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Poste Italiane: Infortuni e lavoro irregolare sollevano dubbi tra gli azionisti
L’Associazione Precari in Rete ha informato gli azionisti privati di Poste Italiane riguardo alle gravi criticità che affliggono l’azienda. A seguito dell’inchiesta di Report “Il postino” del 23 febbraio 2025, che ha sollevato dubbi sulle condizioni di lavoro, alcuni azionisti hanno avanzato una richiesta di chiarimenti. In linea con tale iniziativa, l’Associazione intende ora fornire ulteriori dettagli cruciali per sensibilizzare e promuovere una piena comprensione della situazione, con particolare focus sullo sfruttamento del precariato. Precarietà a caro prezzo: Infortuni e lavoro non pagato Dal 2017 a oggi, Poste Italiane ha impiegato oltre 100.000 lavoratori a tempo determinato, prevalentemente giovani e soprattutto per il ruolo di portalettere. Di questi, solo circa 18.000 sono stati stabilizzati, spesso tramite contratti part-time, che alimentano una condizione di persistente precarietà. L’elevato ricambio e la continua rotazione del personale si traducono in una ridotta esperienza complessiva della forza lavoro e in un costante bisogno di riadattamento, rendendo i lavoratori più vulnerabili a incidenti e infortuni. Nello stesso periodo, si sono registrati oltre 40.000 infortuni sul luogo di lavoro, con più del 70% concentrato proprio nel settore del recapito. Questo dato è allarmante e sottolinea come il recapito, già esposto ai pericoli intrinseci della strada, risenta anche dell’inesperienza degli addetti temporanei che lo compongono. Ciò compromette seriamente la salute e la sicurezza dei dipendenti. Il tragico bilancio è culminato nella perdita di 12 vite tra il 2021 e il 2023, a cui si aggiungono 14 decessi nel triennio precedente. Tali numeri sconcertanti evidenziano una correlazione diretta e inaccettabile tra la gestione dei contratti flessibili e l’incremento dei rischi sul lavoro. Ancor più grave, l’Associazione ha riscontrato che per anni i precari, e in alcuni casi il personale stabile, hanno sistematicamente svolto ore di straordinario senza ricevere la dovuta retribuzione nella speranza di ottenere un posto fisso. Queste eccedenze orarie, pur essendo note ai responsabili degli uffici e persino ai sindacati, non venivano mai pagate, con il pretesto che fossero “non autorizzate”. Le innumerevoli ore svolte irregolarmente rappresentano non solo una violazione dei diritti dei lavoratori, ma sollevano anche dubbi significativi in merito a una potenziale evasione fiscale e contributiva. Richieste per trasparenza e giustizia L’Associazione Precari in Rete sottolinea che tutte le ore di straordinario, autorizzate o meno, sono inequivocabilmente documentate dalle timbrature dei dipendenti, dati nella piena disponibilità aziendale. Pertanto, si chiede a Poste Italiane di: * Rendere noto il numero di precari che hanno lavorato gratuitamente oltre l’orario dal 2017. * Quantificare il totale delle ore non dichiarate e il relativo valore economico. * Provvedere al pagamento tempestivo di quanto spettante a tutti i lavoratori coinvolti, evitando lunghe e dispendiose vertenze legali. * Specificare quanti degli oltre 40.000 infortuni hanno riguardato personale temporaneo. La nostra posizione Poste Italiane non ha finora fornito chiarezza sui punti evidenziati. L’Associazione ritiene questa mancanza di trasparenza inaccettabile e crede sia diritto degli azionisti essere pienamente informati sulla gestione e sulle reali condizioni operative dell’azienda. Solo una profonda consapevolezza delle problematiche potrà portare a un cambiamento significativo e a una gestione più etica e responsabile. L’Associazione Precari in Rete continuerà a portare tali questioni all’attenzione dei media, della politica e delle istituzioni, invitando gli azionisti a proseguire con la loro richiesta di chiarimenti e a considerare l’impatto di simili criticità sulla reputazione e sulla sostenibilità a lungo termine di Poste Italiane. Associazione Precari in Rete – Poste Italiane precarinrete@gmail.com Redazione Italia
Sciopero dell’università contro la precarietà
Lunedì 12 maggio, le assemblee precarie delle università italiane hanno indetto uno sciopero, con l’adesione di diverse sigle sindacali.   Rivendicano la fine dei tagli e del precariato, il riconoscimento della loro condizione di lavoratrici e lavoratori, il rifinanziamento dell’università – oggi ben al di sotto della media europea – invece che quello agli armamenti.   Richieste ragionevoli che, in tempi straordinari, possono sembrare assurde. E tempi straordinari, questi, lo sono davvero.   Il precariato universitario è ai massimi storici, rappresenta oltre il 35% del personale accademico. [si veda qui]   Nel 2022 la riforma del preruolo universitario ha abolito gli assegni di ricerca, riconoscendo finalmente a chi dopo il dottorato fa ricerca di mestiere la condizione di lavoratore dipendente, tramite l’introduzione dei contratti di ricerca.   La transizione ai nuovi contratti non è però avvenuta. La possibilità di aprire nuove posizioni da assegnista è stata prorogata ad oltranza. E così l’afflusso di fondi del PNRR, che sarebbe potuto servire a facilitare questa transizione ammortizzando i costi, è stato invece impiegato per aprire una cascata di nuove posizioni precarie. Tra il 2023 e il 2024 il numero di persone titolari di assegni di ricerca è aumentato del 51%, arrivando alla cifra record di 24.000 [si veda ancora qui]. Nello stesso periodo è cresciuto in maniera importante anche il numero di RTDA ed il numero di borse di dottorato erogate.   Invece di preoccuparsi di un reclutamento pianificato e del futuro occupazionale delle migliaia di nuovi precari, il governo Draghi (ministra Messa) e, in perfetta continuità, il governo Meloni (ministra Bernini), con il consenso dei rettori delle università, sono riusciti nel miracolo di usare una montagna di soldi per creare un problema più grave di quello di partenza.   La riforma Bernini, che avrebbe reintrodotto diverse nuove forme di lavoro precario non riconosciuto, è stata bloccata da un ricorso in sede europea. Di recente sono stati depositati due nuovi emendamenti di segno equivalente a quello della naufragata riforma. Uno, di parte governativa, presentato da Adriano Galliani e firmato anche dalla senatrice a vita Elena Cattaneo, è in sostanza la riproposizione delle figure precarie della riforma Bernini, senza nemmeno la dignità di un contratto di lavoro [lo si legge qua] . Il secondo, a firma Francesco Verducci per il PD, mira a ridurre la durata minima del contratto di ricerca da due ad un anno per ridurne i costi [lo si legge qua].   Entrambe le alternative sembrano andare incontro alle preoccupazioni espresse dalla CRUI e dagli interessi che questa rappresenta. Il problema che mirano a risolvere è quello di avere abbastanza forza lavoro, flessibile (ovvero precaria), al minor costo possibile, non certo quello di garantire un futuro in accademia alle migliaia di persone precarie che pure, l’accademia, contribuiscono a tenerla in piedi.   Per questo il 12 scioperiamo, contro tagli, guerra e precarietà, per il rifinanziamento dell’università pubblica.  
I precari dell’università italiana
E’ vero che il governo Draghi aveva risolto il problema del precariato nell’università abolendo gli assegni di ricerca? E’ vero che la riforma Bernini del preruolo, quella adesso bloccata in parlamento, andrebbe in controtendenza rispetto agli obiettivi del PNRR? O è vero che il governo Draghi con il PNRR ha realizzato una precarizzazione senza precedenti del lavoro universitario? E soprattutto, che fine faranno gli attuali assegnisti e RTDA?  Gli interventi del governo Meloni sull’Università sono stati oggetto di dure polemiche e discussioni che si sono appuntate in primo luogo sulla riduzione del FFO, che la ministra Bernini continua a negare. L’altro elemento di accesa discussione è la riforma del pre-ruolo, nata da una bozza di progetto messo a punto da Ferruccio Resta, al tempo rettore del Politecnico di Milano,  durante il suo mandato come presidente della CRUI. Adottato dalla ministra Bernini e adesso fermo in Parlamento anche a causa della opposizione degli interessati. La discussione sul pre-ruolo e sulla precarizzazione ha portato all’attenzione pubblica un tema di norma ben nascosto sotto il tappeto. A partire dalla Legge Gelmini le università italiane sono state sottoposte alla sistematica sostituzione di personale a tempo indeterminato, con personale a tempo determinato. Nel 2010 erano occupati a tempo indeterminato 57.449 professori ordinari, professori associati e ricercatori a tempo indeterminato (RTI) che rappresentavano l’81% del personale docente e ricercatore complessivo. Il restante 19% era rappresentato da 13.109 titolari di assegni di ricerca. La legge Gelmini mise ad esaurimento gli RTI e li sostituì con due figure di ricercatori a tempo determinato: i ricercatori a tempo determinato di tipo A e di tipo B (RTDA e RTDB). La differenza tra le due figure consiste nel fatto che i RTDB, se in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, è garantito il passaggio al ruolo di associato a tempo indeterminato. A partire dal 2010, la forbice tra personale a tempo indeterminato e personale a tempo determinato si allarga progressivamente: nel 2020 ci sono 46.245 ordinari/associati/RTI che rappresentano il 65% del personale. Gli assegnisti rappresentano il 22% del totale (15.849), gli RTDA sono il 7% (5.192) e gli RTDB il restante 6% (4.616).   La legge 79/2022 abolì RTDA, RTDB e assegni di ricerca, introducendo la figura del RTT (Ricercatore in Tenure Track) e il contratto di ricerca, entrambe figure molto più costose delle precedenti. La norma non prevedeva nessuno stanziamento aggiuntivo di risorse. I rettori preoccupati dei loro bilanci e principal investigator della sostenibilità dei loro laboratori premono sul governo. Ne segue la proroga delle figure previgenti. I fondi che arrivano alle università con il PNRR prevedono l’assunzione massiccia di personale precario, principalmente assegnisti e RTDA. Ed è proprio il PNRR a determinare la crescita abnorme del numero di RTDA e soprattutto di assegni di ricerca. Per gli RTDA la crescita anomala avviene tra 2022 e 2023 con un aumento del 36% pari a 2.419 unità: da 6.803 a 9.222. Gli RTDA rappresentano l’8% del personale di ricerca. Per gli assegnisti la crescita abnorme avviene con un anno di ritardo, verosimilmente in seguito all’entrata in esercizio dei PRIN 2022/PNRR: dai 15.891 del 2023 si arriva ad un vertiginoso 23.958 nel 2024 (+51%). Al 31 dicembre 2024 gli assegnisti rappresentano il 27% del totale del personale.   Le due curve di Assegnisti e RTDA, che sono salite in modo repentino negli ultimi due anni, sono destinate da scendere molto più repentinamente e fino allo zero entro il 2027. I due ruoli degli assegnisti e degli RTDA sono infatti ad esaurimento. Per completare il quadro, c’è da tenere conto che con le risorse PNRR sono state usate anche per fare crescere in modo abnorme gli iscritti al dottorato, passati dagli 11mila del 2019 agli oltre 17.000 del 2023. Che fine faranno i 24.000 assegnisti e 9.000 RTDA attuali? E con loro i neo-dottori di ricerca? Tra breve potranno concorrere per i (non meno di) 250 contratti di ricerca prevista dal MUR con il D.D. 47/2025. Si dirà certo, il DD47/2025 è una misura poco più che simbolica, un segnale con il quale il MUR suggerisce ai rettori di iniziare a bandire i nuovi contratti di ricerca. Proviamo allora a capire quanti contratti di ricerca potranno essere banditi e chi li finanzierà. Il boom degli assegni di ricerca è dovuto alle risorse straordinarie del PNRR. Al momento non si vedono all’orizzonte PRIN o risorse di ricerca per gli atenei. Quindi i soldi che gli atenei potranno destinare al nuovo contratto di ricerca saranno drasticamente ridimensionati (se non azzerati) rispetto ai tempi delle vacche grasse del PNRR. Se ipotizziamo, molto ottimisticamente, che gli atenei destinino le risorse che negli anni precedenti il PNRR usavano per gli assegni di ricerca, e consideriamo che il contratto di ricerca costa il doppio di un assegno, arriviamo a 7.000 posti disponibili. Per una platea di concorrenti composta da 33.000 assegnisti e RTDA, più altrettanti neo-dottori di ricerca (di un paio di coorti). Gli assegnisti e gli RTDA potranno concorrere anche per i posti da RTT: ma quanti saranno i posti da RTT che le università bandiranno nei prossimi due anni? Tra 2023 e 2024 il numero di RTT/RTDB è cresciuto del 2%. Se si ipotizza, ottimisticamente, una crescita del 10% a fine 2026 per un totale di 7.800 RTT, e si ipotizza ancora che il 33% di questi posti siano “nuovi” e messi a concorso tra adesso e fine 2026 (il 67% sono occupati da chi sta seguendo il suo iter verso il posto da associato), ci saranno 2.600 posti disponibili per 33.000 potenziali concorrenti. In sostanza per circa 60.000 aspiranti ricercatori si apriranno, con previsioni ottimistiche, 7.000 posizione a tempo determinato (contratti di ricerca) e 2.600 posti con tenure track. In un recente articolo di Internazionale dedicato alla precarizzazione del mondo universitario, si racconta la storia, rassicurante per l’elettore di centro-sinistra, del presidente del consiglio Draghi eroico combattente della precarietà universitaria, e della cattiva ministra Bernini che ha disfatto cotanta opera. Vi si legge: > “La riforma Bernini [del preruolo, quella adesso bloccata in parlamento] > moltiplicherebbe le figure precarie, andando in controtendenza rispetto agli > obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), voluto dal > governo Draghi nel 2022. L’esecutivo guidato dall’ex presidente della Banca > centrale europea aveva abolito gli assegni di ricerca, sostituendoli con > il contratto di ricerca, che ai ricercatori riconosceva diritti fino ad allora > non garantiti: malattia, ferie, tredicesima, piena indennità di > disoccupazione, più contributi previdenziali. Ma per questo tipo di contratti > servono soldi, che attualmente le università non hanno.” [] I dati raccontano una storia completamente diversa. Il governo Draghi ha permesso al PD di piantare la bandierina della legge 79/2022 per intestarsi il tema della lotta alla precarietà. Al contempo il governo Draghi, con le risorse del PNRR, ha realizzato una precarizzazione senza precedenti del lavoro universitario. I costi umani e materiali di questa precarizzazione saranno enormi, con migliaia di giovani ricercatori che avranno perso anni di vita e lavoro nel perseguire obiettivi che verosimilmente non potranno raggiungere, almeno nel loro paese. La soluzione di cui si discute è una sorta di jobs act per le università: la riforma Bernini del pre-ruolo, ora ferma in parlamento, introduce una giungla di contratti precari a basso costo per il lavoro di ricerca. E’ caldeggiata dai rettori; per essa si raccolgono firme sul sito di Scienza in Rete, ed è persino sponsorizzata da Il Foglio. Una riforma sicuramente utile per rettori e ‘principal investigator’ che hanno bisogno di coprire insegnamenti e allungare il loro elenco di pubblicazioni, riempiendo i laboratori di manodopera a basso costo, senza diritti. I dati fino al 2023 sono disponibili su https://dati-ustat.mur.gov.it/organization/ace58834-5a0b-40f6-9b0e-ed6c34ea8de0?tags=Universit%C3%A0&tags=Personale. I dati del 2024 sono stati calcolati su Cercauniversità https://cercauniversita.mur.gov.it/ . Un commento più articolato si trova qua: https://zenodo.org/records/15143065