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Il furto di futuro e i suoi disertori
-------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea dello straordinario movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”). Oltre un miliardo di persone vivono in baraccopoli in tutto il mondo -------------------------------------------------------------------------------- Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo 1984. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte “sud” o “nord” del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre cinquanta guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora. La strategia di controllo mirato e spesso istituzionalmente violento delle migrazioni internazionali conferma, specie nelle migliaia di morti alle frontiere, l’arbitraria e spesso definitiva sottrazione del futuro a che aveva il diritto di cercarlo altrove. Non c’è nulla di più grave, nella vita umana, della confisca o dell’esproprio del futuro. Prendere come ostaggio il futuro di un popolo, di una classe sociale o di età è commettere un crimine le cui conseguenze sono irreparabili. Non casualmente i politici, i generali, i commercianti e i religiosi promettono, ognuno a suo modo, un futuro differente ai sudditi, cittadini, fedeli o semplicemente clienti. Passato, presente e futuro si giocano nell’oggi che sfugge per distrazione, manipolazione o per scelta. I tempi sono stagioni che abbiamo comunque vissuto, sperato e atteso nell’apertura all’inedito di un futuro che pensiamo possibile. Tutti inconsciamente crediamo, come fanno i contadini, che si seminano oggi i grani conservati dal passato per raccoglierne, domani, i frutti. Si ha fiducia che il futuro non sia totalmente deciso o addirittura precluso dal luogo della nascita o dalle circostanze avverse del destino. Attentare alla speranza che domani non sia la banale ripetizione dell’oggi o di quanto già vissuto nel passato ma avventura di un altro mondo possibile è il più spietato dei genocidi. “Della perdita del passato – scrive nel romanzo I disorientati, lo scrittore libanese-francese Amin Maalouf – ci si consola facilmente, è dalla perdita del futuro che non ci si riprende“. L’orchestrata rapina del futuro passa anche attraverso la propaganda, la società dello spettacolo, le ideologie millenariste che si ostinano a promettere la felicità e l’eldorado per domani. Prima però sono necessari sacrifici, rinunce e sofferenze. Domani, certamente, arriverà Godot, personaggio enigmatico nel teatro dell’assurdo dell’irlandese Samuel Beckett. Godot non arriverà mai sulla scena e i due protagonisti passeranno il tempo in una tragica attesa senza futuro. Si mutila il futuro dei poveri tradendone i sogni con politiche economiche basate sull’esclusione e la morte. Si instilla nell’educazione in famiglia e negli istituti scolastici la paura del futuro perché non controllabile o semplicemente incerto. L’inverno demografico dell’occidente economicamente abbiente non è che un sintomo, peraltro di un’eloquenza unica, dell’espulsione del futuro di un’intera civiltà. Non è dunque casuale che, nella presente fase storica ci sia una moltiplicazione di campi di detenzione per i migranti e carceri contestualmente saturate. In entrambi i casi il futuro è letteralmente sospeso o spento. Fortuna ci sono loro, i disertori. Non seguono le indicazioni di percorso tracciate anzitempo dai maestri del tempio e i dottori della legge. Non aderiscono ai progetti confezionati o ai piani stabiliti dagli illuminati del sistema o l’intelligenza artificiale. Tra loro si trovano i poeti e i resistenti di ogni tipo che ridanno senso, gusto e vita alle parole cadute in disuso. Disertano come possono i paradisi occasionali e tutto ciò che sembra assicurare il successo. Si contano numerosi tra i marginali e in genere i poco importanti della società che conta. Non hanno fatta propria l’arte della guerra. Vivono nella loro patria ma come stranieri, ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Ilfattoquotidiano.it -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Organizzare la nostra disperazione -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il furto di futuro e i suoi disertori proviene da Comune-info.
Sui nuovi mondi
SI POTREBBE COMINCIARE DA QUELLE COMUNITÀ CHE, TRA INEVITABILI FRAGILITÀ, COSTRUISCONO RELAZIONI SOCIALI DIVERSE NELLA VITA DI OGNI GIORNO, NEI PICCOLI PAESI COME NELLE CITTÀ. ENZO SCANDURRA HA INSEGNATO URBANISTICA PER OLTRE QUARANT’ANNI: IL SUO INVITO A METTERE AL CENTRO IL FARE DI QUELLE ESPERIENZE CHE CERCANO NUOVI MONDI TRA MUTUO SOCCORSO E DEMOCRAZIA COMUNITARIA, È ACCOMPAGNATO DA ALCUNE DOMANDE. COME APRIRE UNA DISCUSSIONE SU UN CONCETTO ABBANDONATO, IL SOCIALISMO, IN ITALIA? SIAMO IN GRADO DI ALLONTANARCI DA INUTILI RIUNIONI E LITI SU LEADER E FORMAZIONE DI NUOVI ALLEANZE? E SE RINUNCIASSIMO A QUESTO PER VIVERE “COME SE”, COME SE IL SOCIALISMO FOSSE GIÀ PRATICATO? QUESTE E ALTRE DOMANDE HANNO PERÒ BISOGNO DI UN ÀNCORA: “MOLTI DI QUELLI CHE PARLANO DI SOCIALISMO COL SOLITO LINGUAGGIO, CON QUEL TRABOCCHETTO CHE AFFERMA CHE NON HANNO IMPORTANZA I MEZZI ATTRAVERSO I QUALI SI RAGGIUNGE QUESTO FINE, SARANNO COLORO I QUALI, CAMBIANDO SISTEMA, IL SOCIALISMO LO OSTACOLERANNO… NON SI PUÒ PRATICARE LA VIOLENZA PER COSTRUIRE UN MONDO DAL QUALE SI VUOLE ESPELLERLA” San Michele Salentino. Foto di Attacco Poetico -------------------------------------------------------------------------------- C’è un dibattito sul socialismo a venire? Ben venga in questo Paese anestetizzato, dalla coscienza atrofizzata, dalla mancanza di qualsiasi stupore per ogni cosa. Come sempre, si scontrano diverse analisi e visioni; tutte partono dal rifiuto di come va il mondo adesso, delle guerre, delle mediocri personalità che ci governano, delle disuguaglianze, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle miserie e della crisi climatica che ci minaccia; insomma dal rifiuto del capitalismo e dell’ideologia neoliberista che rischia di trasformare il pianeta in un deserto. Eppure mi sento a disagio a parlare di questo tema in termini teorici: quale socialismo; quando il socialismo? Anziché immergerci in queste dotte analisi e pensieri, compito spropositato, preferirei pensare alla vita quotidiana delle tante piccole comunità disseminate un po’ ovunque, che senza parlare direttamente del tema, lo vivono con il proprio corpo, le fatiche del vivere, i piccoli conflitti, la gioia di fare insieme e di cenare insieme, l’amicizia, l’amore per le cose e la natura. Non è forse questo il socialismo? Oppure mi sbaglio? Penso a quel bel quadro di Pellizza da Volpedo e ci sembra che in esso, nelle sue figure ottocentesche, ci sia l’immagine del socialismo. Piuttosto che cercarlo nelle teorie, si potrebbero osservare queste comunità, la vita in piccoli paesi quasi abbandonati, il ritorno a pratiche di vita desuete, a un’economia che non abbia il fine del profitto, ma la produzione di beni materiali necessari alla vita quotidiana (La Restanza di Vito Teti). Lo sguardo della sinistra dovrebbe ruotare di 180 gradi e rivolgersi verso queste comunità e il loro modo di vita. Si impara solo spingendosi ai limiti per inoltrarsi su sentieri nuovi, mai praticati. Abbandonare le inutili riunioni, gli stanchi dibattiti, le liti nella sinistra, il leaderismo, la ricerca del Capo, la formazione di nuovi schieramenti e lasciarli soli questi politici, che si azzuffino pure per futili motivi, per contendersi qualcosa di cui non abbiamo bisogno. Senza il nostro riconoscimento essi sono personaggi inutili, senza alcun potere, persino ridicoli. E se appunto rinunciassimo a tutto questo e decidessimo di vivere “come se”, come se il socialismo fosse già praticato? E se ci immergessimo, noi non più giovani, in questo nuovo mondo di resistenza (femminismo, movimenti giovanili, studenti, ecc.)? Bisogna partire da se stessi, rinunciare al dover essere, al presidenzialismo, ai propri privilegi perché se uno sta più bene degli altri, ci saranno sempre quelli che stanno meno bene di lui. E rinunciare al dominio del patriarcato che affiora anche ai livelli istituzionali (vedi Nordio, Roccella). Partiamo dalle città, i luoghi dove vive e lavora la maggior parte delle persone (destinate a crescere nel tempo). Nulla ci impedisce di pensare (come già immaginava Murray Bookchin) che esse possano diventare “culle di comunità”, dove gli abitanti sono legati da vincoli comunitari e dove la solidarietà e la convivenza ne sono i requisiti fondamentali. Oggi siamo ben lontani da questa situazione, il capitalismo e l’ideologia neoliberista stanno trasformando le nostre città in luoghi di disperazione, di solitudine, di una guerra silenziosa tra ricchi e poveri. In primo luogo, bisogna abbandonare l’idea di metropoli, quel non-luogo di flussi e merci devastatore di territori e luoghi. Perché le persone abitano i luoghi fisici e non i flussi. Ma se si vogliono salvare le città (“Non si salva il pianeta se non si salvano le città” è il titolo di un bel libro di Giancarlo Consonni), bisogna ridefinire il concetto di democrazia, ovvero il suo perno fondamentale che consiste nella (crisi della) rappresentanza. Una democrazia reale si fonda sul volere/potere dei cittadini che si organizzano in comunità che, in quanto tali, prendono decisioni sull’organizzazione della propria vita; in sostanza comunità autogovernanti e di mutuo soccorso. Esperienze di tal genere si sono realizzate anche in Italia, purtroppo, in situazioni di emergenza come a L’Aquila (post terremoto), e durante l’epidemia di Covid. Una comunità non è un semplice aggregato di individui, afferma Debbie Bookchin (vedi Pratiche urbane e alleanze dei corpi, ne il manifesto del 20.11.2025): “una forma di organizzazione che chiamiamo comunitarismo. Si tratta di un progetto profondamente educativo in cui ci riappropriamo del senso di solidarietà e impariamo di nuovo ad autogovernarci”. Perché è proprio dalle città che nascono e si moltiplicano movimenti antagonisti al potere autocratico, come recentemente avvenuto a New York. Le città sono diventate fiere futili di eventi, di spettacoli, di turisti mossi dall’ansia di consumare, di rapine da parte di fondi immobiliari stranieri e non che le spolpano di ogni ricchezza e bellezza. Ma tanto più diventano prigioni per motivi di sicurezza, tanto più crescono movimenti antagonisti, per ora isolati, silenziosi, afoni. Casematte di un possibile risveglio? Esempi virtuosi di un altro mondo? È sufficiente questo? No, credo di no. Bisogna anche impegnarsi a cambiare i nostri governanti, a combattere per sostituirli con rappresentanti più onesti e capaci. Ma solo a partire dalle esperienze di questi nuovi mondi inascoltati e invisibili dalla politica, senza le quali ogni rinnovamento diventa impossibile. C’è poi il problema delle istituzioni; quelle in cui riponevamo la nostra fiducia non esistono più. Il neoliberismo si è mosso nella direzione di neutralizzarle: governi che decidono senza parlamenti, leggi che stanno per introdurre il presidenzialismo (leggi: fascismo), aggiungiamo il tentativo di eliminare i sistemi di controllo internazionali e quelli nazionali (Corte dei Conti, Banca d’Italia, magistratura). Difficile quindi contare in esse, piuttosto ci si dovrebbe interrogare su come risanare e rafforzare le “vecchie istituzioni” (Onu), e al tempo stesso crearne di nuove sovranazionali per affrontare problemi nuovi, sconosciuti in altre epoche, per esempio quelli connessi alla minaccia climatica (Luigi Ferrajoli, Per una costituzione della terra; Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale). Crediamo però che molti di quelli che parlano di socialismo col solito linguaggio, con quel trabocchetto che afferma che non hanno importanza i mezzi attraverso i quali si raggiunge questo fine, saranno coloro i quali, cambiando sistema, il socialismo lo ostacoleranno, come già accaduto nella storia. Non si può praticare la violenza per costruire un mondo dal quale si vuole espellerla. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA INTERVISTA A STEFANIA CONSIGLIERE: > Perché è difficile riconoscere mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sui nuovi mondi proviene da Comune-info.
Quando il dolore diventa speranza. Il Premio Seán MacBride per la pace a Berlino
Ci sono serate in cui la speranza è difficile, eppure divampa. La cerimonia di consegna del Premio Seán MacBride per la Pace da parte dell’International Peace Bureau (IPB) il 10 novembre a Berlino è stata una di queste. Una serata in cui persone che hanno vissuto le sofferenze più profonde hanno parlato il linguaggio silenzioso ma incrollabile dell’umanità. Una serata in cui è diventato chiaro che la pace non è creata da chi detiene il potere, ma da chi continua a crederci nonostante tutto. Un premio con una storia – e un raro momento di credibilità Il Premio Seán MacBride prende il nome da un uomo che ha imparato in prima persona cosa fa la violenza alle persone. MacBride si è unito all’IRA all’età di 15 anni e da adulto è diventato una delle autorità morali in materia di disarmo, diritti umani e giustizia internazionale. La sua dichiarazione decisiva – “Noi, i popoli, non noi, i governi” – aleggiava invisibile sulle teste dei presenti quella sera. Tra guerrafondai e premi per la pace finalmente un vincitore degno Negli ultimi mesi, sembrava essere diventata quasi una forma d’arte politica assegnare premi per la pace a persone o istituzioni che hanno a che fare con la pace quanto un fiammifero con la sicurezza antincendio. * Il Premio Nobel per la Pace alla politica venezuelana Maria Corina Machado, che sostiene sanzioni letali contro il suo Paese e un’invasione. * Il Premio della pace dell’Associazione degli editori tedeschi a Karl Schlögel, il cui linguaggio è più conflittuale che conciliante e che sostiene l’escalation della guerra in Ucraina. * Il Premio della Pace della Westfalia alla NATO, un’alleanza che è sinonimo di armamenti e guerra. Questa serata a Berlino è stata ancora più liberatoria, quasi un sollievo: finalmente un premio per la pace degno del suo nome. Un premio che non valorizza le alleanze geopolitiche, ma il coraggio, la vulnerabilità e il desiderio di un futuro senza morte. I vincitori del premio 2025: genitori che fanno l’impensabile e una società civile che costruisce ponti Quest’anno l’Ufficio Internazionale per la Pace assegna il Premio Seán MacBride per la Pace a due organizzazioni: il Parents Circle – Families Forum (PCFF) e l’Alliance for Middle East Peace (ALLMEP). Il Parents Circle è un’associazione unica nel suo genere: riunisce più di 700 famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso i loro cari nel conflitto, ma hanno comunque deciso che il loro dolore non deve trasformarsi in nuovo dolore per gli altri. Le due co-amministratrici delegate, Ayelet Harel e Nadine Quomsieh, hanno ritirato il premio a nome dei membri. ALLMEP è una rete di oltre 180 organizzazioni della società israeliana e palestinese che svolgono attività di pace a livello locale in vari modi: attraverso progetti educativi, dialoghi tra giovani, attività di advocacy politica o sostegno nell’affrontare i traumi. L’alleanza sta anche promuovendo la creazione di un fondo internazionale per la pace israelo-palestinese, ispirato a un modello che ha contribuito in modo significativo al successo dell’accordo del Venerdì Santo in Irlanda del Nord. Entrambe le organizzazioni condividono la convinzione fondamentale che la pace cresce dal basso verso l’alto. I discorsi: voci che trasmettono sia dolore che speranza Il direttore esecutivo dell’IPB Sean Conner ha aperto la cerimonia di premiazione con un commovente ricordo del motivo per cui Seán MacBride, fondatore dell’IPB e cofondatore di Amnesty International, è stato un vincitore così insolito del Premio per la Pace: perché sapeva che odore aveva la violenza. MacBride ha lasciato un’opera che ancora oggi ci insegna che questo premio appartiene a “coloro che conoscono il vero costo umano della guerra”. Basandosi su questo atteggiamento, Conner si è concentrato costantemente sulle persone, non sugli attori politici: “Dobbiamo ascoltare le persone, non i governi”. Ha chiarito che il PCFF e l’ALLMEP stanno facendo esattamente il tipo di lavoro che i governi di solito apprezzano solo quando è già troppo tardi. La sua immagine centrale era un ribaltamento della logica del potere: “Non sono gli Stati a fare la pace. Sono le persone che rendono possibile la pace”. Conner ha anche avvertito: “Il futuro rimane a rischio se la società civile non è coinvolta”. Ma ha anche trovato parole di incoraggiamento: “La speranza che sentiamo oggi dimostra che un futuro è possibile, un futuro basato sulla sicurezza, la dignità e la libertà per tutti”. Ha concluso rivolgendosi direttamente ai vincitori del premio e concentrandosi sul loro coraggio: “Avete il coraggio di farvi vedere. Oggi siamo qui per vedervi e ascoltarvi.” In quel momento, la frase “Il vostro coraggio è visibile” suonava come un messaggio da un futuro migliore, un futuro che appartiene a coloro che conoscono la ferita. Ayelet Harel: Quando il dolore diventa un ponte Quando Ayelet Harel, co-direttrice israeliana del PCFF, si è avvicinata al microfono, la sala è sembrata improvvisamente più fragile. Ha parlato con calma, ma con un’emozione che non poteva nascondere. Ha parlato di suo fratello, morto nella prima guerra del Libano e di come la perdita di una persona cara rimanga con te per tutta la vita, ma possa essere trasformata in un impegno per la pace e la riconciliazione: non era una dichiarazione retorica, ma una testimonianza. Ha parlato di come il suo cuore soffra di fronte al 7 ottobre e allo stesso tempo di fronte alla “distruzione inimmaginabile” a Gaza. Poi è arrivata la frase che avrebbe attraversato l’intera serata come un filo conduttore in tutti i discorsi: “No, non è una realtà simmetrica, ma un’umanità condivisa”. E proprio perché questa realtà non è simmetrica, ha detto, dobbiamo prendere la nostra responsabilità morale due volte più seriamente. Il suo appello alla Germania era chiaro e urgente: “Per favore, non schieratevi. Usate la vostra storia e la vostra voce morale per promuovere l’uguaglianza e la pace”. È stato uno di quei momenti in cui è calato un silenzio palpabile, un silenzio in cui tutti i presenti hanno percepito la posta in gioco. Nadine Quomsieh: “Non c’è competizione nel dolore” Nadine Quomsieh, la co-direttrice palestinese del Parents Circle, ha ripreso da dove Ayelet aveva lasciato e ha condotto il pubblico più a fondo nel brutale presente. Ha descritto Gaza con parole che non lasciavano spazio ad abbellimenti: quartieri distrutti, bambini che imparano parole come “attacco con droni, macerie, orfano” prima ancora di imparare a leggere. Donne che partoriscono nelle tende. Persone che, notte dopo notte, non sanno se vivranno abbastanza a lungo da vedere un altro tramonto. Allo stesso tempo ha parlato delle famiglie israeliane la cui vita non sarà più la stessa dopo il 7 ottobre. E poi è arrivata la frase che ha riassunto l’intera serata, una frase che è rimasta come linea guida morale contro la brutalizzazione globale: “Non c’è competizione nel dolore. C’è solo perdita”. Ha parlato dell’inimmaginabile: da ottobre, il PCFF ha accolto 125 nuove famiglie in lutto, sia israeliane che palestinesi. La sua voce non si è spezzata, ma ha vibrato. “Incontrarsi dopo una perdita, parlarsi dopo un trauma, rifiutare l’odio, anche quando ci si aspettava che odiassimo. Persone che hanno seppellito i propri cari si rifiutano di usare il proprio dolore come arma o per giustificare il dolore di un’altra famiglia. Questo non ha nulla a che vedere con la convivenza. Si tratta di co-umanità”. È stata una delle dichiarazioni più chiare della serata, una sorta di manifesto silenzioso. La società civile come fondamento, non come nota a piè di pagina Miro Marcus di ALLMEP ha poi spostato la prospettiva dal dolore individuale alla speranza strutturale. Ha riferito che, nonostante la guerra, i traumi e la rassegnazione internazionale, oltre il 60% delle organizzazioni che ne fanno parte ha continuato il suo lavoro, molte addirittura più di prima. Ha raccontato di 400 israeliani e palestinesi che si sono incontrati a Parigi mentre le loro famiglie erano sotto il fuoco dei razzi e che lì hanno formulato proposte politiche che sono state poi effettivamente incorporate nella Dichiarazione di New York. “La pace non si negozia. La pace si costruisce. E questo richiede le persone che sono sedute qui oggi”. L’idea di un fondo internazionale per la pace improvvisamente non sembrava più lontana, ma piuttosto un modello che avrebbe dovuto esistere da tempo. “Amore invece di odio” – L’appello di Dolev per un’umanità radicale Sharon Dolev, membro del consiglio di amministrazione dell’IPB e direttrice esecutiva di METO, è rimasta profondamente commossa e ha elogiato lo straordinario coraggio dei vincitori del premio. Ha ricordato al pubblico che le guerre di solito hanno solo due esiti – “La distruzione di una delle parti o un accordo” e che è quasi inconcepibile difendere la pace in modo così coerente nelle circostanze attuali. Riferendosi al PCFF e all’ALLMEP, ha detto: “Quello che state facendo è quasi disumano: scegliere l’amore invece dell’odio dopo una perdita”. Ha sottolineato quanto sia difficile lavorare per la pace quando le persone vivono sotto una minaccia reale: “È estremamente difficile quando cadono le bombe e la paura urla”. Dolev ha criticato l’aspettativa di una pace perfetta e ha definito il rifiuto di soluzioni realistiche una forma di pregiudizio. Gli Stati sono bloccati nella loro capacità decisionale, mentre la società civile è la vera forza di cambiamento: “Quando gli Stati e gli statisti siedono in una stanza, sembra quasi che siano intrappolati in abiti fatti di cemento. Mancano del potere, della capacità e del coraggio di essere creativi, di muoversi, di avere una conversazione reale. Questo compito spetta a noi, alla società civile”. In chiusura, ha espresso la sua gratitudine per il premio e il suo desiderio: “Spero che il vostro lavoro ci dia ciò che tutti meritiamo: la pace in Medio Oriente”. Una serata che non banalizza il dolore, ma rende possibile la speranza Ciò che ha reso speciale questa serata è stato il fatto che nessuno ha cercato di misurare le sofferenze degli uni rispetto agli altri. Nessuno ha parlato di “sacrifici uguali”, nessuno ha relativizzato. Al contrario: riconoscere le differenze era un prerequisito per riconoscere i punti in comune. L’atmosfera non era festosa, ma seria. Non cupa, ma chiara. Non sentimentale, ma umana. È stato il tipo di serata che non cambia immediatamente il mondo, ma cambia il modo in cui lo guardi. Un futuro che non è inevitabile, né in un senso né nell’altro. Alla fine è rimasta una sensazione che è diventata rara nei circoli politici: la sensazione che le persone possano cambiare le cose se hanno abbastanza coraggio da pensare in modo diverso dal resto della società. Il Premio Seán MacBride 2025 è andato a coloro che hanno pagato un prezzo troppo alto per ottenerlo: con le loro famiglie, i loro figli, i loro fratelli. Avrebbero tutte le ragioni per continuare a odiare e invece fanno il contrario. Forse questo è il più grande atto di pace conosciuto fino ad oggi. E forse questa serata a Berlino non è stata solo una cerimonia di premiazione, ma la prova silenziosa che la pace – come ha detto Nadine Quomsieh – non è resa, ma coraggio. Non è debolezza, ma determinazione. Non è utopia, ma una decisione quotidiana. Una decisione che quella sera è diventata visibile e speriamo anche contagiosa. Traduzione dall’inglese di Anna Polo     Reto Thumiger
Gaza, la speranza cammina sulle nostre gambe
La risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta una vittoria della diplomazia americana in nome della legge del più forte. Il 17 novembre 2025 a New York, Russia e Cina si sono astenute, pur avendo la possibilità di bloccare la risoluzione con il veto, un diritto riservato a cinque potenze: USA, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina. Ho letto la risoluzione. La condanna di Gaza si nasconde nell’ambiguità della visione generale. Il Board of peace, il sedicente Consiglio di Pace guidato da Trump, governerà sulla striscia martoriata coadiuvato da una forza internazionale di “stabilizzazione”, che avrà il compito di disarmare i palestinesi. O meglio distruggere Hamas. Senza tenere conto che lo stesso Trump, quando annunciò il piano del Pentagono, disse espressamente che Hamas era già un movimento decapitato, ma evidentemente gli israeliani non la pensano come il Pentagono, e hanno già manifestato con uccisioni indiscriminate la loro espressa volontà genocidiaria, anche dopo la presunta tregua. Il governo di Netanyahu considera infatti tutti i palestinesi come terroristi, comprese le donne e i bambini. La risoluzione ONU rischia di diventare una copertura formale per “finire il lavoro”. Sembra che il mondo abbia abbandonato i palestinesi al loro destino. Ovviamente conviene a tutti fare finta di niente e continuare con la politica degli struzzi, che mettono la testa sotto la sabbia per non guardare quello che succede ogni giorno a Gaza. Una timida espressione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi appare nella risoluzione, ma serve solo per ottenere l’astensione di Russia e Cina e la connivenza dei Paesi arabi. Come si può pensare che un’amministrazione di fatto coloniale della striscia possa riportare la pace? Non serve piuttosto come copertura formale per il genocidio? Spero di sbagliarmi… In teoria, al punto 8 della risoluzione, si stabilisce una scadenza al 31 dicembre 2027. Immaginiamo una forza di stabilizzazione (ISF) che non riesca a domare i ribelli entro quella data: risulta evidente che rimarrà con gli scarponi sul terreno a fare il suo lavoro con il mandato ONU o a quel punto anche senza; non ci andranno i caschi blu delle Nazioni Unite, ma questa forza sarà costruita per compiacere Israele, non per fermare il genocidio, per il quale nella risoluzione non viene sprecata neanche una parola, come se non esistesse. Ovviamente nessuno si azzarda a prevedere il futuro, che potrebbe essere molto diverso dalle mie legittime paure. Le forze militari israeliani (IDF) si impegnano a ritirarsi solo dopo la completa distruzione dei nemici, come se non bastasse quel deserto che affonda nell’indifferenza globale e che viene chiamato pace. Saranno addestrate anche forze di polizia palestinesi e ci sarà anche un comitato tecnico palestinese; sembra davvero una beffa a uso e consumo degli ipocriti, con un ruolo subalterno dei palestinesi. Meditate, gente, se questa è una pace. La speranza però vive ancora nell’animo delle persone comuni che a milioni sono scese in piazza a manifestare il proprio dissenso contro i governi complici o incapaci. La speranza era in mare a sfidare il blocco criminale agli aiuti umanitari con le Flotille. La speranza anima ogni giorno le persone che non si lasciano imbrogliare da una pace finta. Continueremo a protestare per avere una pace vera per i palestinesi martirizzati e per tutti i popoli martoriati dalle guerre. Rayman
La sfiducia verso gli altri mondi
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Occasionalmente, anche se raramente, troviamo echi nel modo in cui vediamo il mondo, e in particolare, il nostro mondo. Una recente intervista sul sito Comune, condotta da Gianluca Carmosino con l’antropologa italiana Stefania Consigliere, è particolarmente stimolante. Intitolata “Perché è difficile riconoscere nuovi mondi?“, presenta una prospettiva interessante. L’antropologa sostiene che altri mondi, o mondi nuovi, esistano già, anche se appaiono disorganizzati e imperfetti. Individua due ragioni che ci impediscono di vederli, riconoscerli e dare loro l’importanza che meritano. La prima è “lo sguardo coloniale”. A suo avviso, “se un mondo non è tecnologicamente avanzato, ad esempio, o non ha una struttura sociale come la nostra, è un mondo un po’ selvaggio, meno desiderabile e primitivo”. Si tratta di un’“arroganza coloniale” che non è affatto esclusiva dell’Europa o del Nord del mondo, ma è atteggiamento consueto tra la sinistra e gli accademici latinoamericani, che tendono a guardare con distacco e disprezzo le iniziative provenienti dal basso e dalla sinistra. Una riflessione che condividiamo. Il secondo tema affrontato riguarda “l’approccio eroico all’idea di cambiamento”, ereditato dalla nozione tradizionale di “rivoluzione come presa del potere, con il momento magico escatologico nel quale finalmente arriviamo alle leve del comando e dirigiamo la macchina dove ci piace…”. Riesce a collegare la presa del potere statale con “la tentazione del dominio”, che, secondo l’autrice, risulta essere l’aspetto meno esplorato dei movimenti antisistemici. Credo che entrambe le riflessioni siano molto importanti, a patto che riusciamo ad accoglierle come un nostro problema e non come un problema altrui, lontano da noi. Tutti noi che sosteniamo lo zapatismo abbiamo sperimentato persone di sinistra e di altri movimenti che alzavano le spalle quando raccontavamo loro di aver partecipato a un incontro e di aver condiviso le nostre esperienze con i compagni, o che stavamo sostenendo la costruzione di un ospedale, di una scuola o la distribuzione di caffè biologico. L’immagine eroica degli operai bolscevichi che entrano nel Palazzo d’Inverno sembra davvero importante, mentre partecipare a un evento per ascoltare e imparare sembra secondario, quasi irrilevante. Una citazione della scrittrice Simone Weil nell’intervista sopracitata riassume questo atteggiamento avanguardista di non ascolto: “… l’attenzione è la più alta e rara delle virtù. Quindi stare attenti, stare in ascolto, sentirsi, anziché performare”. Questi sono i passaggi preliminari necessari per intraprendere azioni profonde e, quindi, durature. L’immagine della presa del potere come ingresso al palazzo è diventata una cartolina, un’immagine che racchiude le idee semplicistiche di rivoluzione che hanno così profondamente permeato l’immaginario della sinistra mondiale. Tutto ciò che non si allinea con questo è quasi una perdita di tempo. Un grosso problema di questa sinistra è che decontestualizza il prima e il dopo del benedetto binomio “rivoluzione = presa del potere”, isolando quell’evento e trasformandolo in un paradigma di ciò che è desiderabile, dell’unica cosa che ha veramente valore. Ma quel passo è sempre stato preceduto, in ogni caso, da migliaia di piccole azioni che non sembravano importanti, né si sapeva che potessero portare ad azioni più grandi. Un fornaio indipendentista catalano scrisse delle centinaia di forni per il pane di Barcellona, che lavoravano tonnellate di farina ogni giorno per mano di migliaia di persone, come un importante antecedente alla rivoluzione di Barcellona del 1936, seguita al colpo di stato di Franco. Sono appena tornato dal Perù, dove ho avuto una lunga conversazione con uno dei consulenti più esperti dell’organizzazione amazzonica AIDESEP (Associazione Interetnica per lo Sviluppo della Foresta Pluviale Peruviana), che riunisce quasi 2.500 comunità in nove federazioni. Abbiamo parlato a lungo dei 15 governi autonomi che altrettante comunità hanno creato a causa dell’impossibilità di dialogo e negoziazione con il governo di Lima. Quando gli ho chiesto perché i popoli indigeni delle Ande, Quechua e Aymara, non abbiano intrapreso un percorso simile, il suo racconto mi ha sorpreso. La CONACAMI (Confederazione Nazionale delle Comunità del Perù Colpite dall’Attività Mineraria), che rappresentava più della metà delle sei comunità andine del Paese, ha iniziato a discutere la possibilità di adottare un’identità indigena, poiché fino ad allora le organizzazioni si identificavano solo come contadine. Adottare un orientamento indigeno significava rompere con la tradizione di mobilitarsi per rivendicare qualcosa dallo Stato, poiché non riuscivano a concepire altra opzione che negoziare per ottenere risorse. La posizione indigena fu sostenuta, tra gli altri, dal nostro compagno Hugo Blanco. Tuttavia, i partiti di sinistra peruviani si rifiutarono di consentire questo passo, perché ritenevano di perdere il controllo della “loro” base, rigorosamente controllata dalle gerarchie di partito e da movimenti come il PCC (Confederazione Contadina Peruviana). Usarono la minaccia di tagliare i finanziamenti al movimento attraverso le ONG da loro controllate come ricatto, riuscendo così a bloccare questo passo storico che avrebbe condotto i popoli andini verso percorsi più vicini alla costruzione dell’autonomia. Sollevo questa questione perché sento che, oltre allo sguardo coloniale e alla visione eroica dei cambiamenti che analizza Consigliere, ci sono gli interessi personali e politici meschini di coloro che vivono a scapito dello sforzo dei popoli e usano la loro influenza per ottenere qualche tipo di vantaggio. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Desinformemonos con il titolo La desconfianza de la izquierda hacia los mundos otros -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI L’INTERVISTA A STEFANIA CONSIGLIERE: > Perché è difficile riconoscere mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La sfiducia verso gli altri mondi proviene da Comune-info.
Omaggio a Marco Calabria
UNA SALA PIENA, AL POLO CIVICO ESQUILINO DI ROMA, HA ACCOLTO SABATO 8 NOVEMBRE (MALGRADO METRO CHIUSE, BUS DEVIATI, TRAFFICO), LA PRIMA PRESENTAZIONE DI GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI, L’ANTOLOGIA CURATA DA GIANLUCA CARMOSINO E PUBBLICATA DA ELÈUTHERA CHE RACCOGLIE TESTI DI MARCO CALABRIA. IL LIBRO È UNA BUSSOLA CHE AIUTA A COMPRENDERE I POPOLI E LE ESPERIENZE CHE OVUNQUE STANNO PERCORRENDO SENTIERI COMPLETAMENTE NUOVI, ALTERNATIVI ALLE LOGICHE DEL CAPITALISMO, E PER QUESTO FRAGILI E IMPERFETTI, TRACCIANDO LA STRADA MAN MANO CHE AVANZANO. L’INTERVENTO DI RAÚL ZIBECHI CHE, IN COLLEGAMENTO DA MONTEVIDEO, HA APERTO L’INCONTRO La morte di un amico è una ferita al cuore. La scomparsa di Marco è molto più della morte di una persona cara, è la perdita di una memoria storica inestimabile in un momento in cui il capitalismo sta lottando proprio per cancellare la memoria collettiva di popoli, classe e individuo. È, quindi, doppiamente dolorosa. In un anno abbiamo pero Marco Calabria e Aldo Zanchetta. Due amici, due compagni di lotta, due luci che hanno illuminato le nostre vite, anche nei giorni più bui, e nutrito la speranza in un modo diverso. Marco sapeva trovare alternative al capitalismo nelle piccole cose della vita quotidiana, come ha accennato Stefania Consigliere nella sua recente intervista su Comune (Perché è difficile riconoscere mondi nuovi). Sebbene fosse un fervente ammiratore di Mao (cosa che condividevamo), la sua casa aveva un grande terrazzo dove centinaia di piante e piccoli alberi competevano con la grigia monotonia del cemento urbano. I suoi gatti e quelli del quartiere scorrazzavano li, mente Marco fumava una sigaretta dopo l’altra. Amava la natura con la stessa semplice ammirazione con cui amava giocare o ascoltare i bambini, ai quali dedicava attenzione e rispetto, senza il minimo accenno di paternalismo. Por essendo un uomo bianco, occidentale e urbano, capì lo zapatismo senza essere mai stato in Chiapas, così come capì i popoli in movimento in tutta l’America Latina. Comprendere è un atto creativo, ci ha detto Keyserling. Creare è una pratica sociale, individuale e collettiva che implica andar oltre l’esistente, reinventandolo nel materiale e del simbolico. In questo senso, Marco era un creatore fantasioso di nuovi mondi, sapeva riconoscere quando qualcosa di diverso stava nascendo. Credo che il miglior omaggio che possiamo rendere a Marco oggi, a un anno dalla sua silenziosa scomparsa, sia continuare a comprendere i popoli che stanno percorrendo sentieri completamente nuovi, inediti e originali, tracciando la strada man mano che avanzano, come diceva Antonio Machado. Grazie, Marco, per averci dato così tanto, senza aspettare nulla in cambio. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Omaggio a Marco Calabria proviene da Comune-info.
Perché è difficile riconoscere mondi nuovi
LO SGUARDO COLONIALE E L’IMPOSTAZIONE EROICA DELL’IDEA DI CAMBIAMENTO, DICE STEFANIA CONSIGLIERE, CONTINUANO A LOGORARE LA CAPACITÀ DI RICONOSCERE L’ESISTENZA DI MONDI NUOVI E RISCHIANO COSÌ DI SPEGNERLI: QUEI MONDI PRENDONO FORMA NON COME SCONVOLGIMENTI, MA COME CONTINUA ATTENZIONE ALLA QUALITÀ DELLE RELAZIONI CHE COSTRUIAMO OGNI GIORNO. QUESTA INTERVISTA È STATA REALIZZATA IN VISTA DELLA DUE GIORNI “PARTIRE DALLA SPERANZA E NON DALLA PAURA”, PROMOSSA DALLA REDAZIONE DI COMUNE, A ROMA, IL 7 E 8 NOVEMBRE (PROGRAMMA IN CODA) Soulpalco, gruppo di musica popolare di Napoli. Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- Stefania Consigliere insegna presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Genova. Le sue ricerche, in particolare su immaginario e rivoluzione, raccolte in numerosi articoli e libri, tra cui Favole del reincanto (DeriveApprodi), sono un riferimento essenziale per tanti e tante. Consigliere sostiene che mondi altri, disorganici e imperfetti, sono già qui, ma siamo spesso incapaci di individuarli per diverse ragioni. In questa intervista parliamo di pensare mondi nuovi, di relazioni di potere, dell’attenzione come capacità preziosa. Ernst Bloch ha scritto Il principio speranza in esilio durante gli anni del fascismo e del nazismo. Anche tu, in Favole del reincanto, sostieni che i mondi nuovi che cerchiamo sono già qui, per quanto fragili e limitati. Come possiamo oggi, in questi tempi cupi, imparare a pensare, individuare e proteggere mondi nuovi? Ho l’impressione che ci siano due cose, nella nostra tradizione culturale ampia, quella della modernità occidentale, che in questo momento ci impediscono di riconoscere i mondi altri, e quindi poi, a maggior ragione, di proteggerli e dar loro spazio. La prima è molto semplice da enunciare, ma richiede una lunghissima lavorazione, nel senso che è qualcosa di talmente connaturato con il modo in cui cresciamo da diventare parte di noi: ed è lo sguardo coloniale. Siamo plasmati da uno sguardo che squalifica ancora ciò che non è “noi”, anche in punti in cui ci piacerebbe fare qualcosa di diverso o immaginiamo di stare già facendo qualcosa di diverso. Questa cosa la vediamo moltissimo come Laboratorio Mondi Multipli, un piccolo gruppo di cinque persone dentro l’Università di Genova: facciamo consulenza antropologica a persone assolutamente ben intenzionate nel loro rapporto con l’alterità culturale e però, anche fra noi la tendenza è un po’ sempre quella di pensare che, alla fin fine, se un mondo non è tanto progredito, bisognerebbe poter virgolettare il parlato, se non è altrettanto progredito tecnologicamente, ad esempio, o come forme di strutturazione sociale quanto il nostro, in definitiva è un mondo un po’ selvaggio, comunque meno desiderabile, primitivo. Questo sguardo coloniale, ahimè, ce l’abbiamo, nonostante noi, e richiede molto allenamento. Secondo me è un allenamento estremamente proficuo: un po’ perché ci toglie da quella tracotanza colonialista che ci mette nel mondo in una posizione più civile, e dall’altro lato perché è ciò che permette di riconoscere pienamente, di riconoscere amorevolmente, e magari anche passionalmente, che i mondi fatti diversamente dal nostro forse non sono inferiori. Forse sono altrettanto complessi, magari più belli, più desiderabili, magari hanno invece un sacco di indicazioni da darci. E questo mi sembra il primo grande, fondamentale blocco. Il secondo impedimento che vedi? È di nuovo, qualcosa che fa parte anche della tradizione politica in cui noi cerchiamo in qualche modo di muoverci, o che sentiamo più vicina: c’è un po’ un’impostazione eroica dell’idea di cambiamento. Forse siamo ancora vittime della vecchia idea di rivoluzione come presa del potere, con il momento magico escatologico nel quale finalmente arriviamo alle leve del comando e dirigiamo la macchina dove ci piace. Ma la questione non è prendere il potere, ma come stare nelle relazioni. Non tanto prendere la macchina e dirigerla da un’altra parte, ma sentire in noi la tentazione del potere, la tentazione del dominio, le parti non lavorate, penso, per esempio, a quella colonialista. Quindi, a me sembra che il punto sarebbe proprio quello di stare in modo completamente altro nella relazione di potere, come anche nel pensare una struttura differente. Questo, per restare in termini molto generali, forse perfino troppo generali rispetto alla domanda. Per arrivare invece proprio al nocciolo della domanda che tu hai posto, mi verrebbe da dire che, in questo momento, sono “altri” tutti gli spazi, per quanto temporalmente o geograficamente limitati, piccolissimi, affaticati, che permettono l’esistenza, anche temporanea, di una logica altra di funzionamento. Spazi che escono dal tritacarne del funzionamento ordinario, che sostanzialmente è fatto di soprusi, di competizione, di violenza, di violenza strutturale: una violenza solidificata dentro i modi, dentro le istituzioni, di cui nemmeno più ci accorgiamo. Sono già mondi altri tutti gli spazi nei quali si ragiona di mutuo sostegno invece che di competizione; nei quali si ragiona di cura, degli umani, ma più in generale del vivente, invece che di sfruttamento e distruzione; nei quali il punto è stare attenti. Simone Weil diceva che l’attenzione è la più alta e la più rara delle virtù. Quindi stare attenti, stare in ascolto, sentirsi, anziché performare. Sono mondi altri quelli che stanno in presenza, con i corpi, con i visi, con gli odori, con i timbri, invece che a distanza. E sono alternativi e potentissimi tutti gli spazi che cercano margini di autonomia: che sia autonomia affettiva, energetica, di salute, alimentare, o, mi viene da aggiungere così, in corsa, autonomia relazionale, quindi relazioni che si strutturano al di fuori della strutturazione comandata, ingabbiata. Tutti questi spazi di autonomia sono mondi altri. Ma come si presentano oggi questi mondi altri? Chiaramente, ed è tragico dirlo, in questo momento storico, adesso più che mai, proprio negli ultimi anni, anzi negli ultimi mesi, questi mondi differenti si configurano immediatamente come luoghi di diserzione. Nel senso che qualsiasi forma di autonomia noi si vada cercando, in questa epoca buia, è già una diserzione da una qualche forma di comando, e in particolare negli ultimi tempi anche proprio come diserzione da una guerra che ci stanno gettando addosso, che stanno lungamente preparando con i soliti mezzi della paura e della propaganda. Per cui qualsiasi luogo di diserzione esistenziale e di ricerca di autonomia minima è già un mondo altro, e quindi… è già trattato come se fosse criminale. Esplorare la vita di ogni giorno, trasformare le relazioni con i non umani e accogliere i saperi di non occidentali sono solo azioni di legittima difesa, più o meno illusorie, dal realismo capitalista oppure possono favorire la creazione di mondi diversi? Parto da un aneddoto, a proposito di questa storia della vita quotidiana… che cos’è la vita quotidiana? Piero Coppo, amico per vent’anni, etnopsichiatra, raccontava che a un certo punto, in una manifestazione fra il ’67 e il ’68, era rimasto folgorato da un volantino che riportava una frase di Raoul Vaneigem che diceva: “Chi parla di rivoluzione senza pensare al quotidiano ha un cadavere in bocca”. La rivoluzione come trasformazione delle relazioni più piccole, apparentemente più infime, ad esempio come ci rapportiamo a un albero, alla collina dietro casa, a un gatto, al passante che piange o che urla… Tutta questa roba qui è il terriccio stesso che permette di vivere, o che non permette più di vivere, quando viene in qualche modo disseccato o reso sterile. Però volevo entrare nell’alternativa che poni: cioè, è un’illusione o è qualcosa che ci porta altrove? Che è chiaramente il dubbio che tutti quanti abbiamo continuamente in testa, in qualsiasi cosa facciamo: “Ma sarà qualcosa che vale la pena di fare oppure sto perdendo il mio tempo?” Ecco, qui io sento in questa alternativa proprio il funzionamento dell’“alternativa infernale” di cui hanno scritto alcuni autori francesi. È come se facessimo sempre fatica, dentro la logica aristotelica stretta e il pensiero al quale siamo addestrati, a immaginare che forse sono vere tutte e due le cose. Sono vere entrambe perché ci muoviamo nella fascia che potremmo definire come immaginario: tutto ciò che precede la solidificazione di un mondo umano e che continuamente accompagna questo mondo. I sogni, le fantasie, i fantasmi antichi o quelli recenti, i timori, la voce degli antenati… tutto ciò che non ha una forma solida, facilmente riconoscibile, e che permette la nascita, l’emersione, la solidificazione dei mondi. Nella fascia dell’immaginario è chiaro che, comunque ci muoviamo, siamo in un terreno che non è né un’illusione destinata a svanire né qualcosa di già solido: è qualcosa di potenziale. Allora, la domanda forse potrebbe essere: quando noi ci muoviamo in questa fascia, in cui stiamo cercando di far esistere relazioni differenti, pezzi di mondo diversi, che cosa ci permette di essere più efficaci? Quando sogniamo, che cosa rende i nostri sogni felici, non nel senso di allegri ma di attivi? Ecco, a me pare che la forza propellente che permette di transitare dall’immaginario alla realtà condivisa fra umani sia la fiducia. Se stiamo in quei processi con un certo grado di fiducia nel processo, negli altri, in quello che possiamo fare, nelle entità umane e non umane che convochiamo per i nostri processi, quelli hanno molta più probabilità di trasformarsi in qualcosa di solido. Se invece andiamo già disillusi, disincantati, con l’impressione che “tanto è solo un bel sogno che poi lascia tutto intatto…”, siamo invece nel meccanismo hollywoodiano del “passiamoci due ore sognando qualcosa di diverso per poi rientrare consolati, ma in modo un po’ stupido, nel tritacarne quotidiano”. E chiaramente qui il discorso si farebbe enorme, sarebbe molto bello seguirlo, ma forse ci vorrebbe qualche giornata o qualche notte intorno al fuoco. Raccogliamo la tua proposta, prima o poi promuoveremo un incontro intorno a un fuoco. Grazie. Ma cos’è esattamente l’immaginario? Quando si parla di immaginario si parla di disincanto e reincanto, quindi anche del lunghissimo addestramento, che dura ormai da quattro secoli, che abbiamo subito, e talora facciamo subire, a essere assolutamente certi, convinti, tetragoni sull’idea che le uniche intenzionalità attive siano quelle umane. Che animali, piante, cieli, paesaggi non abbiano intenzionalità, non siano attivi, non c’entrino niente con la storia, e che le uniche forme di causalità siano quelle meccaniche, come le biglie sul tavolo da biliardo che si scontrano e si muovono secondo certi vettori. Io ho l’impressione che il disincanto sia proprio questo: la credenza che le sole causalità siano meccaniche e le sole intenzionalità siano umane. E queste credenze si possono smontare. Mi viene in mente, ad esempio, l’opera di Lévi-Strauss o certe parti piuttosto visionarie dell’antropologia, quando parlano di efficacia simbolica, di causalità di ordine non immediatamente meccanico. Ma si smontano anche semplicemente con un approccio ecologico all’idea che i posti che noi abitiamo sono innanzitutto relazionali; che la relazione è ciò che permette a noi di continuare a esistere, ai luoghi di vivere, e così via. Queste relazioni non sono semplicemente quelle che siamo addestrati a immaginare. Tanto per dire: noi siamo vivi e tentiamo di pensare, di guardare criticamente al mondo, di lottare, di stare vicini, di sostenerci, di amarci, perché… mangiamo. Allora, da dove arriva il nostro cibo? Perché respiriamo? Com’è fatta la nostra aria, che cosa la inquina? Perché abbiamo dei sogni? Cosa entra a tradimento nei nostri sogni e li piega a forme di vita che troviamo ingrate? Chi fa i nostri abiti, e dove? Quanto costa ecologicamente fare un abito? E via dicendo. Tutto questo guardare alle connessioni da cui dipendiamo e alle causalità non umane che agiscono continuamente è qualcosa a cui non siamo più addestrati, ma che era la raccomandazione sia del vecchio materialismo di tradizione marxiana, sia del buddismo: “Tu devi sapere esattamente dove sei messo, come sono fatte le relazioni del mondo nel punto in cui lo abiti, per onorare il fatto che un sacco di cose ti tengono in vita, ti permettono di continuare a mangiare, a respirare, a vestirti, ad amare, a desiderare…”. Ecco, questa tessitura costitutiva è fatta di umani ma anche di non umani, e imparare a riconoscere che cosa agisce effettivamente nei nostri mondi sarebbe, penso, un gran bel modo per muovere dolcemente, e senza voli pindarici, verso forme di reincanto. Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio, l’ultimo libro di Amitav Ghosh, il saggista e romanziere indiano, dal punto di vista di un occidentale, è geniale, perché in 400 pagine mostra fino a che punto un’entità non umana come il papavero da oppio sia stata una forza propellente del colonialismo. Ecco, è esattamente quel tipo di sguardo che forse dovremmo cominciare a sviluppare: lo sguardo che vede tutte le relazioni, e che nelle relazioni riconosce movimenti, intenzioni, desideri, spostamenti, vettori che non sono soltanto quelli umani a detrimento di tutti gli altri. -------------------------------------------------------------------------------- L’intervista è stata realizzata – in collaborazione con Riccardo Troisi – in vista della due giorni di iniziative “Partire dalla speranza e non dalla paura”, promossa dalla redazione di Comune presso il Polo civico Esquilino, a Roma, venerdì 7 e sabato 8 novembre: -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUEST’ALTRO ARTICOLO DI STEFANIA CONSIGLIERE: > Disperate speranze -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché è difficile riconoscere mondi nuovi proviene da Comune-info.
Le ragioni dello sperare
CI SONO ALMENO TRE INSEGNAMENTI DI ERNST BLOCH CHE ILLUMINANO IL TEMPO CHE VIVIAMO. IL PRIMO: LA SPERANZA NASCE DAL BUIO, DAL TRAGICO CHE INVESTE INDIVIDUI E POPOLI: IL SUO STRAORDINARIO IL PRINCIPIO SPERANZA LO SCRIVE NELL’ESILIO STATUNITENSE DAL 1938 AL 1949, GLI ANNI DEL NAZISMO, DEL FASCISMO, DELLA GUERRA E DI HIROSHIMA. IL SECONDO: LA SPERANZA SI IMPARA, GLI INDIZI POSSIAMO CERCARLI NEL PRESENTE, NELLE RELAZIONI E NELLA VITA DI OGNI GIORNO, NON SOLO NELLE GRANDI COSE. LA SPERANZA, AD ESEMPIO, SI TROVA IN QUELLA GALASSIA DI MICRO-MOVIMENTI DI BASE CHE IN TUTTO IL MONDO OFFRONO RISPOSTE A BISOGNI PRIMARI COME LA CASA, LA SALUTE, LA SALVAGUARDIA DELLA BELLEZZA. IL TERZO: IMPARARE A SPERARE È UN COMPITO ARDUO, RICHIEDE DI CONTRASTARE LA DIFFUSA CONVINZIONE CHE LA REALTÀ SIA IMMUTABILE ANCHE SE INSOPPORTABILE. SU COSA FAR LEVA? SCRIVE GIULIANA CHIARETTI IN LIBERARE LA SPERANZA (ENCICLOPEDIADELLADONNE.IT): «PENSO A QUEL SENTIMENTO DI LIBERTÀ CHE PROVIAMO QUANDO CI È DATA LA POSSIBILITÀ DI “UNA CONTROMOSSA CHE CONTRADDICE IL CATTIVO PRESENTE” E CHE PER ESSERE TALE NON AVVIENE NELL’ISOLAMENTO, NEL PURO ATTIVISMO INDIVIDUALE, MA DEVE ESSERE COMPIUTA INSIEME AD ALTRE E ALTRI. NON SI SPERA MAI DA SOLI…» Mensa comunitaria nella striscia di Gaza (progetto SOS Gaza, promosso da Gaza Freestyle, Mutuo Soccorso Milano, Centro Vik-Vittorio Arrigoni, Acs- Associazione di Cooperazione e Solidarietà, Dis- Donne in Strada) -------------------------------------------------------------------------------- Le ragioni dello sperare Accudisco il presente come un ponte di corda tra due abissi. Ne rattoppo i fianchi. Olio le funi, testo la tenuta del fondo. Non lo attraverso. Osservo i passanti mattino pomeriggio,, prime ore della sera tornano e vanno. Di notte dormo, sul ponte che vacilla, spavaldo nelle intemperie. (Chandra Candiani, Pane del bosco, 2020-2023) La speranza ha a che fare con il presente, ne accompagna con il suo pathos la vita e la conoscenza, sollevandole e portandole al di là del qui ed ora, senza pretendere di liberarle interamente da quelle opacità che caratterizzano entrambe. Parole che traggo da Il principio speranza di Ernst Bloch, punto di riferimento per queste pagine dedicate alle ragioni dello sperare. La traduzione italiana di quel libro sembra segnata da uno strano destino. Dopo essere stata a lungo attesa giungeva a noi nel 1994, proprio “nel momento sbagliato”, come ebbe a scrivere Remo Bodei, in apertura alla sua Introduzione al testo: “Questo libro sembra giungere al lettore italiano nel momento sbagliato, quando le quotazioni del ‘principio speranza’ e dei connessi ideali di utopia si approssimano alla zero. Al sospetto diffuso che essi abbiano provocato immani disastri nel recente passato – proprio mentre promettevano il paradiso in terra – si accompagna la percezione disincantata di un futuro imprevedibile e disperatamente improgrammabile in direzione del meglio”. Quegli anni, invece, erano il momento giusto, il momento in cui occorreva riaffermare le ragioni della speranza proprio nel senso di Bloch: come “affetto” e arricchita da una conoscenza sul presente storico. Lo stesso Bodei, concludendo l’introduzione, invitava il lettore a riscoprire quelle ragioni nell’opera di Bloch, e penso avesse in mente fossero da riscoprire anche nei cambiamenti che allungavano su di essa non poche ombre. È innegabile che la fine del sogno in un mondo conciliato con sé stesso, l’esaurirsi della fiducia nelle “grandi promesse”, portassero a decretare l’inattualità del pensiero utopico di Bloch. Ma è in ogni pensiero inattuale, proprio lì “con tutta probabilità, che si annida il futuro, l’inespresso che attende il suo riscatto”: “Interrogarsi sullo stato attuale degli studi blochiani in Italia significa, implicitamente, porsi l’interrogativo circa l’attualità stessa del filosofo della speranza. Domanda cui si potrebbe rispondere con una provocazione: se Bloch fosse attuale non avrebbe futuro. L’inattualità, infatti, è un elemento qualificante della filosofia della speranza, perché misura l’ostinatezza con cui certe idee riaffioreranno alla luce della storia tradendo, temporaneamente, il loro fluire carsico”. Uno degli insegnamenti di Bloch è che la speranza nasce dal buio, dal tragico che investe individui e popoli. Si dedica alla scrittura del testo negli anni dell’esilio americano, dal 1938 al 1949: gli anni dell’immenso disastro che sono stati il nazismo, il fascismo, la guerra e l’atomica Little boy su Hiroshima, anni che hanno sconvolto il mondo umano e naturale. È allora che Bloch disegna “la grande mappa di tutti i territori della speranza”, realizzando quella che ancora oggi è l’unica e vera “enciclopedia della speranza”. Era il momento giusto Il 1994 è il momento giusto per la pubblicazione di questo libro. Perché si è compiuta l’affermazione del neo-liberismo come “la nuova ragione del mondo”, la nuova promessa, “una ricetta di arricchimento generalizzato”. E un ben diverso principio punta a divenire egemone: il principio della concorrenza, “come forma generale delle attività di produzione e come principio base dell’azione dello Stato e di quella dell’individuo”. L’affermazione del neoliberismo non riguarda solo l’economia. Le ricadute culturali e ideologiche vanno a toccare in profondità la vita relazionale e sociale delle persone, il loro “mondo dentro”. Profonda, infatti, è l’influenza e l’ampio consenso che la dottrina neoliberale conquista: un pensiero “unico”, un insieme di “verità” accettate come se fossero naturali. La migliore sintesi di tale pensiero si trova negli slogan pronunciati da Margaret Thachter: “la società non esiste, esistono solo gli individui”; “l’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”, “There Is No Alternative”. Slogan che sanno di assoluto, che evadono la domanda di senso, inneggiano al primato del mercato, alla soddisfazione dei bisogni singoli, alla competizione che rischia di assumere la forma estrema dell’arrivismo, alle aspirazioni particolaristiche che indeboliscono il senso dell’interesse generale e dei valori di solidarietà e giustizia, fino a quel momento considerati universali. Il successo dei principi e dei valori della dottrina neoliberista, il fatto che sia riuscita a incarnarsi in un’effettiva “forma di vita”, ci avverte che non è stato solo un inganno. È stata una risposta al disagio, alle ansie e paure di quei decenni; ha potuto far leva su emozioni e sentimenti, e sull’assenza-debolezza di alternative politiche. Al suo grande e iniziale successo contribuirono anche il desiderio di libertà, lo spirito anti-istituzionale e antiburocratico sostenuto dai movimenti degli anni Sessanta, che la dottrina neoliberale riprese, esaltò e interpretò a suo modo. “Cambiare il cuore e l’anima”: Bloch aveva ben presente la forza della propaganda che muove sentimenti, fantasie ed emozioni, che mette in campo anche simboli e archetipi per ottenere consenso: un giacobinismo del mito, così definiva il nazionalsocialismo. Nell’articolo “Socrate e la propaganda”, scritto negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, Bloch, cui non mancava il gusto dell’ironia, racconta un aneddoto circa la natura del desiderio in campo politico. “Ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino. Il rappresentante del Kpd tiene un discorso estremamente complesso, tecnico e irto di cifre sulla caduta tendenziale del saggio di profitto in Marx, di cui nessuno capisce niente. Arriva il nazista e, usando sfacciatamente dei miti falsi, ma che toccano corde profonde dell’animo umano e di quello dei tedeschi in quel particolare momento storico (l’identità, l’appartenenza, la patria), parla di pugnalata alla schiena, di tradimento, ed esce alla fine trionfante dal confronto”. Già prima della pubblicazione de Il principio speranza, Remo Bodei nel saggio La speranza dopo il tramonto delle speranze individuava alcuni tra i nodi fondamentali che stavano ridisegnando una “nuova forma di vita”: l’indebolimento delle esperienze acquisite, lo svanire del senso della tradizione e di un futuro laico che accolga una speranza progettuale. Muta il senso e il modo di vivere il presente; svincolato dalle tradizioni e dall’impegno di costruire un futuro, si colora di un particolare senso di libertà limitato a sperimentare le buone occasioni del momento, a godere dell’immediata soddisfazione dei propri desideri. “Il soggiornare nel presente sembra talvolta avere un carattere predatorio, come se – nell’incertezza di tutte le cose – ci si affidasse a vantaggi casuali, per paura che situazioni analoghe non ritornino. Ciò porta in alcuni casi a concepire l’esistenza individuale come un bricolage di esperienze disparate, provvisorie e rivedibili. Si è sempre aperti all’irruzione del nuovo e dell’imprevisto (una volta che vengano preventivamente “normalizzanti”) ma meno coinvolti in progetti di costruzione dell’avvenire che non siano meramente tecnici”. È stato scritto e detto tanto sull’epoca delle crescenti incertezze e delle passioni tristi, e su quel tempo – il futuro – che è venuto a mancare. “Il futuro è morto”, “capitalismo senza futuro”, “il demone della paura del futuro”. Un’ondata di parole, di libri, di saggi, di discorsi, sul venir meno della capacità di sperare e sulla fatica a trovare un senso al presente. Un’ondata simile scorre su youtube e ogni altro tipo di social network. Non è chiaro l’effetto di tutti questi discorsi, ma c’è il rischio che rafforzino la convinzione che non ci sia via d’uscita, e non rimanga altro che adattarsi alle cose così come stanno. Nei giovani risuonano spente le parole che alludono alla speranza: il senso del futuro è loro sfuggito di mano e barcolla sotto il peso dei tanti “chissà” che riguardano progetti e aspirazioni: chissà come, chissà dove, chissà quale, chissà quando. There is (No) Alternative Eppure, non è mancata nei decenni trascorsi fino ad oggi la ricerca di possibili alternative, in varie forme e ambiti, dove possiamo rintracciare segni di una speranza indebolita ma irrinunciabile per porre rimedi a questo cattivo presente. Ci è stato consegnato un ricco bagaglio di riflessioni, di teorie e analisi in ambito umanistico e un “pensiero critico” adeguato a cogliere la realtà nella sua sostanza instabile e contraddittoria, quindi non necessaria né immutabile, un bagaglio di cui però non molti possono disporre, confinato com’è nel cosiddetto mondo della cultura. Allo stesso modo poco sappiamo (anche perché non è facile averne un quadro completo) di quella galassia di micro-movimenti di base simili a sperimentazioni, a “pratiche del possibile”, la cui caratteristica è di affondare le radici nella concreta vita quotidiana per dare risposte a bisogni primari come la casa, la salute, l’inquinamento, la salvaguardia della bellezza o di parchi, orti e giardini. Sono come sprazzi di resistenza che vanno e vengono e che la politica finge di non vedere e forse non vede affatto. Ci sono, anche, esempi d’alleanza tra iniziative dal basso, organizzazioni di cittadinanza attiva e centri di ricerca, con l’obiettivo di “fare rete”, di acquisire voce sui problemi, di progettare soluzioni e ottenere un riconoscimento pubblico, per arrivare, fra molte difficoltà, a incidere sulle scelte politiche. Sono cresciute le tensioni nell’ambito del lavoro e della sua precarizzazione; è cresciuto il fenomeno del lavoro povero e delle famiglie povere; si sono acuiti i rischi ambientali, sanitari e alimentari, sono nati, si sono spenti e sono rinati movimenti internazionali e globali nella consapevolezza che un destino e un problema comune investano a livello planetario il tema dei beni comuni. La risposta a questo accendersi e ribollire per un cambiamento è stata repressiva e violenta. Per il ristabilimento dell’ordine, e in nome della governabilità, lo Stato mostra il suo peggiore volto autoritario e securitario e agisce di conseguenza. Predomina una logica normativa globale, procedure coercitive che fanno paura, ma che non riescono ad attenuare le tensioni, non spengono l’azione dei movimenti né impediscono il riorganizzarsi delle proteste, le manifestazioni in difesa dei diritti umani, civili e sociali. Per distrarre da tutto ciò e costruire un consenso attraverso la propaganda, si additano i nemici dell’ordine, gli attentatori a presunte integrità: gli immigrati, la comunità Lgbtq+, gli ambientalisti, i poveri. Come sempre nella storia, alta è l’efficacia della costruzione del nemico nell’opinione pubblica. La sofferenza che colpisce i corpi e le vite delle popolazioni che abitano il pianeta è il terreno dove la speranza può configurarsi come lotta, senza cessare di andare incontro a incertezze delusioni sconfitte ed è la storia umana che ce ne mostra le sue alterne vicende, il suo non desistere, le tante narrazioni che l’hanno accompagnata. Per questo non si approssimavano né si approssimano a zero le quotazioni della speranza nel senso di Bloch. Non la speranza fatalistica, passiva espressione di un’attesa inoperosa che genera illusioni, ma, come riafferma nelle pagine dedicate alla libertà di una contromossa che contraddice il cattivo presente, la speranza che ha una dimensione cognitiva e operativa, basata sul dinamismo della realtà: “Pensare significa oltrepassare. Ma in modo che quanto è semplicemente presente non venga abbandonato, e non si scantoni. Non nelle sue ambasce e nemmeno nel movimento per uscirne. Non nelle cause dell’ambascia, e nemmeno nelle avvisaglie di svolta che vi maturano. Perciò un reale oltrepassamento non va mai a finire nel vuoto pneumatico di un davanti-a-noi, dedito solo a esaltazioni e descrizioni astratte”. Pensare significa oltrepassare “Pensare significa oltrepassare” è un’espressione che, all’inizio de Il principio speranza, mi ha colta di sorpresa, mentre sfogliavo per la prima volta le pagine del libro. Per questo, penso, l’ho inseguita e a sua volta mi ha inseguito nel procedere della lettura, come parola chiave per apprendere il fondamento della speranza blochiana. Cercherò di chiarire il perché della mia emozione. Il fine è arrivare a dire perché annovero quella idea di Bloch tra le rag ioni per riscoprire il valore della speranza, anche oggi. Partirei da come Bodei commenta questo punto soffermandosi in particolare sulla parola “oltrepassare”. “In tutto l’arco dello scibile e in tutta l’estensione delle esperienze lo sguardo cerca acutamente di spingersi oltre l’immediatezza del percepito e del compreso, di penetrare l’‘ultravioletto’ attraverso un pensare (un co-agitare di concetti, immagini, fantasie) che è per sua natura un Überschein, ossia un ‘oltrepassare’ e, insieme, un ‘trasgredire’ che individua i contorni di una possibile ‘logica della speranza’”. Imparare a sperare nel senso di Bloch è dunque imparare a “co-agitare”, ad agitare dentro di sé, il fantasticare, l’immaginare, in un gioco di associazioni a vari colori, fino ad arrivare al “concetto”. È un modo di pensare che lega e distingue nello stesso movimento, che mette insieme tutti questi elementi mutuamente interconnessi. Preciserei (è importante per me) che è un movimento del corpo-mente, un punto d’incontro di fisicità sentimento intelletto: proprio per questo non è chiuso in sé stesso, tutto interiore, ma è aperto alla relazione e al mondo esterno. Non è naturale, è intriso di cultura, di memoria, trova un suo ordine, una sua forma comunicativa. La speranza si impara, afferma Bloch, se ne cercano gli indizi nel presente, la si coglie e condivide nelle relazioni e la si ritrova nella vita quotidiana, nelle piccole cose, non solo nelle grandi. La prima parte de Il principio speranza è dedicata a Piccoli sogni a occhi aperti e ci porta per mano attraverso le età della vita, esponendo come si configura la mancanza prima da bambini, poi da adolescenti, giovani e adulti fino a “quello che nella vecchiaia resta da desiderare”. Pagine da leggere, almeno il primo paragrafo Vuoto è l’inizio che comincia: “Mi desto. Fin dal primo mattino siamo alla ricerca. Siamo pieni di brama, gridiamo. Non abbiamo quel che vogliamo”. E si conclude così: “La brama del meglio resta, per quanto a lungo il meglio venga impedito. Se il desiderio si avvera, esso in ogni caso sorprende”. Tornando al punto in questione, a quel co-agitare, a quell’agire dentro di sé fantasie pensieri sensazioni, intenzionato anche all’oggetto desiderato, e dunque alla speranza come “atto orientativo di specie cognitiva”, possiamo dire che lì si compie il ricongiungimento tra ragione e sentimento; e non solo, perché (richiamo ancora Bodei) “un oltrepassare è insieme un trasgredire”. La sorpresa per me sta esattamente qui: scoprire fin dalle prime pagine che il principio speranza blochiano è in un senso più generale una critica all’affermazione della razionalità tecnico-strumentale nei diversi ambiti della vita. Di questo il testo tratta: agire la speranza è un sottrarsi alla logica raziocinante che ha messo radici nella nostra mente, lasciando che il corpo vada da sé mentre le nostre idee obbediscono a un paradigma di disgiunzione. Il paradigma che logicamente procede con il connettivo “o-o” e materialmente pretende di barrare la connessione tra il pensare e il sentire, tra corpo e mente, che esiste ed è da tempo al centro di ferventi dibattiti in ogni campo del sapere e dei miei caldi interessi. È un compito arduo; ci richiede di contrastare, come ho detto, la diffusa convinzione che la realtà sia immutabile anche se insopportabile; di vincere una certa fiacchezza – fiacchezza del corpo che è scoraggiamento dell’anima, mancato appagamento del desiderio – nel cercare le risorse scarse, ma indispensabili a fronteggiare frustrazioni e paure. Già il semplice pensare, ricondotto alla sua origine etimologica, è un “pesare”, un ponderare, un soppesare, un riflettere su quello che succede in noi e intorno a noi, compreso quello che non va bene: un “peso” difficile da portare. L’inerzia e la passività che tolgono vigore e capacità di aspirare al meglio ci riportano all’inizio di queste pagine, all’alleanza tra forze economico-sociali protese alla conservazione dello status quo e interessate solo a quei cambiamenti atti alla propria riproduzione ed espansione. Su che cosa far leva allora? Sul fatto che per gli esseri umani rinunciare alla speranza è insopportabile più di ogni altra cosa. Una conferma la troviamo nel fatto che – come scrive Bloch: “Perfino l’inganno, per funzionare, deve lavorare suscitando speranza con lusinghe e corruzione. È proprio per questo che da tutti i pulpiti si continua a predicare la speranza, ma accuratamente rinchiusa nella pura interiorità o legata consolatoriamente all’aldilà”. C’è anche qualcosa d’altro su cui far leva. Penso a quel sentimento di libertà che proviamo quando ci è data la possibilità di “una contromossa che contraddice il cattivo presente” e che per essere tale non avviene nell’isolamento, nel puro attivismo individuale, ma deve essere compiuta insieme ad altre e altri. Non si spera mai da soli. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Imparare a pensare la speranza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Le ragioni dello sperare proviene da Comune-info.
Ripensando alla speranza con Kafka
CI SONO SCRITTORI CHE RESTANO NECESSARI. KAFKA, AD ESEMPIO, CI PARLA OGGI PERCHÉ RESTITUISCE SPESSORE AL DESIDERIO SENZA RIDURLO A CONSUMO O SODDISFAZIONE, IL DESIDERIO APPARE COME LA SPINTA VITALE CHE CONTINUA A BUSSARE CONTRO IL MURO DEL REALE. NEI SUOI RACCONTI CI SONO UNA SPERANZA E UN DESIDERIO CHE NON PROMETTONO UN LIETO FINE MA CHE RESISTONO DENTRO IL BUIO, COME UNA BRACE CHE NON SI SPEGNE. “IL DESIDERIO, IN FONDO, NON SERVE A OTTENERE. SERVE A RICORDARCI CHE QUALCOSA MANCA, CHE POTREMMO ESSERE ALTRO, CHE IL MONDO COSÌ COM’È NON BASTA – SCRIVE EMILIA DE RIENZO – KAFKA CI OBBLIGA A RESTARE IN QUELLA MANCANZA, A NON VOLTARE LO SGUARDO. È LÌ CHE SI APRE UNO SPAZIO FRAGILE, MA REALE, IN CUI LA DISPERAZIONE E LA SPERANZA NON SI ESCLUDONO, MA SI ACCOMPAGNANO: UNA DÀ FORMA ALL’ALTRA, LA TIENE VIVA, LA IMPEDISCE DI DIVENTARE ILLUSIONE…” Caserta -------------------------------------------------------------------------------- In un tempo in cui tutto sembra potersi ottenere – informazioni, immagini, risposte immediate – Franz Kafka resta uno scrittore necessario. Ci ricorda che esiste un desiderio che non si appaga, una speranza che non coincide con il successo, un’inquietudine che non si lascia zittire. Nel mondo della trasparenza e dell’efficienza, i suoi personaggi continuano a cercare ciò che non si trova: un senso, una giustizia, un riconoscimento. Eppure, nel loro fallimento, custodiscono qualcosa che noi rischiamo di perdere: la consapevolezza del limite, la dignità del domandare, la forza di non smettere di cercare. Kafka ci parla oggi perché restituisce spessore al desiderio: non lo riduce a consumo o soddisfazione, ma lo riconosce come ferita, come tensione, come segno di una mancanza che è il cuore dell’umano. Kafka mette in scena esseri umani che cercano disperatamente un ordine, una legge, un riconoscimento, ma si trovano invece di fronte a un potere invisibile, impersonale, spesso assurdo. E tuttavia, in Kafka, il desiderio non scompare mai. Anche se irrealizzabile, rimane come spinta vitale che continua a bussare contro il muro del reale. Ne La metamorfosi, Gregor Samsa si trasforma in insetto, ma dentro quella condizione disumana resta un desiderio umano di amore, di comprensione. Il desiderio rivela il vuoto del mondo così com’è. In questo senso Kafka non è un nichilista: mostra la mancanza di senso come una ferita che chiede risposta. Il desiderio non crea: urta, si infrange, si consuma contro ciò che non si lascia trasformare. I personaggi di Kafka sono figure dell’attesa e della distanza. Josef K. non saprà mai di che cosa è accusato; l’agrimensore K. non entrerà mai nel Castello. Eppure entrambi continuano a cercare, a interrogare, a bussare. Non si arrendono, ma la loro ostinazione non produce salvezza: solo consapevolezza. In Kafka la realtà è un muro, e il desiderio è la mano che continua a battervi contro, pur sapendo che non si aprirà. Non è un gesto inutile: in quel battere, in quella tensione senza sbocco, si rivela la condizione umana. L’uomo desidera ciò che non può ottenere, cerca un ordine che non trova, un senso che si nasconde. Ma proprio questo fallimento lo definisce: lo costringe a vedere la propria nudità, la propria fragilità, la sproporzione tra sé e il mondo. C’è in Kafka una speranza paradossale. Non quella che promette un lieto fine, ma una speranza che resiste dentro il buio, come una brace che non si spegne. «C’è una quantità infinita di speranza, ma non per noi», scrive. È una frase terribile eppure consolante: significa che la speranza esiste, anche se non la possediamo. È altrove, in una regione che forse non appartiene all’uomo, ma che continua a illuminare le sue notti. Il desiderio, in fondo, non serve a ottenere. Serve a ricordarci che qualcosa manca, che potremmo essere altro, che il mondo così com’è non basta. Kafka ci obbliga a restare in quella mancanza, a non voltare lo sguardo. È lì che si apre uno spazio fragile, ma reale, in cui la disperazione e la speranza non si escludono, ma si accompagnano: una dà forma all’altra, la tiene viva, la impedisce di diventare illusione. Per questo Kafka non è solo uno scrittore del disagio, ma della resistenza, di quella resistenza che nasce quando, anche nel buio, una mano continua a bussare. Non per aprire una porta, forse, ma per dire che siamo vivi. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ripensando alla speranza con Kafka proviene da Comune-info.
Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto
SCAFFALE. «GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI», UNA RACCOLTA DI ARTICOLI E INTERVISTE, PER ELEUTHERA. UN OMAGGIO AL GIORNALISTA E CRITICO SCOMPARSO IMPROVVISAMENTE LO SCORSO ANNO -------------------------------------------------------------------------------- Gridare, fare, pensare mondi nuovi è il titolo della raccolta di articoli e interviste di Marco Calabria, critico e giornalista di inchiesta sociale, scomparso all’improvviso l’anno scorso, dopo aver condotto la magnifica vita operosa del cronista globale che è stato viaggiatore a cavallo (in realtà amava la bicicletta) tra lo scorso e questo secolo. Marco Calabria è stato caporedattore al “manifesto”, creatore del settimanale “Carta”, uno dei punti di riferimento dei movimenti altermondialisti, continuato nell’esperienza forte del portale Comune-info.net, ed è stato poeta e artefice di riviste e iniziative importanti, “Ombre lunghe”, “Lunaria”, “Sbilanciamoci!”, sviluppate lungo l’idea dei cantieri sociali nel primo decennio di questi difficili anni duemila. Il punto di intersezione che ha individuato la sua posizione di vita si trova all’incrocio di due coordinate: la verticale biografica della generazione per la quale “il personale è politico”; e l’orizzontale, spaziale di movimento che è stata la superficie di esplorazione, di ricerca e di composizione di altri mondi in questo mondo. Questa superficie di lettura, di scrittura e di pratica sociale emerge dalle pagine della raccolta, curata per Eleuthera dai redattori di “Comune” Gianluca Carmosino e Riccardo Troisi, che ne hanno ripreso e sviluppato temi, immagini, idee e scritture, e prefata da Raùl Zibechi, con una selezione di articoli che dalla metà degli anni novanta arriva al 2023, attraversando i momenti topici dell’ultima storia politica delle resistenze, delle rivolte e delle rivendicazioni globali e locali contro il tempo del capitalismo. Sul portale se ne possono leggere altre prove, compreso l’inizio memorabile del suo lavoro. I due eventi che in qualche modo hanno avviato la passione di Marco Calabria sono stati il ’77 sul piazzale della “Sapienza”- Università di Roma, che ha formato la gloriosa generazione dei diciottenni che hanno cacciato il segretario della CGIL Luciano Lama, e il lavoro al “Manifesto”, unica, vera fucina di giornalismo con la G maiuscola, non replicabile, e pressoché irreperibile tra le testate attuali, dedite per lo più alla sedentarietà monotona e sintetica dei social. Il luogo bio-politico della generazione ’77 è il fuori-testo a partire dal quale si è dipanata l’intensa attività editoriale e di pensiero di Calabria. Dal ’77 provengono infatti gli influssi originali del suo lavoro: l’autonomia sociale, il femminismo anti-emancipatorio della differenza, il rifiuto del lavoro e della rappresentanza, lo sguardo essenziale sulla microfisica dei poteri, il sottoproletariato urbano rivoltoso e l’ironia dissacrante di un immaginario che, se pur in un breve spazio di tempo, ha realizzato i propri sogni, la rabbia salutare contro centralismi democratici e compromesso storico. Questo fenomenale universo, che ha attraversato gli anni della sconfitta e del disincanto, ha costituito il giornalismo come esperienza critica, come “giornalismo filosofico”, diceva Michel Foucault, uno degli intervistati nel volume che Calabria curò per il “manifesto”, con la magnifica prefazione di Rossana Rossanda. Quando una sera del 1982 il giovane redattore la incontra, Rossanda «dopo aver scambiato qualche frase su come quel che facevano potesse interessare i più giovani e quel che gli anni settanta avevano significato, chiese: “Sarebbe un gran peccato che questa nostra storia non interesserà più nessuno”…». (Le interviste, il manifesto e il mondo). In quel momento, si può immaginare che il lavoro di Marco Calabria assume il senso del giornalismo come passione politica, come sguardo di parte per la verità del mondo, contro le menzogne del potere. Questa pratica critica era per sé movimento, esodo dalla società del lavoro e dai dispositivi di disciplina, l’andare continuo e sperimentare modi, forme di vita, ricerche e materiali per la fuoriuscita dal capitalismo. “Bisogna muoversi di continuo” è stato il suo principio di vita, per sperimentare la nuova lingua dei movimenti sociali di fine secolo e inizi del terzo millennio. In questo cammino, che riconosciamo comune, ci sono Eduardo Galeano, Toni Negri, Franco “Bifo” Berardi, Gustavo Esteva, il subcomandante Marcos, il Chiapas e il sudamerica, cioè una delle parti potenti dell’intelletto collettivo che continua a fare storia del presente. Di questa storia avrebbero fatto segno le traduzioni del testo di John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, sintesi della pratica dei movimenti altermondialisti sull’esempio zapatista e di Disperdere il potere, del teorico e cronachista dei “sottoscala” del mondo, Ràul Zibechi. Nella prefazione scrive che Marco “era parte di quell’altro mondo che non solo sognava, ma di cui sentiva i battiti”, perché forse, come Walter Benjamin, era anche lui un poeta dell’inappariscente. Questa compresenza biografico-politica proviene a sua volta dal pacifismo anarchico di Danilo Dolci che diede una definizione di “dominio” come agente infestante i territori psico-sociali più che i luoghi simbolici del potere. Della lezione di Dolci, Calabria assumeva l’orientamento: evitare di intendere il dominio come il grande Moloch, come lo stato-Leviatano; piuttosto avvertirlo nella dispersione dei rapporti di potere che investono diversi strati delle società e attraversano la soggettività. Quella di Calabria era un’identità in transito, come egli stesso ha definito la vicenda biografica di Carolina Meloni Gonzales, filosofa politica femminista, in esilio dal golpe in Argentina, autrice di Transterrados. Questo è lo spazio politico in cui Calabria ha “fatto” movimento, cioè ha perseguito la pratica del comune che ha animato l’informazione indipendente tra Genova 2001 e l’invasione dell’Iraq (2003). Il settimanale “Carta” viene da là, dall’invenzione di località globali che hanno connesso moltitudini e territori. In un testo del 2012, molto teorico e non astratto, Senza dominio, leggiamo che per sottrarsi alla servitù volontaria oltre all’immaginazione serve restare in silenzio anche per lunghi periodi per imparare ad ascoltare. Togliere parole. Vivere senza dominio non significa reprimere un istinto, ma anzi, aggiungiamo, portarlo all’estremo quando si avverte la cattura e farlo diventare intelligente quando si pensa di essere liberi. Leggendo il libro si cammina domandando come ha insegnato lo zapatismo, ed è sulla superficie del mondo da viaggiare, soprattutto per contrastarne la turistizzazione, che si fa tappa sulla storia recente delle insorgenze che sono “dentro e contro”, ma per andare fuori e lontano, per disertare – ultima prova in vita del mondo in rovina. Nella raccolta ci sono le testimonianze dirette di rivendicazioni e conflitti che sono lotte per la sopravvivenza, comunque animate dalla speranza che è fragile, discontinua e disarmata. La prima guerra di Bosnia, Taranto e la morte per ILVA, le operazioni sporche del Plan Colombia in Honduras, le lotte campesine, le prime rivolte popolari per l’acqua e le inchieste sugli spazi sociali a Roma sono i capitoli della raccolta che riepiloga l’epoca dei movimenti restituendo centralità alle periferie prima che la ferocia euroatlantica suscitasse le ibride alleanze dell’ex-sud del mondo. C’è inoltre la testimonianza più efficace della guerra ai migranti, combattuta agli inizi degli anni ottanta con la Rete antirazzista e che bisogna confrontare con gli ultimi rapporti sull’accoglienza. Nell’Introduzione al Rapporto del 2020 (“Benvenuti ovunque”) leggiamo la differenza tra le migrazioni viste allora come problema di accoglienza e la guerra attuale alle e ai migranti, affondati, respinti e deportati, – bersagli del razzismo di stato e dell’ossessione identitaria, dispositivo di sicurezza applicato all’intera popolazione. Calabria aveva un’attenzione speciale per i bambini, le scuole, le classi, quelle nei quartieri considerati “disagiati” e in cui invece c’è la maggiore ricchezza psico-sociale non catturata. Si può supporre cosa avrebbe scritto delle ridicole avvilenti “riforme” del ministero dell’Istruzione e Merito. Ma preferiamo prevedere come si faceva nel ’77 che “un risotto li sommergerà”. Perché comunque essere scelti per l’esilio sull’esempio della grande filosofa Maria Zambrano, apre molteplici divenire: essere nomadi, essere leggeri, essere particelle, essere impercettibili e fare l’amore come l’ape e l’orchidea. -------------------------------------------------------------------------------- Una versione ridotta è apparsa su il manifesto (che ringraziamo) del 23 settembre 2025. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Marco Calabria, una traiettoria politica e di vita tra il ’77 e il manifesto proviene da Comune-info.