L’ambigua fascinazione della caccia

Comune-info - Monday, September 8, 2025

È sempre più necessario un contrasto netto alla violenza ma in tutte le sue forme, intrecciate le une alle altre in una consequenzialità spesso indiretta, eppure ricostruibile, se solo lo si voglia. Di sicuro, all’interno di un discorso sulla violenza – la sua genesi, le sue manifestazioni, i modi per contrastarla – non è più possibile prescindere da considerazioni che riguardino la pratica crudele della caccia

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“Il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose”1

La critica alla caccia non si limita oggi a particolari modi o tempi, ma è globale nel senso che ne mette in discussione la stessa essenza, la sua liceità, tanto che alcune associazioni hanno promosso una raccolta firme, grazie a cui verrà portata in senato una Proposta di Legge per la sua abolizione. Abolizione, non limitazione nel tempo e nello spazio, nel rilascio di autorizzazioni o nel numero delle specie cacciabili. Abolizione, perché nulla di ciò che questa attività comporta può essere considerato accettabile. Proprio come nulla di accettabile può essere rintracciato nelle guerre, quelle alle quali ci eravamo illusi, nel mondo occidentale, di avere posto fine: le avevamo in realtà solo spostate un po’ più in là, in tutti quei paesi da cui è stato semplice fare filtrare solo rare informazioni, facilmente stipabili nel grande magazzino del rimosso. Per poi risvegliarci un giorno dal torpore e prendere atto che i governi, il nostro e gli altri, non avevano mai interrotto una smisurata produzione di armi. Perché, oggi si sentenzia, si vis pacem para bellum: ignorando la replica all’antico enunciato, secondo cui, invece, se vuoi la pace è la pace che devi preparare. Elementare Watson.

E se la pace la vuoi preparare, è necessario un contrasto netto e preciso alla violenza in tutte le sue forme, intrecciate le une alle altre in una consequenzialità spesso indiretta, ma ricostruibile, se solo lo si voglia. È lo psicologo Stephen Pinker ad affermare che, se la si vuole combattere, bisogna prima di tutto riconoscerla, al di là delle mistificazioni a cui è sottoposta, e poi avversarla in tutte le sue manifestazioni “dalle sculacciate educative date ai bambini alle dichiarazioni di guerra tra le nazioni”2 . Innegabile che la necessità dell’abolizione della caccia, che è regno assoluto di crudeltà e disumanità, occupi un posto d’onore nella ricerca, visionaria o meno che sia, di un mondo pacificato.

La caccia: la migliore educazione alle pratiche di guerra3

Per altro esiste un particolare puntuale parallelismo colto in ogni epoca tra caccia e guerra: ”La guerra è la continuazione della caccia”, diceva Lev Tolstoj, e la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata della guerra, un suo sostituto ugualmente sanguinario, ma molto più rassicurante vista la mancata controffensiva del nemico immaginario.

Se in tempi molto lontani la sua crudezza poteva trovare giustificazione nella lotta per la sopravvivenza umana, oggi neppure i suoi cultori si sognerebbero mai di sostenerlo; se comportava coraggio, audacia, forza fisica, oggi comporta se mai esercizio di pusillanimità, data la smisurata sproporzione di forze in campo e la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo, hanno nella fuga l’unica disperata possibilità di salvezza. E, per gli occidentali, si risolve tutta in attività di svago e ricerca di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci.

Le vittime di tanto accanimento sono a volte uccellini di pochi centimetri di lunghezza e pochi grammi di peso, letteralmente disintegrati dai pallini, ma anche quelli che piace considerare feroci non hanno scampo davanti alle armi in dotazione del moderno cacciatore, novello Rambo, che si avvia alla guerra unilateralmente dichiarata con fucile in spalla e portamunizioni in vista, invaso da grande fascinazione anche per tuta, cinturoni stretti, stivali o scarponi, per attraversare terreni un po’ umidi manco fossero le paludi del Vietnam. Così bardato, trasforma la propria identità in un’altra fittizia, definita dall’abbigliamento e dai temibili accessori, grazie a cui anche un fisico più adatto alla tranquillità di uno sportello postale, così travestito, può ambire ad una sua rivincita macha, pronta allo sterminio, al servizio di virile quanto farlocco autocompiacimento.

Spara, spara, spara qui…

È indiscutibile che il vero motore della caccia si scalda e rimbomba là dove albergano forme di aggressività e violenza, tanto virulente da lasciare sul terreno vere e proprie carneficine, frutto di un crescendo di esaltazione e delirio fuori controllo, che, nei territori di caccia, porta a non saturare mai la pulsione a uccidere. Pulsione di cui non ci si vergogna, ma che è anzi fonte di vanto, a giudicare da tante foto di fine battuta che, sui social, immortalano stuoli di vittime stese intorno al sedicente eroe tronfio e soddisfatto.

Sanno bene i legislatori che questa passione è talmente travolgente da non poter essere controllata da chi la sperimenta e da richiedere di conseguenza un controllo esterno, quello delle leggi appunto, le quali, per quanto permissive, non possono astenersi dal porre freni a quello che altrimenti sarebbe uno sterminio ancora più smisurato di quelli attualmente tollerati. Lo fanno, stabilendo limiti ai giorni e agli orari consentiti, nonché al numero di individui e alle specie da bersagliare. Limiti, come si evince dalla lettura dei siti venatori, vissuti con insofferenza, con rabbiosa inquietudine, perché il divieto di sparare, come succede in amari tempi di caccia chiusa, provoca malessere, una sorta di crisi di astinenza, tenuta a bada dalla certezza che l’attesa impaziente avrà presto fine: il momento in cui, finalmente, la caccia si riaprirà si avvicina giorno dopo giorno, ponendo fine all’inquieto count down: “Mi manca l’inebriante profumo, quell’aroma di polvere da sparo torrefatta che si sprigiona dalle canne della doppietta quando la si apre, e nell’aria volano ancora le piume del fagiano”4.

Il numero dei cacciatori, in caduta libera in Italia tanto che oggi rappresenta circa lo 0,7% della popolazione, vede una netta prevalenza di persone anziane, tra i 65 e i 78 anni, che preoccupa non poco le associazioni, incapaci di capire, anche se non dovrebbe essere così difficile riuscirci, le ragioni di un tale disamore da parte delle nuove generazioni, quelle colpevolmente impregnate di ecologismo, di animalismo, a volte addirittura di antispecismo. Al momento, cercano di contrastare l’assottigliarsi delle loro fila, dilatando l’attivismo degli irriducibili, anche quelli un po’ ammaccati dalle ingiurie della vita. Tra loro, i più ricchi suppliscono alle inefficienze senili andando in terre lontane, dove sarà sempre possibile, dai rassicuranti sedili di un elicottero, affidare il compito ambito a un giovane del luogo, dalla mira precisa, che colpirà in subappalto l’animale in fuga, elefante, tigre o leone che sia. L’attempato ma non domato cacciatore, scambiando con un po’ di malafede il potere del denaro con quello dell’efficienza personale, mira precisa e braccio fermo, trarrà ancora grandi soddisfazioni, proprio come se lo avesse colpito lui, nel vederlo accasciarsi e poi morire, emozioni tanto più travolgenti quanto più la vittima sarà raro o addirittura in estinzione: è un vezzo da classe sociale particolarmente elevata uccidere qualcuno (loro sembrano pensare qualcosa) di unico o pregiato.

Non è, questo approccio critico all’essenza stessa della caccia, frutto di un’analisi artefatta, di una interpretazione prevenuta: è anzi totalmente in sintonia con il pensiero dei cacciatori stessi, quale emerge persino negli stralci di conoscenza di sé che loro stessi offrono, nei loro siti5 quando si confrontano con entusiasmo, cuore in mano, su tutto ciò che l’attività che li affratella smuove in loro: eccoli allora a celebrare la “magia della caccia”, a pregustare “una palpitante avventura”, a esaltare la “passione”, a crogiolarsi nell’”euforia”, ad abbandonarsi all’ebbrezza”: stati d’animo emotivamente alterati, che anticipano il piacere di trovarsi davanti al sangue degli animali colpiti, alle urla di quelli solo feriti, alla fuga impazzita di quelli che ancora sperano. Se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’auto riconoscimento di emozioni e stati d’animo, già preannunciati da titoli di articoli quali Il sapore della caccia che sono tutto un pregustare, un sentire sensorialmente il gusto stuzzicante della morte cruenta, che infliggeranno alle povere bestie.

Premono il grilletto. E la natura scompare6

Per altro è un grande scrittore, Lev Tolstoj, cultore della caccia prima di diventarne acerrimo nemico, a ricordare, in una sorta di racconto catartico, di avere tante volte sperimentato quelle che lui stesso definiva la delizia e la voluttà davanti alle bestie agonizzanti, la soddisfazione nell’essere stato artefice di tanto dolore 7.

C’è di che rimanere basiti davanti a ciò che può albergare nella psiche umana: e allora, alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della passione venatoria, bisogna addentrarsi ancora di più nelle emozioni e nei pensieri dei suoi cultori; si viene allora a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione: perché nei loro comportamenti prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in  psicopatia nel piacere dichiarato di essere artefici della sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà”8,  tratto a volte innato, spesso collegato a risposte culturalmente apprese; sadismo che si crogiola nel piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza personale che deriva dalla capacità di sopraffare l’altro. Nulla di nuovo sotto il sole, visto che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) affermava che il sadismo potesse assumere una forma socialmente accettabile nella caccia, rappresentante delle energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese9.

Mentre altri studiosi si spingono ad ipotizzare una particolare forma di questa componente del carattere, strettamente connessa alla sessualità10. Dice la psicologa Margaret Brooke-Williams: “Si tratta di una riscoperta della virilità e del senso di potenza maschile sopito dalla vita urbana. Questo sentimento di potenza offre temporaneo sollievo al disagio psicologico dei cacciatori”. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Per altro lo stesso Sigmund Freud si riferiva a volte al sadismo per indicare la fusione di sessualità e violenza.

È possibile trovare ispirazione per altri approfondimenti in resoconti quali un’illuminante intervista su l’Adige.it (02.09.2012) a un’esponente femminile del mondo venatorio, tale contessa Maria Luisa Pompeati, della stirpe dei von Ferrari Kellerhof: sulla scia dei suoi colleghi maschi, definisce la caccia un atto d’amore, una passione intensissima che l’ha accompagnata nella crescita. Riferisce della sensazione meravigliosa del momento dell’uccisione, in cui l’animale diventa tuo per sempre. Perché, dice, la caccia è il momento culminante di una passione intensissima che la lega all’animale, che lei vuole possedere: dopo averlo centrato, corre da lui, prende la sua testa tra le mani, l’accarezza e lo bacia. Mangiarlo è, in seguito, l’ultimo atto del possesso. È lecito ipotizzare che alcuni gesti quali l’accarezzare e il baciare la vittima appartengano piuttosto a particolari vezzi della femminilità della contessa e non siano particolarmente diffusi tra i cultori della caccia, ma di certo vi risuona l’eco delle convinzioni di Rob Alpha. A parte ciò, tutto il resto è normale cronaca emotiva di una battuta di caccia.

Dalla parte delle vittime

In tutto questo, non emergono pensieri per gli animali, che pagheranno il prezzo di quelle battute di caccia, che definire arte (per venatoria che sia) è quanto meno un azzardo linguistico. Sono loro i grandi assenti, gli invitati di pietra alla grande kermesse venatoria, al delirio dell’uccidi più che puoi: assenti sono il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni, armato del suo fucile e della sua viltà. 

È un guardiacaccia, Giancarlo Ferron 11, che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni,  che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini.

Che nessun animale possa sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, elefanti o uccellini di pochi grammi lo dice bene un bambino nel colorito spirito napoletano quando constata che “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito santo”12 compendiando così l’incontenibile impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, giovani o vecchi, che volino o corrano: purchÉ respirino.

La caccia. Un vero suicidio morale13

Descrizioni tormentate sono anche quelle di Lev Tolstoj, quando, da cacciatore da molto tempo pentito, ricorda con tormento lo spasimo pieno di terrore delle sue vittime in agonia, la sopraffazione del più forte sul più debole, l’assalto di molti a uno solo, del forte contro il debole, della sottrazione dei piccoli alle madri e viceversa: un universo di azioni tanto orribili da indurlo a definire la caccia un vero suicidio morale.

Parlando di conseguenze nefaste dell’attività venatoria si può continuare con i morti e feriti di ogni stagione, di cui mantiene un accurato conteggio l’Associazione Vittime della Caccia14 vittime che sfilano a passi felpati nei trafiletti dei giornali, così da poco disturbare governi e partiti, sempre in tutt’altre faccende affaccendati e magari un po’ imbarazzati. Perché si tratta non di malasorte, ma delle inevitabili conseguenze di un’attività che comporta l’uso continuo di armi, per moltissimi giorni all’anno, e svariate ore quotidiane, in uno stato d’animo in continua tensione. Quando imperizia, imprudenza, mancato controllo emotivo, deliri di onnipotenza, possono contare sul possesso di un fucile caricato a pallettoni, che l’esito possa essere mortifero non può certo meravigliare.

L’uomo e il cane: un’amicizia unilaterale

E che dire delle altre vittime oscurate, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso, notoriamente trattati come oggetti d’uso, tenuti normalmente in gabbie da cui escono solo per andare a servire il loro padrone, maltrattati, crudelmente puniti? Le cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei e di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio.

A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista15 on line un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (“la famosa frustata” dice), metodo di addestramento da cui lei però si vanta di smarcarsi.

I bambini ci guardano16

Caccia che allunga le sue ombre lunghe anche in un campo colpevolmente trascurato, quello delle ricadute su bambini e ragazzi, che certo per legge a caccia non ci possono andare, almeno in Italia dove l’età minima è di 18 anni, ma che, sempre dalla lettura delle chat dei cacciatori, risulta che non raramente “accompagnino”, perché questo è permesso, i grandi, senza sparare, fin da età davvero improbabili: nove, dieci, undici anni, con qualche eccezione, udite udite, per bambini (accidentalmente anche bambine) di quattro anni. Grandi che non stanno più nella pelle per insegnare alla discendenza il mestiere e, impazienti, vogliono nell’attesa condividere le dilaganti emozioni. Potrebbe sembrare roba da marziani, ma non è necessario espatriare su un altro pianeta, perché è sufficiente oltrepassare la Manica: là, tutta la famiglia reale, generazione dopo generazione, ha goduto di un tirocinio precocissimo a quello che ritengono sport of the kings. Ahimè, non solo dei re. Il problema è che neppure il velocissimo srotolamento dei tempi, con tutti i cambiamenti che si succedono alla velocità della luce, pare intaccare la loro idolatria per la tradizione, per mortifera che sia: l’ultima vittima è l’ancora innocente (?) principe George, che risulta avere partecipato alla caccia al gallo cedrone a sette anni (con papà) e pare si appresti ad uccidere il suo primo cervo ora che ne ha compiuti dodici.

Che dire? Quasi meglio tornare alle cose di casa nostra: e provare a riflettere che figli o nipoti di cacciatori crescono alla presenza costante di una, ma più spesso più armi, presenza che, nella sua normalità, non provoca inquietudine, ma assuefazione: tutto normale, un po’ come il portaombrelli o le piante da arredamento. Normale sarà anche l’attenzione di cui le vedranno oggetto da parte del cacciatore di famiglia, che le maneggerà con cura (almeno si spera), quali oggetti di culto, preziosi ferri del mestiere, capaci di trasformare in realtà il sogno sognato del prossimo trofeo. E normali, nella loro ripetitività, saranno i comportamenti, i rituali di accompagnamento: levatacce antesignane, rientri appagati se con accettabile numero di vittime, o malcelati malumori per uno scarso bottino. E si conosceranno gli stati d’animo: l’ansia dell’attesa, i racconti grondanti eccitazione per l’avvistamento dell’animale da colpire, il non dargli tregua fissandolo nell’occhio del mirino o inseguendolo insieme ai cani godendo del suo terror panico. E finalmente colpirlo.

Ora, banale ricordare che i bambini imparano ciò che viene loro insegnato, che il giusto e lo sbagliato, il bene e il male sono concetti che prendono forma in funzione delle convinzioni e dell’accezione che i grandi di riferimento danno alle situazioni. E i primi anni di vita sono fondamentali per creare le proprie rappresentazioni del mondo e dei valori della vita, frutto del modellamento educativo, basilare nella strutturazione del carattere e della personalità. Anche l’empatia, vale a dire la capacità di identificarsi con le emozioni e gli stati d’animo dell’altro e di sentirli riverberare su di sé, condizionando il proprio comportamento, dipenderà in grande parte dalla possibilità di apprenderla se presente come modello a cui affidarsi. Se tale modello è strutturato sulla crudeltà verso creature deboli, sul piacere nel provocare loro dolore e morte, il piano educativo produrrà speculari contraccolpi psicologici nei più giovani.

In estrema sintesi, non esiste dubbio che la violenza contro gli animali vada nella direzione dell’introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori, basati sul diritto della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005 la Violenza Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come testimone di quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare è ufficialmente entrata nel novero delle violenze sfavorevoli infantili, sfavorevoli rispetto a un sano ed armonico sviluppo della personalità. E quella agita sugli animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in considerazione: al di là delle teorizzazioni, emerge in modo drammatico dai racconti di adulti che mai hanno potuto dimenticare lo strazio vissuto da piccoli assistendo allo scempio su un animale, spesso ad opera dello stesso padre. Non basta tutta una vita per dimenticare, ma neppure per sfoltire un dolore che, nel momento del racconto, esplode con tutta la virulenza di un dramma appena accaduto.

La caccia come tarlo sociale

Insomma: ce ne è davvero abbastanza per riflettere seriamente sulla caccia come tarlo sociale e agire di conseguenza: perché la sua struttura portante è, in estrema sintesi, il piacere di praticare violenza contro individui inermi.

“Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi?”17.

Viviamo in tempi cupissimi, dove anche noi, abitanti di un mondo occidentale che in molti pensavamo in costante crescita verso l’estensione dei diritti, ci siamo ritrovati davanti al baratro di un’umanità disumanizzata. Siamo qui a chiederci come tutto quello che sta succedendo stia davvero succedendo: troppo per essere anche solo pensato, perché il pensiero stesso si ribella al farsi contaminare dal regno dell’odio, dal dilagare dell’indecenza e di una crudeltà che nessuna specie vivente potrebbe mai ideare. Nessuna tranne la nostra, che è la più devastante, crudele e pericolosa. Che mai, nemmeno in nessun periodo di pace, ha smesso di sentirsi in diritto di praticare alla luce del sole le più orrende forme di supplizio sugli altri animali e, in modo variamente occulto, sugli altri esseri umani.

Oggi il mondo tutto sembra allargarsi a normalizzare ogni forma di indecente prepotenza, contro chiunque, senza neppure più vergognarsene; il mondo venatorio, in contemporanea, pretende un po’ di spazio in più: molti più uccellini da accecare per richiamare i loro conspecifici davanti al cacciatore lì pronto ad impallinarne quanti potrà; licenza di sparare agli uccelli migratori, esausti per viaggi interminabili; ribaltamento di sentenze del TAR per consentire il massacro anche nei valichi di montagna. E poi orsi, lupi, nutrie: tutti trasformati in bersagli, con la benedizione delle autorità, in una moderna riedizione di quel Far West dove era la colt ad accogliere ogni estraneo sgradito.

Ci si aspetterebbe che i cacciatori, numericamente in dissesto, le loro straricche lobbies, quei politici afasici e indifferenti a un volere popolare dichiaratamente contrario, prendessero consapevolezza dell’insostenibilità morale dell’attività venatoria.

A tutti noi il compito di riconoscere le mistificazioni in atto, implicitamente sostenute in modi diversi: per esempio con la vendita stessa delle armi  accanto agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Mistificazioni sorrette anche attraverso richieste dei cacciatori per entrare nelle scuole nella veste di testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali. Che vanno ad uccidere perché li amano. Doveroso interrogarsi sulla confusione cognitiva generata nei più giovani nel momento in cui viene loro proposta l’equazione amore-uccisione, che oggi più che mai è il mantra giustificativo di tanti femminicidi.

“Stiamo causando la distruzione. Dei nostri compagni animali… Ricercando null’altro che il nostro benessere E il nostro divertimento”18.

Insomma, all’interno di un discorso sulla violenza, la sua genesi, le sue manifestazioni, i modi per contrastarla, non è più possibile prescindere da considerazioni che riguardino la pratica della caccia. Se si ritiene fondamentale che l’educazione abbia come obiettivo primario l’insegnamento del rispetto per l’altro, la presa in carico dei diritti di ognuno, la convinzione che il senso di giustizia sia fondamentale nella gestione di relazioni positive, è davvero impensabile proteggere, difendere, connotare positivamente comportamenti sadici, violenti e crudeli a danno di esseri indifesi.

Non è superfluo ricordare la posizione di Albert Scheiwtzer, Nobel per la pace 1953, che sosteneva che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi e non solo gli esseri umani.

Gandhi, uno dei massimi esponenti del pacifismo, non pensò in nessun momento che la grandiosità degli obiettivi che andava perseguendo lo autorizzasse a mettere in secondo piano il dovere del rispetto per gli altri animali, da praticare costantemente anche attraverso scelte alimentari, avanzatissime per i suoi tempi.

Aldo Capitini, filosofo della non violenza, sosteneva che se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini: e lo diceva all’alba della seconda guerra mondiale, facendo tutto ciò che era in suo potere per provare a scongiurare il delirio di violenza che di lì a poco si sarebbe comunque scatenato.

Insomma e per concludere: l’attività venatoria è indiscutibilmente territorio di crudeltà. Riconoscere questa elementare verità, è passo doveroso. Che dovrebbe condurre alla strada che Freud, nel carteggio del 1932 con Einstein, indicava per agire contro la guerra, con parole che si attagliano perfettamente anche alla caccia. Le forze che esistono, dice Freud, che vanno costruite e riconosciute, sono le relazioni d’amore e i legami emotivi che si stabiliscono grazie anche a meccanismi di identificazione con l’altro. È necessario indignarsi contro la guerra (e contro la caccia, aggiungo) perché ogni uomo, ogni essere senziente ha diritto alla vita, perché la guerra (come la caccia) “annienta vite piene di promesse, pone i singoli individui in posizioni che li disonorano”. Per ricercare uno stato di pace, fra le persone, i popoli, le specie, che forse è esistito, che forse è desiderio di qualcosa di mai interamente vissuto, ma di cui vi è infinita nostalgia perché, dice Anna Maria Ortesei, da quel bene assoluto ci siamo allontanati “per deviazione, errore, stranezza o forse malattia” .

Sull’argomento ho scritto nei miei libri i capitoli:

Bang…bang…: io sparo a te. In “Noi abbiamo un sogno”. Bompiani 2006

Finchè non lo vedrai esangue, In “In direzione contraria” Sonda 2009

Ai cacciatori il posto d’onore. In “Sulla cattiva strada, Sonda 2014

1 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere;

2 Stephen Pinker, Il declino della violenza

3 Senofonte, Il Cinegetico

4 https://brotture.net/tag/caccia

5 www.bighunter.net

6 Marcello D’Orta , Nessun porco è signorina

7 Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne

8 Umberto Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia

9 Www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to=psychosexual-inadequancy-the=5-phases-of-sexual-frustration

10 www.animals24-7.org

11 Giancarlo Ferron, Il suicidio del capriolo

12 Nessun porco è signorina, Op. cit.

13 Lev Tolstoj, Op. cit.

14 https://www.vittimedellacaccia.org

15 http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm

16 Titolo del film di Vittorio De Sica, I bambini ci guardano

17 Danilo Mainardi

18 Yuval Noah Harari, Da animali a dei

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