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Asimmetrie invisibili: due storie vere di internazionalizzazione accademica
L’internazionalizzazione è oggi una parola chiave nel lessico delle politiche universitarie europee. Bandi, progetti, programmi di dottorato e iniziative di cooperazione spingono a “globalizzare” la formazione superiore e a promuovere la mobilità di studenti e ricercatori (Kushnir &Yazgan, 2023). Ma cosa accade quando questi obiettivi incontrano la quotidianità concreta dell’università italiana? Le pratiche di cooperazione e supervisione sono davvero in grado di produrre scambio e crescita reciproca? Oppure rischiano di riprodurre, sotto nuove forme, disallineamenti e squilibri? In questo contributo raccontiamo due esperienze vissute presso l’Università di Genova: un progetto di cooperazione con un’università africana e la supervisione di un dottorato di ricerca con un candidato/a proveniente da un paese asiatico a basso reddito. Due vicende diverse, ma accomunate dalla stessa domanda: può l’internazionalizzazione realizzarsi davvero, se le strutture accademiche e culturali rimangono profondamente disallineate? Cooperare in assenza di simmetria Il primo caso riguarda un progetto di capacity building con l’Universidade Eduardo Mondlane di Maputo (Mozambico), finanziato nell’ambito della cooperazione allo sviluppo (Collins et al. 2010). Il progetto prevedeva attività congiunte di didattica, ricerca e terza missione. L’inizio fu promettente: entusiasmo reciproco, incontri produttivi, una visione condivisa degli obiettivi. Ma ben presto, nella quotidianità operativa, emersero difficoltà profonde: i compiti avanzavano lentamente, la comunicazione era discontinua, la pianificazione ricadeva quasi interamente sul gruppo italiano. Inizialmente interpretammo questi ostacoli come semplici inefficienze organizzative. Col tempo, tuttavia, divenne evidente che si trattava di differenze sistemiche: il calendario accademico della UEM, le priorità istituzionali, la disponibilità dei docenti seguivano logiche molto diverse dalle nostre. I nostri strumenti – scadenze strette, rendicontazioni formalizzate, riunioni calendarizzate con mesi di anticipo – riflettevano aspettative implicite su cosa significhi “cooperare”: lavorare in sincronia, rispettare milestone, produrre deliverables. Ma queste aspettative, profondamente radicate in una cultura accademica europea e performativa, si rivelavano inadeguate a un contesto diverso. Il rischio, anche senza intenzione, era quello di scivolare nel classico schema Nord–Sud: la progettazione e la visibilità al Nord, l’implementazione incerta e marginalizzata al Sud. È una dinamica “coloniale” ben documentata nella letteratura sulla cooperazione accademica internazionale, che mostra come le partnership, anche se formalmente paritarie, tendano a riprodurre gerarchie epistemiche e operative (Swartz et al., 2020; De Wit & Altbach, 2021). Nel nostro caso, l’asimmetria non si esprimeva solo in termini di risorse, ma anche nel diverso peso dato al tempo, alla burocrazia, alla flessibilità operativa. Di fronte alle difficoltà, il primo impulso fu quello di “correggere” il partner: accelerare, riorganizzare, offrire più strumenti. Solo dopo diverse frustrazioni ci rendemmo conto che era necessario un cambio di paradigma. Decidemmo di sospendere alcune attività, rinegoziare obiettivi, accettare una diversa scansione temporale. Ma soprattutto, iniziammo a chiedere invece di proporre, ad ascoltare invece di pianificare. Scoprimmo così che alcune delle priorità che per noi erano urgenti non lo erano affatto per i colleghi mozambicani – e viceversa. Il punto di svolta non fu un miglioramento gestionale, ma un gesto relazionale: riconoscere che la cooperazione non può basarsi su modelli prestabiliti, ma richiede negoziazione continua, adattamento reciproco e una disponibilità a mettere in discussione il proprio punto di partenza. In altre parole, cooperare significa anche disattivare aspettative implicite, spesso invisibili ma profondamente operative. È un lavoro di decentramento, non solo logistico ma culturale ed epistemico. E forse è proprio lì che l’internazionalizzazione può diventare un processo trasformativo, invece che una cornice normativa da rispettare. Supervisione senza cornici condivise La seconda esperienza riguarda la supervisione di dottorato in un laboratorio biomedico. Il candidato/a, proveniente da un contesto accademico e culturale molto diverso dal nostro, aveva ottenuto l’ammissione sulla base di titoli apparentemente adeguati. Tuttavia, fin dai primi mesi, emersero gravi difficoltà: scarsa autonomia nel lavoro, incertezza nell’applicazione del metodo sperimentale, difficoltà a collegare attività pratiche e fondamenti teorici. All’inizio attribuimmo tutto a un fisiologico periodo di adattamento. Ma con il tempo ci accorgemmo che le difficoltà persistevano, nonostante l’impegno del candidato/a. Il problema non era solo linguistico, infatti molte attività scientifiche e amministrative si svolgevano in italiano, ma più profondamente epistemico: cosa significa “fare ricerca”? Qual è il ruolo del tutor? (Guarimata-Salinas et al. 2024). Che tipo di iniziativa è attesa da un dottorando/a? Le risposte a queste domande non erano condivise con il candidato/a ne comprese. In assenza di cornici culturali e accademiche comuni, la presenza del dottorando/a si riduceva progressivamente a una forma passiva. Non si trattava (solo) di una fragilità individuale, ma della mancanza di strumenti strutturati per affrontare situazioni di questo tipo. Molti studenti internazionali, specialmente quelli provenienti da paesi a basso reddito, vedono l’Italia come una meta di prestigio e opportunità, ma si scontrano con un sistema che, pur formalmente aperto, non è strutturato per accoglierli davvero. Nel dottorato italiano, l’ammissione è spesso un “punto di non ritorno”: superato il concorso, non sono previsti veri meccanismi di monitoraggio o supporto. I tutor si trovano soli a gestire situazioni complesse come quelle interculturali, senza formazione specifica, senza protezione istituzionale, e con valutazioni in itinere annuali spesso poco più che rituali. Eppure, è proprio il dottorato ad aver incarnato alcune delle principali riforme dell’istruzione superiore europea: dal Processo di Bologna del 1999 (https://www.mur.gov.it/it/aree-tematiche/afam/politiche-internazionali/processo-di-bologna-bologna-process) al modello delle Marie Skłodowska-Curie Actions (https://marie-sklodowska-curie-actions.ec.europa.eu/), l’idea di un dottorato internazionale, interdisciplinare e strutturato è stata al centro di molte politiche di innovazione accademica. Ma nella pratica quotidiana, queste trasformazioni restano spesso parziali. In molte sedi italiane, i dottorati, pur aspirando ad accogliere studenti internazionali, continuano a essere profondamente nazionali, sia per lingua che per modalità di insegnamento e valutazione. Questo accade in un contesto dove l’internazionalizzazione dei dottorati è più dichiarata che realizzata. Solo il 16% dei dottorandi in Italia è straniero (vs. 33% in Portogallo, 38% in Francia) (https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/26/perche-negli-ultimi-anni-il-numero-di-neo-dottori-di-ricerca-in-italia-e-in-costante-calo/?refresh_ce=1), e in molti casi l’inserimento resta superficiale. L’“apertura internazionale” si riduce, nei fatti, a un’aggiunta decorativa più che a una trasformazione sostanziale. L’internazionalizzazione come trasformazione (non come etichetta) I due casi raccontati pongono la stessa questione: può l’università diventare realmente internazionale senza mettere in discussione sé stessa? La risposta, per noi, è no. L’internazionalizzazione autentica non è una procedura, né un obbligo da bando. È un processo trasformativo che coinvolge epistemologie, ruoli, tempi, linguaggi. Non basta “accogliere” l’altro; occorre rimettere in discussione ciò che diamo per scontato: i nostri criteri di valutazione, le nostre aspettative, i nostri modelli impliciti di successo scientifico. Chi definisce cosa è “valido”? Quali forme di conoscenza riconosciamo, e quali marginalizziamo? Chi porta il peso del disallineamento nei progetti o nei percorsi formativi? Sono domande scomode, ma necessarie, se vogliamo che la cooperazione e la supervisione internazionale escano dalla retorica e diventino strumenti reali di crescita. Conclusioni: mutualità, non solo mobilità Non abbiamo ricette universali per risolvere queste tensioni. Ma una direzione ci sembra chiara: occorre spostare l’attenzione dalla “mobilità” dei soggetti alla “mutualità” delle relazioni. Non basta far circolare studenti, dottorandi o progetti oltre i confini. Bisogna costruire contesti relazionali capaci di accogliere le differenze non come ostacoli da superare, ma come risorse da comprendere. Supervisionare, cooperare, formare – in un contesto globale – richiede riflessione, strumenti flessibili, e istituzioni capaci di sostenere il cambiamento. L’internazionalizzazione, se presa sul serio, non si compie con la firma di un accordo, ma si costruisce nel disallineamento quotidiano: nella fatica di capirsi, nel coraggio di rinegoziare, nella volontà di cambiare insieme. E forse, proprio da queste asimmetrie invisibili, può nascere l’università che ancora non c’è.   Referenze 1. Kushnir, I., & Yazgan, N. (2023). The politics of higher education: the European Higher Education Area through the eyes of its stakeholders in France and Italy. Humanities and Social Sciences Communications, 10(1), 1–11. https://doi.org/10.1057/s41599-023-02300-x   2. Collins, F. S., Glass, R. I., Whitescarver, J., Wakefi, M., & Goosby, E. P. (2010). Capacity in Africa. Science, 330(December), 1324–1325.   3. Swartz, S., Barbosa, B., & Crawford, I. (2019). Building Intercultural Competence Through Virtual Team Collaboration Across Global Classrooms. Business and Professional Communication Quarterly, 83(1), 57-79. https://doi.org/10.1177/2329490619878834 (Original work published 2020)   4. de Wit, H., & Altbach, P. G. (2020). Internationalization in higher education: global trends and recommendations for its future. Policy Reviews in Higher Education, 5(1), 28–46. https://doi.org/10.1080/23322969.2020.1820898   5. Guarimata-Salinas, G., Carvajal, J. J., & Jiménez López, M. D. (2024). Redefining the role of doctoral supervisors: a multicultural examination of labels and functions in contemporary doctoral education. Higher Education, 88(4), 1305–1330. https://doi.org/10.1007/s10734-023-01171-0   6. https://www.mur.gov.it/it/aree-tematiche/afam/politiche-internazionali/processo-di-bologna-bologna-process   7. https://marie-sklodowska-curie-actions.ec.europa.eu/   8. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/26/perche-negli-ultimi-anni-il-numero-di-neo-dottori-di-ricerca-in-italia-e-in-costante-calo/?refresh_ce=1       Biografie Katia Cortese è professoressa associata di Anatomia Umana presso l’Università di Genova, dove coordina attività di ricerca nel campo dell’imaging subcellulare, della morfologia e delle risposte cellulari ai trattamenti oncologici. È impegnata nella formazione dottorale e in progetti di educazione con particolare attenzione alla riflessione critica sul ruolo della visione scientifica e sulle dinamiche interculturali nella ricerca. Marco Frascio è professore associato di Chirurgia Generale presso l’Università di Genova. È stato coordinatore del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e attualmente è delegato del Rettore per la Cooperazione Internazionale. Si occupa di chirurgia oncologica e formazione medica, con esperienza in progetti di cooperazione internazionale in Africa, Asia e Cina.  
Documento CASAG sulla riforma del reclutamento
Segnaliamo il documento che è stato approvato nell’ultima riunione della Conferenza delle Associazioni Scientifiche di Area Giuridica (CASAG) relativo al disegno di legge n. 1518 recante ‘Revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario’. reclutamento docenti ddl S1518-Documento CASAG-26-6-25 def
Addio ASN. E poi?
Il disegno di legge governativo di riforma del reclutamento universitario presenta molteplici ombre. Il punto più critico è quello dell’abbandono di una vera valutazione, a livello nazionale, del merito e della qualità degli aspiranti professori per demandare tutto alle sedi locali. Tale soluzione comporta i  fortissimi rischi di enfatizzare un esasperato «localismo» nella scelta dei professori universitari e di disgregare ulteriormente il sistema universitario nazionale   1. Premessa. Il fallimento dell’abilitazione scientifica nazionale secondo il progetto governativo. Valutazioni critiche. Il giorno 19 maggio 2025 il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di disegno di legge recante «revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario». Si tratta di un provvedimento atteso da tempo, annunciato anche da Ministri di Governi precedenti e che ora ha assunto una forma concreta. Tale disegno di legge è stato presentato al Senato della Repubblica il 3 giugno 2025 con il numero 1518. Per esaminare questo progetto nel dettaglio, la cosa migliore è leggere (e commentare) i passi più significativi della relazione illustrativa che lo accompagna. Anzitutto, si dice che «il presente disegno di legge riprende i tratti fondamentali delle proposte elaborate nell’ambito del Gruppo di Lavoro nominato con decreto del Ministro dell’università e della ricerca del 20 settembre 2024, n. 1501, avente come scopo attività di supporto al Ministro per analisi, studio ed elaborazione di proposte di revisione in materia di reclutamento e di qualità dell’offerta formativa, dell’assetto e della governance della valutazione dell’università e della ricerca, nonché di revisione della struttura e del funzionamento degli Organi consultivi del Ministero dell’università e della ricerca. Il Gruppo di lavoro – composto dai Presidenti degli Organismi di consulenza del Ministro, nonché da esperti del settore – ha portato avanti diversi filoni di discussione, a partire dai temi della funzionalità del vigente sistema di Abilitazione scientifica nazionale (ASN) di cui all’art. 16 della legge n. 240 del 2010 e da quelli, strettamente connessi, delle procedure per la chiamata dei professori e dei ricercatori a tempo determinato (artt. 18 e 24 della medesima legge). L’obiettivo principale è stato quello di effettuare una valutazione complessiva di coerenza agli scopi originari, alla luce dei risultati attesi». A parte il fatto che il decreto di nomina del Gruppo di lavoro dovrebbe essere il n. 1591 e non il n. 1501, come indicato poc’anzi, va sottolineato che questo organismo – come altri Gruppi di lavoro di recente istituzione – vede la presenza di componenti accademici e no scelti unilateralmente dalla Ministra senza alcun confronto con la comunità universitaria e, soprattutto, con il suo organo principale di rappresentanza che è il Cun. La relazione afferma che «sulla base delle risultanze del Gruppo di lavoro, è stato elaborato il presente disegno di legge, che persegue la finalità di promuovere la qualità del sistema universitario italiano, avendo presente in particolare la necessità di renderlo maggiormente accessibile agli studiosi più giovani, di semplificarne le procedure, di rafforzare l’autonomia dei singoli Atenei, introducendo al contempo norme che ne rafforzino in modo significativo la responsabilità per le scelte compiute in sede di reclutamento. Infine, si è ritenuto di dover intervenire anche al fine di reinserire procedure di mobilità del personale docente che il quadro risultante dalle modifiche intervenute negli ultimi quindici anni avevano fortemente limitato, cristallizzando un localismo di cui certamente non può giovarsi il sistema complessivamente inteso». E così, «partendo dall’analisi della funzionalità del sistema ASN dopo quindici anni dall’approvazione della legge n. 240 del 2010 e dopo più di dodici anni di prassi applicativa, si è registrato un generale smarrimento della sua natura iniziale, ovvero quella di accertare il possesso di un livello minimo di qualificazione e produttività scientifica basato su standard condivisi a livello nazionale, livello che deve fungere da precondizione indispensabile per partecipare alle procedure di reclutamento. Nonostante la normativa indichi chiaramente che il conseguimento dell’abilitazione non dia titolo alcuno alla chiamata, si è invece radicata l’aspettativa che questa costituisca una sorta di diritto acquisito alla chiamata in ruolo: questa aspettativa, unitamente all’altissimo numero di abilitati, comporta effetti distorsivi molto pesanti sulla programmazione strategica degli Atenei». Pertanto, «tale aspettativa è, per altro, confermata dalla enorme pressione tesa al progressivo allungamento della validità del titolo abilitativo, originariamente prevista in quattro anni e giunta, a seguito di numerose modifiche intervenute nel corso degli anni (l’ultima recata in sede di conversione del decreto-legge n. 160 del 2024), a ben dodici anni, svuotando pressoché di senso il suo aggancio a una valutazione della produzione scientifica basata su indicatori di produttività all’interno di un determinato arco temporale, arco temporale che è finalizzato ad accertare, tra l’altro, il perdurare di tale produttività fino al momento in cui si svolgono le procedure di chiamata». Quindi, stando alle parole della relazione ministeriale, la novella è volta ad eliminare il preteso effetto distorsivo determinato dall’acquisizione della ASN che creerebbe, nei suoi possessori, il convincimento di godere di un diritto alla chiamata in ruolo; e quindi ciò innescherebbe varie pressioni, da parte degli abilitati, sugli organi degli Atenei di riferimento per ottenere il soddisfacimento di tale aspettativa/diritto. Qua si confondono due aspetti. Una cosa è una valutazione a livello nazionale del possesso dei requisiti minimi (qualunque essi siano) per potere svolgere le funzioni di professore. Altra cosa è il fatto che chi abbia ottenuto tale qualificazione aspiri, legittimamente, all’ottenimento della posizione di ruolo corrispondente. Che poi gli abilitati facciano sentire, nei rispettivi contesti accademici, le loro aspettative non rappresenta alcunché di scandaloso. D’altra parte, il sistema universitario, come qualunque altro ambito sociale, è ricco di relazioni, e quindi di dialoghi e conflitti, e non potrebbe essere diversamente. A tacer d’altro, va semmai ricordato che, secondo i regolamenti dei vari Atenei (coerenti con i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa) alle decisioni dei Dipartimenti di mettere a bando le posizioni di professore non possono partecipare gli abilitati, in quanto essi sono inequivocabilmente in una condizione di «conflitto di interessi». E inoltre l’esperienza dimostra che, a causa della perdurante contrazione dei finanziamenti, il sistema è stato (e lo sarà sempre di più se non cambiano le cose) in grado di assorbire una minima parte degli abilitati, soprattutto di quelli che hanno conseguito l’abilitazione per il ruolo di prima fascia. Secondo la relazione «in aggiunta, la ripetizione di una valutazione quali-quantitativa, effettuata prima a livello nazionale dalle Commissioni ASN (per altro, gravando i loro componenti di un lavoro obiettivamente lungo e assorbente, tale da distoglierli dalla loro attività primaria negli Atenei), e poi a livello di singola procedura di reclutamento presso i singoli Atenei, appare ridondante, soprattutto per quanto riguarda i titoli scientifici, incluse le pubblicazioni». E «tale ridondanza è, a maggior ragione, evidente nei settori cosiddetti bibliometrici, all’interno dei quali il mero raggiungimento dei valori-soglia quantitativi è per lo più ritenuto sufficiente, e non già solamente necessario, ai fini del conseguimento dell’abilitazione, riducendo o addirittura eliminando il peso della valutazione qualitativa che spetterebbe alla Commissione ASN». Inoltre, «per converso, il fatto che ai fini dell’abilitazione non siano valutate l’attività didattica, quella di terza missione/valorizzazione della conoscenza, quella amministrativo-gestionale, e, per le aree mediche, l’esperienza clinico-assistenziale, comporta un’asimmetria nei criteri di valutazione rispetto ai concorsi, dove invece queste attività cruciali per il profilo dei docenti sono valutate». Anche qui si tratta di affermazioni che lasciano perplessi. Da un lato, la logica del sistema dell’ASN e poi dei concorsi locali era ed è quella di una valutazione basata su due fasi. La prima:  una valutazione centralizzata sul possesso di alcuni requisiti minimi, e quindi abilitante in senso proprio. La seconda: una valutazione locale di tipo comparativo a livello di singoli Atenei, scegliendo il migliore tra i possibili candidati, tenendo conto di titoli più ampi rispetto alla prima fase. Dall’altro lato, la considerazione appena citata, circa l’esperienza dei settori cosiddetti bibliometrici, equivale, de facto, ad una sorta di repentina marcia indietro rispetto alle narrazioni degli ultimi anni, in cui la bibliometria è stata propagandata come la pietra filosofale per riuscire finalmente a premiare il merito e a debellare le baronie e le consorterie concorsuali. Qui si dice a chiare lettere che l’uso degli strumenti bibliometrici non consente una vera valutazione qualitativa (che è il senso genuino di ogni valutazione sulla produzione scientifica) dei candidati! Un’altra perla è la frase: «i risultati della ASN, anche a causa delle diverse prassi adottate dalle singole Commissioni nazionali, hanno creato una forte disomogeneità nella percentuale di abilitati tra i vari settori concorsuali e tra le diverse tornate di abilitazione, compromettendo in maniera evidente l’idea stessa di un sistema unitario e tendenzialmente omogeneo per tutte le aree scientifiche». Ma, volendo essere realistici, di fronte alla molteplicità delle aree scientifiche, ai correlativi settori concorsuali e settori scientifico-disciplinari, e alla varietà delle rispettive abitudini e tradizioni di valutazione della produzione scientifica, è alquanto bizzarro pensare che le Commissioni ASN dovessero adottare prassi omogenee. La relazione sottolinea che «d’altro canto, l’intervento di modifica si rende necessario anche al fine di dare compiuta attuazione alla Riforma 1.5 (Missione 4, Componente 1) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di competenza MUR, che ha provveduto, tra l’altro, con decreto del Ministro dell’università e della ricerca 2 maggio 2024, n. 639, ad individuare i nuovi Gruppi scientifico-disciplinari (per un totale di n. 190, che hanno sostituito sia nell’inquadramento, sia per i compiti dei docenti che nei piani di studio, i Settori scientifico-disciplinari (SSD) e i Settori Concorsuali (SC). I Gruppi scientifico-disciplinari costituiscono una prerogativa necessaria per l’inquadramento dei professori di prima e seconda fascia e dei ricercatori e sono utilizzati per l’adempimento degli obblighi didattici da parte degli stessi. Trattasi di un’operazione di semplificazione per far sì che ciascun gruppo scientifico disciplinare possa contenere uno o più settori scientifico-disciplinari afferenti allo stesso, alla luce delle declaratorie indicate nel decreto sopra menzionato». A questo riguardo, basti sottolineare che queste modifiche comunque consistono in una mera manutenzione dell’esistente, peraltro condivisa dalla comunità universitaria e che non giustificano di per sé una radicale riforma del reclutamento, come invece sostenuto nella relazione governativa.   2. L’abbandono dell’abilitazione scientifica nazionale. La determinazione centralizzata dei requisiti per la partecipazione ai concorsi locali. A questo punto, la relazione entra in medias res, ed afferma che «in questo quadro, la proposta normativa ha l’obiettivo di semplificare radicalmente l’attuale sistema, garantendo il mantenimento di una soglia minima di requisiti di produttività e qualificazione scientifica, condivisi a livello nazionale, come condizione di accesso alla docenza universitaria di prima e di seconda fascia». E che «in particolare, si propone l’introduzione di un sistema mediante cui si individuino, su proposta dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), requisiti specifici, distinti per gruppo scientifico-disciplinare e, per ciascuno di essi, per la prima e per la seconda fascia». Più precisamente, «il possesso dei citati requisiti, come chiarito al comma 3,» (qui non c’è il richiamo all’articolo di riferimento!) «è oggetto di dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da parte dei singoli candidati, attraverso una piattaforma telematica messa a disposizione del Ministero, e, a differenza da quanto avviene oggi per gli indicatori quantitativi di produzione scientifica previsti dalle procedure ASN, il caricamento – recte, la dichiarazione sostitutiva del candidato – della documentazione attestante il relativo possesso non implica alcuna valutazione da parte del MUR». Pertanto, «non si tratta di una procedura automatizzata di valutazione, ma di una mera condizione di ammissibilità strumentale ai fini della partecipazione alle procedure di concorso per la chiamata come professori ordinari e associati da parte delle università, elevando i requisiti per l’ingresso in ruolo e, al contempo, fornendone una elencazione uniforme a livello nazionale come parametro di valutazione per le singole commissioni locali». La relazione continua: «infine, differentemente dal sistema ASN, il nuovo modello di autodichiarazione non produrrà un certificato di abilitazione o altro tipo di esito documentale (“esito verde o rosso”), ma costituirà unicamente lo strumento e la condizione per lo svolgimento delle procedure locali, seppure alla luce dei nuovi (e più elevati ed uniformi) requisiti di partecipazione». E così, «in definitiva, il nuovo sistema, nella valorizzazione del principio di autonomia responsabile, affida alle università la gestione dei processi di selezione nelle procedure concorsuali per la chiamata di professori di prima e seconda fascia, pur garantendo – a livello centrale – una serie di requisiti di partecipazione, salvaguardando così l’autonomia garantita dall’art. 33 della Costituzione». Al di là della retorica delle argomentazioni usate dalla relazione, non si comprende il vantaggio in termini di efficienza nel passare tra l’attuale e il futuro meccanismo di selezione preliminare. Se il possesso dei nuovi «requisiti di partecipazione» costituisce una condizione «di ammissibilità…ai fini della partecipazione alle procedure di concorso» in sede locale, non si fa altro che spostare in questo luogo le valutazioni che nel sistema dell’ASN spettano alle relative Commissioni. Con ciò moltiplicando il rischio di contenzioso, perché ogni candidato, che non supera il concorso locale, potrebbe impugnare non solo la sua bocciatura, ma anche contestare il possesso da parte dei vincitore dei suddetti requisiti. Il refrain governativo è quello che i nuovi requisiti sarebbero «più elevati ed uniformi» rispetto a quelli attuali. Sicché, «tali requisiti riprenderanno in parte gli attuali titoli richiesti per il conseguimento dell’ASN (l’organizzazione o la partecipazione come relatore a convegni scientifici, l’attribuzione di borse di ricerca o di incarichi di collaborazione all’attività di ricerca, la partecipazione a progetti di ricerca aggiudicati sulla base di bandi competitivi, il conseguimento di premi riconosciuti per l’attività scientifica, i risultati in sede di trasferimento tecnologico etc.) e comprenderanno una misurazione della produzione scientifica, integrandola con analisi della sua continuità e distribuzione temporale, sostituendo funzionalmente i cosiddetti “valori soglia”, individuati dal D.M. n. 589 del 2018». E «si precisa che i requisiti previsti dal novellato art. 16 della legge n. 240 del 2010, non costituiscono un elenco necessariamente tassativo per tutte le aree scientifiche, ma sarà il decreto del Ministro dell’università e della ricerca, su proposta dell’ANVUR, di cui al nuovo articolo 16, comma 1, a dettagliarne il contenuto per ciascun gruppo scientifico-disciplinare e ciascuna delle due fasce di docenza, delimitando quindi l’ambito entro il quale ciascuna università sarà chiamata a svolgere le valutazioni mediante commissioni giudicatrici formate come disciplinato nel prosieguo del testo». Anzitutto, se si legge il nuovo testo dell’art. 16, l. n. 240/2010, qui risulta che i suddetti «requisiti» sono individuati con apposito decreto ministeriale, su proposta dell’ANVUR, ma solo «sentito» il CUN. Nel sistema attuale, invece, il decreto ministeriale sui «criteri e parametri» per la valutazione ai fini dell’ASN, e per l’accertamento della qualificazione dei commissari, è emanato «sentiti il CUN e l’ANVUR»; mentre i cosiddetti «valori-soglia» sono fissati sempre da un decreto ministeriale, ma «sulla base di una proposta dell’ANVUR e sentito il CUN». È evidente il chiaro disegno governativo di un’ulteriore marginalizzazione del CUN. Peraltro, i nuovi requisiti, come ammette la stessa relazione, dovranno essere costruiti in funzione delle specificità di «ciascun gruppo scientifico-disciplinare». E se i gruppi scientifico-disciplinari sono oggi ben 190, appare alquanto difficile che l’ANVUR abbia da sola le competenze e le conoscenze per effettuare tale operazione se non in stretta collaborazione con il CUN (che, d’altro canto, ha definito gli stessi Gruppi) e con le società scientifiche che rappresentano i vari saperi. Anche questo progetto di riforma del reclutamento universitario, nonostante le parole poc’anzi citate della suddetta relazione, resta improntato alla logica del feticismo bibliometrico e del publish or perish. Vale a dire allo stimolo di una continua ed affrettata produzione scientifica, per raggiungere delle mere soglie quantitative, ai fini dell’accesso alla procedura di valutazione (prima a livello di ASN e, in futuro, solo in sede locale), che, in tutti i settori, ha determinato profonde distorsioni e ha incrementato una moltitudine di comportamenti opportunistici. Infatti, il novellato art. 16, l. n. 240/2010, tra i nuovi requisiti, parla di «raggiungimento degli indicatori minimi di quantità, continuità e distribuzione temporale dei prodotti della ricerca, definiti tenendo delle caratteristiche di ciascun gruppo scientifico-disciplinare, in diversa misura per la prima e per la seconda fascia, nonché della rilevanza nazionale e internazionale dei prodotti medesimi». Inoltre, se l’abolizione dell’ASN persegue, secondo una lettura maliziosa, lo scopo sotterraneo di azzerare ogni possibilità di contenzioso rispetto alle decisioni delle relative Commissioni nazionali, non è detto che questo nuovo sistema sfugga a tale rischio. Anzi. Come s’è poc’anzi osservato (ma vale la pena di ribadire questo aspetto), i conflitti si potranno moltiplicare in sede locale, laddove un candidato perdente potrebbe, in primis, contestare la correttezza dell’autocertificazione del vincitore. Né è escluso che i nuovi requisiti di partecipazione più saranno dettagliati tanto più potranno essere accusati di illogicità, incoerenza, irrazionalità. E comunque, come risulta dal testo del nuovo art. 18, l. n. 240/2010, dovranno essere le commissioni locali a vagliare, prima di tutto, l’esattezza delle autocertificazioni dei candidati, con l’ovvio rischio di una frammentazione dei giudizi.   3. La valutazione in sede locale. Quanto alla composizione delle commissioni giudicatrici in sede locale, queste (per le procedure relative alla chiamate di professori di prima fascia) saranno formate da «1) almeno quattro componenti esterni all’università che ha indetto la procedura, individuati dalla stessa università, previo sorteggio tra i docenti disponibili a livello nazionale, afferenti al settore scientifico-disciplinare di cui al bando di concorso; 2) almeno un componente interno all’università che ha indetto la procedura, afferente al settore scientifico-disciplinare di cui al bando di concorso; 3) per le procedure relative alle chiamate di professori di seconda fascia, ameno tre componenti della commissione giudicatrice sono individuati tra i professori di prima fascia, fermo restando il rispetto dei criteri di cui ai numeri 1) e 2)». Con tale proposta si impone agli Atenei un’armonizzazione forzata delle modalità di composizione delle commissioni giudicatrici, impedendo (o cercando di impedire) la costruzione di regolamenti locali volti a pilotare tale costruzione a favore delle aspettative dei candidati interni. Tuttavia, un punto estremamente critico è quello della modalità di formazione della lista dei docenti «disponibili» ad essere sorteggiati. Qui il disegno di legge non dice alcunché. Se la compilazione di tale lista dovesse essere lasciata all’autonomia delle sedi locali, è evidente che rimarrebbe la possibilità di condizionare a priori la composizione della commissione giudicatrice. Se invece la costruzione della lista fosse del tutto centralizzata a livello ministeriale, senza alcuna possibilità di influenza della sede locale, non avrebbe alcun senso l’affermazione della relazione ministeriale (poi condensata in un’apposita previsione del disegno di legge) secondo cui «con il nuovo sistema si intendono responsabilizzare concretamente gli Atenei circa le rispettive politiche di reclutamento. In quest’ottica la valutazione dei nuovi assunti diviene un elemento fondamentale al fine del riparto della quota premiale del FFO e del contributo destinato alle università non statali. Si intende introdurre un sistema premiale per le università che assumono i migliori, ossia coloro i quali nel periodo successivo all’assunzione dimostrano con i loro indicatori di produttività, con le loro pubblicazioni e con la loro attività complessiva, di avere contribuito al miglioramento delle attività dell’università che li ha reclutati». Va comunque sottolineata con forza l’opportunità di correggere una distorsione già segnalata in relazione alla attuale composizione delle Commissioni ASN. Se si ritiene ancora (purtroppo!) che il sorteggio dei valutatori sia la ricetta magica per debellare i (supposti, ma non dimostrati in modo scientifico) mali endemici dei concorsi universitari, è però necessario che i commissari sorteggiati abbiano una durevole esperienza nel ruolo (prima o seconda fascia) per cui il concorso è bandito. Ciò a maggior ragione ora che, nella proposta governativa, come s’è visto poc’anzi, si sottolinea che vi sono «attività cruciali per il profilo dei docenti» (e che quindi vanno necessariamente valutate), quali: «l’attività didattica, quella di terza missione/valorizzazione della conoscenza, quella amministrativo-gestionale, e, per le aree mediche, l’esperienza clinico-assistenziale». Difatti, è alquanto illogico che, prima nelle Commissioni ASN, ora nelle commissioni locali, possa essere sorteggiato un docente che sia entrato nel relativo ruolo da poco e non abbia avuto il tempo di maturare una sufficiente esperienza sia in relazione ai vari compiti inerenti alla posizione ricoperta sia nella difficile attività della valutazione dei candidati ad un concorso. Il disegno di legge n. 1518 introduce, nella procedura di valutazione locale, il criterio della «valutazione delle modalità di svolgimento della didattica» e una «discussione, alla presenza dei componenti della commissione giudicatrice, dei contenuti delle pubblicazioni scientifiche, nonché delle esperienze didattiche dei candidati». È possibile che così si amplierebbe eccessivamente il margine di discrezionalità delle commissioni giudicatrici. Però è anche logico (ed ontologico) pensare che chi voglia entrare nei ruoli di professore universitario dimostri pubblicamente le sue capacità didattiche e sappia difendere le tesi sostenute nelle sue pubblicazioni scientifiche. Semmai, qui si potrebbero introdurre appositi limiti a tale valutazione, per evitare che soprattutto il giudizio sulla didattica possa assumere valore prevalente sugli altri titoli del candidato. Tuttavia, il disegno di legge prevede che «ferma restando la proposta di chiamata in capo al Dipartimento di cui alla lettera e)» dell’art. 18, c. 1, l. n. 240/2010, «la commissione giudicatrice conclude i propri lavori indicando il candidato più meritevole. Prima di procedere alle determinazioni di cui alla lettera e), il Dipartimento può invitare il candidato a tenere un seminario pubblico; nelle procedure relative all’area medica, qualora il bando indichi specifiche esigenze clinico-assistenziali, il Dipartimento può determinare l’àmbito tematico sul quale svolgere il seminario, dandone comunicazione con congruo anticipo ai candidati» (ma visto che già il vincitore è stato individuato dalla commissione, qui la parola «candidati», dovrebbe essere al singolare). Quest’ultima è una vera e propria prova didattica che, da un lato, si confonde con le competenze della commissione giudicatrice in ordine alla valutazione della didattica dei candidati; e, dall’altro, potrebbe rappresentare una comoda via di uscita al Dipartimento per non chiamare un candidato vincitore, ma ritenuto non gradito.   4. Considerazioni conclusive. Ciò che sorprende è che l’attuale governo, che ha presentato questo disegno di legge, è espressione della stessa maggioranza parlamentare che nel 2010 ha varato la riforma Gelmini. Questa ha introdotto la ASN, sull’onda della parola d’ordine della lotta contro il sistema allora vigente dei concorsi universitari, i quali appunto si svolgevano in sede esclusivamente locale e così, stando alla narrazione governativa, enfatizzavano il potere dei Baroni universitari e delle relative consorterie. Allora si parlava, in termini scandalizzati, della necessità di risolvere il grave problema della «irresistibile ascesa del cretino locale»! Certo, nulla impedisce di correggere una riforma, se la sua applicazione ha dimostrato di non avere prodotto i risultati attesi o di avere determinato effetti perversi. Il punto è che tutte le (pretese) distorsioni dell’ASN, menzionate nella relazione ministeriale (e di cui qui s’è qui dato conto), avrebbero potuto, e potrebbero ancora, essere corrette mediante una calibrata riforma della medesima ASN. E ciò anche tenendo conto dei vari suggerimenti emersi in questi anni in tante sedi scientifiche e non solo. Va affermato con risolutezza che un sistema universitario nazionale, per essere veramente tale, presuppone che tutti i suoi professori di pari ruolo abbiano un livello minimo di qualificazione scientifica uniforme. E ciò può essere accertato solo in una sede unica a livello nazionale, che valuti appunto il merito (e non solo la quantità) della produzione scientifica degli aspiranti professori. Spostare a livello locale tale valutazione equivale a favorire, nel medio-lungo periodo, la balcanizzazione del sistema. E tale perversione non può essere corretta con il nuovo meccanismo di autocertificazione che, nella migliore delle ipotesi, farebbe sempre riferimento ad indicatori meramente quantitativi e giammai qualitativi. Attenzione! La balcanizzazione e la frammentazione del sistema universitario italiano è già in atto da tempo. Come da tempo ha bene osservato Roberta Calvano (www.roars.it), un chiaro indice di questo processo è costituito dalla sottrazione alla legge e dalla progressiva assegnazione alle singole sedi universitarie del potere di regolare aspetti dello stato giuridico dei docenti universitari, come la valutazione, gli scatti stipendiali, i procedimenti disciplinari, le procedure di chiamata. Ma se passasse l’attuale disegno di legge, per come è al momento strutturato, tale deriva sarebbe completa. Un fatto estremamente grave è che, come s’è visto sopra, il disegno di legge non è stato elaborato attraverso il dialogo con l’intera comunità scientifica e le sue associazioni di riferimento. È inutile dire che la qualità dell’istruzione e della ricerca universitaria è fondamentale per lo sviluppo economico, sociale e culturale di ogni paese. Ed è parimenti ovvio che la suddetta qualità dipende inesorabilmente dalla preparazione dei docenti impegnati nella didattica nella ricerca scientifica e, quindi, dalle modalità del loro reclutamento. Sicché, una riforma di tale portata avrebbe richiesto un minimo periodo di ascolto e di confronto con le varie voci, anche quelle più minoritarie, del mondo universitario, per poi permettere al decisore politico di adottare scelte maggiormente consapevoli. Ad esempio, il secondo governo di centro-destra presieduto da Silvio Berlusconi, prima di varare una complessa (e fortemente criticata) riforma del mercato del lavoro, all’inizio degli anni duemila, diffuse un cosiddetto Libro Bianco con cui vennero indicate le linee tendenziali del progetto governativo e così dando lo spunto per approfondite discussioni pubbliche tra tutti gli esperti del settore. Sicuramente questo processo ha permesso quantomeno di garantire l’emersione di tutte le possibili opinioni prima che la riforma fosse approvata definitivamente. È chiaro che quel governo non mutò indirizzo, ma procedette lungo la strada segnata dal Libro Bianco. Tuttavia, sicuramente quel dibattito pubblico influenzò il decisore politico e lo convinse a temperare alcune idee del progetto originario. Ritornando al disegno di legge n. 1518, un’altra considerazione è quella che una riforma così radicale, e così importante per il futuro del sistema universitario e dello stesso paese, avrebbe altresì richiesto uno studio preliminare della struttura e della funzionalità dei modelli di reclutamento vigenti nelle altre nazioni più sviluppate. Il che avrebbe offerto del materiale e dei dati utili per la discussione e per giungere a soluzioni informate e razionali. Va poi sottolineato che gli estensori della proposta di legge non hanno avuto il coraggio di accogliere una richiesta da tempo avanzata da molti settori della comunità scientifica. E cioè quella di prevedere, in piena conformità all’art. 97 Cost., due distinte e stabili procedure selettive per il passaggio dal ruolo di professore di seconda fascia a quello di prima fascia. Una per i candidati interni e un’altra per i cosiddetti esterni, ovviamente imponendo limiti per la prima ed incentivi a favore di quest’ultimo canale di reclutamento. Com’è noto, la vittoria di un concorso da parte di un esterno all’Ateneo che lo bandisce, assorbe un’ingente quantità di risorse che permetterebbero la progressione di carriera di più interni. Pertanto, senza veri adeguati (e non solo propagandati come al momento avviene) finanziamenti del sistema universitario, il rischio concreto è quello che anche pochi esterni vittoriosi svuotino le casse degli Atenei e non solo di quelli più poveri, bloccando le relative programmazioni per gli anni futuri. Nel disegno di legge, tra le «disposizioni transitorie e finali», è mantenuta l’operatività della speciale procedura valutativa di cui all’art. 24 c. 6, l. n. 240/2010 fino alla scadenza al momento prefissata (30 dicembre 2025). Si ricorda che questa che è una procedura riservata ai professori di seconda fascia e ai ricercatori a tempo indeterminato (che abbiano conseguito l’ASN) in servizio in un’università, ai fini della loro la chiamata rispettivamente nel ruolo di professore di prima e seconda fascia. Tuttavia, com’è noto, la scadenza originaria della possibilità di avvalersi di questa procedura riservata agli interni è stata più volte prorogata. Ed è presumibile l’emergere di pressioni bipartisan per estendere l’efficacia nel tempo di tale meccanismo, soprattutto per temperare gli eventuali effetti dei nuovi concorsi aperti a tutti. Il che conferma la ragionevolezza dell’anzidetta idea di introdurre a regime due percorsi selettivi separati per gli esterni e gli interni. Peraltro, come s’è accennato all’inizio di questo scritto, citando le parole della relazione ministeriale, un leit motiv del disegno di legge è la lotta contro il «localismo» dei docenti universitari e quindi il sostegno alla loro mobilità. A ben vedere, però, un sistema del genere, in cui si vorrebbe favorire la circolazione dei docenti, tra i vari Atenei, nel corso della loro carriera, per poter minimamente funzionare, presuppone un vero e proprio New Deal, e cioè un massiccio rifinanziamento del sistema universitario italiano, come, da parecchio tempo, è richiesto dall’intera comunità scientifica. Altrimenti, si tratta solo di mera retorica o, come si diceva un tempo, di pascoli ricchi soltanto di parole. Di ciò è un evidente esempio la previsione della proposta governativa della «possibilità di un trasferimento unidirezionale, con contestuale trasferimento delle risorse a copertura degli oneri stipendiali e delle conseguenti facoltà assunzionali». E cioè, un docente potrebbe trasferirsi dalla sua sede ad un’altra portando con sé il suo costo stipendiale e il relativo punto organico. Certo, il disegno di legge si premura di sottolineare che «al fine di incentivare la mobilità, nei decreti ministeriali di programmazione finanziaria adottati successivamente all’entrata in vigore della riforma potranno essere previste apposite premialità in favore degli Atenei “cedenti” facoltà assunzionali». Ma la determinazione di tale ristoro ovvero di un vero e proprio risarcimento per l’Ateneo «cedente», non è imposto come un obbligo a carico del decisore politico. Difatti, il testo del disegno di legge dice che «il Ministro, in sede di ripartizione annuale del fondo per il finanziamento ordinario delle università può» (e quindi non deve) «prevedere specifici interventi per incentivare i suddetti trasferimenti». Se questa disposizione non fosse opportunamente corretta, vi sarebbe il concreto pericolo di un travaso esponenziale di risorse verso gli Atenei più prestigiosi, dove chiunque vorrebbe lavorare, ed un irreversibile impoverimento di quelli (collocati specie nel centro-sud del paese) più fragili e decentrati. Quest’ultimi sono stati già da anni indeboliti da criteri di calcolo del finanziamento ordinario e delle relative quote premiali che non tengono adeguatamente conto della necessità di riequilibrare le esternalità negative che allignano nel contesto in cui operano. Tale previsione del disegno di legge, letta insieme alle altre di cui s’è detto, nasconde probabilmente l’idea (sostenuta da tempo da alcuni intellettuali di grido) di realizzare nei fatti un’americanizzazione del sistema universitario italiano, consistente in una netta divaricazione tra le cosiddette research e teaching universities. Al momento in cui si completano queste pagine, manca poco all’inizio della discussione parlamentare sul disegno di legge. A questo riguardo, la comunità scientifica ha assunto posizioni variegate. V’è chi ha preferito giocare sul terreno della proposta governativa: e cioè, di tentare di suggerire modifiche a tale testo, in modo da renderlo più razionale e per contrastare l’inevitabile rischio di «localismo» che porta con sé. Altri hanno sostanzialmente bocciato tale progetto, ribadendo l’importanza e il valore, per la tenuta del sistema universitario nazionale, di una preliminare valutazione centralizzata sul merito e la qualità degli aspiranti professori. Come s’è potuto verificare, leggendo questo testo, chi scrive condivide questa seconda posizione. I prossimi mesi saranno così decisivi per il futuro dell’università italiana e dei tanti giovani che meritano di entrare nei ruoli accademici.  
Università americane: l’internazionalizzazione diventa una linea di difesa?
Aprire campus all’estero può diventare una strategia per le università americane desiderose di sfuggire alle pressioni politiche dell’inquilino della Casa Bianca? Non è così certo… Costi nascosti, standard accademici difficili da mantenere, instabilità dei paesi ospitanti: queste sedi sono molto più fragili di quanto sembrino – e talvolta semplicemente insostenibili. Sotto la crescente pressione dell’amministrazione Trump, alcune grandi università americane stanno ripensando la loro strategia internazionale. Quando la Columbia University (New York) accetta, nel luglio 2025, di modificare la propria governance interna, il codice disciplinare e la definizione di antisemitismo nell’ambito di un accordo extragiudiziale – senza decisione di un tribunale né legge votata – si tratta di molto più che di una semplice risoluzione di una controversia. È un precedente politico. L’ateneo newyorkese sancisce così una modalità di intervento diretto dell’esecutivo federale, al di fuori del quadro parlamentare, che erode l’autonomia universitaria sotto il pretesto di ripristinare l’ordine pubblico nel campus, accettando ad esempio l’ingerenza delle forze federali di polizia nel controllo degli studenti internazionali. Lo stesso tipo di minaccia incombe da tempo su Harvard: restrizioni ai visti per studenti internazionali, potenziale blocco di finanziamenti federali, sospetti di inerzia di fronte alle mobilitazioni studentesche. In entrambi i casi, i più eclatanti e mediatizzati, l’amministrazione federale è intervenuta senza legiferare. Questo metodo «apre la strada a una maggiore pressione del governo federale sulle università», creando un precedente che altri istituti potrebbero sentirsi obbligati a seguire. UN RIDISPIEGAMENTO PARZIALE ALL’ESTERO Un tale offuscamento dei riferimenti giuridici trasforma in profondità un sistema universitario che si credeva solido e protetto: quello delle grandi istituzioni di ricerca americane. Ormai confrontate a un’instabilità strutturale, queste università prendono in considerazione un’opzione che fino a poco tempo fa sarebbe sembrata incongrua: ridispiegarsi parzialmente fuori dagli Stati Uniti, non tanto per ambizione di conquista quanto per volontà di salvaguardia. In questa prospettiva, il trasferimento parziale all’estero, tattica per alcuni, preludio di una nuova strategia per altri, si distingue dalle dinamiche di internazionalizzazione delle decadi passate. Georgetown ha appena prorogato di dieci anni la sua sede a Doha; l’Illinois Institute of Technology prepara l’apertura di un’antenna a Mumbai. Un tempo animati da un’ambizione espansiva, questi progetti assumono oggi un carattere più difensivo. Non si tratta più di crescere, ma di garantire la continuità di uno spazio accademico e scientifico stabile, affrancato dall’arbitrio politico interno. Eppure, la storia recente invita a relativizzare questa strategia. Il Regno Unito post-Brexit non ha visto le sue università aprire massicciamente campus nel continente. In un contesto diverso, la London School of Economics, pur pioniera nell’internazionalizzazione, ha rafforzato i partenariati istituzionali e i doppi titoli in Francia, ma ha scartato l’idea di una sede offshore. Le università britanniche hanno preferito consolidare reti esistenti piuttosto che creare intere strutture all’estero, probabilmente consapevoli che un’università non si sposta come un’impresa. LA FRANCIA IN TESTA CON 122 CAMPUS ALL’ESTERO I campus internazionali sono spesso costosi, dipendenti, fragili. Il rapporto Global Geographies of Offshore Campuses recensiva nel 2020 ben 487 sedi di istituti d’istruzione superiore al di fuori del loro paese d’origine. La Francia è in testa con 122 campus all’estero, seguita dagli Stati Uniti (105) e dal Regno Unito (73). Le principali aree di accoglienza si concentrano in Medio Oriente e in Asia: Emirati Arabi Uniti (33 campus, di cui 29 a Dubai), Singapore (19), Malesia (17), Doha (12) e soprattutto la Cina (67) figurano tra gli hub più attivi. Per i paesi ospitanti, queste sedi si inseriscono in strategie nazionali di attrattività accademica e di ascesa nell’istruzione superiore. Il loro successo si spiega meno con garanzie di libertà accademica che con incentivi economici, fiscali e logistici mirati, oltre che con la volontà dei governi locali di posizionare il proprio territorio come polo educativo regionale. Il Golfo offre un contrasto sorprendente. Da oltre vent’anni, Emirati Arabi Uniti e Qatar attirano istituzioni prestigiose: New York University (NYU), HEC, Cornell, Georgetown. Questi campus sono il prodotto di una politica volontaristica di attrattività accademica, sostenuta da Stati ricchi desiderosi di importare capitale scientifico e simbolico. L’Arabia Saudita segue ora la stessa strada, con l’annuncio dell’apertura del primo campus straniero di un’università americana (University of New Haven) a Riad entro il 2026, con l’obiettivo di accogliere 13.000 studenti entro il 2033. In Asia nord-orientale, nessun paese – Cina, Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Singapore – ha preso in considerazione l’idea di ospitare un campus americano in risposta alle recenti tensioni. Al contrario, diversi cercano di attrarre studenti e dottorandi penalizzati, in particolare quelli di Harvard. A Hong Kong, università come HKUST o City University hanno introdotto procedure di ammissione accelerate e semplificate. Tokyo, Kyoto e Osaka offrono borse di studio ed esenzioni dalle tasse. Queste iniziative, che appartengono a una strategia di sostituzione, poggiano su due fattori strutturali: un investimento pubblico sostenuto nell’istruzione superiore e la presenza di un notevole bacino scientifico asiatico nelle università americane, che facilita i trasferimenti. In questo senso, l’Asia-Pacifico appare oggi come uno dei principali beneficiari potenziali del clima di incertezza politica negli Stati Uniti. NEGLI STATI UNITI, IL SEGNO DI UN CAMBIAMENTO DISCRETO La mappa dei campus offshore rivela un paradosso storico. Fino a poco tempo fa, le università del Nord globale aprivano sedi in paesi dove la libertà accademica non era necessariamente più garantita (Singapore, Emirati Arabi Uniti, Malesia, Cina, Qatar…), ma dove trovavano stabilità amministrativa, incentivi finanziari e accesso agli studenti della regione. Era una strategia di espansione, non di ripiegamento, come oggi, di fronte a un’incertezza politica crescente. L’idea resta marginale, sussurrata in pochi circoli dirigenti. Ma basta a segnalare un cambiamento discreto: quello di istituzioni che cominciano a guardare oltre i propri confini, meno per ambizione che per inquietudine. Tuttavia, l’internazionale non è né un santuario né uno spazio neutro: attraversato da sovranità, regole e norme, può esporre ad altre forme di vincoli. La Sorbona Abu Dhabi, inaugurata nel 2006, risponde a una logica inversa: un’università francese insediata nello spazio del Golfo, su invito del governo di Abu Dhabi, in un quadro contrattuale e di cooperazione bilaterale che riafferma, nel tempo, la capacità di proiezione mondiale di un modello accademico nazionale. Questa iniziativa non mirava a proteggere uno spazio accademico minacciato: al contrario, incarnava una strategia d’influenza dichiarata, in un ambiente istituzionale controllato. Niente di simile nelle attuali riflessioni americane, dominate invece dalla logica dell’elusione. Tuttavia, i limiti del ridispiegamento sono già ben noti. SEDI FRAGILI I campus delocalizzati soffrono di una bassa produttività scientifica, di un’integrazione accademica parziale e di forme di disaffiliazione identitaria tra i docenti espatriati. Philip G. Altbach, figura di riferimento tra gli esperti di istruzione superiore transnazionale, da tempo sottolinea la fragilità dei modelli delocalizzati; l’esperto britannico Nigel Healey ha identificato problemi di governance, di adattamento istituzionale e di integrazione dei docenti. L’esempio più recente dell’India mostra che molti campus stranieri faticano a superare lo status di vetrine, senza un reale contributo duraturo alla vita accademica locale né una strategia pedagogica solida. A queste debolezze strutturali si aggiunge una questione poco affrontata apertamente, ma decisiva: chi pagherà per questi nuovi campus fuori dagli Stati Uniti? Un campus internazionale rappresenta un investimento considerevole, tra edifici, sistemi informatici, risorse umane e accreditamenti. L’apertura di una sede stabile richiede diverse centinaia di milioni di dollari, senza contare i costi di gestione. In un contesto di tensione crescente sui bilanci, di calo degli investimenti pubblici nell’istruzione superiore e di reterritorializzazione dei finanziamenti, non è facile individuare attori – pubblici, filantropici o privati – disposti a sostenere università americane fuori dal loro ecosistema. Quando la NYU si insedia ad Abu Dhabi o la Cornell a Doha, ciò avviene con il massiccio sostegno di uno Stato ospitante. Questa dipendenza finanziaria non è priva di conseguenze. Espone a nuove pressioni, spesso più implicite, ma altrettanto efficaci: controllo dei contenuti insegnati, orientamenti della ricerca, selezione congiunta dei docenti, autocensura su argomenti sensibili. In altre parole, voler sfuggire a una pressione politica attraverso l’esilio può talvolta esporre a un’altra. La libertà accademica spostata non è che un miraggio, se poggia su un modello di finanziamento tanto precario quanto politicamente condizionato. MOBILITÀ ACCADEMICA E LIBERTÀ DI RICERCA In un recente rapporto del Centre for Global Higher Education, il sociologo Simon Marginson mette in guardia da una lettura troppo strumentale della mobilità accademica. Non sono i luoghi, ma i contesti politici, sociali e culturali a garantire o a indebolire la libertà universitaria. Il rischio maggiore è la dissoluzione del quadro democratico che ancora permette all’università di pensare, ricercare e insegnare liberamente. Di fronte a questo spostamento delle linee, l’apertura di un campus all’estero non può essere che un gesto provvisorio, un tentativo incerto in un mondo già attraversato da altre forme di instabilità. Ciò che l’istruzione superiore affronta oggi non è soltanto la minaccia di un potere politico nazionale, ma l’indebolimento dello spazio in cui può ancora esercitarsi un pensiero critico e condiviso. Alcuni osservatori, come lo storico Rashid Khalidi, vi vedono il segno di uno slittamento più profondo: quello di università che, cedendo alla pressione politica, diventano «luoghi di paura», dove la parola è ormai condizionata dal potere disciplinare. La sfida non è solo preservare una libertà. È mantenere una capacità di agire intellettualmente, collettivamente, all’interno di un mondo che ne restringe le condizioni. Fonte originale: The Conversation 
Lettera ai vertici INAF su Gaza
Segnaliamo ai lettori la lettera inviata dai dipendenti dell’istituto alla dirigenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica sull’opportunità di non proseguire i rapporti con università e centri di ricerca israeliani.Lettera CdA INAF_x_stampa
L’università come «comunità del non-consenso» e codici etici. A proposito di Libera università di Tomaso Montanari
Sono molti i meriti di questo prezioso pamphlet, anzi, per prendere in prestito la definizione datane dal suo autore, «libro militante» (Tomaso Montanari, Libera università, Torino, Einaudi, 2025). Non ultimi, quelli più legati all’attualità, che dovere dell’uomo di cultura, osserva Montanari, e quindi anche se non soprattutto di colui che ha a che fare con l’insegnamento e la formazione delle nuove generazioni, il docente universitario, è di respingere isterismi e sciovinismi nazionalistici come anche di denunciare operazioni politiche tanto disoneste intellettualmente quanto grossolane scientificamente. Se allora ragioni antiche e più recenti del conflitto russo-ucraino possono essere variamente e legittimamente valutate dalla comunità scientifica (e lo storico dell’arte ritiene, giustamente, insieme alla scrittrice, drammaturga e pittrice russa Ljudmila Stefanovna Petruševskaja che Putin e il suo governo guerrafondaio siano espressione di «un’idea malata di patria» (p. 102, nella versione digitale), ciò nondimeno ha ragione Montanari quando scrive che «la regressione al nazionalismo bellicista che oggi attanaglia anche l’Occidente non si combatte certo con la russofobia» (ibidem), russofobia che ha portato, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio del 2022, istituzioni universitarie e culturali non solo italiane a boicottare le università della Russia e financo la diffusione di libri di autori russi. Allo stesso modo, Montanari, pur condannando il «massacro», di più, lo «sterminio di massa» in atto a Gaza, contesta la richiesta di boicottaggio, avanzata da molte associazioni studentesche, nei confronti delle università israeliane, in quanto ciò «significherebbe trascinare nella logica della guerra (binaria, semplificata e fatta di contrapposizioni assolute amico/nemico) anche una delle poche istituzioni che possono aiutarci a uscire da questo buco nero, che tutto divora. Le università sono come le persone: si giudicano per le scelte, non per la bandiera» (p. 98). Coglie, a mio avviso, ancora nel segno il collega quando denuncia l’atteggiamento disonesto e violento di quegli intellettuali à la page che tacciano di antisemitismo qualsiasi valutazione critica della politica del governo israeliano, pratica vigliacca, questa, perché tesa ad intimidire l’interlocutore, che pochi hanno il coraggio di farsi scivolare addosso uno stigma così infamante. Le riflessioni di Montanari hanno peraltro un respiro più ampio, non dettato solo dalle contingenze, pur drammatiche, della politica internazionale. Perché la società, e quindi anche il potere politico – si chiede l’autore -, deve garantire all’università, e dunque anche ai docenti, la più larga libertà d’espressione? Perché le conviene, è la risposta più ragionevole, perché storicamente quella libertà ha permesso sviluppo scientifico e progresso morale e materiale. Come ha osservato Hannah Arendt in un passo di Verità e politica[1], citato da Montanari e che dovrebbe campeggiare nell’atrio di qualsiasi dipartimento, nella misura in cui l’Accademia si ricorda delle sue antiche origini, essa deve sapere di essere stata fondata dal più determinato e influente oppositore della polis. Certo, il sogno di Platone non si è realizzato: l’Accademia non è mai diventata una controsocietà […]. Ma ciò che Platone non ha mai immaginato è diventato vero: l’ambito politico ha riconosciuto che, in aggiunta all’imparzialità richiesta nell’amministrazione della giustizia, aveva bisogno di un’istituzione esterna alla lotta per il potere. Che questi luoghi d’insegnamento superiore siano in mani private[2] o pubbliche non è di grande importanza; non solo la loro integrità, ma la loro stessa esistenza dipende in ogni caso dalla buona volontà del governo. Verità molto sgradite sono emerse dalle università, e sentenze molto sgradite sono state più volte emesse dalla magistratura; […] è difficile negare il fatto che, almeno nei Paesi con un governo costituzionale, l’ambito politico ha riconosciuto, anche in caso di conflitto, di avere interesse all’esistenza di uomini e istituzioni sui quali non ha potere (cit. alle pp. 73-74). Se così è, desta qualche perplessità quanto contemplato nel Codice etico e comportamentale approvato dall’Università per stranieri di Siena, di cui Montanari è rettore. Montanari ricorda con orgoglio nel volume come quel documento respinga «ogni forma di nazionalismo». Mi domando: «anche quello democratico?». Montanari ritiene nel suo scritto che l’unica soluzione della questione palestinese sia la creazione di uno Stato per due popoli, essendo «palesemente tramontata quella di due popoli in due Stati» (p. 105). Ebbene, un suo collega d’università che sostenesse la legittimità della costruzione di uno Stato palestinese, laico e democratico, non potrebbe forse essere accusato di veicolare una qualche forma di nazionalismo incompatibile con il codice etico d’ateneo? E poiché quel codice «obbliga» tutti coloro che, a qualsiasi titolo, facciano parte della comunità accademica, un suo membro qualora non dovesse riconoscere, come si legge nel Preambolo, quale «patria il mondo intero e l’umanità tutta» ma considerare (non rileva se a ragione o a torto) gli Stati nazionali tra gli ultimi argini rimasti a una globalizzazione economica in cui multinazionali e potenze del Big Tech tentano di vanificare i vincoli legislativi nazionali, porrebbe moralmente se stesso fuori da quella comunità? Ancora, e sempre nel Preambolo, si legge che l’università senese «ripudia la guerra, in ogni sua forma». Anche quella difensiva, fatta propria dalla Costituzione italiana (a cui più volte si richiama Montanari nel suo scritto come stella polare cui debba affidarsi anche la vita all’interno dell’Accademia), come noto, negli articoli 11 (che ripudia la guerra quale «strumento di offesa») e 52 («la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino»)? Da ultimo; il Preambolo, coerentemente con l’impostazione convintamente cosmopolita cui si ispira, «sostiene il diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato, il diritto di entrare in qualsiasi Paese, il diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornarci». A rigore, quindi, un docente dell’Università per gli stranieri di Siena che, pur caldeggiando la più ampia libertà di circolazione internazionale, dovesse ritenere impraticabile un diritto assoluto a trasferirsi dove si vuole, dovrebbe sentirsi tenuto lui in coscienza a trasferirsi in un altro ateneo? Montanari considera quella universitaria una «comunità del non-consenso» e richiama, aderendovi, e io con lui, l’insegnamento einaudiano secondo cui, anche e soprattutto nell’università, «l’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti»[3]. È difficile comprendere come l’invito alla ribellione a qualsiasi principio possa conciliarsi con dettati normativi che principi cui uniformarsi elencano, fin nel dettaglio. [1] Torino, Bollati Boringhieri, a cura di V. Sorrentino, 2004 (ed. or. 1967). [2] Tra i molti temi che Montanari affronta, qui ricordo perlomeno quello delle università telematiche (pp. 31-35). [3] L. Einaudi, Per la libertà di scienza e di coscienza. Una gravissima minaccia all’Università italiana, in «Corriere della Sera», 7 dicembre 1910, ora consultabile in https://www.luigieinaudi.it/doc/per-la-liberta-di-scienza-e-di-coscienza/ [ultimo accesso il 3 agosto 2025].
“Un oceano di conoscenza in cui galleggia una quantità allarmante di spazzatura”: come ci siamo arrivati?
agghiacciante [Dorothy Bishop sul Guardian] un oceano di conoscenza in cui galleggia una quantità allarmante di spazzatura. [Adam Marcus e Ivan Oransky su The Atlantic] [Ripreso dal sito openscience.unimi.it] Un bell’articolo sul Guardian fa il punto sullo stato dell’editoria scientifica. L’autore, Ian Sample, parte dal famosissimo caso della immagine del ratto con un pene gigante che ha fatto il giro del mondo e che è stata ritirata da Frontiers tre giorni dopo la pubblicazione insieme all’articolo. Questo episodio purtroppo non è isolato, ma è la punta dell’iceberg di una situazione che Dorotyhy Bishop ha definito sempre sul Guardian agghiacciante e Marcus e Oransky “un oceano di conoscenza in cui galleggia una quantità allarmante di spazzatura“. Come siamo arrivati a questo punto? Sono in molti a interrogarsi sul futuro dell’editoria scientifica, prima fra tutti la Royal society dove si è appena tenuto un convegno sul futuro dell’editoria scientifica e che ha promesso entro la fine dell’estate un report sul tema. Ma quali sono gli aspetti che hanno modificato così profondamente l’editoria scientifica? Certamente la tecnologia che ha portato ad un incremento della produzione non necessario e spesso inutile (se non in quanto riga in più nei cv dei ricercatori). L’incremento del numero di pubblicazioni non si accompagna invece ad un aumento del numero dei revisori che abbiano voglia di dedicare tempo prezioso ad una attività che non viene riconosciuta e che se fatta con coscienza è molto impegnativa. L’insieme di tecnologia e mancanza di tempo hanno portato allo sviluppo di paper e review mills, una piaga difficile da contrastare. A proposito di riconoscimento, molti sistemi performance based incentivano la quantità (numero di pubblicazioni e numero di citazioni) portando i ricercatori ad adottare comportamenti adattativi e spesso frodatori che nulla hanno a che fare con l’amore per la scienza e per lo sviluppo della conoscenza. Anche l’open access nella versione degli editori for profit ha contribuito allo stato deprecabile della ricerca, perché ha spinto gli editori a pubblicare di più e più in fretta ricerca spesso inutile e spesso non ancora sufficientemente robusta. Un altro fenomeno che ha contribuito alla contaminazione del contesto è quello degli special issues, pubblicati spesso secondo criteri di qualità discutibili. Gli effetti sono purtroppo sotto gli occhi di tutti: la crescita e diffusione delle riviste predatorie (anche fra i big five) la crescita del numero di articoli scritti con AI, l’incremento del numero di retractions, le dimissioni di interi editorial board, la crescita dei cosidetti hijacked journals. Per Hanson et al. che hanno pubblicato lo scorso anno un importante articolo sulla pressione per pubblicare, più che il tema della frode scientifica (certamente in crescita) preoccupa l’enorme quantità di ricerche che non portano alcun contributo alla conoscenza e che però hanno un alto costo per il sistema in termini di soldi e ore uomo impiegate da tutte le persone coinvolte nel ciclo di produzione e validazione di un lavoro. Sempre Hanson et al. individuano uno dei problemi maggiori nell’editoria commerciale for profit, che per fare cassa tende a pubblicare il più possibile, anche quando la ricerca è inutile, e vedono in una editoria not for profit una possibile soluzione. Posizione diversa è invece quella degli editori for profit che attribuiscono la crescita del numero di pubblicazioni (con tutte le attività ad esse connesse) alla crescita della ricerca dei paesi emergenti (quali Cina e India ad esempio) e propongono come soluzione l’attivazione di un sistema di filtraggio migliore. Una situazione complessa dunque in cui il contesto cambia velocemente e che merita di essere seguita con grande attenzione. Sono temi che investono senza dubbio il mondo della ricerca ma anche la società che questa ricerca la finanzia e su cui sarebbe necessario discutere sia a livello istituzionale che a livello nazionale. Anche attraverso la pubblicazione di articoli informati come quelli del Guardian.
Editoria predatoria
Le riviste predatorie privilegiano i propri interessi, spesso di natura finanziaria, rispetto alla ricerca scientifica. Forniscono informazioni false sulla propria identità (ad esempio, fattori di impatto falsi, comitati editoriali falsi), si discostano dalle migliori pratiche editoriali e di pubblicazione e mancano di trasparenza nelle attività che svolgono (ad esempio, decisioni editoriali, tariffe, processi di revisione tra pari), oltre a sollecitare in modo aggressivo gli autori. [Ripreso dal sito openscience.unimi.it] Predatory journals prioritize self-interest, often financial, over scholarship They provide false information about their identity (eg, fake impact factors, misrepresented editorial boards), deviate from best editorial and publication practices, and lack transparency in operations (eg, editorial decisions, fees, peer review processes), along with aggressive solicitations of authors. Questa la definizione di rivista predatoria accolta in un articolo di Braillon, Vinatier e Naudet pubblicato di recente su Indian journal of medical ethics. Nell’articolo si mette in discussione la campagna contro l’editoria predatoria della International Committee of Medical Journal Editors considerata troppo debole e troppo poco incisiva, poiché non tiene in cosiderazione alcuni aspetti particolarmente critici di questo fenomeno, primo fra tutti gli interessi economici in gioco. L’editoria accademica è una attività che procura profitti altissimi, perché a differenza della editoria tradizionale (ad esempio quella dei quotidiani) non deve pagare per la stesura degli articoli, né per il fact checking e la validazione delle informazioni, tutte attività che nella editoria accademica sono a carico dei ricercatori e del finanziamento pubblico. L’oligopolio formato da Elsevier, Wiley, Taylor and Francis, Springer e Sage dichiara profitti fino al 40%, profitti che sono di gran lunga superiori a quelli dell’industria automobolistica o a quella dell’informatica. In questo articolo il concetto di predatorio assume sfumature diverse da quelle tradizionali; l’oligopolio sopra descritto ha sfruttato pienamente le richieste di open access degli enti finanziatori e ora chiede un pagamento sia per leggere che per pubblicare. Una attività che incassa fondi così ingenti, dovrebbe dare garanzie di qualità, e invece, come dimostra il caso dell’articolo di Wakefield, manca un organo di controllo, e le linee guida e raccomandazioni di COPE o ICMJE non offrono sufficienti garanzie. Sono spesso le riviste dell’oligopolio di cui sopra che pubblicano la ricerca meno affidabile. Sempre gli stessi editori si pubblicizzano utilizzando indicatori di “qualità” come il JIF che oltre a non essere rappresentativi della qualità di una rivista possono anche essere facilmente manipolati (T. van Raan chiamava il JIF the poor man’s indicator). E ancora, si crede che preda delle riviste predatorie siano soprattutto i ricercatori dei paese a basso reddito, ma una ricerca fatta su 2000 articoli di ambito biomedico provenienti da riviste presumibilmente predatorie ha mostrato come gli autori provenissero principalmente dal ricco Nord del mondo e con il NIH come principale finanziatore. Gli autori non sono dunque sempre preda di queste riviste, ma spesso e volentieri sono complici consapevoli, così come le loro istituzioni che finanziano articoli in riviste di dubbia reputazione, o riviste controllate da gruppi di ricerca (vedi il caso di Didier Raoult). Ecco perché le raccomandazioni fatta dalla ICJME viene definita inefficace da parte di Naudet et al. Gli editori (in particolare gli oligopolisti) hanno favorito questa situazione attraverso la richiesta di APC troppo elevate, o attraverso la creazione di riviste di minor qualità come seconde e terze scelte per i lavori rifiutati , o attraverso la creazione di special issues (attività divenuta per certi editori il business principale), ma anche adottando meccanismi di autocorrezione estremamente lunghi, spesso non reagendo ai commenti su PubPeer, rifiutandosi di pubblicare lettere all’editore che trattano nello specifico di punti deboli presenti in un articolo. Fino a questo punto l’articolo si segue bene. Qualsiasi editore o journal (in particolare quelli che fanno parte dell’oligopolio) può trasformarsi in una iniziativa poco affidabile (si pensi tanto per fare qualche esempio alla acquisizione di Hindawi da parte di Wiley, o alle recenti retractions di Frontiers, o ai libri di Springer scritti, male, con la AI). La proposta di aiutare i ricercatori con una lista e il richiamo alla lista di Beall sembrano però riportarci ad un contesto ormai ampiamente superato. Non servono liste nere, difficilmente manutenibili ed aggiornabili, ma una più profonda consapevolezza da parte dei ricercatori e da parte delle istituzioni, che porti nei casi estremi anche a pesanti sanzioni. Ovviamente a partire da una revisione dei sistemi di valutazione che dovrebbero prescindere dalla quantità e dagli indicatori bibliometrici. L’ultima parte del nostro articolo ritorna ai punti deboli delle raccomandazioni e al fatto che l’organo che le ha prodotte abbia come membri quegli editori (una sorta di cartello) che invece che difendere la qualità si preoccupano di difendere i propri privilegi economici. We are afraid that a for-profit industry is more concerned with shaping policies to its own economic advantage rather than with improving quality and taking any drastic measure to combat predatory journals that would go against a legitimate publisher’s business model. Fra le soluzioni ICJME sembra non prendere in considerazione iniziative diamond open access, come PCI o come Open Research Europe nate per soddisfare un’esigenza di trasparenza e tracciabilità dei processi di validazione dei lavori di ricerca, e per riportare la scienza ad una dimensione di “uso pubblico della ragione”.
Global Samud Flotilla
Un gesto di disobbedienza civile pacifica, un’iniziativa dal basso “per rompere via mare l’assedio illegale su Gaza, aprire un corridoio umanitario e porre fine al genocidio in corso del popolo palestinese”. La redazione ROARS esprime il suo totale appoggio alla Global Sumud Flotilla, le cui prime barche stanno lasciando il porto di Barcellona dirette a Gaza. Questo impegno collettivo, animato dalla “fedeltà alla giustizia, alla libertà e alla sacralità della vita umana”, rappresenta un tentativo di dare una risposta concreta all’emergenza umanitaria. E di mostrare le responsabilità dei governi occidentali nello sterminio in corso, rompendo il muro di silenzio e disinformazione. Fair winds and following seas. https://www.instagram.com/globalsumudflotilla
Portiamo nelle nostre università tutti gli studenti palestinesi idonei (nei bandi IUPALS)
Con tutte le contraddizioni, che in molti hanno denunciato, il bando IUPALS ha fornito una lista di circa 500 studenti palestinesi che desiderano studiare in Italia ed hanno i titoli per farlo. Ogni giorno perso in tentennamenti o improvvisazioni per molti di loro potrebbe risultare fatale, non possiamo abbandonarli. Questa lista di circa 500 nomi è la nostra occasione di rimanere umani, non sprechiamola.  In questi giorni si sono concluse quasi tutte le procedure di selezione dei 97 studenti residenti nei territori palestinesi (tra le circa 15000 richieste arrivate) che dovrebbero iscriversi  in 35 università italiane. Tutti gli atenei in questi giorni stanno affrontando il problema più difficile, portare in Italia questi studenti, compito particolarmente problematico per gli studenti residenti a Gaza. In questo file abbiamo riassunto le informazioni a noi disponibili, che possiamo così riassumere: * in molti casi, le commissioni hanno indicato, oltre agli studenti vincitori, anche studenti idonei. Tutti insieme, gli studenti idonei non vincitori dovrebbero essere circa 400 (dai verbali delle commissioni, a oggi -9 agosto- ne  risultano 251 in 20 delle 35 università che hanno bandito borse  IUPALS); * molte università hanno ampliato le graduatorie, con fondi propri (e.g., Milano, Pavia, Bari, Viterbo, Politecnico di Torino), fondi della regione (e.g., Federico II e Parthenope)  o fondi privati (e.g., Parma); * in molti atenei sono stati selezionati anche studenti residenti a Gaza. La crudeltà delle azioni israeliane ha determinato, in particolare a Gaza, condizioni che non lasciano spazio ad azioni improvvisate ed approssimative, bisogna agire subito con  decisione. Pertanto, ci rivolgiamo: 1. al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale perché si attivi con tutta l’autorevolezza e l’efficacia di  cui è capace per costruire corridoi sicuri e rapidi per portare  in Italia gli studenti vincitori dei bandi. È altrettanto importante, perché la sopravvivenza di questi giovani studiosi non si traduca nella morte di un popolo dalla cultura millenaria, che fin da ora si programmi il loro rientro una volta che, formatisi in Italia, sarà necessario ricostruire Gaza; 2. al Ministro della Università e della Ricerca (M.U.R.) perché finanzi con urgenza un numero di borse di studio sufficiente a coprire le domande di tutti gli studenti risultati idonei. Oltretutto, la presenza di questi studenti, con la drammaticità del loro vissuto, nelle aule delle nostre università rappresenterebbe una ricchezza anche per i “nostri” studenti che nessuna lezione potrebbe dare; 3. infine, in attesa che il M.U.R. finanzi ulteriori borse, agli atenei che non l’abbiano già fatto, ai loro Rettori, ai componenti degli Organi Accademici e a chiunque possa esercitare pressione su di essi affinché siano finanziate il maggior numero di borse possibili, auspicabilmente in numero sufficiente a coprire tutti gli idonei. Con tutte le contraddizioni, che in molti hanno denunciato, il bando IUPALS ci ha fornito una lista di circa 500 studenti palestinesi che desiderano studiare in Italia ed hanno i titoli per farlo. Ogni giorno perso in tentennamenti o improvvisazioni per molti di loro potrebbe risultare fatale, non possiamo abbandonarli. Questa lista di circa 500 nomi è la nostra occasione di rimanere umani, non sprechiamola.