Università: anatomia di un’istituzione in apnea
Leggo con attenzione e ascolto con apprensione le voci dei colleghi delle
università statunitensi. Appare sempre più come un sogno infranto, una perduta
Atlantide, senza che sia possibile cogliere una strategia politica razionale.
Guardo dentro i nostri confini nazionali e percepisco i contorni di un mondo che
subisce la desertificazione culturale travestita da innovazione.
L’università — un tempo luogo elettivo dove il valore del pensiero e la ricerca
del sapere non si piegavano alla contingenza — oggi si muove con passo incerto
tra inossidabili resistenze di un passato baronale e moderne ansie performative
e carrieristiche. In sostanza, un corpo istituzionale che sta smarrendo voce e
perdendo postura. Negli Stati Uniti, le università sono state un approdo sicuro
per eccellenze migranti, un laboratorio di esperimenti sociali, un ponte tra
ricerca e cittadinanza. Oggi assomigliano ad un campo già minato e sul punto di
deflagrare.
Il governo federale sta usando il bisturi in profondità: -78 % alla National
Science Foundation, ossia l’ente che – tra le altre cose – finanzia la carriera
iniziale dei giovani ricercatori, -40 % al National Institutes of Health, ovvero
al sistema pubblico che dovrebbe finanziare la ricerca biomedica e sanitaria,
tra cui – ad esempio – le ricerche più innovative per la cura del cancro. Alcuni
bandi dedicati alla ricerca ambientale, all’astrofisica, all’ingegneria
aerospaziale, alle scienze planetarie (in ambito NASA) e alla climatologia,
all’oceanografia, e ai cambiamenti climatici (ambiti del National Oceanic and
Atmospheric Administration) sembrano evaporati.
Non si tratta solo di scelte di economia politica: è piuttosto una forma di
anatomia sconsiderata o di pura biopolitica che agisce indiscriminatamente sui
luoghi dove tradizionalmente si conserva e si costruisce il sapere. È un fatto
che migliaia di ricercatrici e ricercatori stanno considerando la mobilità dalle
loro sedi per semplice sopravvivenza. Il sistema sta dismettendo i suoi principi
fondamentali e questo salto mortale senza rete è accompagnato da una deriva
fortemente aziendalista e dalla perdita delle tradizionali tutele per diversità,
equità e inclusione. Questa la situazione americana, così come emerge dagli
annunci dei decisori politici, ma soprattutto dalle prese di posizione e da un
rumore di fondo che – via via – sta diventando assordante.
Certo, noi abbiamo l’obbligo di guardare all’Italia, in tempi di riforme avviate
e nel quadro di un innegabile e generale cambiamento nei confronti del libero
esercizio dell’espressione delle opinioni. Nel mondo universitario italiano, il
crescente fideismo nei confronti dell’algoritmo e delle metriche rischia di
diventare il vero killer seriale del tempo giusto dell’apprendimento e della
crescita progressiva della qualità della ricerca. Traspare il disegno di
un’università/azienda che distribuisce titoli, in un sistema che premia consenso
incondizionato, velocità e silente obbedienza. Il vero rischio è quello di
creare una catena di montaggio di soggetti plurititolati, ma sempre meno
riflessivi e pensanti.
Di fronte a questo rischio, il corpo stesso delle comunità universitarie
dovrebbe sentirsi chiamato ad una reazione propositiva e non ad una passività
silenziosa. Occorre restituire ossigeno vitale agli atenei, intesi come luogo
dinamico di critica, confronto e ibridazione tra le diverse forme del sapere.
Occorre tornare al tempo lungo dell’apprendimento, accettando la fertilità del
dubbio, il dibattito aperto e l’originalità della critica. Si può decidere di
essere anacronisticamente “inattuali”, ossia non tiranneggiati dalle urgenze
performative, dal feticcio del ranking, dalla richiesta pressante del risultato
a breve termine. In un’epoca che misura e valuta tutto, l’università può ancora
essere la zona franca dell’incalcolabile, dove l’unica virtù è imparare a
pensare. Non è poco, non è una missione banale. Occorre un’azione polifonica di
difesa consapevole dei principi fondativi. Mi piace considerarlo come un
possibile atto di resistenza gentile. L’alternativa appare molto simile ad
un’eutanasia, ma non altrettanto gentile.
Tuttavia, non tutto deve essere percepito in termini negativi. Ci sono proposte
che emergono dal corpo vitale delle comunità universitarie e sono state avanzate
da riferimenti istituzionali autorevoli. È a queste che dobbiamo guardare. La
tutela dei principi di diversità, equità e inclusione dipende da scelte che
risiedono ancora nell’autonomia di governo dei singoli Atenei. È possibile – e
sarebbe virtuoso – ridisegnare i bandi del Fondo Italiano per la Scienza (FIS)
che attualmente premiano una percentuale davvero irrisoria dei progetti
presentati (tasso di successo inferiore al 3%), ripensandoli esclusivamente come
opportunità di avvio di carriera per i giovani ricercatori. La ricerca di
frontiera e di eccellenza ha una dimensione europea ed è coperta dai Progetti
dell’European Research Council (ERC), che hanno tassi di successo decisamente
superiori (ca. 14%).
È in questo contesto competitivo che dovrebbero essere indirizzati i progetti
dei docenti e ricercatori con un livello più alto di eccellenza e di esperienza.
La ricerca universitaria di base potrebbe essere rivitalizzata e finanziata
ottimizzando le regole di ingaggio dei Progetti di Ricerca di Interesse
Nazionale (PRIN), ideale sinergia tra reti diffuse. Infine, la dittatura
numerica delle prestazioni potrebbe non essere la principale bussola di
valutazione degli Atenei. Sarebbe un modo di dare ossigeno ad un’istituzione che
– per chi la vive dall’interno – appare in costante apnea, costretta spesso a
simulare l’eccellenza, venerando la quantità. Un’istituzione che ha l’autonomia
di rivendicare che la libertà della ricerca, la formazione e la costruzione
collettiva del sapere sono una missione di responsabilità sociale che – nel
nostro Paese – è ancora politicamente sostenibile.
Pubblicato su Il Fatto Quotidiano