volta che furono “liberate” per l’agricoltura e l’allevamento, il dissodamento eccessivo causò l’erosione dei suoli all’origine delle terribili tempeste di sabbia (Dust Bowls) che negli anni Trenta devastarono le regioni centrali degli Stati Uniti, prima manifestazione della crisi ecologica globale che ci affligge oggi. Un esempio più recente è quello dello sterminio dei “cani da slitta” (qimmiiq) – cani discendenti dal lupo bianco artico per il quale il 23 novembre 2024 il governo canadese ha porto le sue scuse alla popolazione Inuit. Al fine di annientare la cultura dei nativi, costringerli ad abbandonare le loro terre, strapparli alla condizione nomade e impiegarli come mano d’opera a basso costo nelle industrie e nelle installazioni militari, tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta nelle regioni artiche del Canada furono uccisi – prevalentemente dalla polizia, ma anche da tanti volonterosi cacciatori, insegnanti, missionari, impiegati governativi – migliaia cani che, trainando le slitte, consentivano agli Inuit di spostarsi per la caccia di sussistenza distruggendo anche un profondo legame affettivo e spirituale con gli animali. Ne offrono una testimonianza toccante le memorie raccolte dalla Commissione di inchiesta promossa dalla comunità Inuit e riprese nel documentario Echo of the last Howl9. Le parole degli anziani rievocano il dolore per la perdita dei loro compagni animali, membri di una famiglia allargata, collaboratori che con la loro impareggiabile conoscenza del territorio erano in grado di valutare lo spessore del ghiaccio, ritrovare la strada di casa in condizioni atmosferiche estreme quando la vista umana era completamente offuscata. Una cultura millenaria, un modo di vita olistico, in cui “gli umani, la neve e i cani” erano “un insieme unico”, sono stati spezzati per sempre dal potere coloniale. Nella visione coloniale e patriarcale della vita biocidio e genocidio sono strettamente connessi, rispondono alla stessa logica: sradicare l’altro da un luogo definito come “proprio”, rimuoverlo dalla realtà al fine di creare un mondo migliore, “a misura d’uomo”. L’uccisione di massa viene quindi immaginata come una “distruzione creativa”, per eliminare gli inutili, i superflui, gli inferiori, i dannosi. Sottesa a questa distruttività è la svalutazione della vita dell’altro, una concezione della natura come cattiva, imperfetta, ostile di cui il lupo è l’emblema temuto e odiato. Da dove deriva il piacere di uccidere? Quali sono le motivazioni che hanno spinto tanti uomini a farsi esecutori dello sterminio? Quali le giustificazioni che hanno addotto? Su questo tema, a cui sarà dedicato un prossimo articolo, si sono soffermati numerosi studi di orientamento ecofemminista che hanno indagato il rapporto tra maschilità e caccia, analizzato scritti e raccolto le testimonianze dei cacciatori sulla loro esperienza e il loro sentire (Andrée Collard, Marti Kheel, Lisa Kemmerer, Brian Luke). Qui mi limito a citare le parole di Jody Emel in un suo saggio sullo sradicamento dei lupi negli Stati Uniti: Si può uccidere per essere un animale, selvaggio, indomito. Esiste anche l’idea che uccidere, con padronanza e maestria, può rendere un uomo più uomo secondo la tradizione del codice venatorio […]. Si può uccidere per calpestare qualcosa che si odia o si invidia: la libertà, la differenza, un posto nel mondo, “essere allo stato selvaggio”. Si uccide anche per depravazione. […]. Uccidere è un modo per mantenere il controllo […] o per obbedire ad un modello di eliminazione metodico, razionale e tecnologico in cui chi se la cava bene è abile, lodevole o, chissà, un cavalleresco avventuriero. È la congiuntura di questi fattori, di queste sovrastrutture a rendere possibile [lo sterminio]. Chi parla per il lupo? Quando, nel 1995, apparve per la prima volta il saggio di Jody Emel, avevano appena preso avvio i programmi di reintroduzione dei lupi. In Idaho, a Yellowstone, i progetti di più vasta portata e di maggior successo, e in generale negli stati dell’Ovest, così come in Canada, coloro che si sono assunti la responsabilità del reinserimento del lupo, sono stati in gran parte i nativi. In Idaho, come scrive Marcie Carter, biologa appartenente ai Nez Perce, essi hanno accompagnato i lupi nelle nuove terre, hanno seguito i processi di adattamento e riproduzione, pubblicato rapporti, dato vita a progetti educativi, una missione intesa come una rinascita spirituale, una occasione per riaffermare e diffondere i propri valori culturali e il loro ruolo nella difesa della biodiversità. “Si camminava con lo zaino in spalla e si ascoltava. È stato fantastico”. Il primo lupo introdotto in Idaho è stato battezzato da una bambina Nez Perce con il nome di “Chat Chaaht”, “fratello maggiore”. Ha scritto Suzanne Stone, impegnata in vari progetti di reintroduzione del lupo in Oregon ispirandosi alla visione dei nativi: Ho seguito le tracce dei lupi, ho ululato con loro, ho pianto la loro scomparsa e ho festeggiato la loro espansione in Oregon, Washington e California. Continuo a pensare che non ci sia niente di più magico in natura del sentire il canto di una famiglia di lupi echeggiare nelle foreste. È una voce che risuona nel profondo del mio essere. Nel corso degli anni ho lavorato a fianco di allevatori, ricercatori, capi tribù, biologi e altri ambientalisti per aiutare tutti noi a imparare a convivere con i lupi e altri animali selvatici. Se siamo riusciti a riportare i lupi, possiamo e dobbiamo ripristinare altre specie autoctone che arricchiscono la biodiversità del mondo. Meritano i nostri migliori sforzi per proteggere il loro futuro come nostri anziani selvatici e hanno ancora tanto da insegnarci sul nostro legame con la terra. Gli stessi sforzi sono stati messi in atto nella protezione degli orsi. Sempre negli anni Novanta, ad esempio, sono stati i capi spirituali di una riserva indiana nel Montana a proibire per primi la caccia e ad acquistare terreni dove gli orsi potessero vivere e riprodursi. Lo racconta David Rockwell, negli anni Ottanta guardia forestale nella riserva che, per favorire forme di convivenza, ha raccolto dalla viva voce dei nativi le storie tramandate per secoli sui loro rapporti con il grande predatore, “il nonno” onorato per almeno 100.000 anni10. Tutte queste storie non sono retaggi di un mondo ormai tramontato, ma rispecchiano una visione che guida ancora l’azione, ispira progetti educativi, storie che hanno ancora molto da insegnarci. Storie per reimparare a vivere sulla Terra “Noi (Piedi Neri) abbiamo un detto: l’arma che spara a un lupo o a un coyote non sparerà mai più dritto” (cit. in Brandy R. Fogg et al., p. 272). Tornare a intendere noi stessi come parte di una comunità ecologica, rispettare gli spazi delle altre creature, provare gioia nell’osservare il loro amore per la vita – l’unica cosa che davvero ci unisce – rallegrarsi dell’ululato del lupo, percepire la fugacità della sua presenza e cogliere la fierezza del suo sguardo, richiederà la capacità di ascoltare e il coraggio di opporre alle scelte inaccettabili fondate sul “o noi o loro”, il principio del “noi e loro”, “noi con loro”, come ci hanno insegnato le visioni dei popoli indigeni e le loro storie. I nativi nordamericani – Navajo, Hopi, Cherokee, Seminole, Oneida, Nez-Perce, Piedi Neri, Apache – riconoscevano negli animali individui dal valore intrinseco e nei lupi una nazione sovrana delle Grandi pianure e se ne consideravano i discendenti, membri della comunità planetaria. “Abbiamo imparato dal lupo come sopravvivere e come essere più umani. Come onorare i nostri anziani, proteggere e provvedere per le nostre famiglie e abbiamo imparato dai lupi la lealtà necessaria per appartenere a una tribù”. Sono parole di un’artista nativa riportate da Brenda Peterson11. Le storie che per secoli hanno trasmesso questa sapienza di vita parlano del profondo legame spirituale tra umani e lupi, di ammirazione, collaborazione, rispetto, onore e riconoscenza. Il lupo, oltre a essere un maestro di caccia, insegna pazienza, tenacia e capacità di sopportazione; è un compagno dotato di poteri terapeutici, l’animale soccorrevole che nutre e protegge gli umani in difficoltà, adotta i piccoli abbandonati, si prende cura delle donne maltrattate, sperdute o scacciate; procura loro il cibo, offre il calore del suo corpo e infonde il coraggio della libertà. Il più delle volte la protagonista della storia è una lupa, come ha scritto Teresa Pijoan, custode delle storie dei nativi, nella sua raccolta White Wolf Woman (Little Rock, 1992). Vivendo con i lupi – narra una storia Sioux a proposito della donna fuggita da un marito violento – “ella divenne forte, sentì la forza dei lupi dentro di sé, imparò da loro” (ivi, p. 69). Questa storia si avvicina ad alcune di quelle raccolte in Donne che corrono coi lupi da Pinkola Estés (1993) che celebrano l’intima vitalità racchiusa nell’animo femminile. Il tema del rapporto tra lupi e umani è al centro di una storia tradizionale Oneida tradotta in inglese da Paula Underwood, Chi parla per il lupo, una storia per imparare12 che ascoltò dal padre quando aveva tre anni e che si impegnò a diffondere. Elaborata nel corso di molte generazioni, questa storia è stata oggetto di riflessione in vari progetti educativi per adulti e bambini; è stata utilizzata nelle scuole, nei corsi di ecologia, nei laboratori sulle modalità decisionali e sulla costruzione della pace incoraggiando le persone a “pensare, comprendere, ricordare”. Di seguito, la riassumiamo e ne riportiamo alcuni brani. *** Ai margini del cerchio di luce proiettato dal fuoco al centro del villaggio, Lupo fissava le fiamme. Lo guardava affascinato un ragazzo di otto anni e si chiedeva perché non avesse paura. Poi, dalla vicina collina una lupa iniziò a ululare; a lei si unirono via via altri lupi. “La canzone parlava di come la Terra fosse un buon luogo dove vivere” e di come tanta bellezza si possa facilmente vedere nella Luna e nel Fuoco”. Poi il canto cessò e il lupo si allontanò dal fuoco. “Continuo a non capire, chiese al nonno il bambino. Perché lupo fissa il fuoco? Perché si sente a casa così vicino al luogo dove viviamo? Perché Lupa inizia la sua canzone su una collina tanto vicina a noi che non siamo lupi?”. “Ci conosciamo da tanto, tanto tempo, disse il nonno. Abbiamo imparato a vivere uno vicino all’altro”. Era una vecchia storia, e il nonno iniziò a raccontare. TANTO, TANTO, TANTO TEMPO FA Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli. MA VIDERO ANCHE che un simile compito avrebbe cambiato il Popolo: sarebbero diventati Uccisori di Lupi Un Popolo che toglieva la vita solo per sostenere la propria […] NON SEMBRAVA LORO DI VOLER DIVENTARE UN POPOLO DEL GENERE FINALMENTE Uno degli Anziani disse ciò che tutti avevano in mente: “Sembra che la visione del Fratello del Lupo fosse più acuta della nostra”[…]. DA QUESTO IL POPOLO HA IMPARATO UNA GRANDE LEZIONE È UNA LEZIONE CHE NON ABBIAMO MAI DIMENTICATO […] IMPARIAMO ORA A CONSIDERARE IL LUPO! E così fu che le Persone escogitarono un modo per porsi domande a vicenda ogni volta che si doveva prendere una decisione su un Nuovo Luogo o una Nuova Via. Cercammo di percepire il flusso di energia attraverso ogni nuova possibilità e quanto fosse abbastanza e quanto fosse troppo. FINCHÉ FINALMENTE qualcuno si alzò e pose la vecchia, vecchia domanda per ricordarci cose che non vediamo ancora abbastanza chiaramente per poterle ricordare. “Ditemi ora, FRATELLI MIEI, DITEMI ora, SORELLE MIE CHI PARLA PER IL LUPO?”. La storia, come spiegò il padre a Paula Underwood, fu rielaborata, narrata e ricordata per molto tempo, ma non poté essere trasmessa al “Nuovo popolo che arrivò sulle navi di legno”. “Non abbiamo potuto insegnare loro a porre domande al lupo. Non capivano che era il loro fratello. Noi invece sapevano quanto tempo ci è voluto per ascoltare la sua voce”. Non capivano che trascurare od omettere un solo aspetto della realtà può creare gravi difficoltà. “Avrebbero imparato? Chiese Paula”. “A volte la saggezza viene dopo una grande follia” rispose il padre. Questo momento dovrebbe essere arrivato per noi. Se non avremo la forza morale per acquisire una tale saggezza, dovremo riconoscere, come ha scritto Anna Maria Ortese, che quella umiliazione e desolazione cui abbiamo sottoposto tutto ciò che non è l’uomo […], giunta al muro di confine, dove non c’è più distruzione, perché non c’è nulla, sta ora tornando verso di noi, umanità. E ciò che abbiamo fatto, e tuttora freddamente facciamo, lo subiremo. E il conto ci sarà mandato a casa13. Ma allora, probabilmente, non avremo di che pagarlo. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Questo scritto è una versione rivista e ampliata di un mio precedente articolo pubblicato in “Erbacce”, con il titolo Chi parla per il lupo?. 2 Per una analisi puntuale del testo in discussione si veda Linda Maggiori, Caccia selvaggia, in “Terranuova”, settembre 2025, pp. 10-22. 3 Bruna Bianchi, Ecopedagogia, Napoli 2021. 4 Citato in Fred Bodsworth, L’ultimo dei chiurli (1955), Milano 2025, p. 9. 5 Rachel Carson, Primavera silenziosa, Milano 1963, p. 241. 6 In “Illustrated London News”, 6 gennaio 1900, pp. 18-19. 7 Matt Cartmill, A View to a Death in the Morning. Hunting and Nature through History, Cambridge-London 1993. 8 José Ortega y Gasset, Méditations sur la chasse (1942), Québec 2017, pp. 65-66. 9 Dalla Makivik Corporation, rappresentante legale degli Inuit nel Quebec settentrionale; si veda anche Susan McHugh, Love in a Time of Slaughters. Human-Animal Stories against Genocide and Extinction, University Park 2019. 10 Giving Voice to Bears, Lanham 2003. 11 Wolf Nation, Philadelphia 2017, p. 25 12 Who Speaks for Wolf. A Native American Learning Story, San Anselmo 1991. 13 Risposta a Parise sulla caccia, in Ead., Le piccole persone, Milano 2016, p. 140. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ANNAMARIA MANZONI: > L’ambigua fascinazione della caccia -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I lupi, la caccia, la guerra proviene da Comune-info.
[2025-10-18] Futuro Ancestrale - Presentazione del libro di Ailton Krenak @ CSOA La Strada
FUTURO ANCESTRALE - PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI AILTON KRENAK CSOA La Strada - Via Passino, 24 (sabato, 18 ottobre 17:00) 🌍 Due giorni per intrecciare resistenze, desideri e futuri comuni. 📅 18 ottobre – ore 17 Presentazione del libro “Futuro Ancestrale”, un invito a immaginare un futuro che parte dalle radici. Appuntamenti inseriti nella rassegna “Comporre la resistenza per un mondo comune” di CSOA La Strada 📍 CSOA La Strada ✊ Verso la mobilitazione del 15 novembre, per una giustizia climatica sociale, queer e intersezionale.
[2025-10-17] Climate Pride - Festa di lancio @ CSOA La Strada
CLIMATE PRIDE - FESTA DI LANCIO CSOA La Strada - Via Passino, 24 (venerdì, 17 ottobre 22:00) 🌍 Due giorni per intrecciare resistenze, desideri e futuri comuni. 📅 17 ottobre – ore 22 Festa di lancio del Climate Pride Iniziamo insieme il percorso verso la mobilitazione internazionale del 15 novembre. Appuntamenti inseriti nella rassegna “Comporre la resistenza per un mondo comune” di CSOA La Strada 📍 CSOA La Strada ✊ Verso la mobilitazione del 15 novembre, per una giustizia climatica sociale, queer e intersezionale.
Contro tutte le oppressioni!
In comunicazione telefonica con Gorgo, del collettivo No food, No science di Mantova, abbiamo parlato dell'attivismo antispecista portato avanti dal collettivo, della conseguente repressione istituzionale contro chi fa militanza antispecista a Mantova e delle prossime iniziative nelle quale parteciperà No food, No science, come il festival del fumetto antispecista che si terrà al Centro Sociale e rifugio per animali Agripunk il 27 e 28 settembre.  
L’ambigua fascinazione della caccia
È SEMPRE PIÙ NECESSARIO UN CONTRASTO NETTO ALLA VIOLENZA MA IN TUTTE LE SUE FORME, INTRECCIATE LE UNE ALLE ALTRE IN UNA CONSEQUENZIALITÀ SPESSO INDIRETTA, EPPURE RICOSTRUIBILE, SE SOLO LO SI VOGLIA. DI SICURO, ALL’INTERNO DI UN DISCORSO SULLA VIOLENZA – LA SUA GENESI, LE SUE MANIFESTAZIONI, I MODI PER CONTRASTARLA – NON È PIÙ POSSIBILE PRESCINDERE DA CONSIDERAZIONI CHE RIGUARDINO LA PRATICA CRUDELE DELLA CACCIA Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- “Il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose”1 La critica alla caccia non si limita oggi a particolari modi o tempi, ma è globale nel senso che ne mette in discussione la stessa essenza, la sua liceità, tanto che alcune associazioni hanno promosso una raccolta firme, grazie a cui verrà portata in senato una Proposta di Legge per la sua abolizione. Abolizione, non limitazione nel tempo e nello spazio, nel rilascio di autorizzazioni o nel numero delle specie cacciabili. Abolizione, perché nulla di ciò che questa attività comporta può essere considerato accettabile. Proprio come nulla di accettabile può essere rintracciato nelle guerre, quelle alle quali ci eravamo illusi, nel mondo occidentale, di avere posto fine: le avevamo in realtà solo spostate un po’ più in là, in tutti quei paesi da cui è stato semplice fare filtrare solo rare informazioni, facilmente stipabili nel grande magazzino del rimosso. Per poi risvegliarci un giorno dal torpore e prendere atto che i governi, il nostro e gli altri, non avevano mai interrotto una smisurata produzione di armi. Perché, oggi si sentenzia, si vis pacem para bellum: ignorando la replica all’antico enunciato, secondo cui, invece, se vuoi la pace è la pace che devi preparare. Elementare Watson. E se la pace la vuoi preparare, è necessario un contrasto netto e preciso alla violenza in tutte le sue forme, intrecciate le une alle altre in una consequenzialità spesso indiretta, ma ricostruibile, se solo lo si voglia. È lo psicologo Stephen Pinker ad affermare che, se la si vuole combattere, bisogna prima di tutto riconoscerla, al di là delle mistificazioni a cui è sottoposta, e poi avversarla in tutte le sue manifestazioni “dalle sculacciate educative date ai bambini alle dichiarazioni di guerra tra le nazioni”2 . Innegabile che la necessità dell’abolizione della caccia, che è regno assoluto di crudeltà e disumanità, occupi un posto d’onore nella ricerca, visionaria o meno che sia, di un mondo pacificato. La caccia: la migliore educazione alle pratiche di guerra3 Per altro esiste un particolare puntuale parallelismo colto in ogni epoca tra caccia e guerra: ”La guerra è la continuazione della caccia”, diceva Lev Tolstoj, e la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata della guerra, un suo sostituto ugualmente sanguinario, ma molto più rassicurante vista la mancata controffensiva del nemico immaginario. Se in tempi molto lontani la sua crudezza poteva trovare giustificazione nella lotta per la sopravvivenza umana, oggi neppure i suoi cultori si sognerebbero mai di sostenerlo; se comportava coraggio, audacia, forza fisica, oggi comporta se mai esercizio di pusillanimità, data la smisurata sproporzione di forze in campo e la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo, hanno nella fuga l’unica disperata possibilità di salvezza. E, per gli occidentali, si risolve tutta in attività di svago e ricerca di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci. Le vittime di tanto accanimento sono a volte uccellini di pochi centimetri di lunghezza e pochi grammi di peso, letteralmente disintegrati dai pallini, ma anche quelli che piace considerare feroci non hanno scampo davanti alle armi in dotazione del moderno cacciatore, novello Rambo, che si avvia alla guerra unilateralmente dichiarata con fucile in spalla e portamunizioni in vista, invaso da grande fascinazione anche per tuta, cinturoni stretti, stivali o scarponi, per attraversare terreni un po’ umidi manco fossero le paludi del Vietnam. Così bardato, trasforma la propria identità in un’altra fittizia, definita dall’abbigliamento e dai temibili accessori, grazie a cui anche un fisico più adatto alla tranquillità di uno sportello postale, così travestito, può ambire ad una sua rivincita macha, pronta allo sterminio, al servizio di virile quanto farlocco autocompiacimento. Spara, spara, spara qui… È indiscutibile che il vero motore della caccia si scalda e rimbomba là dove albergano forme di aggressività e violenza, tanto virulente da lasciare sul terreno vere e proprie carneficine, frutto di un crescendo di esaltazione e delirio fuori controllo, che, nei territori di caccia, porta a non saturare mai la pulsione a uccidere. Pulsione di cui non ci si vergogna, ma che è anzi fonte di vanto, a giudicare da tante foto di fine battuta che, sui social, immortalano stuoli di vittime stese intorno al sedicente eroe tronfio e soddisfatto. Sanno bene i legislatori che questa passione è talmente travolgente da non poter essere controllata da chi la sperimenta e da richiedere di conseguenza un controllo esterno, quello delle leggi appunto, le quali, per quanto permissive, non possono astenersi dal porre freni a quello che altrimenti sarebbe uno sterminio ancora più smisurato di quelli attualmente tollerati. Lo fanno, stabilendo limiti ai giorni e agli orari consentiti, nonché al numero di individui e alle specie da bersagliare. Limiti, come si evince dalla lettura dei siti venatori, vissuti con insofferenza, con rabbiosa inquietudine, perché il divieto di sparare, come succede in amari tempi di caccia chiusa, provoca malessere, una sorta di crisi di astinenza, tenuta a bada dalla certezza che l’attesa impaziente avrà presto fine: il momento in cui, finalmente, la caccia si riaprirà si avvicina giorno dopo giorno, ponendo fine all’inquieto count down: “Mi manca l’inebriante profumo, quell’aroma di polvere da sparo torrefatta che si sprigiona dalle canne della doppietta quando la si apre, e nell’aria volano ancora le piume del fagiano”4. Il numero dei cacciatori, in caduta libera in Italia tanto che oggi rappresenta circa lo 0,7% della popolazione, vede una netta prevalenza di persone anziane, tra i 65 e i 78 anni, che preoccupa non poco le associazioni, incapaci di capire, anche se non dovrebbe essere così difficile riuscirci, le ragioni di un tale disamore da parte delle nuove generazioni, quelle colpevolmente impregnate di ecologismo, di animalismo, a volte addirittura di antispecismo. Al momento, cercano di contrastare l’assottigliarsi delle loro fila, dilatando l’attivismo degli irriducibili, anche quelli un po’ ammaccati dalle ingiurie della vita. Tra loro, i più ricchi suppliscono alle inefficienze senili andando in terre lontane, dove sarà sempre possibile, dai rassicuranti sedili di un elicottero, affidare il compito ambito a un giovane del luogo, dalla mira precisa, che colpirà in subappalto l’animale in fuga, elefante, tigre o leone che sia. L’attempato ma non domato cacciatore, scambiando con un po’ di malafede il potere del denaro con quello dell’efficienza personale, mira precisa e braccio fermo, trarrà ancora grandi soddisfazioni, proprio come se lo avesse colpito lui, nel vederlo accasciarsi e poi morire, emozioni tanto più travolgenti quanto più la vittima sarà raro o addirittura in estinzione: è un vezzo da classe sociale particolarmente elevata uccidere qualcuno (loro sembrano pensare qualcosa) di unico o pregiato. Non è, questo approccio critico all’essenza stessa della caccia, frutto di un’analisi artefatta, di una interpretazione prevenuta: è anzi totalmente in sintonia con il pensiero dei cacciatori stessi, quale emerge persino negli stralci di conoscenza di sé che loro stessi offrono, nei loro siti5 quando si confrontano con entusiasmo, cuore in mano, su tutto ciò che l’attività che li affratella smuove in loro: eccoli allora a celebrare la “magia della caccia”, a pregustare “una palpitante avventura”, a esaltare la “passione”, a crogiolarsi nell’”euforia”, ad abbandonarsi all’ebbrezza”: stati d’animo emotivamente alterati, che anticipano il piacere di trovarsi davanti al sangue degli animali colpiti, alle urla di quelli solo feriti, alla fuga impazzita di quelli che ancora sperano. Se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’auto riconoscimento di emozioni e stati d’animo, già preannunciati da titoli di articoli quali Il sapore della caccia che sono tutto un pregustare, un sentire sensorialmente il gusto stuzzicante della morte cruenta, che infliggeranno alle povere bestie. Premono il grilletto. E la natura scompare6 Per altro è un grande scrittore, Lev Tolstoj, cultore della caccia prima di diventarne acerrimo nemico, a ricordare, in una sorta di racconto catartico, di avere tante volte sperimentato quelle che lui stesso definiva la delizia e la voluttà davanti alle bestie agonizzanti, la soddisfazione nell’essere stato artefice di tanto dolore 7. C’è di che rimanere basiti davanti a ciò che può albergare nella psiche umana: e allora, alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della passione venatoria, bisogna addentrarsi ancora di più nelle emozioni e nei pensieri dei suoi cultori; si viene allora a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione: perché nei loro comportamenti prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in  psicopatia nel piacere dichiarato di essere artefici della sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà”8,  tratto a volte innato, spesso collegato a risposte culturalmente apprese; sadismo che si crogiola nel piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza personale che deriva dalla capacità di sopraffare l’altro. Nulla di nuovo sotto il sole, visto che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) affermava che il sadismo potesse assumere una forma socialmente accettabile nella caccia, rappresentante delle energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese9. Mentre altri studiosi si spingono ad ipotizzare una particolare forma di questa componente del carattere, strettamente connessa alla sessualità10. Dice la psicologa Margaret Brooke-Williams: “Si tratta di una riscoperta della virilità e del senso di potenza maschile sopito dalla vita urbana. Questo sentimento di potenza offre temporaneo sollievo al disagio psicologico dei cacciatori”. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Per altro lo stesso Sigmund Freud si riferiva a volte al sadismo per indicare la fusione di sessualità e violenza. È possibile trovare ispirazione per altri approfondimenti in resoconti quali un’illuminante intervista su l’Adige.it (02.09.2012) a un’esponente femminile del mondo venatorio, tale contessa Maria Luisa Pompeati, della stirpe dei von Ferrari Kellerhof: sulla scia dei suoi colleghi maschi, definisce la caccia un atto d’amore, una passione intensissima che l’ha accompagnata nella crescita. Riferisce della sensazione meravigliosa del momento dell’uccisione, in cui l’animale diventa tuo per sempre. Perché, dice, la caccia è il momento culminante di una passione intensissima che la lega all’animale, che lei vuole possedere: dopo averlo centrato, corre da lui, prende la sua testa tra le mani, l’accarezza e lo bacia. Mangiarlo è, in seguito, l’ultimo atto del possesso. È lecito ipotizzare che alcuni gesti quali l’accarezzare e il baciare la vittima appartengano piuttosto a particolari vezzi della femminilità della contessa e non siano particolarmente diffusi tra i cultori della caccia, ma di certo vi risuona l’eco delle convinzioni di Rob Alpha. A parte ciò, tutto il resto è normale cronaca emotiva di una battuta di caccia. Dalla parte delle vittime In tutto questo, non emergono pensieri per gli animali, che pagheranno il prezzo di quelle battute di caccia, che definire arte (per venatoria che sia) è quanto meno un azzardo linguistico. Sono loro i grandi assenti, gli invitati di pietra alla grande kermesse venatoria, al delirio dell’uccidi più che puoi: assenti sono il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni, armato del suo fucile e della sua viltà.  È un guardiacaccia, Giancarlo Ferron 11, che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni,  che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini. Che nessun animale possa sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, elefanti o uccellini di pochi grammi lo dice bene un bambino nel colorito spirito napoletano quando constata che “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito santo”12 compendiando così l’incontenibile impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, giovani o vecchi, che volino o corrano: purchÉ respirino. La caccia. Un vero suicidio morale13 Descrizioni tormentate sono anche quelle di Lev Tolstoj, quando, da cacciatore da molto tempo pentito, ricorda con tormento lo spasimo pieno di terrore delle sue vittime in agonia, la sopraffazione del più forte sul più debole, l’assalto di molti a uno solo, del forte contro il debole, della sottrazione dei piccoli alle madri e viceversa: un universo di azioni tanto orribili da indurlo a definire la caccia un vero suicidio morale. Parlando di conseguenze nefaste dell’attività venatoria si può continuare con i morti e feriti di ogni stagione, di cui mantiene un accurato conteggio l’Associazione Vittime della Caccia14 vittime che sfilano a passi felpati nei trafiletti dei giornali, così da poco disturbare governi e partiti, sempre in tutt’altre faccende affaccendati e magari un po’ imbarazzati. Perché si tratta non di malasorte, ma delle inevitabili conseguenze di un’attività che comporta l’uso continuo di armi, per moltissimi giorni all’anno, e svariate ore quotidiane, in uno stato d’animo in continua tensione. Quando imperizia, imprudenza, mancato controllo emotivo, deliri di onnipotenza, possono contare sul possesso di un fucile caricato a pallettoni, che l’esito possa essere mortifero non può certo meravigliare. L’uomo e il cane: un’amicizia unilaterale E che dire delle altre vittime oscurate, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso, notoriamente trattati come oggetti d’uso, tenuti normalmente in gabbie da cui escono solo per andare a servire il loro padrone, maltrattati, crudelmente puniti? Le cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei e di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio. A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista15 on line un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (“la famosa frustata” dice), metodo di addestramento da cui lei però si vanta di smarcarsi. I bambini ci guardano16 Caccia che allunga le sue ombre lunghe anche in un campo colpevolmente trascurato, quello delle ricadute su bambini e ragazzi, che certo per legge a caccia non ci possono andare, almeno in Italia dove l’età minima è di 18 anni, ma che, sempre dalla lettura delle chat dei cacciatori, risulta che non raramente “accompagnino”, perché questo è permesso, i grandi, senza sparare, fin da età davvero improbabili: nove, dieci, undici anni, con qualche eccezione, udite udite, per bambini (accidentalmente anche bambine) di quattro anni. Grandi che non stanno più nella pelle per insegnare alla discendenza il mestiere e, impazienti, vogliono nell’attesa condividere le dilaganti emozioni. Potrebbe sembrare roba da marziani, ma non è necessario espatriare su un altro pianeta, perché è sufficiente oltrepassare la Manica: là, tutta la famiglia reale, generazione dopo generazione, ha goduto di un tirocinio precocissimo a quello che ritengono sport of the kings. Ahimè, non solo dei re. Il problema è che neppure il velocissimo srotolamento dei tempi, con tutti i cambiamenti che si succedono alla velocità della luce, pare intaccare la loro idolatria per la tradizione, per mortifera che sia: l’ultima vittima è l’ancora innocente (?) principe George, che risulta avere partecipato alla caccia al gallo cedrone a sette anni (con papà) e pare si appresti ad uccidere il suo primo cervo ora che ne ha compiuti dodici. Che dire? Quasi meglio tornare alle cose di casa nostra: e provare a riflettere che figli o nipoti di cacciatori crescono alla presenza costante di una, ma più spesso più armi, presenza che, nella sua normalità, non provoca inquietudine, ma assuefazione: tutto normale, un po’ come il portaombrelli o le piante da arredamento. Normale sarà anche l’attenzione di cui le vedranno oggetto da parte del cacciatore di famiglia, che le maneggerà con cura (almeno si spera), quali oggetti di culto, preziosi ferri del mestiere, capaci di trasformare in realtà il sogno sognato del prossimo trofeo. E normali, nella loro ripetitività, saranno i comportamenti, i rituali di accompagnamento: levatacce antesignane, rientri appagati se con accettabile numero di vittime, o malcelati malumori per uno scarso bottino. E si conosceranno gli stati d’animo: l’ansia dell’attesa, i racconti grondanti eccitazione per l’avvistamento dell’animale da colpire, il non dargli tregua fissandolo nell’occhio del mirino o inseguendolo insieme ai cani godendo del suo terror panico. E finalmente colpirlo. Ora, banale ricordare che i bambini imparano ciò che viene loro insegnato, che il giusto e lo sbagliato, il bene e il male sono concetti che prendono forma in funzione delle convinzioni e dell’accezione che i grandi di riferimento danno alle situazioni. E i primi anni di vita sono fondamentali per creare le proprie rappresentazioni del mondo e dei valori della vita, frutto del modellamento educativo, basilare nella strutturazione del carattere e della personalità. Anche l’empatia, vale a dire la capacità di identificarsi con le emozioni e gli stati d’animo dell’altro e di sentirli riverberare su di sé, condizionando il proprio comportamento, dipenderà in grande parte dalla possibilità di apprenderla se presente come modello a cui affidarsi. Se tale modello è strutturato sulla crudeltà verso creature deboli, sul piacere nel provocare loro dolore e morte, il piano educativo produrrà speculari contraccolpi psicologici nei più giovani. In estrema sintesi, non esiste dubbio che la violenza contro gli animali vada nella direzione dell’introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori, basati sul diritto della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005 la Violenza Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come testimone di quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare è ufficialmente entrata nel novero delle violenze sfavorevoli infantili, sfavorevoli rispetto a un sano ed armonico sviluppo della personalità. E quella agita sugli animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in considerazione: al di là delle teorizzazioni, emerge in modo drammatico dai racconti di adulti che mai hanno potuto dimenticare lo strazio vissuto da piccoli assistendo allo scempio su un animale, spesso ad opera dello stesso padre. Non basta tutta una vita per dimenticare, ma neppure per sfoltire un dolore che, nel momento del racconto, esplode con tutta la virulenza di un dramma appena accaduto. La caccia come tarlo sociale Insomma: ce ne è davvero abbastanza per riflettere seriamente sulla caccia come tarlo sociale e agire di conseguenza: perché la sua struttura portante è, in estrema sintesi, il piacere di praticare violenza contro individui inermi. “Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi?”17. Viviamo in tempi cupissimi, dove anche noi, abitanti di un mondo occidentale che in molti pensavamo in costante crescita verso l’estensione dei diritti, ci siamo ritrovati davanti al baratro di un’umanità disumanizzata. Siamo qui a chiederci come tutto quello che sta succedendo stia davvero succedendo: troppo per essere anche solo pensato, perché il pensiero stesso si ribella al farsi contaminare dal regno dell’odio, dal dilagare dell’indecenza e di una crudeltà che nessuna specie vivente potrebbe mai ideare. Nessuna tranne la nostra, che è la più devastante, crudele e pericolosa. Che mai, nemmeno in nessun periodo di pace, ha smesso di sentirsi in diritto di praticare alla luce del sole le più orrende forme di supplizio sugli altri animali e, in modo variamente occulto, sugli altri esseri umani. Oggi il mondo tutto sembra allargarsi a normalizzare ogni forma di indecente prepotenza, contro chiunque, senza neppure più vergognarsene; il mondo venatorio, in contemporanea, pretende un po’ di spazio in più: molti più uccellini da accecare per richiamare i loro conspecifici davanti al cacciatore lì pronto ad impallinarne quanti potrà; licenza di sparare agli uccelli migratori, esausti per viaggi interminabili; ribaltamento di sentenze del TAR per consentire il massacro anche nei valichi di montagna. E poi orsi, lupi, nutrie: tutti trasformati in bersagli, con la benedizione delle autorità, in una moderna riedizione di quel Far West dove era la colt ad accogliere ogni estraneo sgradito. Ci si aspetterebbe che i cacciatori, numericamente in dissesto, le loro straricche lobbies, quei politici afasici e indifferenti a un volere popolare dichiaratamente contrario, prendessero consapevolezza dell’insostenibilità morale dell’attività venatoria. A tutti noi il compito di riconoscere le mistificazioni in atto, implicitamente sostenute in modi diversi: per esempio con la vendita stessa delle armi  accanto agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Mistificazioni sorrette anche attraverso richieste dei cacciatori per entrare nelle scuole nella veste di testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali. Che vanno ad uccidere perché li amano. Doveroso interrogarsi sulla confusione cognitiva generata nei più giovani nel momento in cui viene loro proposta l’equazione amore-uccisione, che oggi più che mai è il mantra giustificativo di tanti femminicidi. “Stiamo causando la distruzione. Dei nostri compagni animali… Ricercando null’altro che il nostro benessere E il nostro divertimento”18. Insomma, all’interno di un discorso sulla violenza, la sua genesi, le sue manifestazioni, i modi per contrastarla, non è più possibile prescindere da considerazioni che riguardino la pratica della caccia. Se si ritiene fondamentale che l’educazione abbia come obiettivo primario l’insegnamento del rispetto per l’altro, la presa in carico dei diritti di ognuno, la convinzione che il senso di giustizia sia fondamentale nella gestione di relazioni positive, è davvero impensabile proteggere, difendere, connotare positivamente comportamenti sadici, violenti e crudeli a danno di esseri indifesi. Non è superfluo ricordare la posizione di Albert Scheiwtzer, Nobel per la pace 1953, che sosteneva che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi e non solo gli esseri umani. Gandhi, uno dei massimi esponenti del pacifismo, non pensò in nessun momento che la grandiosità degli obiettivi che andava perseguendo lo autorizzasse a mettere in secondo piano il dovere del rispetto per gli altri animali, da praticare costantemente anche attraverso scelte alimentari, avanzatissime per i suoi tempi. Aldo Capitini, filosofo della non violenza, sosteneva che se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini: e lo diceva all’alba della seconda guerra mondiale, facendo tutto ciò che era in suo potere per provare a scongiurare il delirio di violenza che di lì a poco si sarebbe comunque scatenato. Insomma e per concludere: l’attività venatoria è indiscutibilmente territorio di crudeltà. Riconoscere questa elementare verità, è passo doveroso. Che dovrebbe condurre alla strada che Freud, nel carteggio del 1932 con Einstein, indicava per agire contro la guerra, con parole che si attagliano perfettamente anche alla caccia. Le forze che esistono, dice Freud, che vanno costruite e riconosciute, sono le relazioni d’amore e i legami emotivi che si stabiliscono grazie anche a meccanismi di identificazione con l’altro. È necessario indignarsi contro la guerra (e contro la caccia, aggiungo) perché ogni uomo, ogni essere senziente ha diritto alla vita, perché la guerra (come la caccia) “annienta vite piene di promesse, pone i singoli individui in posizioni che li disonorano”. Per ricercare uno stato di pace, fra le persone, i popoli, le specie, che forse è esistito, che forse è desiderio di qualcosa di mai interamente vissuto, ma di cui vi è infinita nostalgia perché, dice Anna Maria Ortesei, da quel bene assoluto ci siamo allontanati “per deviazione, errore, stranezza o forse malattia” . -------------------------------------------------------------------------------- Sull’argomento ho scritto nei miei libri i capitoli: Bang…bang…: io sparo a te. In “Noi abbiamo un sogno”. Bompiani 2006 Finchè non lo vedrai esangue, In “In direzione contraria” Sonda 2009 Ai cacciatori il posto d’onore. In “Sulla cattiva strada, Sonda 2014 -------------------------------------------------------------------------------- 1 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere; 2 Stephen Pinker, Il declino della violenza 3 Senofonte, Il Cinegetico 4 https://brotture.net/tag/caccia 5 www.bighunter.net 6 Marcello D’Orta , Nessun porco è signorina 7 Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne 8 Umberto Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia 9 Www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to=psychosexual-inadequancy-the=5-phases-of-sexual-frustration 10 www.animals24-7.org 11 Giancarlo Ferron, Il suicidio del capriolo 12 Nessun porco è signorina, Op. cit. 13 Lev Tolstoj, Op. cit. 14 https://www.vittimedellacaccia.org 15 http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm 16 Titolo del film di Vittorio De Sica, I bambini ci guardano 17 Danilo Mainardi 18 Yuval Noah Harari, Da animali a dei -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’ambigua fascinazione della caccia proviene da Comune-info.