Addio ASN. E poi?Il disegno di legge governativo di riforma del reclutamento universitario
presenta molteplici ombre. Il punto più critico è quello dell’abbandono di una
vera valutazione, a livello nazionale, del merito e della qualità degli
aspiranti professori per demandare tutto alle sedi locali. Tale soluzione
comporta i fortissimi rischi di enfatizzare un esasperato «localismo» nella
scelta dei professori universitari e di disgregare ulteriormente il sistema
universitario nazionale
1. Premessa. Il fallimento dell’abilitazione scientifica nazionale secondo il
progetto governativo. Valutazioni critiche.
Il giorno 19 maggio 2025 il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di
disegno di legge recante «revisione delle modalità di accesso, valutazione e
reclutamento del personale ricercatore e docente universitario». Si tratta di un
provvedimento atteso da tempo, annunciato anche da Ministri di Governi
precedenti e che ora ha assunto una forma concreta. Tale disegno di legge è
stato presentato al Senato della Repubblica il 3 giugno 2025 con il numero 1518.
Per esaminare questo progetto nel dettaglio, la cosa migliore è leggere (e
commentare) i passi più significativi della relazione illustrativa che lo
accompagna.
Anzitutto, si dice che «il presente disegno di legge riprende i tratti
fondamentali delle proposte elaborate nell’ambito del Gruppo di Lavoro nominato
con decreto del Ministro dell’università e della ricerca del 20 settembre 2024,
n. 1501, avente come scopo attività di supporto al Ministro per analisi, studio
ed elaborazione di proposte di revisione in materia di reclutamento e di qualità
dell’offerta formativa, dell’assetto e della governance della valutazione
dell’università e della ricerca, nonché di revisione della struttura e del
funzionamento degli Organi consultivi del Ministero dell’università e della
ricerca. Il Gruppo di lavoro – composto dai Presidenti degli Organismi di
consulenza del Ministro, nonché da esperti del settore – ha portato avanti
diversi filoni di discussione, a partire dai temi della funzionalità del vigente
sistema di Abilitazione scientifica nazionale (ASN) di cui all’art. 16 della
legge n. 240 del 2010 e da quelli, strettamente connessi, delle procedure per la
chiamata dei professori e dei ricercatori a tempo determinato (artt. 18 e 24
della medesima legge). L’obiettivo principale è stato quello di effettuare una
valutazione complessiva di coerenza agli scopi originari, alla luce dei
risultati attesi».
A parte il fatto che il decreto di nomina del Gruppo di lavoro dovrebbe essere
il n. 1591 e non il n. 1501, come indicato poc’anzi, va sottolineato che questo
organismo – come altri Gruppi di lavoro di recente istituzione – vede la
presenza di componenti accademici e no scelti unilateralmente dalla Ministra
senza alcun confronto con la comunità universitaria e, soprattutto, con il suo
organo principale di rappresentanza che è il Cun.
La relazione afferma che «sulla base delle risultanze del Gruppo di lavoro, è
stato elaborato il presente disegno di legge, che persegue la finalità di
promuovere la qualità del sistema universitario italiano, avendo presente in
particolare la necessità di renderlo maggiormente accessibile agli studiosi più
giovani, di semplificarne le procedure, di rafforzare l’autonomia dei singoli
Atenei, introducendo al contempo norme che ne rafforzino in modo significativo
la responsabilità per le scelte compiute in sede di reclutamento. Infine, si è
ritenuto di dover intervenire anche al fine di reinserire procedure di mobilità
del personale docente che il quadro risultante dalle modifiche intervenute negli
ultimi quindici anni avevano fortemente limitato, cristallizzando un localismo
di cui certamente non può giovarsi il sistema complessivamente inteso».
E così, «partendo dall’analisi della funzionalità del sistema ASN dopo quindici
anni dall’approvazione della legge n. 240 del 2010 e dopo più di dodici anni di
prassi applicativa, si è registrato un generale smarrimento della sua natura
iniziale, ovvero quella di accertare il possesso di un livello minimo di
qualificazione e produttività scientifica basato su standard condivisi a livello
nazionale, livello che deve fungere da precondizione indispensabile per
partecipare alle procedure di reclutamento. Nonostante la normativa indichi
chiaramente che il conseguimento dell’abilitazione non dia titolo alcuno alla
chiamata, si è invece radicata l’aspettativa che questa costituisca una sorta di
diritto acquisito alla chiamata in ruolo: questa aspettativa, unitamente
all’altissimo numero di abilitati, comporta effetti distorsivi molto pesanti
sulla programmazione strategica degli Atenei».
Pertanto, «tale aspettativa è, per altro, confermata dalla enorme pressione tesa
al progressivo allungamento della validità del titolo abilitativo,
originariamente prevista in quattro anni e giunta, a seguito di numerose
modifiche intervenute nel corso degli anni (l’ultima recata in sede di
conversione del decreto-legge n. 160 del 2024), a ben dodici anni, svuotando
pressoché di senso il suo aggancio a una valutazione della produzione
scientifica basata su indicatori di produttività all’interno di un determinato
arco temporale, arco temporale che è finalizzato ad accertare, tra l’altro, il
perdurare di tale produttività fino al momento in cui si svolgono le procedure
di chiamata».
Quindi, stando alle parole della relazione ministeriale, la novella è volta ad
eliminare il preteso effetto distorsivo determinato dall’acquisizione della ASN
che creerebbe, nei suoi possessori, il convincimento di godere di un diritto
alla chiamata in ruolo; e quindi ciò innescherebbe varie pressioni, da parte
degli abilitati, sugli organi degli Atenei di riferimento per ottenere il
soddisfacimento di tale aspettativa/diritto. Qua si confondono due aspetti. Una
cosa è una valutazione a livello nazionale del possesso dei requisiti minimi
(qualunque essi siano) per potere svolgere le funzioni di professore. Altra cosa
è il fatto che chi abbia ottenuto tale qualificazione aspiri, legittimamente,
all’ottenimento della posizione di ruolo corrispondente. Che poi gli abilitati
facciano sentire, nei rispettivi contesti accademici, le loro aspettative non
rappresenta alcunché di scandaloso. D’altra parte, il sistema universitario,
come qualunque altro ambito sociale, è ricco di relazioni, e quindi di dialoghi
e conflitti, e non potrebbe essere diversamente. A tacer d’altro, va semmai
ricordato che, secondo i regolamenti dei vari Atenei (coerenti con i principi
elaborati dalla giurisprudenza amministrativa) alle decisioni dei Dipartimenti
di mettere a bando le posizioni di professore non possono partecipare gli
abilitati, in quanto essi sono inequivocabilmente in una condizione di
«conflitto di interessi». E inoltre l’esperienza dimostra che, a causa della
perdurante contrazione dei finanziamenti, il sistema è stato (e lo sarà sempre
di più se non cambiano le cose) in grado di assorbire una minima parte degli
abilitati, soprattutto di quelli che hanno conseguito l’abilitazione per il
ruolo di prima fascia.
Secondo la relazione «in aggiunta, la ripetizione di una valutazione
quali-quantitativa, effettuata prima a livello nazionale dalle Commissioni ASN
(per altro, gravando i loro componenti di un lavoro obiettivamente lungo e
assorbente, tale da distoglierli dalla loro attività primaria negli Atenei), e
poi a livello di singola procedura di reclutamento presso i singoli Atenei,
appare ridondante, soprattutto per quanto riguarda i titoli scientifici, incluse
le pubblicazioni». E «tale ridondanza è, a maggior ragione, evidente nei settori
cosiddetti bibliometrici, all’interno dei quali il mero raggiungimento dei
valori-soglia quantitativi è per lo più ritenuto sufficiente, e non già
solamente necessario, ai fini del conseguimento dell’abilitazione, riducendo o
addirittura eliminando il peso della valutazione qualitativa che spetterebbe
alla Commissione ASN». Inoltre, «per converso, il fatto che ai fini
dell’abilitazione non siano valutate l’attività didattica, quella di terza
missione/valorizzazione della conoscenza, quella amministrativo-gestionale, e,
per le aree mediche, l’esperienza clinico-assistenziale, comporta un’asimmetria
nei criteri di valutazione rispetto ai concorsi, dove invece queste attività
cruciali per il profilo dei docenti sono valutate».
Anche qui si tratta di affermazioni che lasciano perplessi. Da un lato, la
logica del sistema dell’ASN e poi dei concorsi locali era ed è quella di una
valutazione basata su due fasi. La prima: una valutazione centralizzata sul
possesso di alcuni requisiti minimi, e quindi abilitante in senso proprio. La
seconda: una valutazione locale di tipo comparativo a livello di singoli Atenei,
scegliendo il migliore tra i possibili candidati, tenendo conto di titoli più
ampi rispetto alla prima fase. Dall’altro lato, la considerazione appena citata,
circa l’esperienza dei settori cosiddetti bibliometrici, equivale, de facto, ad
una sorta di repentina marcia indietro rispetto alle narrazioni degli ultimi
anni, in cui la bibliometria è stata propagandata come la pietra filosofale per
riuscire finalmente a premiare il merito e a debellare le baronie e le
consorterie concorsuali. Qui si dice a chiare lettere che l’uso degli strumenti
bibliometrici non consente una vera valutazione qualitativa (che è il senso
genuino di ogni valutazione sulla produzione scientifica) dei candidati!
Un’altra perla è la frase: «i risultati della ASN, anche a causa delle diverse
prassi adottate dalle singole Commissioni nazionali, hanno creato una forte
disomogeneità nella percentuale di abilitati tra i vari settori concorsuali e
tra le diverse tornate di abilitazione, compromettendo in maniera evidente
l’idea stessa di un sistema unitario e tendenzialmente omogeneo per tutte le
aree scientifiche». Ma, volendo essere realistici, di fronte alla molteplicità
delle aree scientifiche, ai correlativi settori concorsuali e settori
scientifico-disciplinari, e alla varietà delle rispettive abitudini e tradizioni
di valutazione della produzione scientifica, è alquanto bizzarro pensare che le
Commissioni ASN dovessero adottare prassi omogenee.
La relazione sottolinea che «d’altro canto, l’intervento di modifica si rende
necessario anche al fine di dare compiuta attuazione alla Riforma 1.5 (Missione
4, Componente 1) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di competenza MUR,
che ha provveduto, tra l’altro, con decreto del Ministro dell’università e della
ricerca 2 maggio 2024, n. 639, ad individuare i nuovi Gruppi
scientifico-disciplinari (per un totale di n. 190, che hanno sostituito sia
nell’inquadramento, sia per i compiti dei docenti che nei piani di studio, i
Settori scientifico-disciplinari (SSD) e i Settori Concorsuali (SC). I Gruppi
scientifico-disciplinari costituiscono una prerogativa necessaria per
l’inquadramento dei professori di prima e seconda fascia e dei ricercatori e
sono utilizzati per l’adempimento degli obblighi didattici da parte degli
stessi. Trattasi di un’operazione di semplificazione per far sì che ciascun
gruppo scientifico disciplinare possa contenere uno o più settori
scientifico-disciplinari afferenti allo stesso, alla luce delle declaratorie
indicate nel decreto sopra menzionato». A questo riguardo, basti sottolineare
che queste modifiche comunque consistono in una mera manutenzione
dell’esistente, peraltro condivisa dalla comunità universitaria e che non
giustificano di per sé una radicale riforma del reclutamento, come invece
sostenuto nella relazione governativa.
2. L’abbandono dell’abilitazione scientifica nazionale. La determinazione
centralizzata dei requisiti per la partecipazione ai concorsi locali.
A questo punto, la relazione entra in medias res, ed afferma che «in questo
quadro, la proposta normativa ha l’obiettivo di semplificare radicalmente
l’attuale sistema, garantendo il mantenimento di una soglia minima di requisiti
di produttività e qualificazione scientifica, condivisi a livello nazionale,
come condizione di accesso alla docenza universitaria di prima e di seconda
fascia». E che «in particolare, si propone l’introduzione di un sistema mediante
cui si individuino, su proposta dell’Agenzia nazionale di valutazione del
sistema universitario e della ricerca (ANVUR), requisiti specifici, distinti per
gruppo scientifico-disciplinare e, per ciascuno di essi, per la prima e per la
seconda fascia».
Più precisamente, «il possesso dei citati requisiti, come chiarito al comma 3,»
(qui non c’è il richiamo all’articolo di riferimento!) «è oggetto di
dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da parte dei singoli candidati,
attraverso una piattaforma telematica messa a disposizione del Ministero, e, a
differenza da quanto avviene oggi per gli indicatori quantitativi di produzione
scientifica previsti dalle procedure ASN, il caricamento – recte, la
dichiarazione sostitutiva del candidato – della documentazione attestante il
relativo possesso non implica alcuna valutazione da parte del MUR». Pertanto,
«non si tratta di una procedura automatizzata di valutazione, ma di una mera
condizione di ammissibilità strumentale ai fini della partecipazione alle
procedure di concorso per la chiamata come professori ordinari e associati da
parte delle università, elevando i requisiti per l’ingresso in ruolo e, al
contempo, fornendone una elencazione uniforme a livello nazionale come parametro
di valutazione per le singole commissioni locali».
La relazione continua: «infine, differentemente dal sistema ASN, il nuovo
modello di autodichiarazione non produrrà un certificato di abilitazione o altro
tipo di esito documentale (“esito verde o rosso”), ma costituirà unicamente lo
strumento e la condizione per lo svolgimento delle procedure locali, seppure
alla luce dei nuovi (e più elevati ed uniformi) requisiti di partecipazione». E
così, «in definitiva, il nuovo sistema, nella valorizzazione del principio di
autonomia responsabile, affida alle università la gestione dei processi di
selezione nelle procedure concorsuali per la chiamata di professori di prima e
seconda fascia, pur garantendo – a livello centrale – una serie di requisiti di
partecipazione, salvaguardando così l’autonomia garantita dall’art. 33 della
Costituzione».
Al di là della retorica delle argomentazioni usate dalla relazione, non si
comprende il vantaggio in termini di efficienza nel passare tra l’attuale e il
futuro meccanismo di selezione preliminare. Se il possesso dei nuovi «requisiti
di partecipazione» costituisce una condizione «di ammissibilità…ai fini della
partecipazione alle procedure di concorso» in sede locale, non si fa altro che
spostare in questo luogo le valutazioni che nel sistema dell’ASN spettano alle
relative Commissioni. Con ciò moltiplicando il rischio di contenzioso, perché
ogni candidato, che non supera il concorso locale, potrebbe impugnare non solo
la sua bocciatura, ma anche contestare il possesso da parte dei vincitore dei
suddetti requisiti.
Il refrain governativo è quello che i nuovi requisiti sarebbero «più elevati ed
uniformi» rispetto a quelli attuali. Sicché, «tali requisiti riprenderanno in
parte gli attuali titoli richiesti per il conseguimento dell’ASN
(l’organizzazione o la partecipazione come relatore a convegni scientifici,
l’attribuzione di borse di ricerca o di incarichi di collaborazione all’attività
di ricerca, la partecipazione a progetti di ricerca aggiudicati sulla base di
bandi competitivi, il conseguimento di premi riconosciuti per l’attività
scientifica, i risultati in sede di trasferimento tecnologico etc.) e
comprenderanno una misurazione della produzione scientifica, integrandola con
analisi della sua continuità e distribuzione temporale, sostituendo
funzionalmente i cosiddetti “valori soglia”, individuati dal D.M. n. 589 del
2018».
E «si precisa che i requisiti previsti dal novellato art. 16 della legge n. 240
del 2010, non costituiscono un elenco necessariamente tassativo per tutte le
aree scientifiche, ma sarà il decreto del Ministro dell’università e della
ricerca, su proposta dell’ANVUR, di cui al nuovo articolo 16, comma 1, a
dettagliarne il contenuto per ciascun gruppo scientifico-disciplinare e ciascuna
delle due fasce di docenza, delimitando quindi l’ambito entro il quale ciascuna
università sarà chiamata a svolgere le valutazioni mediante commissioni
giudicatrici formate come disciplinato nel prosieguo del testo».
Anzitutto, se si legge il nuovo testo dell’art. 16, l. n. 240/2010, qui risulta
che i suddetti «requisiti» sono individuati con apposito decreto ministeriale,
su proposta dell’ANVUR, ma solo «sentito» il CUN. Nel sistema attuale, invece,
il decreto ministeriale sui «criteri e parametri» per la valutazione ai fini
dell’ASN, e per l’accertamento della qualificazione dei commissari, è emanato
«sentiti il CUN e l’ANVUR»; mentre i cosiddetti «valori-soglia» sono fissati
sempre da un decreto ministeriale, ma «sulla base di una proposta dell’ANVUR e
sentito il CUN». È evidente il chiaro disegno governativo di un’ulteriore
marginalizzazione del CUN.
Peraltro, i nuovi requisiti, come ammette la stessa relazione, dovranno essere
costruiti in funzione delle specificità di «ciascun gruppo
scientifico-disciplinare». E se i gruppi scientifico-disciplinari sono oggi ben
190, appare alquanto difficile che l’ANVUR abbia da sola le competenze e le
conoscenze per effettuare tale operazione se non in stretta collaborazione con
il CUN (che, d’altro canto, ha definito gli stessi Gruppi) e con le società
scientifiche che rappresentano i vari saperi.
Anche questo progetto di riforma del reclutamento universitario, nonostante le
parole poc’anzi citate della suddetta relazione, resta improntato alla logica
del feticismo bibliometrico e del publish or perish. Vale a dire allo stimolo di
una continua ed affrettata produzione scientifica, per raggiungere delle mere
soglie quantitative, ai fini dell’accesso alla procedura di valutazione (prima a
livello di ASN e, in futuro, solo in sede locale), che, in tutti i settori, ha
determinato profonde distorsioni e ha incrementato una moltitudine di
comportamenti opportunistici. Infatti, il novellato art. 16, l. n. 240/2010, tra
i nuovi requisiti, parla di «raggiungimento degli indicatori minimi di quantità,
continuità e distribuzione temporale dei prodotti della ricerca, definiti
tenendo delle caratteristiche di ciascun gruppo scientifico-disciplinare, in
diversa misura per la prima e per la seconda fascia, nonché della rilevanza
nazionale e internazionale dei prodotti medesimi».
Inoltre, se l’abolizione dell’ASN persegue, secondo una lettura maliziosa, lo
scopo sotterraneo di azzerare ogni possibilità di contenzioso rispetto alle
decisioni delle relative Commissioni nazionali, non è detto che questo nuovo
sistema sfugga a tale rischio. Anzi. Come s’è poc’anzi osservato (ma vale la
pena di ribadire questo aspetto), i conflitti si potranno moltiplicare in sede
locale, laddove un candidato perdente potrebbe, in primis, contestare la
correttezza dell’autocertificazione del vincitore. Né è escluso che i nuovi
requisiti di partecipazione più saranno dettagliati tanto più potranno essere
accusati di illogicità, incoerenza, irrazionalità. E comunque, come risulta dal
testo del nuovo art. 18, l. n. 240/2010, dovranno essere le commissioni locali a
vagliare, prima di tutto, l’esattezza delle autocertificazioni dei candidati,
con l’ovvio rischio di una frammentazione dei giudizi.
3. La valutazione in sede locale.
Quanto alla composizione delle commissioni giudicatrici in sede locale, queste
(per le procedure relative alla chiamate di professori di prima fascia) saranno
formate da «1) almeno quattro componenti esterni all’università che ha indetto
la procedura, individuati dalla stessa università, previo sorteggio tra i
docenti disponibili a livello nazionale, afferenti al settore
scientifico-disciplinare di cui al bando di concorso; 2) almeno un componente
interno all’università che ha indetto la procedura, afferente al settore
scientifico-disciplinare di cui al bando di concorso; 3) per le procedure
relative alle chiamate di professori di seconda fascia, ameno tre componenti
della commissione giudicatrice sono individuati tra i professori di prima
fascia, fermo restando il rispetto dei criteri di cui ai numeri 1) e 2)».
Con tale proposta si impone agli Atenei un’armonizzazione forzata delle modalità
di composizione delle commissioni giudicatrici, impedendo (o cercando di
impedire) la costruzione di regolamenti locali volti a pilotare tale costruzione
a favore delle aspettative dei candidati interni.
Tuttavia, un punto estremamente critico è quello della modalità di formazione
della lista dei docenti «disponibili» ad essere sorteggiati. Qui il disegno di
legge non dice alcunché. Se la compilazione di tale lista dovesse essere
lasciata all’autonomia delle sedi locali, è evidente che rimarrebbe la
possibilità di condizionare a priori la composizione della commissione
giudicatrice. Se invece la costruzione della lista fosse del tutto centralizzata
a livello ministeriale, senza alcuna possibilità di influenza della sede locale,
non avrebbe alcun senso l’affermazione della relazione ministeriale (poi
condensata in un’apposita previsione del disegno di legge) secondo cui «con il
nuovo sistema si intendono responsabilizzare concretamente gli Atenei circa le
rispettive politiche di reclutamento. In quest’ottica la valutazione dei nuovi
assunti diviene un elemento fondamentale al fine del riparto della quota
premiale del FFO e del contributo destinato alle università non statali. Si
intende introdurre un sistema premiale per le università che assumono i
migliori, ossia coloro i quali nel periodo successivo all’assunzione dimostrano
con i loro indicatori di produttività, con le loro pubblicazioni e con la loro
attività complessiva, di avere contribuito al miglioramento delle attività
dell’università che li ha reclutati».
Va comunque sottolineata con forza l’opportunità di correggere una distorsione
già segnalata in relazione alla attuale composizione delle Commissioni ASN. Se
si ritiene ancora (purtroppo!) che il sorteggio dei valutatori sia la ricetta
magica per debellare i (supposti, ma non dimostrati in modo scientifico) mali
endemici dei concorsi universitari, è però necessario che i commissari
sorteggiati abbiano una durevole esperienza nel ruolo (prima o seconda fascia)
per cui il concorso è bandito. Ciò a maggior ragione ora che, nella proposta
governativa, come s’è visto poc’anzi, si sottolinea che vi sono «attività
cruciali per il profilo dei docenti» (e che quindi vanno necessariamente
valutate), quali: «l’attività didattica, quella di terza missione/valorizzazione
della conoscenza, quella amministrativo-gestionale, e, per le aree mediche,
l’esperienza clinico-assistenziale». Difatti, è alquanto illogico che, prima
nelle Commissioni ASN, ora nelle commissioni locali, possa essere sorteggiato un
docente che sia entrato nel relativo ruolo da poco e non abbia avuto il tempo di
maturare una sufficiente esperienza sia in relazione ai vari compiti inerenti
alla posizione ricoperta sia nella difficile attività della valutazione dei
candidati ad un concorso.
Il disegno di legge n. 1518 introduce, nella procedura di valutazione locale, il
criterio della «valutazione delle modalità di svolgimento della didattica» e una
«discussione, alla presenza dei componenti della commissione giudicatrice, dei
contenuti delle pubblicazioni scientifiche, nonché delle esperienze didattiche
dei candidati». È possibile che così si amplierebbe eccessivamente il margine di
discrezionalità delle commissioni giudicatrici. Però è anche logico (ed
ontologico) pensare che chi voglia entrare nei ruoli di professore universitario
dimostri pubblicamente le sue capacità didattiche e sappia difendere le tesi
sostenute nelle sue pubblicazioni scientifiche. Semmai, qui si potrebbero
introdurre appositi limiti a tale valutazione, per evitare che soprattutto il
giudizio sulla didattica possa assumere valore prevalente sugli altri titoli del
candidato.
Tuttavia, il disegno di legge prevede che «ferma restando la proposta di
chiamata in capo al Dipartimento di cui alla lettera e)» dell’art. 18, c. 1, l.
n. 240/2010, «la commissione giudicatrice conclude i propri lavori indicando il
candidato più meritevole. Prima di procedere alle determinazioni di cui alla
lettera e), il Dipartimento può invitare il candidato a tenere un seminario
pubblico; nelle procedure relative all’area medica, qualora il bando indichi
specifiche esigenze clinico-assistenziali, il Dipartimento può determinare
l’àmbito tematico sul quale svolgere il seminario, dandone comunicazione con
congruo anticipo ai candidati» (ma visto che già il vincitore è stato
individuato dalla commissione, qui la parola «candidati», dovrebbe essere al
singolare).
Quest’ultima è una vera e propria prova didattica che, da un lato, si confonde
con le competenze della commissione giudicatrice in ordine alla valutazione
della didattica dei candidati; e, dall’altro, potrebbe rappresentare una comoda
via di uscita al Dipartimento per non chiamare un candidato vincitore, ma
ritenuto non gradito.
4. Considerazioni conclusive.
Ciò che sorprende è che l’attuale governo, che ha presentato questo disegno di
legge, è espressione della stessa maggioranza parlamentare che nel 2010 ha
varato la riforma Gelmini. Questa ha introdotto la ASN, sull’onda della parola
d’ordine della lotta contro il sistema allora vigente dei concorsi universitari,
i quali appunto si svolgevano in sede esclusivamente locale e così, stando alla
narrazione governativa, enfatizzavano il potere dei Baroni universitari e delle
relative consorterie. Allora si parlava, in termini scandalizzati, della
necessità di risolvere il grave problema della «irresistibile ascesa del cretino
locale»!
Certo, nulla impedisce di correggere una riforma, se la sua applicazione ha
dimostrato di non avere prodotto i risultati attesi o di avere determinato
effetti perversi.
Il punto è che tutte le (pretese) distorsioni dell’ASN, menzionate nella
relazione ministeriale (e di cui qui s’è qui dato conto), avrebbero potuto, e
potrebbero ancora, essere corrette mediante una calibrata riforma della medesima
ASN. E ciò anche tenendo conto dei vari suggerimenti emersi in questi anni in
tante sedi scientifiche e non solo.
Va affermato con risolutezza che un sistema universitario nazionale, per essere
veramente tale, presuppone che tutti i suoi professori di pari ruolo abbiano un
livello minimo di qualificazione scientifica uniforme. E ciò può essere
accertato solo in una sede unica a livello nazionale, che valuti appunto il
merito (e non solo la quantità) della produzione scientifica degli aspiranti
professori. Spostare a livello locale tale valutazione equivale a favorire, nel
medio-lungo periodo, la balcanizzazione del sistema. E tale perversione non può
essere corretta con il nuovo meccanismo di autocertificazione che, nella
migliore delle ipotesi, farebbe sempre riferimento ad indicatori meramente
quantitativi e giammai qualitativi.
Attenzione! La balcanizzazione e la frammentazione del sistema universitario
italiano è già in atto da tempo. Come da tempo ha bene osservato Roberta Calvano
(www.roars.it), un chiaro indice di questo processo è costituito dalla
sottrazione alla legge e dalla progressiva assegnazione alle singole sedi
universitarie del potere di regolare aspetti dello stato giuridico dei docenti
universitari, come la valutazione, gli scatti stipendiali, i procedimenti
disciplinari, le procedure di chiamata. Ma se passasse l’attuale disegno di
legge, per come è al momento strutturato, tale deriva sarebbe completa.
Un fatto estremamente grave è che, come s’è visto sopra, il disegno di legge non
è stato elaborato attraverso il dialogo con l’intera comunità scientifica e le
sue associazioni di riferimento. È inutile dire che la qualità dell’istruzione e
della ricerca universitaria è fondamentale per lo sviluppo economico, sociale e
culturale di ogni paese. Ed è parimenti ovvio che la suddetta qualità dipende
inesorabilmente dalla preparazione dei docenti impegnati nella didattica nella
ricerca scientifica e, quindi, dalle modalità del loro reclutamento.
Sicché, una riforma di tale portata avrebbe richiesto un minimo periodo di
ascolto e di confronto con le varie voci, anche quelle più minoritarie, del
mondo universitario, per poi permettere al decisore politico di adottare scelte
maggiormente consapevoli. Ad esempio, il secondo governo di centro-destra
presieduto da Silvio Berlusconi, prima di varare una complessa (e fortemente
criticata) riforma del mercato del lavoro, all’inizio degli anni duemila,
diffuse un cosiddetto Libro Bianco con cui vennero indicate le linee tendenziali
del progetto governativo e così dando lo spunto per approfondite discussioni
pubbliche tra tutti gli esperti del settore. Sicuramente questo processo ha
permesso quantomeno di garantire l’emersione di tutte le possibili opinioni
prima che la riforma fosse approvata definitivamente. È chiaro che quel governo
non mutò indirizzo, ma procedette lungo la strada segnata dal Libro Bianco.
Tuttavia, sicuramente quel dibattito pubblico influenzò il decisore politico e
lo convinse a temperare alcune idee del progetto originario.
Ritornando al disegno di legge n. 1518, un’altra considerazione è quella che una
riforma così radicale, e così importante per il futuro del sistema universitario
e dello stesso paese, avrebbe altresì richiesto uno studio preliminare della
struttura e della funzionalità dei modelli di reclutamento vigenti nelle altre
nazioni più sviluppate. Il che avrebbe offerto del materiale e dei dati utili
per la discussione e per giungere a soluzioni informate e razionali.
Va poi sottolineato che gli estensori della proposta di legge non hanno avuto il
coraggio di accogliere una richiesta da tempo avanzata da molti settori della
comunità scientifica. E cioè quella di prevedere, in piena conformità all’art.
97 Cost., due distinte e stabili procedure selettive per il passaggio dal ruolo
di professore di seconda fascia a quello di prima fascia. Una per i candidati
interni e un’altra per i cosiddetti esterni, ovviamente imponendo limiti per la
prima ed incentivi a favore di quest’ultimo canale di reclutamento. Com’è noto,
la vittoria di un concorso da parte di un esterno all’Ateneo che lo bandisce,
assorbe un’ingente quantità di risorse che permetterebbero la progressione di
carriera di più interni. Pertanto, senza veri adeguati (e non solo propagandati
come al momento avviene) finanziamenti del sistema universitario, il rischio
concreto è quello che anche pochi esterni vittoriosi svuotino le casse degli
Atenei e non solo di quelli più poveri, bloccando le relative programmazioni per
gli anni futuri.
Nel disegno di legge, tra le «disposizioni transitorie e finali», è mantenuta
l’operatività della speciale procedura valutativa di cui all’art. 24 c. 6, l. n.
240/2010 fino alla scadenza al momento prefissata (30 dicembre 2025). Si ricorda
che questa che è una procedura riservata ai professori di seconda fascia e ai
ricercatori a tempo indeterminato (che abbiano conseguito l’ASN) in servizio in
un’università, ai fini della loro la chiamata rispettivamente nel ruolo di
professore di prima e seconda fascia. Tuttavia, com’è noto, la scadenza
originaria della possibilità di avvalersi di questa procedura riservata agli
interni è stata più volte prorogata. Ed è presumibile l’emergere di pressioni
bipartisan per estendere l’efficacia nel tempo di tale meccanismo, soprattutto
per temperare gli eventuali effetti dei nuovi concorsi aperti a tutti. Il che
conferma la ragionevolezza dell’anzidetta idea di introdurre a regime due
percorsi selettivi separati per gli esterni e gli interni.
Peraltro, come s’è accennato all’inizio di questo scritto, citando le parole
della relazione ministeriale, un leit motiv del disegno di legge è la lotta
contro il «localismo» dei docenti universitari e quindi il sostegno alla loro
mobilità.
A ben vedere, però, un sistema del genere, in cui si vorrebbe favorire la
circolazione dei docenti, tra i vari Atenei, nel corso della loro carriera, per
poter minimamente funzionare, presuppone un vero e proprio New Deal, e cioè un
massiccio rifinanziamento del sistema universitario italiano, come, da parecchio
tempo, è richiesto dall’intera comunità scientifica. Altrimenti, si tratta solo
di mera retorica o, come si diceva un tempo, di pascoli ricchi soltanto di
parole.
Di ciò è un evidente esempio la previsione della proposta governativa della
«possibilità di un trasferimento unidirezionale, con contestuale trasferimento
delle risorse a copertura degli oneri stipendiali e delle conseguenti facoltà
assunzionali». E cioè, un docente potrebbe trasferirsi dalla sua sede ad
un’altra portando con sé il suo costo stipendiale e il relativo punto organico.
Certo, il disegno di legge si premura di sottolineare che «al fine di
incentivare la mobilità, nei decreti ministeriali di programmazione finanziaria
adottati successivamente all’entrata in vigore della riforma potranno essere
previste apposite premialità in favore degli Atenei “cedenti” facoltà
assunzionali».
Ma la determinazione di tale ristoro ovvero di un vero e proprio risarcimento
per l’Ateneo «cedente», non è imposto come un obbligo a carico del decisore
politico. Difatti, il testo del disegno di legge dice che «il Ministro, in sede
di ripartizione annuale del fondo per il finanziamento ordinario delle
università può» (e quindi non deve) «prevedere specifici interventi per
incentivare i suddetti trasferimenti». Se questa disposizione non fosse
opportunamente corretta, vi sarebbe il concreto pericolo di un travaso
esponenziale di risorse verso gli Atenei più prestigiosi, dove chiunque vorrebbe
lavorare, ed un irreversibile impoverimento di quelli (collocati specie nel
centro-sud del paese) più fragili e decentrati. Quest’ultimi sono stati già da
anni indeboliti da criteri di calcolo del finanziamento ordinario e delle
relative quote premiali che non tengono adeguatamente conto della necessità di
riequilibrare le esternalità negative che allignano nel contesto in cui operano.
Tale previsione del disegno di legge, letta insieme alle altre di cui s’è detto,
nasconde probabilmente l’idea (sostenuta da tempo da alcuni intellettuali di
grido) di realizzare nei fatti un’americanizzazione del sistema universitario
italiano, consistente in una netta divaricazione tra le cosiddette research e
teaching universities.
Al momento in cui si completano queste pagine, manca poco all’inizio della
discussione parlamentare sul disegno di legge. A questo riguardo, la comunità
scientifica ha assunto posizioni variegate. V’è chi ha preferito giocare sul
terreno della proposta governativa: e cioè, di tentare di suggerire modifiche a
tale testo, in modo da renderlo più razionale e per contrastare l’inevitabile
rischio di «localismo» che porta con sé. Altri hanno sostanzialmente bocciato
tale progetto, ribadendo l’importanza e il valore, per la tenuta del sistema
universitario nazionale, di una preliminare valutazione centralizzata sul merito
e la qualità degli aspiranti professori. Come s’è potuto verificare, leggendo
questo testo, chi scrive condivide questa seconda posizione. I prossimi mesi
saranno così decisivi per il futuro dell’università italiana e dei tanti giovani
che meritano di entrare nei ruoli accademici.