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Leggere Levi oggi
-------------------------------------------------------------------------------- A proposito di rifiutare l’idea che non si possa cambiare nulla: una delle rotte europee più utilizzata dai migranti è quella dei Balcani che trova da diversi anni nella piazza di Trieste uno improvviso splendido spazio di relazioni, ascolto, solidarietà creato dal basso. Foto di Lorena Fornasir -------------------------------------------------------------------------------- Leggere Primo Levi resta un esercizio morale, un invito alla vigilanza e alla responsabilità, a non smettere di pensare. Leggerlo perché lui il male l’ha conosciuto, l’ha visto in faccia, l’ha patito sulla sua pelle. Ha sofferto e ha visto l’indicibile. E l’ha raccontato, l’ha analizzato. Non per coltivare l’orrore o cercare la compassione, ma per capire. Perché Levi non si limita a narrare l’orrore: lo interroga. Vuole comprendere come sia stato possibile, come il male abbia potuto insinuarsi così profondamente nelle persone comuni, nella burocrazia, nelle leggi. “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo. Questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”. Questo significa saper vedere le forme nuove dell’indifferenza, della discriminazione, della violenza. Perché non si ripetono mai identiche, cambiano linguaggio, si insinuano nei discorsi pubblici, nelle scelte quotidiane, nei silenzi. Oggi, ad esempio, non ci sono più i lager, ma ci sono i campi di detenzione per migranti, i muri alle frontiere, le guerre raccontate con freddezza numerica, i bambini bombardati descritti come effetti collaterali. C’è chi subisce, chi esegue ordini, chi volta lo sguardo. E Levi lo sapeva: non bastano i carnefici per far funzionare l’orrore, serve una zona grigia di complici passivi, di persone che si tirano fuori, “una zona di compromesso e di ambiguità, una nebulosa di figure che oscillano fra i due poli, spesso senza una chiara coscienza del loro ruolo” (I sommersi e i salvati). Ogni tempo ha il suo fascismo, scriveva: e comincia a insinuarsi proprio quando, in assenza di critica, qualcuno comincia a perseguitare i più deboli. I totalitarismi nascono in silenzio, trasformando intere categorie di persone in vite superflue. Si costruiscono sull’indifferenza, sulla rassegnazione, sul progressivo svuotamento del senso morale. Ma soprattutto spostano la colpa del disagio sociale, della paura, dell’insicurezza. Ma anziché guardare alle vere responsabilità – le scelte politiche, le disuguaglianze sistemiche, l’abbandono dei territori – si costruisce una verità di comodo. Il nemico diventa chi è povero, chi è straniero, chi è diverso. Chi non può difendersi, perché non ha voce, non ha diritti, non ha una rete. Un meccanismo perverso: scaricare il dolore su chi è già fragile. Ma non possiamo permettere che il male diventi normale, che la disumanizzazione diventi prassi quotidiana. Chi è stato torturato rimane torturato, diceva Jean Améry. Non si torna interi da quell’abisso. E chi nega il male, chi ne minimizza le conseguenze, chi costruisce menzogne collettive, si rende complice. Non basta dire “non sapevo”, “non toccava a me”. La storia di chi viene emarginato – anche oggi – rischia di essere cancellata. Privata della possibilità di essere narrata, sepolta sotto il peso dell’indifferenza. Come diceva Levi in una delle pagine più terribili: “In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi. Nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza. Ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà”. Cancellare i testimoni, spegnere ogni voce. È quello che Judith Butler chiama “privare del diritto alla sepoltura” – negare a qualcuno il diritto di essere pianto, di essere riconosciuto nella propria umanità. E se questo viene negato, tocca a noi diventare memoria. Basta guardare. È tutto sotto i nostri occhi. Politici che giocano a fare i forti con i deboli, che costruiscono carriere attorno alla parola nemico. Migranti descritti come minaccia. Chi salva vite trattato da criminale. Chi difende la Costituzione tacciato di ideologia. La crudeltà, oggi, non ha bisogno di uniformi: indossa giacche e cravatte. Viene applaudita. Viene votata. Naturalmente non basta ricordare. Bisogna anche agire. Non serve fare i puri, non basta prendere le distanze da ciò che non ci piace. Molti intellettuali, giornalisti, commentatori denunciano, ma la critica fine a sé stessa, se non si traduce in presenza, in ascolto, in azione, rischia di diventare un esercizio sterile. E spesso, senza volerlo, alimenta disillusione e distanza. Se tutto è perduto, perché provarci? E invece no: servono voci che sappiano non solo smascherare, ma anche costruire. Che non si chiudano nei salotti autoreferenziali, ma sappiano parlare dove c’è bisogno. Nei margini, nei luoghi abbandonati, dove cresce il rancore perché mancano alternative. Serve rifiutare il cinismo. Ricostruire legami. Parlare non solo a chi già sa, ma raggiungere chi è stato lasciato solo, nei quartieri dimenticati, nelle scuole, nei luoghi dove la politica arriva solo sotto forma di promesse vuote o slogan d’odio. Non serve essere irreprensibili, serve esserci. Servono parole che incontrano, occhi che restano aperti. E per chi fa cultura, politica, educazione, il compito è ancora più urgente: costruire un discorso alternativo, umano, non settario. Resistere insieme non è una parola poetica: è una scelta politica e quotidiana. Non per sentirsi migliori, ma per non arrendersi all’idea che non si possa cambiare nulla. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Create due, tre, molte arche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Leggere Levi oggi proviene da Comune-info.