Source - ROARS

Return On Academic Research and School

Università: anatomia di un’istituzione in apnea
Leggo con attenzione e ascolto con apprensione le voci dei colleghi delle università statunitensi. Appare sempre più come un sogno infranto, una perduta Atlantide, senza che sia possibile cogliere una strategia politica razionale. Guardo dentro i nostri confini nazionali e percepisco i contorni di un mondo che subisce la desertificazione culturale travestita da innovazione. L’università — un tempo luogo elettivo dove il valore del pensiero e la ricerca del sapere non si piegavano alla contingenza — oggi si muove con passo incerto tra inossidabili resistenze di un passato baronale e moderne ansie performative e carrieristiche. In sostanza, un corpo istituzionale che sta smarrendo voce e perdendo postura. Negli Stati Uniti, le università sono state un approdo sicuro per eccellenze migranti, un laboratorio di esperimenti sociali, un ponte tra ricerca e cittadinanza. Oggi assomigliano ad un campo già minato e sul punto di deflagrare. Il governo federale sta usando il bisturi in profondità: -78 % alla National Science Foundation, ossia l’ente che – tra le altre cose – finanzia la carriera iniziale dei giovani ricercatori, -40 % al National Institutes of Health, ovvero al sistema pubblico che dovrebbe finanziare la ricerca biomedica e sanitaria, tra cui – ad esempio – le ricerche più innovative per la cura del cancro. Alcuni bandi dedicati alla ricerca ambientale, all’astrofisica, all’ingegneria aerospaziale, alle scienze planetarie (in ambito NASA) e alla climatologia, all’oceanografia, e ai cambiamenti climatici (ambiti del National Oceanic and Atmospheric Administration) sembrano evaporati. Non si tratta solo di scelte di economia politica: è piuttosto una forma di anatomia sconsiderata o di pura biopolitica che agisce indiscriminatamente sui luoghi dove tradizionalmente si conserva e si costruisce il sapere. È un fatto che migliaia di ricercatrici e ricercatori stanno considerando la mobilità dalle loro sedi per semplice sopravvivenza. Il sistema sta dismettendo i suoi principi fondamentali e questo salto mortale senza rete è accompagnato da una deriva fortemente aziendalista e dalla perdita delle tradizionali tutele per diversità, equità e inclusione. Questa la situazione americana, così come emerge dagli annunci dei decisori politici, ma soprattutto dalle prese di posizione e da un rumore di fondo che – via via – sta diventando assordante. Certo, noi abbiamo l’obbligo di guardare all’Italia, in tempi di riforme avviate e nel quadro di un innegabile e generale cambiamento nei confronti del libero esercizio dell’espressione delle opinioni. Nel mondo universitario italiano, il crescente fideismo nei confronti dell’algoritmo e delle metriche rischia di diventare il vero killer seriale del tempo giusto dell’apprendimento e della crescita progressiva della qualità della ricerca. Traspare il disegno di un’università/azienda che distribuisce titoli, in un sistema che premia consenso incondizionato, velocità e silente obbedienza. Il vero rischio è quello di creare una catena di montaggio di soggetti plurititolati, ma sempre meno riflessivi e pensanti. Di fronte a questo rischio, il corpo stesso delle comunità universitarie dovrebbe sentirsi chiamato ad una reazione propositiva e non ad una passività silenziosa.  Occorre restituire ossigeno vitale agli atenei, intesi come luogo dinamico di critica, confronto e ibridazione tra le diverse forme del sapere. Occorre tornare al tempo lungo dell’apprendimento, accettando la fertilità del dubbio, il dibattito aperto e l’originalità della critica. Si può decidere di essere anacronisticamente “inattuali”, ossia non tiranneggiati dalle urgenze performative, dal feticcio del ranking, dalla richiesta pressante del risultato a breve termine.  In un’epoca che misura e valuta tutto, l’università può ancora essere la zona franca dell’incalcolabile, dove l’unica virtù è imparare a pensare. Non è poco, non è una missione banale. Occorre un’azione polifonica di difesa consapevole dei principi fondativi. Mi piace considerarlo come un possibile atto di resistenza gentile. L’alternativa appare molto simile ad un’eutanasia, ma non altrettanto gentile. Tuttavia, non tutto deve essere percepito in termini negativi. Ci sono proposte che emergono dal corpo vitale delle comunità universitarie e sono state avanzate da riferimenti istituzionali autorevoli. È a queste che dobbiamo guardare. La tutela dei principi  di diversità, equità e inclusione dipende da scelte che risiedono ancora nell’autonomia di governo dei singoli Atenei. È possibile – e sarebbe virtuoso – ridisegnare i bandi del Fondo Italiano per la Scienza (FIS) che attualmente premiano una percentuale davvero irrisoria dei progetti presentati (tasso di successo inferiore al 3%), ripensandoli esclusivamente come opportunità di avvio di carriera per i giovani ricercatori.  La ricerca di frontiera e di eccellenza ha una dimensione europea ed è coperta dai Progetti dell’European Research Council (ERC), che hanno tassi di successo decisamente superiori (ca. 14%). È in questo contesto competitivo che dovrebbero essere indirizzati i progetti dei docenti e ricercatori con un livello più alto di eccellenza e di esperienza. La ricerca universitaria di base potrebbe essere rivitalizzata e finanziata ottimizzando le regole di ingaggio dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN), ideale sinergia tra reti diffuse. Infine, la dittatura numerica delle prestazioni potrebbe non essere la principale bussola di valutazione degli Atenei. Sarebbe un modo di dare ossigeno ad un’istituzione che – per chi la vive dall’interno – appare in costante apnea, costretta spesso a simulare l’eccellenza, venerando la quantità. Un’istituzione che ha l’autonomia di rivendicare che la libertà della ricerca, la formazione e la costruzione collettiva del sapere sono una missione di responsabilità sociale che – nel nostro Paese –  è ancora politicamente sostenibile. Pubblicato su Il Fatto Quotidiano
Lettera sugli eventi di Gaza
Segnaliamo la lettera, indirizzata da parte del personale docente e di ricerca, del personale amministrativo, tecnico e bibliotecario, delle dottorande e dei dottorandi, nonché delle studentesse e degli studenti del Dipartimento di Chimica dell’Università di Roma La Sapienza, al Direttore, affinché si apra una discussione nel principale organo di governo del Dipartimento, ovvero il Consiglio, riguardo a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza e si assuma un impegno concreto nel contrasto alla sistematica violazione dei diritti fondamentali della sua popolazione. Lettera su quanto sta avvenendo a Gaza
La finta imparzialità della valutazione: le reti che governano la ricerca italiana
Dietro la facciata neutrale delle regole formali, i panel VQR in area economica mostrano legami fitti e opachi, dominati da gruppi accademici vicini all’università Bocconi. L’analisi di rete svela che le nomine operate direttamente dai consigli direttivi di ANVUR nelle prime due VQR dettero luogo a strutture chiuse e autoreferenziali, a differenza della terza VQR quando il panel venne sorteggiato. Con la VQR in corso si è tornati indietro: ANVUR ha ripreso il controllo diretto dei panel, nominando un quarto dei membri, e riaprendo la porta a bias e conformismo. La valutazione della ricerca soffoca il pluralismo e rafforza le gerarchie accademiche consolidate. Da anni una questione agita il mondo accademico senza trovare la dovuta attenzione politica: la composizione dei panel di valutazione della ricerca. C’è una grande attenzione formale al rispetto di regole di composizione dei panel in termine di genere, provenienza geografica o appartenenza a settori scientifico disciplinari. Il rispetto di questi attributi ‘formali’ fa apparire bilanciate, composizioni dei panel che nascondono profonde asimmetrie intellettuali e scientifiche. Attraverso un’analisi empirica basata su tecniche di network analysis, abbiamo documentato e rese visibili alcune di queste asimmetrie. Il paper completo, uscito su Scientometrics è accessibile a questo link. Il caso di studio che consideriamo è quello della composizione dei panel di valutazione (GEV) dell’area di economia, statistica e scienze aziendali nei tre esercizi della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR): 2004–2010, 2011–2014 e 2015–2019. I primi due panel furono nominati direttamente dall’ANVUR, mentre per il terzo si ricorse al sorteggio tra i candidati. Questa discontinuità procedurale ci ha permesso di trattare il terzo panel come termine di confronto, evidenziando quanto forti e pervasive fossero le connessioni nei panel nominati da ANVUR rispetto a quello estratto a sorte. Le tecniche di network analysis adottate ci hanno consentito di osservare la struttura invisibile dei legami tra i commissari. In particolare, abbiamo ricostruito le reti di co-autorialità tra i membri del panel, la comunanza di strategie di pubblicazione sulle stesse riviste, la rete che individua provenienza ed affiliazioni comuni in università e centri di ricerca, e infine la rete di blog e riviste di divulgazione che hanno ospitato contributi dei membri dei panel.  Nei due panel nominati da ANVUR si osservano reti fitte, chiuse e dominate da pochi nodi centrali e gruppi. Nel panel sorteggiato, invece, la frammentazione delle reti è decisamente maggiore, segno di un’effettiva pluralità di percorsi accademici e orientamenti teorici. Il risultato è inequivocabile: le nomine dirette hanno prodotto gruppi omogenei e non rappresentativi della pluralità accademica. In aggiunta, abbiamo osservato che una parte rilevante dei legami emersi riguarda un preciso gruppo di potere accademico, riconducibile all’ambiente dell’Università Bocconi: non solo docenti, ma anche ex allievi che orbitano intorno agli stessi centri di ricerca, agli stessi network professionali, agli stessi giornali e think tank. Il nostro lavoro fornisce una mappa sistematica di queste connessioni: quali sono gli istituti e i centri più fortemente legati a questo network, e chi sono gli esponenti che ne rappresentano il fulcro. Che sia l’università Bocconi il centro del sistema, non dovrebbe certo meravigliare, almeno i lettori di Roars. Già in passato le scelte operate dall’ANVUR erano state duramente criticate, in particolare per quanto riguarda proprio la scelta dei membri del GEV di economia. Nella terza VQR, il ministro Fioramonti introdusse il sorteggio dei membri, probabilmente anche in relazione alle polemiche che avevano accompagnato le prime due VQR.  Con l’ultimo esercizio VQR si è tornati indietro, seppure parzialmente: ANVUR ha infatti scelto direttamente il 25% dei membri dei GEV, garantendosi così un controllo commissariale sui lavori dei panel: non è inverosimile pensare che un membro GEV nominato da ANVUR abbia uno status diverso dai membri estratti. E forse non è un caso che, per restare in Area economica, sia stato nominato nel panel di economia il presidente del GEV della prima VQR, che nei nostri network rappresenta lo snodo centrale dei legami nei primi due panel. Quello che succede nell’area dell’economia è particolarmente delicato. La disciplina è da sempre caratterizzata da profonde differenze teoriche, metodologiche e ideologiche. Anche se le cose sono in realtà più complicate, ci si riferisce a questa situazione dicendo che c’è una economia mainstream e una eterodossa. A nostro parere, il pluralismo di visioni è essenziale alla vitalità della ricerca. I processi valutativi, in Italia e non solo, hanno favorito la marginalizzazione sistematica delle scuole di pensiero non mainstream, contribuendo a rafforzare meccanismi autoreferenziali e a consolidare il predominio di approcci omogenei mainstream. In questo gioca un ruolo fondamentale la composizione dei panel: un panel composto da valutatori mainstream strettamente collegati non solo mina la credibilità del processo valutativo, ma espone l’intero sistema a rischi di bias strutturale. Se la valutazione scientifica finisce per premiare solo ciò che è conforme ai paradigmi dominanti, la qualità stessa della ricerca ne risulta gravemente compromessa, riducendo la capacità di innovazione del sistema e lo spazio per il dissenso costruttivo e i percorsi di ricerca non convenzionali. Non è inutile sottolineare che non è certo sufficiente a garantire una composizione fair dei panel la presenza di un paio di figure “eterodosse”, come avvenuto nei panel delle due prime VQR. Quelle presenze appaiono piuttosto come sforzo superficiale e simbolico per apparire inclusivi nei confronti di gruppi minoritari (tokenism), in modo da ridurne le manifestazioni di dissenso. Tutto ciò richiama la necessità di una riflessione più ampia sul ruolo e sugli obiettivi della valutazione della ricerca in Italia. Fin dalla sua istituzione, l’ANVUR ha imitato un mix di modelli sviluppati altrove e ispirati a logiche di efficienza, competizione e misurazione standardizzata, trascurando la complessità e la specificità dei processi di produzione della conoscenza. L’obiettivo implicito non è stato quello di promuovere il pluralismo, l’innovazione o la capacità critica, ma piuttosto di allineare la ricerca alle esigenze di un sistema economico fondato su metriche di performance e riconoscimenti formali. Gli effetti della valutazione della ricerca sono oggi visibili: una ricerca più omologata, meno incline al rischio teorico e alla sperimentazione radicale, più orientata a soddisfare indicatori quantitativi che a rispondere a interrogativi scientifici profondi, con preoccupanti segnali di corruzione endemica. Una ricerca che, in definitiva, rischia di perdere la propria funzione pubblica, trasformandosi in un’attività funzionale alla “ricchezza della nazione” e al rafforzamento delle gerarchie accademiche consolidate. Crediamo sia necessario riportare al centro del confronto pubblico il senso stesso della ricerca come bene comune, emancipandola dalle logiche burocratiche, competitive e oligarchiche che oggi ne soffocano lo sviluppo.
Lucio Russo: un argine all’irrazionalismo
Il 12 luglio è mancato Lucio Russo, figura singolare di scienziato e umanista, proprio perché nel suo percorso culturale i due termini erano indissolubilmente intrecciati. Nato a Venezia nel 1944, laureato in fisica a Napoli e professore ordinario di calcolo delle probabilità a Roma Tor Vergata, ci ha lasciato contributi e riflessioni che vanno molto al di là di un circoscritto settore scientifico. I suoi studi di storia della scienza mostrano una coerenza del tutto particolare anche con gli interventi pubblici sulla politica dell’istruzione. L’opera più nota è La rivoluzione dimenticata, saggio del 1996, tradotto in molte lingue e arrivato nel 2011 alla dodicesima edizione. La tesi di fondo, per molti sorprendente, è che la scienza ellenistica, con figure come Euclide, Archimede, Eratostene, Aristarco di Samo e molti altri, avesse elaborato un patrimonio di conoscenze, ma soprattutto una metodologia di indagine, che anticipava di secoli le riscoperte che innescarono la rivoluzione scientifica moderna. Un indagine, quella di Russo, possibile solo grazie alle sue conoscenze umanistiche che gli consentivano di accostarsi ai testi originali, forte delle competenze matematiche e fisiche necessarie per interpretare risultati scoperti nell’antichità e per secoli dimenticati. Come si legano questi studi con le sue prese di posizione, decisamente controcorrente, nei confronti della cosiddetta riforma Berlinguer della scuola? La rivoluzione dimenticata ci ammonisce che non c’è garanzia che lo sviluppo scientifico proceda linearmente, ma è possibile regredire. È proprio questo il destino che incombe su quelle società che riformano l’istruzione accantonando il pensiero scientifico, inteso non come accumulo di nozioni, ma come metodo che abbiamo ereditato da quei primi rivoluzionari. Implacabilmente, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, il pamphlet di Russo del 1998, evidenziava la povertà culturale delle basi epistemologiche di una riforma destinata a rendere assai improbabile se non del tutto impossibile la formazione di scienziati e uomini di cultura che, come Russo sappiano leggere l’antico per capire le radici del pensiero scientifico moderno. Lucio Russo è stato uno dei nostri collaboratori. Ecco i link a tre suoi articoli: https://www.roars.it/scuola-un-tema-nelle-mani-di-un-gruppetto-di-specialisti/ https://www.roars.it/a-proposito-dellarticolo-sul-doping-citazionale-apparso-su-plos-one/ https://www.roars.it/pandemia-ricerca-e-miopia/ Lo ricordiamo con affetto e gratitudine, pubblicando le slide e il video della Lectio Magistralis che tenne a Pavia il 17 febbraio 2023 in occasione della cerimonia annuale di consegna dei diplomi di dottorato. Il titolo era Un argine all’irrazionalismo: il recupero delle radici della scienza nel pensiero greco.   Lucio Russo
Le classifiche delle università non ci piacciono più
L’Economist del 18 Luglio ha pubblicato un articolo, di cui qui sotto riportiamo una traduzione, in cui si commenta in maniera critica il ranking delle istituzioni accademiche stilato dalla rivista Nature, il Nature Index. E’ uno dei primi, se non il primo, articolo di critica ai rankings delle università apparso su una rivista “mainstream”. I lettori di Roars  conoscono bene il problema: le classifiche delle università hanno il valore scientifico degli oroscopi come abbiamo spiegato tanto volte. Il Nature Index, a differenza di altri rankings in cui il punteggio finale viene costruito tenendo conto di variabili molto fragili (ad esempio, l’opinione dei datori di lavoro), si basa su un indicatore riproducibile: una selezione di circa 145 riviste scientifiche internazionali ritenute tra le più prestigiose nel campo delle scienze naturali (fisica, chimica, scienze della vita, scienze della Terra, ecc.). Per ogni articolo pubblicato in una delle riviste selezionate, vengono assegnati punteggi secondo due modalità: Article Count (AC): ogni articolo conta come 1 per ciascuna istituzione che ne è co-autrice. → Es: se un articolo ha 3 autori da 3 istituzioni diverse, ognuna riceve un punto AC. Fractional Count (FC): il contributo è suddiviso tra le istituzioni coinvolte. → Es: se un articolo ha 4 autori da 2 istituzioni, ognuna ottiene 0.5 FC. La classifica principale del Nature Index si basa sul Fractional Count, perché tiene conto in modo più preciso del contributo effettivo di ogni istituzione. Il Nature Index è concentrato esclusivamente sulle scienze naturali, ed esclude campi come: * le scienze sociali * le scienze umane * l’ingegneria applicata (in parte) * l’informatica teorica (è sottorappresentata) L’articolo dell’Economist è interessante perché mette in luce il fatto che ora 16 delle prime 20 università sono cinesi e tre americane. Questo debacle delle istituzioni occidentali è significativa anche perché è impressionante il trend di crescita delle istituzioni cinesi. Solo 10 anni fa neppure una accademia cinese era nella top ten. E allora cosa si conclude? > il modo in cui viene costruita la classifica favorisce i punti di forza della > Cina. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. --------------------------------------------------------------------------------   Dieci anni fa, Nature, una prestigiosa rivista scientifica, ha iniziato a conteggiare i contributi forniti dai ricercatori di diverse istituzioni agli articoli pubblicati in una selezione di 145 riviste accademiche di alto livello. Quando nel 2016 fu pubblicato il primo Nature Index, l’Accademia Cinese delle Scienze (CAS) si classificava al primo posto, ma le istituzioni americane ed europee dominavano ancora la top ten. Harvard era seconda, Stanford e il MIT erano rispettivamente quinta e sesta; il Centro Nazionale Francese per la Ricerca Scientifica (CNRS) e la Società Max Planck tedesca occupavano il terzo e quarto posto; Oxford e Cambridge si piazzavano al nono e decimo (il settimo e ottavo posto erano invece occupati rispettivamente dalla Helmholtz Association e dall’Università di Tokyo). Col tempo, tuttavia, la classifica si è capovolta. Nel 2020, la Tsinghua University di Pechino è entrata nella top ten. Nel 2022 Oxford e Cambridge sono uscite, sostituite da due rivali cinesi. Nel 2024, solo tre istituzioni occidentali sono rimaste nella top ten: Harvard, il CNRS e la Società Max Planck. Quest’anno, Harvard è seconda e Max Planck nona. Otto delle prime dieci posizioni sono occupate da istituzioni cinesi. Questo cambiamento riflette un miglioramento reale e rapido delle capacità scientifiche della Cina. Nell’ultimo decennio, il paese ha aumentato la spesa per la ricerca e sviluppo (R&S) di circa il 9% all’anno in termini reali. Nel 2023, correggendo per il potere d’acquisto, la Cina ha superato sia gli Stati Uniti sia l’Unione Europea nella spesa combinata di governo e università per la R&S. Inoltre, ha richiamato in patria molti ricercatori cinesi precedentemente all’estero, noti come haigui (“tartarughe marine”), un gioco di parole che richiama il ritorno “dal mare”. Tutti questi sforzi hanno dato i loro frutti. La Cina oggi pubblica più articoli ad alto impatto (quelli che rientrano nel top 1% per citazioni) rispetto agli Stati Uniti o all’Europa. In settori come chimica, ingegneria e scienza dei materiali, è ormai considerata leader mondiale. Produce anche un’elevata quantità di ricerche di alta qualità in informatica. L’Università di Zhejiang, quarta nel Nature Index 2025, ha formato Liang Wenfeng, fondatore di DeepSeek, una delle aziende cinesi più avanzate nel campo dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, il modo in cui viene costruita la classifica favorisce i punti di forza della Cina. Le riviste incluse nell’indice sono scelte per rappresentare la ricerca d’eccellenza nelle scienze naturali, e la loro composizione viene aggiornata regolarmente. L’aumento delle pubblicazioni nelle riviste di chimica e scienze fisiche ha portato queste aree a costituire oltre la metà del campione nel Nature Index 2025. Le riviste di scienze biologiche e della salute, dove l’Occidente mantiene un dominio, rappresentano solo il 20% dell’indice. Inoltre, i centri di ricerca cinesi scendono di molto nella classifica quando si considera solo la produzione nelle riviste Nature e Science, generalmente considerate le più prestigiose. Solo la CAS figura tra le prime posizioni in questa classifica, piazzandosi al quarto posto. Gli osservatori dovrebbero comunque interpretare queste classifiche con cautela. Pur essendo una misura utile della forza scientifica di un’istituzione o di un paese, il Nature Index offre una valutazione inevitabilmente incompleta. Molte ricerche di valore vengono pubblicate in riviste meno note, e le innovazioni che cambiano il mondo non provengono necessariamente dalle istituzioni ai vertici della classifica. Detto ciò, le università Zhejiang, Pechino e Tsinghua si sono meritatamente guadagnate, insieme alla CAS, un posto tra le migliori al mondo.  
Riportare la conoscenza scientifica nelle mani di chi la produce: dove sbaglia RFK jr.
Dopo Karen Maex ed EUA, un contributo di oltreoceano apparso su Chronicle of higher education. Il titolo parla da sé: What RFK Jr. Got Right About Academic Publishing. The system no longer works for anyone except corporate publishers.  Verrebbe da dire la soluzione sbagliata per la corretta individuazione del problema. (Ringrazio Luca de Fiore per la segnalazione). L’occasione del commento apparso sul Chronicle è la decisione da parte del governo americano, su suggerimento di RFK jr. di avviare la pubblicazione di proprie riviste scientifiche, vale a dire non più governate dagli interessi commerciali bensì da quelli politici. Dalla padella nella brace verrebbe da dire. Tuttavia il punto di partenza è corretto. Il sistema dell’editoria scientifica saldamente in mano ad un oligopolio di editori commerciali presenta forti inefficienze, causa disuguaglianze ed è fortemente orientato al profitto, con costi per pubblicare che raggiungono i 12000 dollari (Nature). Non è sempre stato così, una forte virata verso il profitto si ha con la comparsa di Robert Maxwell che rende l’editoria scientifica una attività produttiva fra le più vantaggiose (molto più di quella dei colossi del web come Google o dell’informatica come Microsoft ad Apple). Ai costi sostenuti dalle istituzioni (per leggere e per pubblicare), si aggiungono quelli degli enti finanziatori Agencies like the National Institutes of Health and the National Science Foundation spend billions on research, only for the findings to be locked behind expensive paywalls. Authors are often required to surrender copyright to publishers, losing ownership of their publicly funded work. Taxpayers fund research, universities pay faculty to conduct it — and both must pay again to access the results. L’open access nella versione degli editori commerciali (gold open access) ha ulteriormente complicato la situazione, aumentato i costi e accresciuto le disuguaglianze. While meant to democratize access, APCs created new barriers for researchers and allowed commercial publishers to retain dominance L’autore dell’articolo su The Chronicle of higher education, professore a Stanford e già associate director del NIH, definisce quattro grossi problemi dell’editora scientifica: La peer review (difficoltà a trovare revisori, mancato riconoscimento e inaccuratezza legata spesso a scarsità di tempo). Le APC che costringono a recuperare fondi anche ricercatori molto giovani e privi di finanziamenti La formattazione degli articoli (ogni volta diversa) che richiede tempi lunghi e che non aggiunge nulla al contenuto L’accesso chiuso che impedisce una disseminazione ampia delle ricerche. La soluzione a questi problemi e inefficienze non è quella di creare un pacchetto di riviste curato dal governo, ma guarda caso quella di basarsi su infrastrutture pubbliche governate dalla comunità scientifiche. The solution is not federal control as suggested by Kennedy, but rather university-led publishing grounded in academic values and supported by modern infrastructure. E così si torna al discorso di Karen Maex (Protect independent and public knowledge) In un sistema di questo tipo revisori ed editors sono ricompensati per il loro lavoro in temini di riconoscimento della attività per gli avanzamenti di carriera o di riduzione di certi carichi istituzionali, le infrastrutture sono gestite dalla istituzioni (anche in forma consortile) e tutte le pubblicazioni sono messe a disposizione ad accesso aperto. I fondi ci sono già nel sistema, ma vanno ridirezionati. This model will require investment, but the funds already exist — locked up in excessive publisher fees. Universities and research institutions currently spend hundreds of millions annually on subscriptions and APCs. Redirecting even a portion of that spending to support in-house publishing could drastically reduce costs and improve access. Commercial publishers enjoy profit margins of 30-40 percent. By eliminating those margins, a university-based system could offer high-quality publishing at far lower cost. Se la soluzione prospettata da Kennedy è totalmente sbagliata il punto di partenza è del tutto corretto The current system no longer works for anyone except corporate publishers. Rather than replacing private publishers with a government-run platform — which raises concerns about political interference — we should empower academic institutions to reclaim control over scholarly communication. Abbiamo la tecnologia, abbiamo l’expertise, abbiamo i fondi. Ciò che manca è la volontà di costruire un sistema that serves science rather than exploits it (pubblicato su: https://openscience.unimi.it/blog/)
Ricerca e guerra: il personale CNR organizza l’obiezione attiva
Il personale del CNR si sta organizzando per l’obiezione attiva alla guerra Le elevate competenze intellettuali e scientifiche sono parte essenziale – al punto da diventare bersagli – delle azioni belliche: dal know-how tecnico sulle armi fino alla costruzione ideologica e retorica di una “cultura della guerra”. All’interno del Consiglio Nazionale delle Ricerche si è andata consolidando la condanna per l’estendersi delle azioni belliche, delle pratiche di sterminio in atto a Gaza e della normalizzazione del conflitto armato. Centinaia di lavoratrici e lavoratori del più grande Ente di ricerca italiano si dichiarano non disponibili a mettere i propri saperi al servizio della pratica e della cultura della guerra. All’opposto, si impegnano a contrastare con azioni concrete la deriva bellicista e a mettere le loro competenze al servizio della ricerca e dello sviluppo di approcci alla risoluzione delle controversie internazionali fondati sul diritto e sul dialogo. Pubblichiamo il testo completo. Si firma qui (è necessario una mail cnr). Noi sottoscritti, ricercatori e tecnologi, ricercatrici e tecnologhe, collaboratori e collaboratrici del Consiglio Nazionale delle Ricerche ci uniamo alle manifestazioni di condanna espresse da tanti settori della società civile nei confronti dell’affermarsi e dell’estendersi delle azioni belliche e delle pratiche di sterminio. Respingiamo la normalizzazione del conflitto armato, che appare in precipitosa crescita nella teoria, nella pratica, nella comunicazione pubblica, nelle concrete direttive politiche del tempo che viviamo – e anche nella nostra sensibilità valoriale, come mostra l’inazione, di fatto la complicità, nei confronti dell’orrore perpetrato a Gaza. Esprimiamo quindi la nostra ferma indisponibilità a prestare la nostra collaborazione intellettuale e scientifica – a qualunque livello – a iniziative che implichino, anche in modo indiretto, destinazioni belliche. Nel fermo richiamo all’art. 11 della Costituzione Italiana, non intendiamo concorrere agli attuali piani di riarmo o essere in qualunque modo contigui a chi ricorra all’esercizio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Volutamente non ci diffondiamo in analisi: molte ne sono disponibili e ci sorreggono, ma la nostra urgenza oggi è evitare i distinguo e dichiarare una presa di posizione inequivocabile. Le elevate competenze intellettuali e scientifiche sono parte essenziale – al punto da diventare bersagli – delle azioni belliche: dal know-how tecnico sulle armi fino alla costruzione ideologica e retorica di una “cultura della guerra”. Ebbene, noi vogliamo che la società italiana, i decisori politici, chi ci rappresenta nei consessi internazionali sappiano con chiarezza che noi scienziati e scienziate, studiosi e studiose, collaboratori e collaboratrici del più ampio Ente di ricerca italiano non siamo disponibili. All’opposto, ci impegniamo a contrastare con azioni concrete la deriva bellicista e a mettere le nostre competenze al servizio della ricerca e dello sviluppo di approcci nonviolenti alla risoluzione delle controversie internazionali fondati sul diritto e sul dialogo. Invitiamo tutti i colleghi del CNR a unirsi a questa obiezione e a questo impegno. E invitiamo i nostri colleghi degli altri Enti di Ricerca e delle singole Università italiane – che in tanti casi hanno già espresso la loro denuncia – ad assumere un’analoga presa di responsabilità e a esigere che i propri vertici la rappresentino in ogni occasione opportuna. LINK PER LA SOTTOSCRIZIONE (RICHIEDE ACCOUNT @CNR.IT) https://forms.office.com/Pages/ResponsePage.aspx?id=n07GNH_S3U6h8BOX 8MhPlG6vFCOpuhhHkbBkfVqLzb1UN0ZXUEExSjMwOU1CNlBNSVJNOV REWkdUTi4u HANNO GIA’ FIRMATO (IN ORDINE DI ADESIONE E IN AGGIORNAMENTO)
Sensazionale scoperta INVALSI: il numero di studenti per classe non conta
Meglio una classe da 30 studenti o da 10? Quale situazione preferirebbe Mark Zuckerberg per l’istruzione di suo figlio? La dimensione della classe non conta: è questa la recente, sensazionale scoperta dell’INVALSI. Ciò che conta è “la dimensione della persona”, la personalizzazione. Perciò, quando il Ministro dell’Economia dichiara che bisognerà “ripensare strutture, personale e spesa” per l’istruzione, non dobbiamo preoccuparci. Non servono soldi per aumentare il numero di insegnanti o stabilizzarli, basta dirottare risorse sulle nuove tecnologie di intelligenza artificiale e personalizzare la didattica. Fatalità, la scoperta dell’INVALSI lo conferma. -------------------------------------------------------------------------------- Meglio una classe da 30 studenti o da 10? Proviamo a chiederci: quale situazione preferirebbe Mark Zuckerberg per l’istruzione di suo figlio? La dimensione della classe non conta: è questa la recente e sensazionale scoperta dell’INVALSI: ciò che conta è “la dimensione della persona”, la personalizzazione. Che fortuna: in effetti non abbiamo i soldi per aumentare il numero di insegnanti (vedi recenti dichiarazioni del Ministro Giorgetti sui tagli alla scuola, qui) ma possiamo dirottare risorse sulle nuove tecnologie di intelligenza artificiale per personalizzare la didattica (vedi dichiarazione del Ministro Valditara sull’utilità dell’IA in classe, qui). Nell’attesa dell’ultima puntata della soap opera più longeva della storia della valutazione scolastica italiana, ovvero l’uscita del Rapporto annuale sui test INVALSI edizione 2025, prevista per il prossimo 9 Luglio, l’Istituto prova ad alimentare la suspence elencando percentuali e correlazioni tra la taglia delle classi delle nostre scuole e il numero di studenti “low performer”. I “low performer” sono sempre loro, ormai li conosciamo: gli studenti fragili, i dispersi impliciti, i ragazzi “bollinati” INVALSI livello 1 e 2 . L’INVALSI ci dice che la numerosità delle classi non influisce sulla loro percentuale. Ad esempio per gli studenti di terza media: > “LE CLASSI DI DIMENSIONI INTERMEDIE (21-25 STUDENTI) MOSTRANO UNA PERCENTUALE > INFERIORE DI STUDENTI CON BASSO RENDIMENTO (1,01%), MENTRE QUELLE PIÙ NUMEROSE > (OLTRE 26 STUDENTI) PRESENTANO UN’INCIDENZA LIEVEMENTE SUPERIORE (1.09%)”. La contabilità INVALSI dovrebbe rassicurarci. In effetti anche se non sappiamo bene cosa significhi “basso rendimento”  per l’Istituto di valutazione, anche se non possiamo accedere ai contenuti dei test per farci un’idea di cosa effettivamente si stia misurando e per controllarne i risultati, anche se non conosciamo l’incertezza statistica dei dati, se ignoriamo i metodi e di correzione, oggi automatizzati, e la loro accuratezza, la scoperta dell’INVALSI può risultare consolante. In fondo i dati INVALSI sono un po’ come la fede: uno o ce l’ha o non ce l’ha. Ma se ce l’ha, che gran conforto. La scoperta dell’INVALSI però è tutt’altro che originale: sono almeno 30 anni che gli economisti dell’educazione made in USA  (vedi Hanuscheck) e l’OCSE tentano di convincerci che insegnare e apprendere in una classe di 30 o 10 studenti non fa differenza. L’uso politico del  “class size effect” è evidente e non necessita di commenti. Da parte nostra, in un Paese dove il dibattito sulla scuola è inesistente, perché affidato al principio di Autorità e all’assenza sistematica di qualsiasi contraddittorio, ci limitiamo a qualche piccolo contributo, non allineato al catechismo dell’INVALSI. 1.  Il libro “Rethinking class size” di Peter Blatchford ed Anthony Russell del 2020, UCL Press,  liberamente scaricabile qui.   > “IL DIBATTITO SULL’IMPORTANZA DELLE DIMENSIONI DELLE CLASSI PER L’INSEGNAMENTO > E L’APPRENDIMENTO È UNO DEI PIÙ DURATURI E ACCESI NELLA RICERCA EDUCATIVA. GLI > INSEGNANTI SPESSO INSISTONO SUL FATTO CHE LE CLASSI PICCOLE FAVORISCANO IL > LORO LAVORO. MA MOLTI ESPERTI SOSTENGONO CHE I DATI DELLA RICERCA DIMOSTRANO > CHE LE DIMENSIONI DELLE CLASSI HANNO SCARSO IMPATTO SUI RISULTATI DEGLI > STUDENTI, QUINDI NON SONO RILEVANTI, E QUESTA VISIONE DOMINANTE HA INFLUENZATO > LE POLITICHE A LIVELLO INTERNAZIONALE. > >  IN QUESTO LAVORO, I RICERCATORI DEL PIÙ GRANDE STUDIO AL MONDO SUGLI EFFETTI > DELLE DIMENSIONI DELLE CLASSI PRESENTANO UNA CONTROARGOMENTAZIONE. ATTRAVERSO > UN’ANALISI DETTAGLIATA DELLE COMPLESSE RELAZIONI IN GIOCO IN CLASSE, RIVELANO > I MECCANISMI CHE SUPPORTANO L’ESPERIENZA DEGLI INSEGNANTI E CONCLUDONO CHE LE > DIMENSIONI DELLE CLASSI SONO DAVVERO IMPORTANTI.” 2. Lo studio “L’impact de la taille des classes sur la réussite scolaire dans les écoles, collèges et lycées français” di Thomas Piketty e Mathieu Valdenaire, del 2006, accessibile qui > “IL NOSTRO METODO CONSENTE DI INDIVIDUARE EFFETTI STATISTICAMENTE > SIGNIFICATIVI DELLA DIMENSIONE DELLE CLASSI NEI TRE LIVELLI DI ISTRUZIONE. > TALI EFFETTI RISULTANO QUANTITATIVAMENTE MOLTO PIÙ RILEVANTI NELLA SCUOLA > PRIMARIA RISPETTO ALLA SCUOLA MEDIA, E ANCOR PIÙ RISPETTO ALLA SCUOLA > SUPERIORE. PER QUANTO RIGUARDA LA SCUOLA PRIMARIA, METTIAMO IN EVIDENZA UN > IMPATTO POSITIVO SIGNIFICATIVO DELLE CLASSI MENO NUMEROSE SUL SUCCESSO > SCOLASTICO DEGLI ALUNNI.” 3. La meta analisi dell’istituto delle Politiche Pubbliche francesi (IPP) “La taille des classes influence-t-elle la reussite scolaire?” del 2017, scaricabile qui. le cui conclusioni potrebbero essere così riassunte: a) Ridurre le dimensioni delle classi è una politica costosa ma efficace per combattere le disuguaglianze, se mirata e significativa. b) Questa politica avvantaggia principalmente gli studenti con il più basso status socio-economico. 4. E per finire, l’analisi, attualissima (30 giugno 2025) dello stesso Istituto delle Politiche Pubbliche francesi, che in vista della futura legge di bilancio esprime una serie di raccomandazioni sulla spesa pubblica per l’istruzione. Il titolo è “Taille des classes et inegalités territoriales: quelle stratégie face à la baisse démographique?”, di cui riportiamo questo piccolo estratto: > “RIDURRE IL NUMERO DI INSEGNANTI PER MANTENERE INALTERATA LA DIMENSIONE DELLE > CLASSI > > [IN PREVISIONE DEL CALO DEMOGRAFICO] > > GENEREREBBE ECONOMIE A CORTO E MEDIO TERMINE, MA PRIVEREBBE GLI STUDENTI DEI > VANTAGGI ASSOCIATI ALLA DIMINUZIONE DEL NUMERO DI ALUNNI PER CLASSE: > > –EFFETTI POSITIVI SUGLI APPRENDIMENTI, BEN DOCUMENTATI DALLA LETTERATURA > SCIENTIFICA > > -CHE SI TRADURREBBERO, A LUNGO TERMINE IN SALARI E CONTRIBUZIONI PIÙ ELEVATE > PER LA SOCIETÀ. > > [SENZA CONSIDERARE] I BENEFICI ANNESSI: MIGLIORI CONDIZIONI DI LAVORO PER GLI > INSEGNANTI, ESTERNALITÀ POSITIVE DAL PUNTO DI VISTA SOCIALE (SALUTE, > DELINQUENZA ETC).”
(Abilitazione Scientifica) Nazionale senza filtro
Il Consiglio dei Ministri il 19 maggio 2025 ha approvato il disegno di legge dal titolo “Revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario”. Roars ha già dato conto del testo nonché della relazione illustrativa. È opportuno procedere a un primo esame della proposta, da cui emergono immediatamente numerose e gravi criticità, sia nell’impostazione politica che nella scrittura tecnica del provvedimento. Esso intende aggiornare dopo 15 anni la legge Gelmini e la novità principale riguarda la procedura dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), che costituiva uno dei punti qualificanti della riforma. Secondo la relazione illustrativa, l’ASN avrebbe smarrito “la sua natura iniziale, … quella di accertare il possesso di un livello minimo di qualificazione e produttività scientifica basato su standard condivisi a livello nazionale”. Inoltre, si era “radicata l’aspettativa che” l’ASN conferisse “una sorta di diritto acquisito alla chiamata in ruolo,” destinata invece inevitabilmente a deludere la maggior parte degli abilitati dato il loro altissimo numero. In poche parole: un fallimento ammesso dalle stesse forze di governo che avevano fortemente voluto la riforma. Il rimedio, però, appare peggiore del male. La proposta è infatti quella di abolire le commissioni di valutazione e di rendere l’ASN puramente quantitativa mediante un’autodichiarazione degli interessati su una piattaforma telematica messa a disposizione dal Ministero. Se per i settori bibliometrici sopravviverebbe ancora una qualche forma di sbarramento (nonostante il fatto che a livello internazionale sia ormai acclarato che l’affidarsi solamente o prevalentemente a questi indici per la valutazione dei singoli ricercatori sia inaccettabile), per quelli non bibliometrici si andrebbero a calcolare i titoli in maniera puramente quantitativa, incoraggiando senza più alcuna remora la produzione di articoli spazzatura, pur di raggiungere i requisiti prescritti. La suddivisione delle riviste in due fasce infatti non funziona ed è piena di difetti: chi scrive lo dice a ragion veduta avendo fatto parte di uno dei Gruppi di Lavoro che valutava le domande delle riviste. Secondo la relazione, per integrare le soglie dell’ASN si terrebbero presenti “l’organizzazione o la partecipazione come relatore a convegni scientifici, l’attribuzione di borse di ricerca o di incarichi di collaborazione all’attività di ricerca, la partecipazione a progetti di ricerca aggiudicati sulla base di bandi competitivi, il conseguimento di premi riconosciuti per l’attività scientifica, i risultati in sede di trasferimento tecnologico etc.)”, nonché finalmente “una misurazione della produzione scientifica, integrandola con analisi della sua continuità e distribuzione temporale”. Una valutazione così complessa sarebbe affidata ancora una volta all’autodichiarazione, ma chi ha esperienza di commissioni di concorso sa bene quanto spesso i curricula tendano a enfatizzare e gonfiare questi dati, che qui sarebbero totalmente privi di validazione e controllo. Sempre nella relazione, si afferma che si intende “introdurre un sistema premiale per le università che assumono i migliori, ossia coloro i quali nel periodo successivo all’assunzione dimostrano con i loro indicatori di produttività, con le loro pubblicazioni e con la loro attività complessiva, di aver contribuito al miglioramento della qualità delle attività dell’università che li ha reclutati”. A parte il fatto che questo elemento è già presente (indicatore R2 della Valutazione della Qualità della Ricerca – VQR), non è chiaro che cosa esattamente abbia in mente il legislatore. Più avanti viene specificato che “la valutazione dei vincitori di tutte le procedure di reclutamento” va svolta “dopo due anni dalla presa di servizio e con cadenza biennale per la durata del rapporto di lavoro”. La relazione però non va d’accordo con il disegno di legge (art. 2, c. 5.d), che invece prevede la “valutazione, dopo due anni dalla presa di servizio e con cadenza triennale per la durata del rapporto di lavoro”. A parte il dettaglio, tale valutazione dovrà incidere sul computo delle assegnazioni del Fondo per il Finanziamento Ordinario (FFO). I casi sono due: 1. la valutazione deve metter su un carrozzone simile alla VQR, con tutto lo sforzo, la spesa e la distrazione dai compiti principali che ciò comporta. L’ipotesi sembra difficilmente realizzabile perché, a differenza della VQR quinquennale, il triennio (o il biennio) dipende dalla presa di servizio del docente o del ricercatore e dunque ha date sempre sfalsate e dovrebbe avere cadenza annuale interessando ogni anno una parte diversa del corpo docente, rendendo oltretutto i risultati disomogenei e non comparabili. Oppure 2. la valutazione è demandata alle sedi locali (cosa assai più semplice), ma poiché – come si sa – non bisogna chiedere all’oste se il vino è buono, gli atenei avrebbero tutto l’interesse a supervalutare ciascuno i propri docenti e ricercatori, rendendo inaffidabile la procedura. Arriviamo quindi – sempre nella relazione – alla “mobilità orizzontale attraverso il ‘trasferimento’ delle facoltà assunzionali (e delle relative risorse finanziarie)” il che avrebbe il fine di rendere “più attrattivo e conveniente il sistema di mobilità tra Atenei”. Non si capisce esattamente per chi risulterebbe più attrattivo, o forse si capisce fin troppo bene, in quanto i ricercatori scapperebbero tutti negli atenei più ricchi del nord svuotando in breve quelli del centro-sud e condannandoli alla sparizione nel giro di pochi anni, accelerando un processo già da tempo avviato in maniera più strisciante attraverso il sistema delle premialità. Si dice inoltre pudicamente che “potranno essere previste apposite premialità in favore degli Atenei ‘cedenti’ facoltà assunzionali,” ma – a meno che non si prevedano premialità equivalenti o superiori alle risorse e alle capacità assunzionali perdute – nessun ateneo sarebbe così suicida da accettare un “trasferimento unidirezionale”. Anche in quest’ultimo ipotetico (e irrealistico) caso, tuttavia, si tratterebbe comunque di un finanziamento aggiuntivo gratuito alle università più ricche e del drenaggio delle menti migliori dalle sedi più svantaggiate. In sintesi, per quanto riguarda l’impostazione generale del disegno di legge, l’abolizione del filtro nazionale dell’ASN confinerebbe i concorsi ancor più di quanto avvenga oggi in bolle localistiche e autoreferenziali, frantumando ulteriormente il già compromesso quadro unitario del sistema universitario nazionale; incentiverebbe la produzione massiva di articoli di scarsa o nessuna qualità; drenerebbe le menti migliori a favore delle università ricche del nord svuotando quelle meno privilegiate del centro-sud. Non è certo aumentando dal 20% al 25% le risorse da destinare a concorsi esterni che si risolve il problema, tanto più che contemporaneamente viene abolito il 33% delle risorse per bandi di ricercatori riservato a chi ha tre anni di dottorato o assegno di ricerca in altro ateneo (l’art. 24 c. 1 bis della Gelmini). Questo 25% inoltre aumenterebbe il costo del reclutamento per gli atenei mentre contemporaneamente si taglia pesantemente il FFO e non si forniscono fondi aggiuntivi per gli scatti stipendiali, tanto che molti atenei hanno di fatto già bloccato o fortemente limitato il turnover. In sintesi, si tratta di un disegno potenzialmente letale per il sistema nel suo complesso. È opportuno però entrare nei dettagli della proposta per vedere anche le gravi contraddizioni, che mostrano come gli estensori abbiano scarsa cognizione di come funzioni l’università italiana. Partiamo dalla composizione delle commissioni di concorso: servirebbero cinque membri per i docenti (fino a oggi ne bastavano tre e cinque era solo un’opzione), tutti ordinari per i concorsi di prima fascia, almeno tre ordinari (e due associati) per quelli di seconda fascia. Verrebbero mantenuti invece i tre commissari per i ricercatori (di cui uno ordinario e gli altri associati). Questo significherebbe aumentare pesantemente il fabbisogno di docenti commissari, complicando e rallentando i concorsi. Evidentemente chi ha scritto la norma viene da settori molto popolosi (medici, ingegneri, giuristi) e non si rende conto che invece molti settori vantano numeri molto bassi di ordinari. E nonostante questo si prevede “un principio di limite alla partecipazione a commissioni giudicatrici in uno stesso periodo di tempo” e “una serie di requisiti qualitativi e di equilibrio di genere, nonché finalizzati alla rotazione tra i professori chiamati a farne parte”, principi inapplicabili ai SSD poco popolosi. Sembra che non sia più possibile utilizzare come membro designato un esterno in quanto l’art. 2 c. 3 del disegno di legge prevede la presenza di “almeno un componente interno all’università che ha indetto la procedura, afferente al settore scientifico-disciplinare (SSD) di cui al bando di concorso.” E se l’università non ha nessun ordinario del settore e nemmeno del gruppo scientifico disciplinare (GSD) come si fa? Poiché inoltre il comma prevede la presenza nella commissione di “almeno quattro componenti esterni” e di “almeno un componente interno” ci si chiede se i componenti della commissione possano essere anche più di cinque. Infine, se il sorteggio va fatto “tra i docenti disponibili a livello nazionale, afferenti al settore scientifico-disciplinare”, ciò significa che – a differenza di quanto avveniva fino ad oggi – non si possono includere colleghi stranieri. Si tratta di una svista o di un caso di “sovranismo accademico”? e come la mettiamo con il diritto comunitario? Senza parlare del fatto che ci si affida a un sorteggio per la designazione della commissione: un bel salto che sconfessa la retorica del merito finora imperante, che prevedeva soglie dei commissari ASN superiori a quelle degli ordinari, per affidarsi invece alla roulette. Il merito della dea bendata. Forse le due uniche note positive sono da un lato la previsione che il SSD sia vincolante per la scelta dei commissari, visto che sono stati numerosi i concorsi in cui alla commissione mancavano membri del SSD del bando, sostituiti da altri provenienti da SSD differenti dello stesso GSD. Dall’altro che la graduatoria stilata dalla commissione è vincolante, ossia non è più ammesso il malcostume di designare una rosa di candidati da cui il dipartimento sceglie a suo piacimento. Si parla anche di valutazione da parte della commissione delle modalità di svolgimento della didattica, senza però chiarire che cosa significhi esattamente (valutazione del curriculum o lezione dimostrativa?), nonché della possibilità per il dipartimento di invitare il vincitore di concorso a tenere una lezione o un seminario. Questo però avverrebbe dopo la conclusione dei lavori della commissione. Che cosa significa dunque? Che se la lezione non piace al dipartimento il vincitore non viene chiamato? Sarebbe una procedura davvero bizzarra. Come si vede anche da un punto di vista tecnico il disegno di legge presenta una serie di punti interrogativi e di contraddizioni patenti. Il giudizio sul disegno di legge, dunque, non può che essere negativo e l’auspicio è che venga riscritto su basi completamente differenti.