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Return On Academic Research and School

Per Piantedosi l’Università di Bologna ha negato il diritto allo studio a 15 militari: ministro, mi vergogno di Lei
Mi auguro fortemente che l’Università di Bologna La quereli per le Sue dichiarazioni false e infamanti Non volevo credere a quanto riportato dal Fatto Quotidiano, perciò sono andato direttamente alla Sua pagina Facebook, Ministro Piantedosi, per controllare. Ebbene sì, Lei scrive: “Una decisione incomprensibile quella di alcuni professori dell’Università di Bologna che hanno negato a un gruppo selezionato di 15 giovani Ufficiali dell’Esercito dell’Accademia di Modena la possibilità di frequentare un corso di laurea in Filosofia, nel timore di una presunta ‘militarizzazione dell’Ateneo’.” E ancora: “Infine, a questi professori e ai sostenitori di tale scelta voglio ricordare che gli Ufficiali a cui è stato negato il diritto allo studio hanno giurato sulla Costituzione […]”. Ma scherziamo? “Negata la possibilità di frequentare un corso di laurea in Filosofia”? “Negato il diritto allo studio”? Vede, Ministro Piantedosi, la Presidente del Consiglio sta (quasi) sempre molto attenta nel dosare le parole. L’ha fatto anche questa volta, dicendo chiaramente quello che è successo (la mancata istituzione di un Corso di Laurea ad hoc) e commentandolo dal suo punto di vista. Come tutti i politici di destra, sinistra e centro di ogni tempo, l’On. Meloni è un’artista nel dichiarare la parte di verità che torna utile alle sue tesi; come tutti i politici intelligenti, riesce perciò a plasmare la realtà a suo vantaggio, senza dire vere e proprie bugie. Quello che Lei ha scritto, e che ognuno può verificare di persona, è una scandalosa bugia, pura e semplice. Non sono sempre d’accordo con la gestione dell’Ateneo di Bologna, di cui mi onoro ancora di far parte; proprio negli ultimi tempi, certe decisioni mi hanno fortemente contrariato. D’altra parte capisco le remore, da parte del Dipartimento interessato, a istituire un Corso di Laurea su misura per una ristrettissima classe di cittadini. Tutte cose di cui si può discutere. Ma a nessuno viene negata la possibilità di frequentare un corso di laurea, a nessuno è negato il diritto allo studio. Mi auguro fortemente che l’Università di Bologna La quereli per le Sue dichiarazioni false e infamanti. Come Ufficiale di complemento in congedo, fiero di esserlo, e come Professore dell’Alma Mater, fiero di esserlo, mi vergogno di Lei. Pubblicato su Il Fatto Quotidiano 
Lettera aperta della Rete delle Società Scientifiche
Segnaliamo ai lettori la lettera aperta della RESS per l’autonomia, il finanziamento e la dignità dell’Università e della Ricerca. “L’Università e la Ricerca italiane stanno attraversando un momento cruciale. Dopo anni di sottofinanziamento strutturale e di crescente burocratizzazione, e dopo il diluvio effimero dei finanziamenti PNRR, si profila oggi il rischio di un ulteriore arretramento: un sistema sempre più centralizzato, meno libero, meno capace di produrre sapere critico e innovazione.” Segue il testo Lettera aperta Università 21Nov2025 primi firmatari
Terzo livello nella PA: non è un lusso, è la legge che lo chiede
Segnaliamo ai lettori il comunicato stampa dell’ADI – Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia, relativo alle recenti circolari del Ministero della Cultura e al tema del riconoscimento dei titoli di terzo livello nella Pubblica Amministrazione. Segue il testo. Comunicato Stampa_MIC Nov 2025
I precari INGV sulla legge di bilancio
Segnaliamo ai lettori la lettera aperta inviata dai precari INGV al ministro Bernini. Segue il testo. lettera precari INGV Qui il link all’elenco dei firmatari.
Contrordine compagni!
Nei giorni scorsi si è consumata in breve tempo una vicenda alquanto sconcertante a causa di una circolare (133/2025) del Ministero della Cultura (MiC). Lunedì 10 novembre, infatti, era stata pubblicata la circolare che accompagnava il decreto 1335 della Direzione Generale Risorse Umane e Organizzazione per l’adozione di un nuovo Ordinamento professionale del personale non dirigenziale del Ministero della Cultura. L’attenzione degli addetti ai lavori si è subito appuntata su una novità riguardante l’area funzionari di ambito tecnico-specialistico, che comprende 15 diversi profili, tra i quali quelli di funzionario Architetto, Storico dell’Arte, Archeologo, Archivista e Bibliotecario, per i quali in precedenza era richiesto un profilo culturale particolarmente elevato, con un titolo di studio di III livello (Scuola di specializzazione, Dottorato di ricerca, in alcuni casi Master di II livello). Si trattava di una peculiarità che derivava dalla natura specificamente tecnica di questo ministero, per lo meno nell’idea di Spadolini che ne era stato il fondatore, e che lo differenziava da altri ministeri di natura più amministrativo-gestionale. L’elevata qualificazione (che – sia chiaro – non corrisponde purtroppo a una retribuzione superiore) intende garantire la qualità della direzione di opere molto impegnative, quali i restauri architettonici, gli scavi archeologici, gli ordinamenti e allestimenti di musei, archivi e biblioteche, senza contare pianificazione territoriale, piani paesaggistici etc. Nel nuovo ordinamento, invece, i titoli di terzo livello erano improvvisamente spariti e sarebbe bastata una laurea magistrale per accedere al ruolo, con un conseguente abbassamento della qualificazione. Dunque, in un contesto sociale e culturale sempre più complesso, che richiede competenze sempre più spinte, e pur in presenza di candidati che si presentano al concorso con curricula ricchissimi si sarebbe abbassato il livello di selezione. Questo significa innanzitutto che i funzionari sono ormai considerati passacarte a cui non serve una competenza particolarmente spinta, anzi sembrerebbe che tale competenza sia vista come un ostacolo all’intercambiabilità dei ruoli. D’altronde già adesso con la riforma della dirigenza si può mandare, che so, un archeologo a dirigere un archivio o uno storico a dirigere un museo di storia dell’arte. In secondo luogo, il Ministero che si definisce pomposamente “della Cultura” con questo provvedimento avrebbe abbassato il livello culturale dei suoi funzionari di punta, contraddicendo il suo stesso nome e facendo la guerra al Ministero dell’Università (MUR). Infatti, chi sarebbe stato interessato a iscriversi alle Scuole di Specializzazione dei vari indirizzi presenti in numerose università italiane quando veniva meno lo scopo principale per il quale tali scuole erano state istituite? Oltretutto non risulta che tale provvedimento sia stato preceduto da alcuna consultazione con il MUR, pur avendo un impatto devastante su corsi prestigiosi. Inoltre, mentre ci si sforza di valorizzare il dottorato di ricerca per la Pubblica Amministrazione, con questa circolare il MiC avrebbe buttato nel cestino il titolo. Si sa d’altronde da tempo che tra MiC e MUR non c’è comunicazione, come dimostrano provvedimenti che manifestano una chiara schizofrenia di stato (si pensi alla questione dei diritti di riproduzione delle opere di proprietà statale o a quella degli archivi fotografici), ma non si era ancora arrivati alla guerra aperta. Il provvedimento, inoltre, era devastante perfino per i corsi dipendenti dallo stesso MiC: si pensi ai corsi di archivistica degli Archivi di stato, mentre per gli archeologi esistono borse per frequentare un periodo ulteriore di formazione alla Scuola Archeologica di Atene, gloriosa e antica istituzione di eccellenza attraverso la quale è passato il fior fiore dei nostri ispettori e soprintendenti archeologi. Non a caso la Scuola dipende dal MiC e non dal MUR, benché sia diretta da un professore universitario. Pare che la Direzione Generale responsabile del provvedimento non sapesse che una circolare interna del ministero non può modificare un Decreto Ministeriale, nella fattispecie il DM 244 del 20 maggio 2019, ossia il Regolamento concernente la procedura per la formazione degli elenchi nazionali dei funzionari del ruolo tecnico-scientifico, con il relativo Allegato che elenca competenze e requisiti, frutto di un lungo processo di elaborazione e di interlocuzione con tutte le rappresentanze professionali, accademiche e sindacali. Per amore di discussione facciamo l’ipotesi ora che, sulla base della nuova normativa, si fosse svolto un concorso e che lo avesse vinto un archeologo. Una volta preso servizio, questi avrebbe scoperto che, pur essendo funzionario, non gli sarebbe stato possibile svolgere alcune attività che sono tra le più caratterizzanti del suo ruolo, come la valutazione della documentazione per la verifica preventiva dell’interesse archeologico, che deve essere redatta da soggetti che dispongano di specializzazione o dottorato (D.Lgs. 36/2023 allegato I.8, art. 1, c.2), oppure come la direzione di indagini di archeologia preventiva con la conseguente emissione del Documento Finale previsto dal codice degli appalti (Lgs 50/2016 art. 25, c. 1). Un magnifico risultato davvero: funzionari che non possono funzionare! Fin qui si è parlato al passato e il lettore si sarà domandato perché. La risposta è semplice: il mondo della cultura e in particolare quello degli archeologi attraverso le associazioni che li rappresentano (professionisti, accademici, funzionari, sindacati) è insorto nel giro di 48 ore attivandosi sia con interlocuzioni dirette che indirizzando al ministro un duro comunicato che stigmatizzava il provvedimento, mostrandone tutte le inconsistenze e patenti contraddizioni. Anche associazioni professionali di altre categorie si sono espresse nello stesso senso qui e qui. Qualcuno ai piani alti pare che alla fine si sia reso conto dell’assurdità della cosa, per cui già mercoledì 12 il MiC ha pubblicato la circolare 57, che ha annullato la circolare 133 e il relativo decreto direttoriale DG RUO n. 1335. Ovviamente la marcia indietro è stata grandemente apprezzata da tutti gli interessati, ma ancor più apprezzabile sarebbe stato evitare una simile brutta figura, che rivela quale sia la considerazione delle competenze più avanzate in alcune stanze ministeriali e – ancor più preoccupante – quale sia il livello di competenza in alcune stanze ministeriali. Nonostante il lieto fine, c’è ora da vigilare attentamente per evitare che un simile tentativo sia riproposto, magari in forme addolcite.
Un bug nei dati Springer Nature scuote la bibliometria
Un errore nei metadati di Springer Nature potrebbe aver alterato in modo sistematico i conteggi di citazioni in tutti i principali database bibliografici, compresi Scopus a Web of Science. Le conseguenze? Indicatori distorti, carriere accademiche potenzialmente alterate e un segnale d’allarme per l’intero sistema della valutazione quantitativa della ricerca. Cosa altro deve accadere perché si abbandoni la cieca fede nelle metriche bibliometriche? Può un errore di codifica nei metadati, apparentemente banale, alterare la geografia della scienza mondiale, falsare classifiche, influenzare carriere e politiche di ricerca? Secondo l’analisi di Tamás Kriváchy, ricercatore al Barcelona Institute of Science and Technology, contenuta in un preprint recentemente diffuso su arXiv è esattamente ciò che potrebbe essere accaduto. Frederik Joelving Categoriesha coperto la notizia per Retraction Watch con un articolo uscito l’11 novembre 2025. La storia è semplice: un difetto tecnico nei metadati di Springer Nature riferiti alle riviste pubblicate solo online avrebbe generato una distorsione sistemica nei conteggi di citazioni di centinaia di migliaia di ricercatori. IL CASO  Tamás Kriváchy mostra che la distorsione dei dati ha origine da un’anomalia nella gestione dei metadati di molte riviste online-only di Springer Nature (come Nature Communications, Scientific Reports e vari BMC journals). Secondo Kriváchy, l’origine del problema risiede nel passaggio dai numeri di pagina tradizionali agli “article numbers” adottati dalle riviste online. Un campo mancante o mal gestito nei metadati distribuiti tramite API e file RIS di Springer avrebbe causato una catena di errori nel collegamento tra articoli e citazioni.  In sostanza, una grande quantità di citazioni verrebbe erroneamente attribuita al primo articolo del volume (“Article 1”) di ciascun anno, invece che all’articolo effettivamente citato. Intervistato da Retraction Watch spiega: > “Sembra che milioni di scienziati abbiano perso alcune citazioni, mentre > decine di migliaia — gli autori degli Article 1 — le abbiano guadagnate tutte, > arrivando a conteggi assurdi”. Un difetto tecnico apparentemente minore, ma dalle enormi conseguenze sistemiche. Infatti l’anomalia nei dati non è limitata alla piattaforma Springer e al suo database bibliografico Dimensions, ma si propaga a tutti i database bibliografici che ne importano i metadati come Crossref, OpenCitations, Scopus e Web of Science. Le conseguenze, osserva Retraction Watch, sono potenzialmente enormi: confusione nella tracciabilità delle citazioni, alterazione di indici bibliometrici e, in alcuni casi, vantaggi indebiti per autori o istituzioni. Il caso emblematico è quello del primo articolo del volume 2018 di Nature Communications, intitolato “Structural absorption by barbule microstructures of super black bird of paradise feathers”. Secondo il sito della rivista, l’articolo avrebbe ricevuto ben 7.580 citazioni. Google Scholar ne riporta 584, Web of Science 582 e Scopus 1.323. La coautrice Dakota McCoy (Università di Chicago) ha confermato a Retraction Watch di aver cercato, invano, di ottenere la correzione di centinaia di citazioni spurie. Analogamente l’articolo n. 1 dell’anno 2021 di Scientific reports presenta lo stesso problema: 5.332 citazioni sul sito dell’editore e solo 118 su Google Scholar. E si potrebbe continuare. Kriváchy scrive di non essere in grado di precisare l’elenco esatto delle riviste interessate e quindi fornire un conteggio preciso: > Si noti, tuttavia, che sono interessate le due riviste più grandi in base al > numero di articoli pubblicati ogni anno, Scientific Reports e Nature > Communications, nonché le riviste BMC, che comprendono un gran numero di > riviste ad alto volume che utilizzano il riferimento al numero dell’articolo. > Il numero totale di articoli per Scientific Reports è di circa 250.000, per > Nature Communications di circa 75.000 e per diverse riviste BMC e Discover > Applied Sciences di circa 126.000. Quindi, solo per queste 10 riviste ci sono > circa 450.000 articoli potenzialmente interessati, con un numero totale > probabilmente ancora più elevato. Springer Nature dichiara di ospitare 7 > milioni di articoli. Data l’immensa crescita degli articoli online negli > ultimi anni, ci si può aspettare che una parte ignificativa dei 7 milioni sia > presente in riviste solo online, portando il numero reale di articoli > interessati a milioni. L’estensione temporale del problema risale, secondo l’autore, al 2011, quando il bug fu introdotto nelle API di Springer. PERCHÉ TUTTO QUESTO È IMPORTANTE?  I risultati di Kriváchy sono molto importanti perché è la prima volta che errori nei metadati vengono documentati su scala globale, interessando tutti i principali database bibliografici, commerciali e non. Siamo abituati ai problemi di Google Scholar, dove le incongruenze restano perlopiù localizzate — come nel celebre caso di Ike Antkare o in quelli italici, meno noti, di citazioni attribuite all’autore “Primo Capitolo” [si veda qui]. Nel caso dei metadati di Springer Nature, invece, siamo di fronte a qualcosa di radicalmente diverso: un errore sistematico nei metadati che produce un effetto domino su molti indicatori bibliometrici, a tutti i livelli di aggregazione. Il problema questa volta va considerato su tre piani distinti. 1. Il livello dei dati e delle metriche. Gli errori influenzano direttamente gli indici basati sulle citazioni: molti articoli attualmente “highly cited” diventeranno articoli “normali” dopo la correzione. Ciò avrà effetto sugli autori (sui loro h-index, conteggi complessivi, ecc.), su indicatori avanzati come SNIP, e sututti quelli basati su “top-cited papers” per rivista, istituzione, settore o Paese. In pratica, abbiamo lavorato per anni con dati in cui molti (quanti?) “highly cited papers” non erano realmente tali. (L’IF,  per costruzione non è alterato dall’errore). 2. Il livello comportamentale. Qui entra in gioco il ben noto Effetto Matteo: gli articoli percepiti come molto citati tendono a ricevere ulteriori citazioni proprio per la loro fama. L’errore iniziale nei metadati ha quindi verosimilmente influenzato il comportamento dei ricercatori, che hanno citato lavori “falsamente” molto citati. Questo secondo effetto non è correggibile: quante di quelle citazioni sopravvivranno anche dopo la bonifica dei dati? 3. Il livello istituzionale. Le conseguenze riguardano la valutazione della ricerca e le carriere accademiche. Il peso di questo errore è proporzionale all’uso — spesso acritico — che le istituzioni fanno delle metriche di citazione. In Italia, come è ben noto, il ministero e ANVUR hanno imposto l’uso di indicatori bibliometrici come requisito per l’Abilitazione Scientifica Nazionale e per le progressioni di carriera universitarie. Dobbiamo chiederci fino a che punto un errore sistemico come questo possa aver alterato carriere individuali e valutazioni istituzionali. La comunità scientifica, in particolare quella italiana, non è abbastanza consapevole dell’inquinamento che affligge la scienza contemporanea e dell’estensione dei meccanismi — come le citation mills — che hanno corrotto il significato delle citazioni. La percezione prevalente è che si tratti di problemi localizzati, che riguardano pochi casi isolati, e che una opportuna “polizia bibliometrica” sia in grado di ripulire gli indiciatori dai dati anomali.  Questo caso è diverso e non solo per la scala: nasce da un errore genuino, non da una manipolazione intenzionale, e proprio per questo è ancora più istruttivo. Mostra la fragilità di un sistema che ha affidato la valutazione della ricerca a numeri e algoritmi di cui spesso non si conoscono nemmeno i fondamenti tecnici. Forse, paradossalmente, questo bug potrebbe avere un effetto benefico: costringerci a ripensare la nostra cieca fede nelle metriche quantitative, una fede che ha contribuito in modo determinante alla corruzione della scienza contemporanea.  
Ecco il testo di riforma della governance degli atenei: e non c’è solo il rappresentante del governo nel CdA
Ecco il testo, finora segreto, della riforma della governance delle università partorito dalla commissione presieduta da Galli Della Loggia. Le due novità più rilevanti si conoscono già: la nomina da parte del ministro di un membro del CDA degli atenei e l’estensione ad 8 anni della durata in carica del rettore. Ma di novità ce ne sono altre. La composizione del CdA è blindata. Si prevedono al massimo 11 membri, già pre-definiti: oltre al membro di nomina governativa, ci saranno il rettore, il candidato rettore che ha perso le elezioni, 5 docenti (tre nominati dal senato, due dal rettore), due componenti esterni nominati dal rettore, uno studente eletto. Con questa struttura il Rettore avrà a suo favore 5 voti, e per garantirsi sempre la maggioranza di 6 a 5 dovrà contare sul voto del membro di nomina governativa. Nel testo della riforma si prevede, non a caso, che tutti i voti avvengano a maggioranza semplice. Da notare che vengono espulsi dal CdA i membri del personale tecnico amministrativo, e viene finalmente eliminata ogni possibilità che i membri vengano eletti, come qualche ateneo ad oggi prevede nel proprio statuto. A metà mandato del rettore si prevede una elezione di conferma, in cui il rettore è l’unico candidato. E in quell’occasione si svolgeranno anche le elezioni per il rinnovo dei direttori di dipartimento, votati in concomitanza con la prima elezione del rettore. Il tutto pensato, evidentemente, per favorire la armoniosa collaborazione tra rettore e direttori. Il testo prevede anche che il rettore sia votato da docenti, personale amministrativo e studenti definendo i pesi relativi del voto. Poiché il voto dei docenti non può pesare meno del 75% e quello degli studenti non può pesare meno del 5% se ne deduce che il 20% del PTA potrà essere compresso secondo necessità, a favore di docenti e/o studenti. Il Senato perde la sua dimensione collegale per essere frammentato in comitati che si occuperanno ciascuno delle “aree di sviluppo strategico dell’ateneo definite nel piano triennale”. Last but not least, il rettore deve tenere conto nella redazione del piano strategico di Ateneo di non meglio definite linee generali di indirizzo stabilite dal Ministro. Dalle indiscrezioni emergeva un quadro preoccupate. Il documento che pubblichiamo mostra chiaramente il disegno accentratrice della riforma. Il rettore dovrà allinearsi necessariamente agli indirizzi ministeriali. Per garantirsi la maggioranza in CDA potrà far conto dei fedelissimi da lui nominati in CDA e dovrà guadagnarsi il voto del rappresentante nominato dal governo. La voce di docenti, studenti e personale amministrativo sarà sempre più flebile. Un modello feudale con i rettori (nominati quasi a vita) nelle mani del ministro, e gli atenei nelle mani dei rettori. ipotesi_testo_riforma_art.2_L.240_Galli_della_Loggia    
Valditara e Nordio concordano: il sovraffollamento è positivo a scuola e in carcere
Le dichiarazioni politiche nel nostro Paese stanno toccando in queste settimane vette di rigore logico-argomentativo che difficilmente dimenticheremo. Il Ministro Valditara, dell’Istruzione e del Merito, nel suo recente intervento al forum Welfare Italia, ha dichiarato che: “Il numero degli alunni per classe non fa la differenza”. Al contrario,  “studi dell’Invalsi ci confermano che quando il rapporto docenti-studenti è troppo basso il rendimento non migliora, anzi peggiora”.   A seguire, il Ministro della Giustizia Nordio, nel suo intervento alla cerimonia celebrativa sulla legge di ordinamento penitenziario “I suicidi ai quali assistiamo non sono per niente collegati al sovraffollamento. Semmai, paradossalmente è il contrario. Il sovraffollamento è una forma di controllo reciproco tra chi sta in carcere e molti suicidi sono stati sventati proprio perché c’era il controllo dei co-detenuti. Il sovraffollamento determina semmai l’aggressività, ma quello che determina il suicidio è la solitudine”.   Quindi in classe come in carcere il sovraffollamento è un vantaggio. Per la scuola lo “dimostra” l’INVALSI, che probabilmente avrà fornito i dati anche a Nordio per le carceri. Come interpretare queste uscite istituzionali? Lettura frettolosa di dati compiacenti? Pessime freddure? Prove di attenzione dell’uditorio? Rievocazione di schemi antichi (più si è meglio è)? Crediamo si tratti di altro. Una sfacciata dimostrazione di autorità: parole che calpestano il senso di chi le carceri e le scuole le conosce davvero, che sviliscono l’intelligenza di chi nelle carceri e nelle scuole ci lavora. Un’ ennesima prova delle modalità di governo verso cui siamo scivolati e che adesso trovano la sintesi compiuta nel Valditara-Nordio pensiero: la legge del più forte, la cui parola vale più di qualsiasi altra, proclamata pur contro ogni logica.    
Lettera aperta al Ministro Giuli sulla proposta di riforma legislativa volta all’estensione a 70 anni dei diritti esclusivi sulle fotografie semplici
Segnaliamo ai lettori la lettera aperta indirizzata al Ministro Giuli sulla proposta di riforma legislativa volta all’estensione a 70 anni dei diritti esclusivi sulle fotografie semplici, firmata da numerose società disciplinari, associazioni e soci dell’Accademia dei Lincei. Segue il testo. Lettera aperta al Ministro della Cultura – DDL 1184 Senato
La riforma enigmistica: unire i puntini
Il gioco di questa legislatura si chiama “Unisci i puntini”. Si corre con un tratto di penna dal disegno di legge costituzionale sul premierato a quello sulla separazione delle carriere, passando per il decreto sicurezza e l’autonomia differenziata. L’ultimo “puntino” è quello dei provvedimenti in materia di università, su cui sono in preparazione tre atti normativi: 1) un disegno di legge all’esame del Senato che modifica il sistema di selezione e reclutamento; 2) uno schema di regolamento governativo che interviene sulla  composizione e le garanzie di indipendenza dell’Anvur; 3) un terzo provvedimento che, in violazione dell’autonomia universitaria prevista in Costituzione, prefigura consigli di amministrazione con componenti di nomina politica e rettori che agiscono sotto l’occhiuta vigilanza del ministro. Unendo i punti, il profilo che esce è una figura dai tratti autoritari: riduzione del pluralismo costituzionale, mortificazione dei diritti individuali, crescente verticalizzazione del potere. Quale futuro per la nostra collettività se venissero meno i pochi luoghi in cui si invitano i giovani a liberamente pensare, dissentire, criticare, e, in definitiva, a immaginare un futuro differente? Il gioco di questa legislatura, che forse non tutti hanno ancora provato a fare, si chiama “Unisci i puntini”. Si corre con un tratto di penna dal ddl costituzionale sul premierato a quello sulla separazione delle carriere, passando per il decreto sicurezza e l’autonomia differenziata, e il profilo che esce è una figura dai tratti autoritari: la riduzione del pluralismo costituzionale, fatto di equilibrio tra poteri e tra Stato ed autonomie, la mortificazione dei diritti individuali, la crescente verticalizzazione del potere. L’ultimo “puntino”, che a breve andrà ad unirsi agli altri, è quello dei provvedimenti in materia di università, su cui sono in preparazione tre atti normativi. Col primo, un ddl all’esame del Senato, si modifica il sistema di selezione e reclutamento di professori e ricercatori, abbandonando qualsiasi tentativo – pur insoddisfacente e perfettibile come l’attuale – di trasparenza e oggettività, e si ritorna ai concorsi locali, dove il nepotismo e gli abusi sono stati per anni alla radice di un diffuso malcostume accademico che troppo spesso esclude dalla docenza universitaria chi è fuori dalle cordate. Ciò avverrà in spregio ai principi costituzionali in tema di trasparenza, buon andamento dell’amministrazione, parità di chances, oltre che al principio di legalità. Oltretutto, senza risolvere il problema dei precari, che ammontano ormai a metà del corpo docente italiano. Nel secondo progetto, uno schema di regolamento governativo, si interviene sulla già discussa composizione e sulle garanzie di indipendenza dell’Anvur, la costosissima agenzia di valutazione a tutela della “meritocrazia” del sistema universitario. L’Anvur negli ultimi quindici anni ha iper-burocratizzato l’attività di chi fa ricerca, divenendo l’incubo di chiunque lavori negli atenei, costringendo i professori a dedicare larga parte del tempo a redigere montagne di carte inutili, anziché occuparsi di didattica e ricerca. Ciò che non si poteva immaginare è che la proposta ampliandone i poteri e rivedendo la composizione dell’Anvur, riducendo il numero dei componenti, avrebbe inciso ulteriormente sul pluralismo scientifico e culturale presente in seno all’organismo. Da anni si lamenta quanto siano flebili le garanzie di indipendenza dell’Anvur a fronte di compiti che incidono sulla libertà di ricerca prevista dall’art. 33 della Costituzione, visto che sulla base delle sue procedure e decisioni, non sempre trasparenti e inattaccabili, si erogano i finanziamenti agli atenei e si valuta la ricerca e il reclutamento di docenti e ricercatori. A fronte di ciò, l’unico organo di rappresentanza plurale ed elettiva del sistema universitario, il Consiglio Universitario nazionale, il CUN, che il Ministro dovrebbe consultare (soprattutto in momenti di così intenso lavoro legislativo), vede metà dei suoi componenti scaduti da undici mesi e non si ha notizia di una regolare ripresa delle votazioni per rinnovarne la composizione. Dulcis in fundo, nel terzo provvedimento, preparato da un tavolo di lavoro di nomina ministeriale, sembra prepararsi la stretta definitiva sul sistema universitario, già pesantemente condizionato dalla legge Gelmini del 2010. In violazione dell’autonomia universitaria prevista in Costituzione, funzionale alle libertà di ricerca e insegnamento che tutelano docenti e studenti, si prefigura una governance delle università di diretta derivazione governativa: Cda con componenti di nomina politica, rettori che agiscono sotto l’occhiuta vigilanza del ministro e da cui dipenderanno a catena tutte le cariche interne agli atenei (i cui mandati vengono allineati alla durata di quello dei rettori). Sta maturando, insomma, il passaggio dalla visione neoliberale di un’università azienda, incaricata di produrre il capitale umano necessario al mercato del lavoro, che già tradiva la missione costituzionale di offrire ai più giovani strumenti per la lettura critica del reale, a un’università che sembra preannunciarsi destinata a finire sotto il tacco del ministro di turno, gerarchizzata e sempre meno libera, come purtroppo inizia a trasparire dalle lettere con cui nelle scorse settimane, dalle stanze del ministero, si sono invitati i rettori a vigilare sul rispetto delle leggi da parte di studenti e personale accademico. Dalle università in molti hanno replicato auspicando, con tutto il rispetto, che al ministero si faccia altrettanto, prestando attenzione al rispetto della legalità, compresa quella costituzionale. Resta la preoccupazione su quale futuro si prospetti per la nostra collettività se i timori qui espressi fossero fondati, e venissero meno i pochi luoghi in cui si invita a liberamente pensare, dissentire, criticare, e stimolare le giovani menti a ragionare, creare, in definitiva immaginare un futuro differente. Pubblicato sul Fatto Quotidiano del 7 novembre 2025
Contro l’accademia neoliberale: appunti dalla Normale nell’era del merito
Riprendiamo l’articolo del Collettivo della Scuola Normale Superiore apparso qui. Buona lettura. -------------------------------------------------------------------------------- È arrivato novembre. Un altro anno accademico si è aperto e ancora una volta la cerimonia d’inaugurazione della Scuola Normale si è svolta senza alcuno spazio di parola studentesco – una singolarità, se si considera che in pressoché ogni università questo momento coinvolge anche chi l’università la vive quotidianamente. Le lezioni ricominciano e sentiamo la necessità di dotarci di strumenti per leggere la realtà che stiamo vivendo. Negli ultimi mesi, nelle assemblee del Collettivo, nelle mobilitazioni contro la riforma Bernini e nelle discussioni quotidiane nelle classi della Scuola, è emersa una consapevolezza sempre più nitida: le trasformazioni che attraversano l’università non arrivano mai come fratture improvvise, ma si sedimentano nel quotidiano, si insinuano attraverso piccole modifiche ai regolamenti, irrigidimenti formali che cambiano gradualmente il nostro modo di studiare, di organizzarci, di esistere come comunità accademica. Con questo articolo proviamo a condividere alcune riflessioni con l’intento di restituire un’immagine più chiara del contesto in cui viviamo e prendiamo parola: perché è proprio nelle pieghe della normalità amministrativa che si rende visibile il progetto di un’università neoliberale e piegata alle logiche del profitto — e dunque è in questi dettagli che dobbiamo imparare a guardare per riconoscere il presente e immaginare come trasformarlo. -------------------------------------------------------------------------------- Negli ultimi decenni l’università italiana è stata progressivamente riscritta secondo il lessico e le logiche del neoliberismo, un progetto politico ed economico che ha riorganizzato le società occidentali attorno al presunto modello “naturale” e “inevitabile” dell’economia di mercato, assorbendo nelle sue dinamiche istituzioni e diritti un tempo sottratti alla competizione: dalla sanità alla famiglia, dalla scuola alla casa. Per accademia neoliberale intendiamo, dunque, l’insieme di riforme e di discorsi che hanno via via piegato l’università a questa ambizione. In questo quadro abbiamo assistito all’espansione di criteri di efficienza, di valutazione continua, di competizione e misurabilità, che hanno trasformato la formazione e la ricerca in prestazioni quantificabili e la comunità studentesca e docente in una somma di individui chiamati a ottimizzare il proprio percorso in vista della competitività complessiva dell’istituzione. Non si tratta soltanto di un processo di riforma amministrativa o di trasformazione gestionale, ma di una mutazione profonda del modo stesso in cui il sapere viene prodotto, legittimato e distribuito. L’università, anziché pensarsi come spazio di elaborazione culturale e di emancipazione sociale, assume gli strumenti dell’impresa: indicatori di performance, “attrattività” per investitori, culto per il ranking. Il sottofinanziamento strutturale, invece che denunciato come scelta politica che smantella l’autonomia del sapere, viene rovesciato in narrazione meritocratica: chi “sa fare di più con meno” sarebbe moderno, virtuoso, efficiente. E così la dipendenza da finanziamenti privati viene normalizzata come orizzonte inevitabile. Questi processi colpiscono non solo student3 ma anche docenti e ricercator3 attraverso precarietà strutturale, carriere frammentate, valutazioni quantitative, adattamento forzato delle linee di ricerca agli interessi economici dominanti. Questo quadro produce effetti concreti sulla vita accademica. L’accesso allo studio si trasforma in competizione e la retorica del merito funziona come dispositivo di legittimazione dell’esclusione. Si naturalizza la figura dello studente-imprenditore di sé, che deve sacrificarsi, performare, distinguersi per guadagnarsi un posto, mentre il diritto allo studio diventa un privilegio da meritare e non un fondamento della cittadinanza democratica. L’immaginario aziendalista entra nei corridoi universitari e li popola di parole come “eccellenza”, “attrattività”, “competitività”, che spesso oscurano la domanda fondamentale: a chi e per chi serve il sapere che produciamo? 1 -------------------------------------------------------------------------------- Come normalist3 ci chiediamo oggi in che modo le logiche neoliberali si manifestano nella nostra istituzione. Qui il sottofinanziamento non si percepisce con la stessa intensità di altre università italiane; e tuttavia questo apparente scarto non ci sottrae al modello, anzi lo rende talvolta più silenzioso e pervasivo. Il privilegio materiale può funzionare come schermo che oscura le trasformazioni in corso, o peggio come giustificazione implicita: se “qui funziona”, allora il paradigma competitivo, selettivo e aziendalizzato sarebbe legittimo. Ma a quale prezzo? E per chi? Quest’autunno la direzione della Scuola ha avviato un processo di revisione dei regolamenti, intervenendo in modo significativo soprattutto sulla classe di Lettere. Ciò che percepiamo è l’ennesimo passo dentro un percorso già tracciato negli anni passati: la progressiva standardizzazione delle carriere e della didattica per aderire ai parametri ANVUR e ai dispositivi europei di accreditamento. Là dove la formazione si voleva costruita attraverso una relazione diretta tra student3 e docenti, e dove il percorso accademico conservava un margine di autodeterminazione, oggi prende forma un’architettura rigida e modulare. La distinzione tra seminari “afferenti” e “non afferenti” è diventata il primo passo verso un modello in cui la scelta dell3 student3 viene sacrificata in nome della misurabilità. Per ottenere fondi, per essere riconosciut3 come “eccellenza”, dobbiamo diventare incasellabili, leggibili da organismi che non vivono la nostra realtà ma la definiscono. Un segnale evidente di questa trasformazione è la programmazione didattica. I corsi annuali, che costituivano l’ossatura tradizionale della formazione in Normale, lasciano spazio a moduli brevi da 20 ore (3 cfu), presentati come soluzioni temporanee per “tappare i buchi” (espressione pronunciata in consiglio di classe dal corpo docente) dopo il pensionamento di tre professori ordinari. Eppure, più che una contingenza, ci sembra emergere un cambio di paradigma: una didattica frammentata, affidata a figure chiamate per pochi mesi, senza continuità progettuale né responsabilità educativa di lungo periodo e che non dispongono nemmeno delle condizioni contrattuali per poter assumere un ruolo pieno nella nostra formazione — per esempio accompagnandoci come relatori interni nei colloqui. La nostra comunità era costruita – almeno in teoria – sulla presenza di docenti interni, responsabili della nostra crescita intellettuale e disponibili ad accompagnarci nei momenti cruciali del percorso accademico. Oggi assistiamo alla chiusura rapida dei contratti dei docenti esterni, alla lentezza nell’assunzione di nuovi ordinari e, parallelamente, alla facilità con cui si attivano incarichi brevi e discontinui. Il risultato è un’istituzione che si presenta rinnovata, “fresca”, pronta a offrire molti corsi nuovi, ma priva di una struttura solida che renda possibile una formazione effettiva. In questa stessa direzione si è mosso anche l’indurimento delle pratiche valutative: in più sedi è stata rivendicata dai professori l’esigenza di rendere la dinamica del voto più differenziata. È un dettaglio che dice molto: valutare e distinguere è sempre più urgente in un’accademia sottofinanziata che potrà accogliere sempre meno di noi. Troviamo molto ironico che il nostro direttore – che si rifiuta di confrontarsi con la comunità studentesca su ogni tema – abbia appena dichiarato che “alla Normale cerchiamo di dare il meno possibile voti”. Questo dinamismo apparente si ammanta di parole seducenti: interdisciplinarità, apertura, internazionalizzazione. Nascono così corsi come “studi di genere” e “culture di minoranza”, potenzialmente preziosi, ma organizzati come una parata di docenti che terranno poche lezioni, in inglese, senza alcuna continuità né progettualità. Nel caso di “culture di minoranza” si arriva al paradosso di dieci lezioni da due ore, tutte affidate a docenti divers3 e su argomenti differenti. Qui non conta davvero la coerenza della formazione, sembra invece prevalere l’urgenza di esibire la capacità della Scuola di farsi promotrice di temi “progressisti”, una strategia che appare più legata alla visibilità nel network EELISA che alla costruzione di un sapere critico e stabile. La domanda che ci poniamo non riguarda il valore dei contenuti – che riconosciamo e desideriamo – ma l’uso che se ne fa: stiamo assistendo a un reale tentativo di valorizzare saperi non convenzionali, o piuttosto a una risposta opportunistica a bandi e finanziamenti esterni che impongono agende e priorità? Proprio perché questi temi sono cruciali, il modo in cui vengono trattati conta: ridurli a una sfilata di interventi estemporanei, affidati di anno in anno a programmazioni instabili, rischia di svuotarli. È la logica tipica di un neoliberismo accademico che inserisce saperi “emersi dal basso” come elementi decorativi, sradicati da qualsiasi base sociale e comunitaria, pronti a scomparire non appena cambiano gli indicatori o le aspettative ministeriali. Noi desideriamo invece una costruzione condivisa che radichi questi saperi nella vita della Scuola e nella sua comunità, affinché non siano un ornamento progressista, ma una pratica viva, capace di trasformare modalità di apprendimento e forme del pensiero. L’altra faccia di questa trasformazione è un altro elemento, apparentemente marginale ma rivelatore: l’insistenza, emersa negli ultimi mesi, sulla necessità di privilegiare relatori interni in nome della “continuità didattica”. Questa ci sembra da un lato una forma di pressione verso l’iper-specializzazione precoce, che vede nella linearità curricolare una prova di “serietà” e “produttività”; dall’altro, la riproduzione di dinamiche di fidelizzazione, in cui la costruzione di un rapporto privilegiato con chi detiene capitale accademico diventa garanzia di futuro accesso ai pochi spazi disponibili – dal dottorato ai progetti di ricerca. È una forma aggiornata di baronaggio, meno rumorosa ma non meno efficace, che si presenta come razionalizzazione amministrativa mentre riscrive le pratiche della cooptazione tradizionale. Tanto l’insistenza retorica sulla “continuità”, quanto la proliferazione di corsi da 3 cfu, ci appaiono come manifestazioni di un medesimo impoverimento: una didattica frammentata, che restringe di fatto gli spazi di scelta e di sperimentazione. Infine, la stretta burocratica sui percorsi – la rigida separazione tra triennale e magistrale, la regolamentazione minuziosa dei passaggi tra seminari, il cambio di piattaforma da Serse a Esse3 – sembra testimoniare la volontà di delegare agli strumenti digitali e ai regolamenti il compito di definire ciò che possiamo fare, studiare, diventare. È un rovesciamento quasi distopico: non sono le esigenze formative a plasmare gli strumenti, ma gli strumenti a modellare la formazione. Non si tratta, da parte nostra, di rivendicare un passato idealizzato. La Normale “di un tempo” non rappresenta per noi un modello a cui tornare: anche allora la formazione era segnata da gerarchie implicite, corsi talvolta improntati alla mera trasmissione erudita. Nostalgia e mercificazione sono due lati di una stessa incapacità di immaginare l’università come spazio creativo, rigoglioso, libero. Piuttosto, ciò che vogliamo aprire è una domanda condivisa sulla forma che la nostra istituzione potrebbe assumere: come configurare luoghi in cui la libertà di ricerca non sia retorica, ma pratica quotidiana? Come costruire relazioni pedagogiche che non siano né tutoring paternalistico né mera logica di competenze da acquisire? Questa domanda non ha una risposta preconfezionata; chiede tempo, conflitto, progettualità. Ma rinunciare a formularla significherebbe consegnare l’università alla gestione tecnocratica che oggi la svuota di senso.