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Dove siamo?
-------------------------------------------------------------------------------- Migliaia di persone sono in fuga in questi giorni da Gaza (Ph pixabay.com) -------------------------------------------------------------------------------- All’inferno. Ogni discorso che non parta da questa consapevolezza, siamo all’inferno, è semplicemente privo di fondamento. I gironi in cui ci troviamo non sono disposti verticalmente, ma disseminati nel mondo. Ovunque gli uomini si associano, producono inferno. I gironi e le bolge sono dappertutto intorno a noi, che riconosciamo, come nei caprichos di Goya, i mostri e i diavoli che li governano. Cosa possiamo fare in quest’inferno? Non tanto o non solo, come diceva Italo, custodire una parcella di bene, quello che nell’inferno non è inferno (riferimento alla citazione “Riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” provenente dal libro Le città invisibili di Italo Calvino, amico fraterno di Agamben, ndr). Poiché è stata anch’essa, tutta o in parte, contaminata – in ogni caso no te escaparas. Piuttosto fermati, taci, osserva, e, al giusto momento, parla, spezza la cortina di menzogne su cui riposa l’inferno. Perché lo stesso inferno è una menzogna, la menzogna delle menzogne che impedisce il varco al non inferno, al lietamente, semplicemente, anarchicamente esistente. Al mai stato che l’inferno ogni volta ricopre col suo stato, come se non ci fosse altra possibilità al di fuori delle bolge e i gironi in cui ti hanno già sempre necessariamente iscritto. Sii tu il punto, la soglia in cui lo stato viene meno, in cui sorgivamente sbuca il possibile, la sola vera realtà. Il pensiero non consiste nel realizzare il possibile, come i demoni ti invitano a fare, ma nel rendere possibile il reale, nel trovare una via di uscita dall’ineluttabilità dei fatti che l’ideologia dominante cerca di imporre in ogni ambito – e innanzitutto nella politica. Mentre nell’infernale vocio intorno a te tutti cercano di realizzare diabolicamente, tecnicamente a qualsiasi costo il possibile, per te ogni stato, ogni cosa, ogni filo d’erba, se li percepisci nella loro verità, diventano nuovamente, silenziosamente, lucidamente possibili. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra i i libri più importanti di Giorgio Agamben: Homo Sacer. Edizione integrale 1995-2015, (Quodlibet) e L’uomo senza contenuto (Quodlibet). Il suo ultimo libro invece è Amicizie (Einaudi). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dove siamo? proviene da Comune-info.
A Cascina Rapello festeggiare è un atto di resistenza e di speranza
Lo scorso fine settimana si è tenuto il Rapello Folk Festival. Matteo Rossi, il presidente della cooperativa Liberi Sogni, organizzatrice dell’evento, ha condiviso con noi una riflessione sul senso di organizzare un’occasione di festa in questo momento storico. Per la quinta edizione del Festival ospitato da Cascina Rapello ci siamo chiesti: che senso ha festeggiare mentre Gaza è sotto le bombe, mentre tanti altri bambini e civili sono vittime di altre guerre, mentre il drastico aumento per le spese di  riarmo dice che la guerra stessa si avvicina anche a noi e tutto dimostra che ne siamo sempre più intrisi?  Che senso ha festeggiare mentre anche dalle nostre parti si impongono nuove zone rosse e altre barriere e si espande la cultura di chi metaforicamente e fisicamente lascia affogare in mare chi emigra per una vita  migliore? Che senso ha parlare di difesa dell’ambiente o delle tradizioni, quando anche sul nostro territorio  anonimi centri commerciali nascono in ogni dove e il mercato penetra in ogni ambito della nostra vita? Che senso ha parlare di dialogo con la natura quando poco più a sud, nella Brianza che dà il nome al piccolo Monte che ci ospita e protegge, gli ultimi lembi di boschi rimasti illesi dalla cementificazione vengono  sventrati da un’autostrada a 8 corsie a pagamento – la Pedemontana? Che senso ha fare festa? Con quale spirito? La risposta che ci diamo è che la Festa, per come la intendiamo e pratichiamo, può essere un rito comunitario, espressione di Resistenza e Speranza. In tutte le comunità dei popoli originari, anche in quelle primitive, i riti di festa e danza esprimevano il bisogno innato dell’essere umano di stringersi in comunità, pratiche e linguaggi che uscissero dalla pianificazione e dalla razionalità, sincronizzando ritmi e movimenti e raggiungendo  esperienze di unione estatica attraverso la danza sfrenata. La soppressione dei Carnevali europei va di pari passo con quella delle culture originarie non europee del  resto del mondo. Ne sono dimostrazione gli irriducibili generi di espressioni artistiche giunti fino a noi, che in tutto il pianeta hanno rappresentato la più alta e vitale forma di resistenza e addirittura di rivolta contro  il dominio bianco. Dioniso, che donò il vino all’umanità, nella mitologia greca era l’unico Dio dedito alla pace e non alla guerra. Dioniso amava la pace e, come Gesù, difendeva i poveri e respingeva le gerarchie dominanti. Dioniso non veniva venerato per nessun fine che non fosse la gioia pura e semplice del rituale. Non soltanto la esige e la istiga: Dioniso è l’esperienza  estatica che definisce il sacro e lo separa dalla vita ordinaria. I mortali potevano evocarlo con la danza e era lui a “possederli” durante l’ebbrezza. Ci piace pensare che Rapello Folk sia, a suo modo, un rito dionisiaco contemporaneo, uno spazio riconquistato di Festa fuori dal tempo, per una comunità che si rinnova, si apre e si allarga, rafforzando o  creando nuovi legami tra persone di diversa età, in un luogo sacro dove la natura ancora è maestra e  domina su tutti noi umani. Donne e uomini, giovani e anziani, bambini e bambine che si incontrano, collaborano, danzano e cantano coi propri corpi e le proprie voci, per tre giorni e due notti, all’insegna della  convivialità. Un’esperienza dove l’incontro vero, al di fuori di ogni algoritmo o intelligenza artificiale, fa riscoprire la meraviglia e la magia dell’inaspettato. Come le forme più esasperate e violente del colonialismo non sono riuscite a estirpare culture profondamente radicate, fare festa significa, anche nel presente, rinnovare e innovare pratiche e culture  che esprimono una tenace resistenza al dominio totalitario che oggi, se abbiamo il coraggio di volerlo  guardare in faccia, prende la forma di un frontale attacco all’umano, con la digitalizzazione dei corpi e del  pensiero, con asettici algoritmi e gli apparati dell’ intelligenza artificiale che minano la nostro innata  intelligenza ecologica e il nostro naturale istinto alla vita. Una festa low tech di irriducibile convivialità, a partire dai nostri corpi, come un momento autentico e  ricchissimo nella sua semplicità, di raccoglimento felice contro la depressione che ci invade. Dove i sapori sono veri e genuini, il cibo viene coltivato almeno in parte nelle nostre terre e cucinato con le nostre mani, dove note e voci sono rigorosamente dal vivo in forma acustica o con strumentazione minima grazie ad artisti bravissimi ma non blasonati, dove si crea una profonda simbiosi tra l’arte e la natura che ci accoglie e  tutto è reso possibile grazie a decine di volontari di tutte le età che collaborano fianco a fianco. Musica, storia, terra, biodiversità, comunità, convivialità, autenticità, sogno, reincanto: tutto questo è profondamente politico, un’esperienza di incontro e di Resistenza culturale e umana, negli interstizi del  deserto che avanza, dove piccole comunità si ostinano a voler vivere e reinventarsi continuamente fuori  dalle logiche del tutto previsto. Perché Rapello Folk esce dall’artificiosità, dall’omologazione e dall’asetticità del tutto previsto e  organizzato. Chi incontrerai nelle lunghe tavolate, con chi ballerai fino a tarda notte, quello che succederà  durante la tre giorni non è prevedibile e programmabile. Una parte della  festa è semplicemente e felicemente fuori controllo. Quel controllo ostinato a cui dedichiamo indicatori, sforzi, risorse. Maciej Bielawesky teologo, studioso di ecosofia e ospite a Cascina Rapello di Transizioni Fest, ci parlava di armonia dell’invisibile. E forse questa armonia ha a che fare anche col Reincanto del  mondo, tema dipanato dall’antropologa Stefania Consigliere e ripreso nel laboratorio teatrale tenuto da  Giulia Galli e Gabriel Popham sempre a Transizioni Fest. Lo slogan di Rapello Folk 2025 è stato “Fa no la guera, Bala!”. Si tratta di riappropriarsi e di dar vita a spazi per  stare insieme, far musica, ballare, ridere e creare nuove narrazioni che rimettono al centro la Speranza. Speranza come forza sociale e trasformativa. Un festival di gioia, di Resistenza e reincanto, nella  consapevolezza che disincanto, rassegnazione, colonizzazione dell’immaginario, assuefazione sono le arme  più efficaci del potere per deprimerci e paralizzarci. Un Festival dove ricercare insieme le nostre radici e culture, dove liberare e sprigionare sogni ed energie, dando vita a nuove possibilità. Un festival che si dipana tra i prati e i boschi di un luogo meraviglioso: Cascina Rapello. Un festival autogestito e a ingresso libero che è stato reso possibile dall’impegno quotidiano della Cooperativa Sociale Liberi Sogni, dall’accurata ricerca nell’ambito della cultura popolare dell’Associazione Lo Stivale Che Balla,  dalla dedizione dei volontari e delle volontarie, da tanti piccoli sponsor, come botteghe ed esercizi  commerciali del territorio, dalla generosità e dallo spirito degli artisti e dai contributi e dalle offerte a  cappello che verranno donate dopo ogni concerto dai partecipanti.   Italia che Cambia
Con quel che resta del mondo
-------------------------------------------------------------------------------- Gaza (pixabay.com) -------------------------------------------------------------------------------- Dopo il ritorno definitivo dal Niger e quattordici anni di permanenza nel Sahel maltrattato da gruppi armati che usano la morte e il terrore come strategia. Dopo che le frontiere che si armano da troppe parti e i muri spuntano dappertutto al quotidiano. Dopo i morti migranti di chi cerca un altro mondo nel mondo. Dopo che le armi e le guerre che le utilizzano per perfezionarle sembra ormai la diplomazia tra Paesi con interessi divergenti. Dopo che gli imperi tornano a mostrare con arroganza il volto cinico del potere che non avevano mai abbandonato. Dopo che le illusioni del progresso illimitato e della globalizzazione felice sono state realizzate. Dopo che la giustizia sociale appare tradita e venduta per alcune denari di “coesione sociale”. Dopo che le grandi narrazioni della storia hanno lasciato il posto alla cronaca del quotidiano. Dopo i colpi di stato militari che tutto promettono di rifondare perché nulla cambi. Dopo tutto ciò ci si dovrebbe domandare che fare con ciò che resta del mondo. Dopo l’ipocrisia del diritto internazionale con applicazione variabile. Dopo la democrazia esportata di forza e mistificata alla sorgente dalla sete di potere e del denaro. Dopo aver mutilato il mistero della persona umana alla sola dimensione del commercio e del consumo. Dopo aver continuato a scavare il fosso che separa i mondi tra chi può viaggiare liberamente e chi è destinato a scomparire tra i superflui. Dopo aver dichiarato e subito dopo confiscato l’affermazione che tutte le persone nascono uguali in dignità e possibilità. Dopo avere lottato per anni le conquiste del lavoro e vederle diluirsi nello sfruttamento programmato dell’esclusione a partire dalla nascita. Dopo le ideologie che hanno ingabbiato la realtà falsificandone i contorni e la portata sovversiva. Dopo aver creduto alla redenzione attraverso la violenza sacrificale degli innocenti. Dopo avere mentito per anni sul senso della storia per ritrovarsi in una storia senza senso. Che fare con ciò che resta del mondo. Dopo l’epoca coloniale quella imperiale e infine quella del nulla o nichilista. Dopo che la merce e il mercato diventano tutto e tutto diventa mercanzia, compreso il corpo umano. Dopo che le parole sono state, svilite, svuotate, offese, manipolate e travisate da impostori. Dopo che si è banalizzata la violenza. Dopo che il confine tra vero e falso è reso negoziabile a seconda degli interessi. Dopo che la giustizia si è gradualmente trasformata in carità poi diventata appannaggio dell’ambiguità umanitaria. Dopo che i ricchi e i potenti hanno confezionato il mondo a loro immagine e somiglianza. Dopo che le religioni affiancano il potere per garantirne la durata e la stabilità. Dopo che le informazioni sono gestite da mestieranti e mercenari al soldo del dittatore di turno. Dopo che si confonde la pace con la dominazione della menzogna. Dopo che sembra impossibile credere ancora che un altro mondo è possibile. Che fare con ciò che resta del mondo. Ricucire, ripulire, rinnovare, ricreare e ridare statuto e dignità alle parole. Rigenerale la politica e rimetterla davanti e prima delle scelte dell’economia. Ripristinare il senso della democrazia sostanziale a partire dai dimenticati, emarginati e traditi. Riscrivere la storia con e degli umiliati, impoveriti, abbandonati e svenduti del sistema. Riprendere ad ascoltare il silenzio perduto nel dolore delle madri e dei padri. Ridare spazio ai sogni e alle visioni dei giovani, soli a immaginare un mondo che ancora non si intravvede. Riconciliare l’utopia del disarmo senza sfilate militari, fabbriche di armi e testate nucleari. Rieducarsi a cancellare dal lessico ogni traccia di nazionalismo armato perché escludente dell’altro. Risuscitare la verità sepolta nelle lacrime degli esiliati quando troveranno una dimora. Riparare i ponti abbandonati e distrutti dall’indifferenza. Rifare quel che resta del mondo per affidare al vento, ogni mattina, le poesie dei bambini. -------------------------------------------------------------------------------- Mauro Armanino, Casarza Ligure, settembre 2025 -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Il capitalismo è sinonimo di criminalità -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Con quel che resta del mondo proviene da Comune-info.
Dai nostri corpi esausti e spezzati…
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Red de Apoyo Iztapalapa Sexta, che ringraziamo -------------------------------------------------------------------------------- “La nostra professione è la speranza… dai nostri corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” con queste parole, trascritte da John Berger, il subcomandante Marcos, ci consegna una delle visioni più profonde e rivoluzionarie della lotta politica contemporanea. Non si tratta di un manifesto ideologico, ma di una dichiarazione esistenziale che ridefinisce il senso stesso della resistenza. Berger ci ricorda che gli zapatisti non hanno un programma politico da imporre. La loro forza non risiede in un’agenda dettagliata di riforme o in una strategia di conquista del potere, ma in qualcosa di più sottile e potente: una coscienza politica che si propone come esempio. È questa la loro vera innovazione – trasformare la politica da imposizione a ispirazione, da conquista a contagio. La loro convinzione è quella di rappresentare i morti, “tutti i morti maltrattati…”: la lotta zapatista si fa carico non solo delle ingiustizie presenti, ma di una genealogia di sofferenza che attraversa le generazioni. “Amor y dolore” – amore e dolore – “due parole che non solo fanno rima, ma che si uniscono e marciano insieme”. In questa sintesi poetica si nasconde una verità profonda: i morti non sono vittime passive da commemorare, ma compagni attivi di un cammino che continua. La loro sofferenza, intrisa d’amore per la giustizia e per la propria gente, diventa eredità trasformativa. I morti zapatisti non reclamano risarcimenti o punizioni – chiedono che la loro sofferenza non sia stata vana. Il loro dolore si trasforma in energia costruttiva, in forza propulsiva verso un mondo che ancora non esiste ma che deve nascere. È una logica generativa. In questa visione, il tempo non è una linea che separa nettamente passato, presente e futuro, ma una spirale dove le generazioni si intrecciano. I morti camminano con i vivi, e i vivi preparano la strada per chi non è ancora nato. Ogni gesto di resistenza, ogni atto di cura, ogni momento di dolore vissuto con dignità diventa parte di un patrimonio collettivo che si trasmette e si moltiplica. Non si tratta di portare sulle spalle il peso del passato, ma di riconoscere di essere parte di un movimento che attraversa le generazioni e che dà senso anche ai gesti più piccoli e quotidiani. “La nostra professione è la speranza” – Così dice Marcos. Non si combatte solo contro qualcosa, ma per qualcosa che ancora non esiste. La speranza diventa pratica quotidiana, disciplina rigorosa, mestiere che si apprende e si perfeziona. Dai “corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” – non attraverso la vittoria nel senso tradizionale, ma attraverso una nascita che richiede tutto: vite, corpi, anime. Il sacrificio non è fine a se stesso ma generativo. Gli zapatisti hanno intuito qualcosa di fondamentale: nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione istantanea, l’esempio può essere più potente della conquista. Una comunità che riesce a vivere diversamente, che dimostra che altri rapporti sociali sono possibili, che pratica la giustizia invece di limitarsi a rivendicarla, diventa un faro per chiunque nel mondo cerchi alternative. Non si tratta di esportare un modello, ma di mostrare che la trasformazione è possibile. Ogni comunità troverà le sue forme, i suoi ritmi, le sue modalità – ma l’esempio zapatista dimostra che si può vivere la politica come atto d’amore, la resistenza come creazione di futuro, la lotta come professione di speranza. In fondo, continuare la lotta è già una forma di vittoria. Significa che non sono riusciti a spezzare lo spirito, a interrompere la trasmissione di valori, a cancellare la speranza. La continuità stessa diventa atto di resistenza. I morti zapatisti vivono come semi che germogliano, come energie che si trasformano, come voci che continuano a parlare attraverso i gesti quotidiani di chi porta avanti la loro eredità. In un mondo che sembra aver perso la capacità di immaginare alternative, gli zapatisti ci ricordano che la rivoluzione più profonda potrebbe essere quella di ritrovare il senso del sacro nella lotta politica, non il sacro come dogma immutabile, ma come rispetto profondo per la vita, per i morti che ci hanno preceduto e per i non ancora nati che verranno dopo di noi. La loro professione è la speranza. E forse, in questi tempi difficili, non c’è mestiere più urgente da imparare. Mentre il mondo del 2025 si dibatte tra polarizzazioni crescenti, guerre che sembrano non avere fine e la tentazione sempre più forte di rispondere alla violenza con altra violenza, la lezione zapatista risuona con particolare urgenza. Come scriveva ancora Marcos: “Il nostro compito non è quello di vincere, ma di costruire. Non è quello di distruggere l’altro, ma di costruire noi stessi”. In un’epoca che chiede scelte radicali, forse la vera radicalità sta proprio qui: scegliere di essere semi invece che macerie, di professare speranza invece che seminare disperazione. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Ascoltare i morti -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dai nostri corpi esausti e spezzati… proviene da Comune-info.
Il Tavolo della Pace di Rovigo contro tutte le guerre e per la tutela dei diritti umani
Piazza Vittorio Emanuele II – Rovigo Venerdì di giugno 6-13.20-27 dalle 19 alle 19.30 Un momento di presenza silenziosa, per le vittime civili di Gaza e per chiedere un cessate il fuoco immediato Piazza Matteotti – Rovigo Venerdì di luglio 4-11-18-25 dalle 19 alle 19.30 Venerdì di agosto 1-8-22-29 dalle 19 alle 19.30 Un presidio sonoro scandito dal suono delle sirene e interventi liberi. Per le vittime civili di Gaza e per chiedere un cessate il fuoco immediato. È iniziato a giugno il sit-in per la Palestina a Rovigo, organizzato dal Tavolo della Pace contro tutte le guerre e per la tutela di tutti i diritti umani. La decisione è stata presa per l’inerzia dei nostri governanti, sia nazionali che locali nel diffondere informazioni su quello che sta succedendo in Palestina. La maggioranza dei media non riportano ciò che sta succedendo a Gaza e in tutta la Palestina. Al Tavolo partecipano una quarantina di associazioni che hanno a cuore la pace e i diritti umani e la sua presa di posizione è stata netta. Questa solidarietà nasce dall’esigenza di essere presenti, una volta alla settimana, per dimostrare la vicinanza ad un popolo martoriato che sta subendo un’oppressione da molti anni. I mass media comunicano solo il fatto che sta succedendo e non cosa si potrebbe fare per bloccare questo “genocidio” di persone inermi. La parola pace si sente nominare molto poco, mentre si parla molto di riarmo. Il menefreghismo del nostro Occidente è palese; non si vede via d’uscita, solo parole, parole, parole, o incontri che non portano a nulla di fatto, mentre le vittime innocenti aumentano di giorno in giorno. Ha fatto bene anzi il cardinale Matteo Maria Zuppi a leggere i nomi dei bambini uccisi a Gaza a Monte Sole, teatro nel 1944 di uno più atroci eccidi compiuti dalle truppe naziste in Italia, in cui morirono circa 770 civili, ricordando l’appello per la pace del Papa: «Ciascuna vittima di ogni conflitto e particolarmente i bambini non sono mai semplicemente un numero, ma un volto, un nome e una storia». Nei nostri sit-in si raccontano le loro storie, la loro capacità di sopravvivere in uno spazio desolante come sono oggi Gaza e tutte le città palestinesi sotto assedio. Recitare una poesia di un poeta palestinese è importante, vitale e ci fa conoscere la loro cultura, la loro dignità, il loro vivere quotidiano in un Paese che non ha mai avuto il permesso di chiamarsi tale. Con questi incontri di solidarietà cerchiamo di mettere in luce la loro forza vitale e imprimere in noi un desiderio che tutto possa finire. Non ci resta che resistere al male e all’indifferenza, ma sappiamo anche che la forza che mettiamo in queste azioni è una forza solidale e unita a tante altre forze e può darci la speranza che possa succedere qualcosa. Remo Agnoletto (Presidente Associazione Centro Documentazione Polesano, che fa parte del Tavolo della Pace contro tutte le guerre e per la tutela di tutti i diritti umani di Rovigo). Redazione Italia
Dove cercare la speranza nella terra tra il fiume e il mare? Seconda parte
Yuli Novak, direttrice esecutiva di B’Tselem, l’organizzazione non governativa israeliana ultimamente citata da molti giornali per la pubblicazione del rapporto “Our Genocide” ha scritto: “Il genocidio non avviene senza una partecipazione di massa, una popolazione che lo sostiene, lo permette o distoglie lo sguardo. Questa è parte della sua tragedia. Quasi nessuna nazione che ha commesso un genocidio ha compreso, in tempo reale, ciò che stava facendo. La storia è sempre la stessa: autodifesa, inevitabilità, le vittime se la sono cercata.” B’Tselem è stata fondata nel 1989, la sua missione è documentare e denunciare violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati (Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est); pubblica rapporti, testimonianze video, indagini legali e campagne di sensibilizzazione, rivolte sia alla società israeliana che alla comunità internazionale. Nel rapporto di luglio 2025 “Il nostro genocidio”, B’Tselem sostiene che, da ottobre 2023, lo Stato israeliano ha attuato una politica sistematica di annientamento nei confronti della Striscia di Gaza che equivale a genocidio. La frase “Quasi nessuna nazione che ha commesso un genocidio ha compreso, in tempo reale, ciò che stava facendo” non è un’ennesima giustificazione, né un’attenuante per Israele. Io vedo in questa riflessione di Yuli Novak il coraggio di guardarsi allo specchio, come società e come umanità in generale. “Il genocidio è di solito il risultato di uno sviluppo graduale, nel corso di anni, di condizioni in cui un regime repressivo e discriminatorio diventa genocida. Decenni di occupazione, oppressione e apartheid hanno prodotto una profonda disumanizzazione dei palestinesi, che sono arrivati a essere visti dagli israeliani come una minaccia e come un problema da “risolvere”. Condizioni di questo tipo possono persistere a lungo senza sfociare in genocidio. Spesso, un evento violento che genera un senso di minaccia esistenziale funge da detonatore che porta alla commissione effettiva di un genocidio. Nel caso del nostro genocidio, gli orrori del 7 ottobre 2023 e il trauma vissuto dalla società israeliana sono stati, di fatto, il detonatore di un assalto totale alla Striscia di Gaza, presentato come un atto di autodifesa. L’immenso trauma degli israeliani è stato sfruttato dall’attuale governo di estrema destra per portare avanti una politica che figure chiave stavano già cercando di promuovere.” https://www.btselem.org/publications/202507_our_genocide In Turchia il genocidio armeno ufficialmente è ancora tabù. In Canada solo negli ultimi decenni il genocidio delle popolazioni indigene è affiorato alla coscienza collettiva. Per oltre un secolo (dal XIX secolo fino agli anni ’90!!) i bambini e le bambine indigeni furono sottratti alle famiglie e forzati a vivere nelle Residential Schools, dove subivano maltrattamenti, abusi fisici e psicologici, veniva loro impedito di parlare le proprie lingue e mantenere la propria cultura. La società canadese bianca sapeva? In Italia nella coscienza collettiva prevale ancora la rimozione o la minimizzazione del colonialismo italiano e le violenze perpetrate (uso dei gas in Etiopia, campi di concentramento in Libia, repressioni brutali in Somalia). L’immaginario popolare e mediatico italiano tende a rappresentare il colonialismo come “mite” o “umanitario”, attraverso il mito degli “Italiani brava gente”. La società italiana sapeva? In Europa i migranti “sono arrivati a essere visti come una minaccia e come un problema da “risolvere”. Le stesse parole usate da B’Tselem per i palestinesi possono essere usate per descrivere il processo di disumanizzazione delle persone migranti in Europa. Recentemente, 13 persone sono sbarcate sulla Sotillo Beach di Castell de Ferro, provincia di Granada (Andalusia). I bagnanti hanno reagito in modo aggressivo: li hanno rincorsi, afferrati e immobilizzati. In una scena si vede un uomo in costume arancione inginocchiato sulla schiena di uno dei migranti, in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Nessuno-a che abbia agito in modo compassionevole, umano… Come è possibile? E’… mostruoso… https://www.thetimes.com/world/europe/article/speedboat-migrants-spain-sunbathers-6n6gpdksj?utm_source=chatgpt.com I mostri non sono da qualche parte là fuori. Sono dentro ognuno-a di noi. E’ possibile che non siamo tra quelli-e che disumanizzano le persone migranti, rifugiati-e, Rom… Eppure, è possibile che siamo tra quelli-e che disumanizzano il fascista, il trumpiano… O se non arrivano alla disumanizzazione, comunque giocano sul territorio della polarizzazione. “Le tattiche polarizzanti, le guerre culturali e il purismo morale, scrive Evans, sono portati avanti per smuovere le coscienze e mobilitare, “ma il risultato può comunque essere più sopraffazione, meno empatia, più aggressività, meno pensiero critico, più pensiero di gruppo”. Rischiano di dividere gli attivisti per la giustizia sociale “in fazioni più ossessionate l’una dall’altra che dal porre fine all’ingiustizia che è la loro causa comune”. Con il risultato che “invece di affrontare i problemi del mondo reale, stiamo sprecando energie politiche preziose per gestire la polarizzazione stessa”. (Diego Galli, https://www.rigenerazionale.it/p/polarizzazione) A proposito di ‘purismo morale’… Standing Together è nella lista di organizzazioni da boicottare redatta da “The Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI)”, un membro fondatore del movimento BDS. L’organizzazione è accusata di “normalizzazione”, ossia di rendere normale lo status quo e richiamare l’attenzione solo su odio ed empatia, senza puntare il dito contro le cause strutturali del conflitto, l’oppressione, l’occupazione e l’apartheid. L’accusa di normalizzazione è rivolta spesso a movimenti congiunti di israeliane-i e palestinesi. Certo, la normalizzazione dello status quo e la favola della coesistenza di ebrei e palestinesi che suonano e cantano insieme è insidiosa, ma l’accusa di normalizzazione rivolta a Standing Together è altrettanto insidiosa. Si legge sul sito del movimento BDS (https://www.bdsmovement.net/standing-together-normalization) che Standing Together promuove l’idea che palestinesi e israeliani possano convivere se scelgono l’empatia invece dell’odio, però non riconosce il regime di apartheid e colonizzazione israeliana come causa principale del conflitto. In realtà, Standing Together riconosce il regime di disuguaglianza e denuncia il regime di occupazione. Perché allora boicottarli? Durante un’intervista alla CNN, la giornalista Christiane Amanpour ha detto a Rula Daood, co-direttrice di “Standing Together”: “Alcuni palestinesi vi hanno criticato. Vi accusano in qualche modo di normalizzare l’occupazione. Il movimento BDS ha detto che questa è normalizzazione…”. Rula Daood ha risposto: “…Quando sei seduto comodamente a casa negli Stati Uniti o in Europa, è molto più facile guardarci senza capire le realtà in cui viviamo… A volte può essere per ignoranza… Sono una cittadina palestinese di Israele e la vita non è facile. Siamo cittadini di seconda classe… Quindi venire qui e boicottare gli unici attivisti—sia palestinesi sia ebrei—che osano opporsi a questo governo, parlare un linguaggio diverso, dire che questa occupazione deve finire, che questa guerra deve finire, che deve esserci un accordo sul tavolo affinché i prigionieri possano tornare a casa… significa semplicemente andare contro la volontà del popolo. Se sei davvero rivoluzionario, capisci che ci sono persone che soffrono e ci sono governi.” Si può guardare l’intera intervista a questo link (https://edition.cnn.com/2025/05/14/Tv/video/amanpour-green-daood ) e io l’ho riguardata. Qualcosa in me avrebbe voluto forse che Rula e Alon-Lee fossero più incisivi sulla denuncia dell’occupazione militare e sulle condizioni di apartheid, forse addirittura qualcosa in me, era infastidito dal titolo “Il dolore è un dolore reciproco”, perché come si può paragonare il dolore del gruppo degli oppressi e del gruppo degli oppressori? Eppure, come ricordano Combatants for Peace CfP nei loro inviti alla Joint Memorial Ceremony: “Nel lutto fianco a fianco, non cerchiamo di equiparare le narrazioni, ma di trasformare la disperazione in speranza e costruire ponti di profonda compassione capaci di cambiare la realtà…”. La Joint Memorial Ceremony è organizzata da CfP e dal ‘Parents Circle Families Forum’. Si svolge ogni anno alla vigilia dello Yom Hazikaron (Giorno della Memoria israeliano), che, nella cultura dominante israeliana, tende a rafforzare narrazioni culturali di dolore, vittimismo e disperazione. La Cerimonia trasforma questa narrazione portando palestinesi e israeliane/i a “piangere insieme e modellare un’altra via possibile”. Allora, sì, il dolore è lo stesso, anche se la condizione per questo riconoscimento passa per il primo riconoscimento delle asimmetrie di potere, delle strutture oppressive e delle responsabilità. “Riconosciamo la differenza nelle dinamiche di potere tra israeliani e palestinesi e usiamo i nostri privilegi lavorando insieme per resistere all’ingiustizia.” (Dal sito di CfP https://www.cfpeace.org/combatants-for-peace) I movimenti congiunti di ebrei-e israeliani-e e palestinesi subiscono il fuoco incrociato, da un lato dei palestinesi o pro-palestinesi, che li accusano di normalizzazione o non accettano che ci possano essere israeliani-e nella lotta per la Palestina libera (semplificando), dall’altro lato, degli israeliani o pro-israeliani che li accusano di essere antisemiti e/o traditori di Israele. Gli-le israeliani-e che chiedono la fine dell’occupazione sono appellati in ebraico “yafeh nefesh” ossia belle anime, con una connotazione dispregiativa di naïf, ingenui e illusi. Maggiormente, dopo il 7 ottobre, la domanda per loro è stata: “Hai smaltito la sbornia? Sei diventato più realistico-a adesso?”. Forse accade lo stesso per i-le palestinesi che credono nella co-resistenza con gli-le israeliani-e: “Come puoi fidarti con quello che sta succedendo?”. Martin Luther King nel suo discorso a Montgomery, Alabama (1957) disse: “Siamo particolarmente interessati al ruolo delle persone bianche di buona volontà. Siamo quindi grati quando troviamo membri della popolazione bianca che fanno un serio sforzo per cambiare… Cerchiamo di incoraggiarli ad agire con fermezza in accordo con le loro convinzioni più profonde.” Incoraggiare la partecipazione di israeliane-i nella resistenza al genocidio, all’occupazione e alla pulizia etnica non diluisce la richiesta di giustizia, anzi, la rinforza. Il rischio è forse, come ho letto in qualche commento, di creare degli eroi israeliani (eroi all’interno del gruppo oppressore) e lasciare in ombra le persone che resistono (del gruppo degli oppressi)? Allora, ritornando alla domanda sul 17 agosto, c’erano, sì, più immagini e foto degli ostaggi israeliani che dei bambini gazawi, sicuramente c’erano più bandiere israeliane che cartelli con la scritta ‘Stop Genocide’, eppure possiamo guardare allo stesso tempo, sia i punti ciechi della società israeliana, sia le possibilità ai margini. E a quelle voglio guardare, non oscurando il resto (e non oscurarlo significa sentire tutto il peso di questa realtà), guidata dalla speranza. La speranza non è un sentimento ma un’attitudine, non è che si ha o non si ha, ma si coltiva, o come direbbe l’attivista Maoz Inon, “si fa speranza insieme”. “La Speranza Attiva non è pensiero illusorio… La rete della vita ci chiama a intervenire in questo momento. Abbiamo percorso molta strada e siamo qui per fare la nostra parte… La Speranza Attiva è la disponibilità a scoprire le forze in noi stessi-e e negli altri; la disponibilità a scoprire la grandezza e la forza dei nostri cuori…” (Joanna Macy) E dunque, ‘fare speranza’ per me e mettermi dentro e non fuori del quadro a cui guardo, è in questo momento far conoscere e amplificare quella parte (sì, certo, minoritaria) della società israeliana che il 17 agosto non chiedeva la fine della guerra per salvare “i suoi”, ma incarnava un futuro di liberazione collettiva per tutte le persone dal fiume al mare. Link alla prima parte dell’articolo Ilaria Olimpico
Come recuperare il terreno della speranza
IN ALCUNI PEZZI DEL NORD DEL MONDO OGGI È PIÙ EVIDENTE LA BRUTALITÀ DEL CAPITALISMO. SERVE A POCO DIRE CHE IL CAPITALISMO È SEMPRE STATO SPIETATO, SOPRATTUTTO NEL SUD DEL MONDO, DOVE SI VERIFICANO LA MAGGIOR PARTE DEI GENOCIDI E DELLE ESPROPRIAZIONI. IL VERO PROBLEMA È CHE LA SPERANZA È FINITA NELLA MANI DELL’ESTREMA DESTRA, PER QUANTO DISTORTA. LA QUESTIONE DELLA SPERANZA, SCRIVE ANA CECILIA DINERSTERIN PRENDENDO SPUNTO DA UN ARTICOLO DI FRANCO BERARDI BIFO, NON HA NULLA A CHE FARE CON L’OTTIMISMO, IL DESIDERIO O LA FANTASIA: È UNA QUESTIONE DI CAPACITÀ INTELLETTUALE, EMOTIVA E FISICA COLLETTIVA CHE PARTE DAL SAPER RICONOSCERE E PROTEGGERE LE INNUMEREVOLI E DIVERSE LOTTE CHE HANNO COMINCIATO A ORGANIZZARE FORME ALTERNATIVE DI RIPRODUZIONE SOCIALE DELLA VITA UMANA E NON UMANA CHE NON CORRISPONDONO ALLA RIPRODUZIONE DEL CAPITALE. “IN QUESTA PRASSI NON C’È PANICO, TRAUMA O OSSESSIONE, MA BISOGNO, SPERANZA, ASPIRAZIONE, DESIDERIO, RABBIA, AMORE E DIGNITÀ RADICALE…” Agosto 2025: incontro internazionale “Algunas partes del todo” promosso in Chiapas da zapatiste e zapatisti -------------------------------------------------------------------------------- Nel marzo 2025, Franco “Bifo” Berardi ha pubblicato un intervento nella sezione “In the Moment” della rivista Critical Inquiry (University of Chicago Press), in cui affronta la questione della soggettività in tempi di depressione e panico. Si chiede: “Come costruire un soggetto sano a partire dal trauma?” (sul tema Bifo è di nuovo tornato in un articolo dell’agosto 2025, Della disperazione come strategia, ndr). La questione dell’emergere di una soggettività radicale nel suo contesto produttivo è fondamentale. In un certo senso, condivido la preoccupazione di Berardi per la situazione attuale, che egli considera una “demenza suicida derivante dalla senescenza dell’Occidente”. Tuttavia, vorrei mettere in discussione la prospettiva da cui definisce e affronta il problema. Quindi, vorrei cominciare chiedendomi: cosa rende il mondo di oggi più oscuro e più incline alla paura e al panico dei produttori rispetto a quello di ieri? Cosa spiega il senso di depressione, ansia e panico descritto da Berardi? Come donna cisgender sudamericana, non sono convinta dalla novità della brutalità capitalista, degli abusi di potere, della crudeltà e della distruzione. Ma servirebbe a poco dire che il capitalismo è sempre stato crudele, spietato e oscuro, soprattutto nel Sud del mondo, dove si verificano anche la maggior parte dei genocidi, della schiavitù e delle espropriazioni. Aggiungere aggettivi al termine capitalismo, come “capitalismo dei disastri” o “capitalismo cannibale” (chiedo scusa rispettivamente a Naomi Klein e Nancy Fraser), non aiuta, poiché gli aggettivi portano all’errata convinzione che il capitalismo possa essere meno scioccante, meno disastroso o meno cannibale. Oppure gli aggettivi vi ricordano nostalgicamente il tempo nel quale la socialdemocrazia era in grado di attuare riforme progressiste a beneficio della classe operaia e dei più vulnerabili? Voglio mettere alla prova questa idea: ciò che rende il mondo capitalista peggiore oggi rispetto a prima – senza negare la minaccia del cambiamento climatico – è che abbiamo perso l’intenzione liberatoria e non riusciamo a connetterci con l’emozione anticipatrice della speranza quando ne abbiamo più bisogno. Il senso globale di miseria, come direbbe Mariátegui, fortemente avvertito negli ambienti politici e sociali della sinistra progressista, deriva dalla delusione che proviamo per l’appropriazione e la mobilitazione della speranza da parte dell’estrema destra, per quanto distorta. Questa mobilitazione della speranza si riflette nelle sue promesse, personalizzate per ciascun Paese, di un futuro migliore basato su un glorioso passato nazionale. È straziante che la speranza stia prendendo una piega così diversa, come dimostrano gli slogan del presidente Donald Trump “Make America Great Again” o quelli del leader del Reform Party UK, Nigel Farage, “Take Back Our Country”. Sebbene si siano verificati all’interno dello Stato, la campagna “Hope” del presidente Barack Obama e il suo discorso del 2014 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sono state le ultime volte in cui la speranza è stata inquadrata in un discorso politico progressista, a dimostrazione che la speranza è un’opzione politica, non una fantasia immatura o il pio desiderio di sognatori folli[1]. È importante ricordare che la politica e l’ideologia di estrema destra stanno riemergendo dall’interno, non contro, la democrazia[2]. Gli elettori gravitano verso la promessa di cambiamento dell’estrema destra. Come al solito, la democrazia liberale ha creato i suoi mostri di giorno, alla luce del sole (non di notte, nei loro bunker). La mia tesi è che non è solo l’avanzata dell’estrema destra, i suoi discorsi politici manipolatori e aggressivi e la sua promozione dello smantellamento di ciò che è stato conquistato in decenni di lotte a creare frustrazione, ma il fatto che la sinistra al potere o nella società non abbia nulla da promettere, e quindi il terreno della speranza, dell’aspirazione e del desiderio venga abbandonato al nemico. Ho preso questa espressione dalla critica di Ernst Bloch alla sinistra tedesca (e al nazismo) all’inizio del XX secolo[3]. La questione sul terreno della speranza è di nuovo urgente e richiede uno spostamento di attenzione dal panico, dal trauma e dall’ansia alla speranza e alla prefigurazione o, come dice Catalani, uno spostamento dalla catastrofe all’anticipazione[4]. La mia visione del mondo non è più ottimistica di quella di Franco Berardi e altri, ma piuttosto più realistica in termini blochiani. Il mondo è pieno di innumerevoli lotte che hanno posto al centro[5] la vita umana e non umana, organizzando forme alternative di riproduzione sociale della vita umana e non umana che non corrispondono alla riproduzione del capitale a cui la vita è vincolata nel capitalismo. In questa prassi non c’è panico, trauma o ossessione, ma bisogno, speranza, aspirazione, desiderio, rabbia, amore e dignità radicale. E questa prassi autonoma sta generando un nuovo tipo di intellettualità critica che si è plasmata e ha fluito attraverso i fiumi, su e giù per le montagne e attraverso le campagne, diffondendosi come fiori selvatici che spuntano dalla terra screpolata e arida della sinistra e della destra urbana, verso il mare. Non posso accettare che il futuro sia compromesso. Questo è tutto dire. Queste resistenze, che chiamo resistenze prefigurative, materializzano alcune delle infinite possibilità che abitano la materia di un mondo in continua trasformazione. La questione della speranza non è, quindi, una questione di ottimismo, desiderio o fantasia, ma una questione di capacità intellettuale, emotiva e fisica collettiva per quella che altrove ho chiamato l’arte di organizzare la speranza[7]. L’arte di organizzare la speranza è il tallone d’Achille dell’estrema destra. È un antidoto all’ebbrezza, all’immediatezza e all’intossicazione che, come suggerisce Bloch, l’estrema destra produce nei suoi seguaci. L’arte di organizzare la speranza collega l’attivismo politico, culturale e sociale, la mobilitazione comunitaria e l’organizzazione attorno a questioni legate alla riproduzione sociale della vita umana e non umana: terra, acqua, cibo, lavoro, assistenza, alloggio, salute, pedagogia e le reali possibilità inespresse che potenzialmente abitano il presente, il futuro e persino il passato. Il terreno della speranza viene riconfigurato dalle fondamenta e la forma politica di organizzazione e realizzazione del cambiamento viene decisa lungo il percorso. Pertanto, per spostare l’attenzione dalla catastrofe alla speranza riguardo all’occupazione e alla riconquista del terreno della speranza, devono verificarsi tre cose. La prima è uno spostamento di attenzione dal dibattito Stato-sì/Stato-no, ormai senza sbocco, nei circoli di sinistra e progressisti, a una forma di politica più sfumata, in cui la resistenza prefigurativa dei movimenti di base e l’organizzazione dei beni comuni in tutto il mondo siano centrali sia per forzare la mano “sinistra” al governo, sia per organizzarsi autonomamente. Il secondo sviluppo che deve verificarsi è l’attivazione dell'”intenzione liberatrice” della prassi radicale o la centralità della “corrente calda” della nostra critica (per parafrasare Bloch, che si riferisce alla corrente calda del marxismo)[8]. Dire di no e “smascherare le ideologie non basta”. In tutti i processi organizzativi, i movimenti radicali producono un residuo utopico[9] o un surplus[10] che rimane non tradotto in un possibile nuovo linguaggio politico[11] e in un nuovo senso comune. Mentre la “crisi della speranza” o la “speranza in tempi di crisi” sono state un argomento di dibattito comune tra studiosi attivisti, organizzazioni religiose, incluso il Vaticano, così come ambientalisti, psicologi e politici per oltre un decennio, il problema della speranza deve ancora essere articolato in una narrazione critica attivista liberatrice che permetta di comprendere, affrontare e fare i conti con le “vicissitudini della speranza”[12]. Il terzo sviluppo necessario è incorporare lo spirituale e il mitico nella nuova intenzione liberatrice. All’inizio del XX secolo, il primo marxista latinoamericano, il peruviano José Carlos Mariátegui, sottolineò l’importanza del mito e delle dimensioni spirituali ed etiche del socialismo. Da marxista dichiarato come Bloch, Mariátegui comprese che i progetti rivoluzionari di sinistra riflettevano la razionalità borghese in termini di progresso e universalità, e mancavano di mito e speranza[13]. Una lezione che Mariátegui e altre tradizioni marxiste latinoamericane e nere – molti dei cui membri furono espulsi dai partiti comunisti dei loro paesi – traggono è che la vera critica deve essere decolonizzante. La critica può funzionare come teoria della lotta e della liberazione solo nella misura in cui articola e organizza la speranza come forza sociale, popolando l’intenzione liberatrice con la conoscenza e le esperienze di lotte situate nel loro contesto storico, politico e globale, e soprattutto quando contiene luci di un futuro nel quale la vita umana e non umana avrà valore. Gli elementi immaginativi, selvaggi e determinati della prassi utopica, della decolonizzazione e del femminismo hanno generato nuove forme di critica. Se consideriamo la speranza radicale una scelta e una categoria di prassi; se comprendiamo la possibilità come un orizzonte potenziale; e se cogliamo l’utopia come una prassi umana concreta e continua, allora la questione della soggettività in un’epoca di depressione e panico potrebbe essere riarticolata come la questione della soggettività in un’epoca di recupero del terreno della speranza. L’intellettualità nuova o rinnovata emergente – decoloniale, democratica, femminista, etica – sta intrecciando gli elementi emotivi e razionali della vita e della prassi in metodi di resistenza che anticipano e prefigurano il nuovo o rinnovano l’ancestrale. La spiritualità mette in discussione la razionalità moderna in crisi e il tipo di irrazionalità proposto dall’estrema destra. Qual è la nuova forma di intenzione liberatrice per connettere i desideri soggettivi e le tendenze riparatrici dell’umanità attraverso un processo di apprendimento della speranza (docta spes)?[14] Quali sono i segni, le idee, gli orizzonti, le pratiche, le conoscenze e i sogni nei molteplici processi di organizzazione autonoma del mondo odierno che restano intraducibili, indescrivibili e non categorizzati dalle ideologie e dalle pratiche capitaliste, coloniali e patriarcali? Purtroppo, fino ad ora, queste domande sono rimaste nascoste dietro lo sguardo lacrimoso di una sinistra nostalgica. Eppure, c’è “qualcosa che manca”[15], e c’è molto lavoro da fare per scoprire cosa, chi e come raggiungerlo, attraverso una resistenza prefigurativa, senza farsi prendere dal panico. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato originalmente sul blog della rivista Critical Inquiry (con il titolo completo On Prefigurative Resistance, or How to Recover the Terrain of Hope’. Critical Enquiry, University of Chicago Press, il 3 luglio 2025) e qui con l’autorizzazione dell’autrice. L’articolo è disponibile anche in castellano (traduzione di AC Dinerstein) qui: Cómo recuperar el terreno de la esperanzaDownload -------------------------------------------------------------------------------- Ana Cecilia Dinerstein è professoressa di sociologia politica e teoria critica all’Università di Bath UK. Un suo contributo è raccolto nel libro curato da Aldo Zanchetta Speranza forza sociale ed è focalizzato sull’arte di organizzare la speranza. L’autrice si ispira ai movimenti sociali latinoamericani che negli anni Novanta e all’inizio del 2000 hanno affermato la possibilità di un cambiamento politico attraverso la ricerca dell’autonomia. -------------------------------------------------------------------------------- Note [1] «… e per gli Stati Uniti, la decisione è chiara: scegliamo la speranza sulla paura. Vediamo il futuro non come qualcosa che sfugge al nostro controllo, ma come qualcosa che possiamo plasmare per il meglio attraverso uno sforzo concertato e collettivo». Estratto del discorso del presidente Obama alla Assemblea della Nazioni Unite del 24 settembre 2014; disponibile in obamawhitehouse.archives.gov. [2] Adorno, T. W. (2020) Aspectos del nuevo extremismo de derecha. trad. di Wieland Hoban, Cambridge-Hoboken: Polity. [3] Bloch, E. (1991/1962) Herencia de nuestra época, Cambridge: Polity Press. Pubblicato in Italia da Mimesis con il titolo Eredità di questo tempo. [4] Catalani, F. (2020) ‘La anticipación como crítica: la fantasía objetiva desde Ernst Bloch hasta Günther Anders’, Praktyka Teoretyczn, 1(35): 149-166. [5] Zechner, M., y Hansen, B.R. (2015) ‘Construyendo poder en una crisis de reproducción social’, Revista ROAR, vedi anche EZLN (2021) ‘Declaración por la Vida’, disponibile qui: > Primera Parte: UNA DECLARACIÓN… POR LA VIDA Visualizza anche l’archivio delle azioni sociali e delle alternative di Global Tapestry of Alternatives. [6] Dinerstein, AC (2015) Las políticas de autonomía en América Latina: El arte de organizar la esperanza, Basingstoke, Nueva York: Palgrave Macmillan. [7] Bloch, E. (1959/1986) El principio esperanza, Cambridge, MA: MIT Press. L’ultima versione pubblicata in Italia in tre volumi è di Mimesis. [8] Bloch citato in Neupert-Doppler, A. (2018) «Teoría crítica y pensamiento utópico». En Best, B., Bonefeld, W. y C. O’Kane (eds.), Manual SAGE de la teoría crítica de la Escuela de Frankfurt, Tres Volúmenes, Sage, Londres-Thousand Oaks. [9] Véase Bloch, E. (1988) La función utópica del arte y la literatura: ensayos seleccionados trad. de Zipes, J. y Mecklenburg, F., Londres: MIT Press. [10] Kellner, D. (s/f): ‘Ernst Bloch, utopía y crítica de la ideología’, Iluminaciones: La crítica Proyecto teórico, disponibile qui. [11] Kellner, D. (s/f): ‘Ernst Bloch, utopía y crítica de la ideología’, Iluminaciones: La crítica Proyecto teórico, disponibile qui. [12] Mariátegui, JC, Vanden, HE y Becker, M. (2011) José Carlos Mariátegui: una antología. Nueva York: Monthly Review Press. [13] Bloch, E. (1959/1986) El principio esperanza. Cambridge, MA: MIT Press. [14] Parafraseando al personaje de Bertolt Brecht en El ascenso y la caída de la ciudad de Mahagonny Véase Ott, M.R. (2015): ‘Algo falta: un estudio de la dialéctica de la utopía en las teorías de Theodor W. Adorno y Ernst Bloch’, Revista Heathwood de teoría crítica, poder, Violencia y no violencia, pp. 133-173. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come recuperare il terreno della speranza proviene da Comune-info.
Alle soglie di una nuova era
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- “Alle soglie di una nuove era. Gustavo Esteva – Vita e opere di un intellettuale de-professionalizzato” è il nuovo libro di Elias González Gómez e Carlos Tornel uscito nella collana “Ripensare il mondo” (curata da Aldo Zanchetta) per la casa editrice Mutus liber. Un anno dopo l’uscita di Speranza forza sociale (ed. Mutus Liber), il libro di Gustavo Esteva che approfondisce il tema della speranza, questa nuova pubblicazione individua nei testi e nelle esperienze di Esteva le bussole con cui orientarsi in questi tempi cupi. Nella quarta di copertina, tra l’altro, si legge: “Stiamo vivendo un passaggio di era, un cambiamento epocale sempre più violento e caotico. Non è facile viverlo con lucidità. Non si tratta di una semplice crisi. È il crollo di tutti i riferimenti di base su cui era strutturato il nostro mondo. Quali saranno i paradigmi (cioè i valori di riferimento) della nuova era? C’è chi azzarda nuovi nomi che potrebbero caratterizzarla: antropocene, capitalocene, digitalocene, trans-umanesimo… Come vivere questa transizione perché non ci conduca – come aveva ammonito Ivan Illich – alla perdita definitiva dell’umano, almeno nella forma che abbiamo conosciuto fino ad oggi? Ragioniamone con Gustavo Esteva, «intellettuale de-professionalizzato e operatore sociale», amico e collaboratore di Ivan Illich. Prima di rinunziare a questa umanità, proviamo a sperimentare altri modi di essere umani, rinunziando al mito dell’uomo prometeico e riscoprendo l’uomo epimeteico (Illich). «Speranza, amicizia, sorpresa» sono le basi di un mondo nuovo, che Esteva ritiene possibile”. Nell’archivio di Comune sono leggibili oltre 150 articoli di Gustavo Esteva. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Alle soglie di una nuova era proviene da Comune-info.
Muoversi nel buio
L’ORRORE PRECIPITATO SULLA PALESTINA E SUL MONDO INTERO NON È SOLO UN PROBLEMA POLITICO, MA ESISTENZIALE, ANTROPOLOGICO: STIAMO PERDENDO LA CAPACITÀ STESSA DI ESSERE UMANI NEL SENSO PIENO, DI ENTRARE IN RELAZIONE AUTENTICA CON GLI ALTRI. CHI CI PUÒ GUIDARE FUORI DA QUESTO LABIRINTO? PER DIRLA CON SIMONE WEIL, NON SI TRATTA DI ATTENDERE GRANDE LEADER O DI INDIVIDUARE QUALCHE INTELLETTUALE DA SEGUIRE, IL NOSTRO SGUARDO DEVE CERCARE NELLA VITA DI OGNI GIORNI DI TANTE PERSONE COMUNI CHE SANNO PRENDERSI CURA DEGLI ALTRI SENZA CERCARE RICONOSCIMENTO, SANNO VIVERE PER LA GIUSTIZIA SENZA PROTAGONISMO. “NON È ROMANTICISMO INGENUO – SCRIVE EMILIA DE RIENZO – È LA SCOPERTA CHE IL CAMBIAMENTO PIÙ PROFONDO PASSA ATTRAVERSO LA TRASFORMAZIONE DELLA QUALITÀ DELLE RELAZIONI UMANE… È LÌ, IN QUELLA FEDELTÀ APPARENTEMENTE INSIGNIFICANTE, CHE PUÒ NASCERE QUALCOSA DI NUOVO…” Cucina popolare di al-Mawasi (Khan Younis), nel sud della Striscia di Gaza, promossa dalla campagna “SOS GAZA” (qui le informazioni per sostenere la campagna) -------------------------------------------------------------------------------- “Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. Solo una parte del male di cui soffriamo è da attribuire al fatto che il trionfo dei movimenti autoritari e nazionalisti distrugga un po’ dovunque la speranza che uomini onesti avevano riposto nella democrazia e nel pacifismo: esso è ben più profonda e ben più vasto. Ci si può chiedere se esista un ambito della vita pubblica o privata dove le sorgenti stesse dell’attività e della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali viviamo”. Queste parole di Simone Weil, scritte negli anni Trenta di fronte all’ascesa dei totalitarismi europei, risuonano oggi con una forza inquietante. Come allora, assistiamo al fallimento delle democrazie, al ritorno di nuovi fascismi. Ma Weil ci aveva avvertiti: il problema non è solo politico. È più profondo, più vasto. La crisi che viviamo è esistenziale e antropologica. Stiamo perdendo la capacità stessa di essere umani nel senso pieno: di pensare autonomamente, di entrare in relazione autentica con gli altri, di sentirci radicati in qualcosa che abbia senso. Il lavoro precario e frammentato, l’impossibilità di progettare il futuro, la sensazione di essere ingranaggi di meccanismi che ci sfuggono completamente – tutto questo corrode quelle che Weil chiamava le “radici” dell’anima umana. E chi ci può guidare fuori da questo labirinto? Gli intellettuali, anche quelli che proclamano belle idee, sembrano presi dai loro interessi personali, chiusi in circoli autoreferenziali, troppo lontani dalla gente comune. Weil lo aveva capito sulla propria pelle: aveva abbandonato l’insegnamento per andare a lavorare in fabbrica, convinta che la verità si trovasse nell’esperienza concreta, non nei discorsi su di essa. Forse la risposta non sta nel cercare guide esterne, ma nel ripartire da quella che lei chiamava “attenzione”: la capacità di vedere realmente ciò che ci sta davanti, senza filtri ideologici. Le guide, se esistono, sono quelle persone – spesso anonime – che nella loro vita quotidiana praticano forme autentiche di resistenza: chi si prende cura degli altri senza cercare riconoscimento, chi lavora per la giustizia senza protagonismo. Ma allora, viene da chiedersi, che senso ha? Diventare una piccola lucina nel buio totale non sembra forse inutile, insignificante? Eppure, chi di noi non ha sperimentato la gioia profonda che nasce quando incontriamo una persona che ci presta vera attenzione, che usa gentilezza nei nostri confronti? In quel momento il respiro si apre, qualcosa in noi si risveglia. È la prova che l’essere umano ha bisogno di questo riconoscimento autentico per esistere pienamente. E quando ringraziamo quella persona, quando le facciamo sapere che la sua gentilezza non è stata inutile, chiudiamo un cerchio prezioso. Non è più un gesto disperso nel vuoto, ma qualcosa che ha toccato un’altra vita umana, che probabilmente si moltiplicherà in altri gesti simili. Per Weil questi momenti di vera connessione umana erano preziosi. Perché è lì che si sperimenta concretamente cosa significa essere trattati come persone e non come oggetti, cosa vuol dire la giustizia nelle relazioni quotidiane. Non è romanticismo ingenuo. È la scoperta che il cambiamento più profondo passa attraverso la trasformazione della qualità delle relazioni umane, una persona alla volta, un incontro alla volta. È l’intuizione che ogni gesto autentico di attenzione, di verità, di giustizia, ha un valore assoluto, non perché produca effetti visibili, ma perché è l’unica risposta degna dell’essere umano di fronte al male: essere fedeli a ciò che sentiamo giusto. È lì, in quella fedeltà apparentemente insignificante, che può nascere qualcosa di nuovo. In un’epoca in cui le “sorgenti stesse dell’attività e della speranza” sembrano avvelenate, la piccola lucina che accendiamo nella nostra vita quotidiana non è un gesto consolatorio. È un atto di resistenza. È il modo in cui scegliamo di rimanere umani. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Imparare a pensare la speranza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Muoversi nel buio proviene da Comune-info.
Affrontare la tormenta
PRENDENDO SPUNTO DALL’ARTICOLO DI RAÚL ZIBECHI, CREATE DUE, TRE, MOLTE ARCHE, CHE UNISCANO RESISTENZA, PROTEZIONE COLLETTIVA DALLA TORMENTA E CREAZIONE DI UN MONDO NON CAPITALISTA, ALDO ZANCHETTA RAGIONA SUL VIOLENTO CAOS GLOBALE, SUL DOMINIO DELLO SVILUPPO CHE CONTINUA A CONDIZIONARE ANCHE PARTITI E MOVIMENTI PROGRESSISTI E SUL BISOGNO DI CAPOVOLGERE IL NOSTRO MODO DI PENSARE PER RICONOSCERE ALTRI MONDI GIÀ ESISTENTI CAPACI DI PROTEGGERE LA COMPLESSITÀ DEL SISTEMA UMANO E LE SUE CONNESSIONI CON L’AMBIENTE MATERIALE E IMMATERIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- La tormenta: così gli indigeni maya zapatisti del Chiapas definiscono l’attuale caotica situazione mondiale. Essa cresce di intensità ed ogni giorno “è più grande di sempre”, usando un’espressione sgrammaticata creata per la “narrazione” del risaldamento climatico in corso. Difficile farne una descrizione complessiva abbastanza veritiera perché si presenta in modi diversi nei vari punti della “selva”, e contraddittorie sono le “narrazioni” che ne fanno i vari osservatori. Molti, i cosiddetti “esperti”, si affannano a elaborare previsioni sulla sua evoluzione, che si dimostrano puntualmente errate nel momento in cui si passa dal “futuro” al “presente”. Inoltre queste “narrazioni” hanno, per molti di loro, finalità precise: aumentare le paure e il disorientamento per perseguire meglio, nel caos che ne consegue, i propri interessi, fra loro in genere conflittuali. Quello che segue è un tentativo di intelligibilità azzardato, frammentato e mutevole, dato l’accelerarsi e accavallarsi frenetico degli avvenimenti. Lo condivido cercando dialogo e correzioni. Costruire due, tre, molte arche «Per questo ci tocca proteggerci come possiamo, sulla base delle nostre risorse, prima di tutto attraverso i lavori collettivi, la minga, il tequio1, che permettono allo stesso tempo di creare nuove realtà e difenderle. Ma la cosa più importante è la certezza che non ci si può aspettare nulla da governi o Stati. Seguendo il consiglio di Che Guevara quando il popolo vietnamita resistette all’invasione e alla guerra degli Stati Uniti “creare due, tre, molti Vietnam”), credo che si tratti di costruire arche, molte arche, che uniscano resistenza, protezione collettiva dalla tormenta e creazione di un mondo non capitalista. Non è una ricetta, né una linea da seguire. È semplicemente una verifica di ciò che la gente sta facendo». Questo è un brano di un articolo di Raúl Zibechi apparso su Comune il 27 giugno, significativo perché l’idea dell’arca, come dirò dopo, negli stessi giorni era venuta anche a me come metafora da usare in un incontro programmato fra persone amiche con le quali da un anno sto lavorando per costruire un’arca.2 Alle soglie di una nuova era Un’era, quella “moderna”, sta chiudendosi con il fallimento dell’utopico perseguimento dell’organizzazione della società umana secondo un modello capitalista ritenuto l’unico corretto nella sua ultima formulazione neoliberista e globalista, (ricordate il libro di Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo?). A questo fallimento sta facendo seguito l’intensificarsi della tormenta con un susseguirsi di violenze che superano ogni precedente immaginazione, mentre un’altra era sta aprendosi in una situazione appunto metaforica di tormenta. Nell’articolo citato, Zibechi ha scritto: «Il mondo che conoscevamo sta giungendo al termine. Prima che un altro mondo possa nascere, vivremo un caos sistemico che durerà decenni. Solo l’organizzazione collettiva può illuminare quel futuro». Questo è accaduto nei precedenti cambiamenti di era che conosciamo, ogni volta in maniera più drammatica e lunga. Questa volta però la situazione presenta un aspetto nuovo particolarmente drammatico: non solo la transizione da un modello di civiltà ad un altro, ma la possibile fine dello stesso genere umano. Umanità a rischio di estinzione Questa ipotesi venne analizzata da Ivan Illich nel VII capitolo del libro Descolarizzare la società, intitolato Rinascita dell’uomo epimeteico. Egli non fu il primo a porsi tale problema, che era già stato sollevato in tempi passati, ma solo all’interno di una ristretta cerchia di pensatori e nella prospettiva di una catastrofe cosmica, subita e non causata dall’uomo. La novità introdotta da Illich fu l’idea che questa fine potesse essere auto-generata e che fosse necessario sottoporre il problema al dibattito pubblico perché si cercasse un rimedio per evitarla. Non dovrebbe essere questo il problema oggi più grave, da affrontare prioritariamente? Estinzione tout court, o veloce, dovuta al «pulsante di Hiroshima» premuto da un militare, oppure lenta, causata da «istituzioni non militari» che, senza pulsanti da premere, «creano bisogni più rapidamente che soddisfazioni e nel tentativo di appagare i bisogni che esse stesse suscitano, consumano la Terra»3, rendendola inabitabile al genere umano. Ma possibile anche per trasformazione: «Gli stregoni rimpiazzano le levatrici e promettono di trasformare l’uomo in qualche altra cosa: programmato geneticamente, purificato farmacologicamente e capace di restare malato molto più a lungo. L’ideale contemporaneo è un mondo totalmente asettico, dove ogni contatto fra gli uomini, o tra gli uomini e il loro ambiente, sia frutto di previsioni e manipolazioni».4 Quest’ultima è una fotografia esatta del modello a cui attualmente si sta lavorando, scattata con un anticipo di cinquant’anni. Lo sviluppo, storia di una credenza occidentale5 Questa estinzione avverrà se una forza antropologica propria degli esseri umani, la speranza, non verrà risvegliata come forza sociale capace di far passare le persone dallo stato di attesa passiva a cui sono state abituate dal mito dello “sviluppo” a una assunzione nelle proprie mani di una responsabilità attiva. Il mito dello “sviluppo” era stato lanciato in orbita nel punto IV del “discorso al caminetto” fatto dal presidente statunitense Truman nel dicembre 1949 in occasione della sua rielezione. Sviluppo che, grazie alla forza trainante del progresso tecnologico, avrebbe generato una disponibilità crescente di beni materiali atti a soddisfare i “bisogni”, sia quelli primari (cibo, abitazione. salute …) che quelli indotti (questi ultimi illimitati e in parte convertiti in “diritti”).6 Questo è il clima mentale in cui viviamo più o meno tutti, sia gli affezionati a questo sistema sia, in misura ridotta e inconscia, gli stessi suoi critici, perché questo è l’ethos, lo stato d’animo del tempo in cui stiamo vivendo.7 «L’uomo ha conquistato il potere frustrante di chiedere qualunque cosa perché non riesce a immaginare niente che non possa essergli fornito da un’istituzione».8 Le cose, come oggi sappiamo, non sono andate esattamente così: lo “sviluppo” ha creato una serie di danni “collaterali” tutt’altro che trascurabili e purtroppo crescenti, che preannunziano un futuro oscuro del quale – incredibile dictu! – ha dato una prospezione, estrapolata al 2071, Klaus Schwab,9 membro fra i più autorevoli dell’élite mondiale, presente in forze al World Government Summit (WGS),10 tenutosi a Doha, nel Qatar, dal 13 al 15 febbraio 2023, con lo slogan «Shaping Future Governments» (Plasmare i governi futuri): «Le proiezioni prevedono un futuro distopico di cambiamenti climatici catastrofici, migrazioni di massa, licenziamenti di massa dovuti all’automazione, conseguenti disordini sociali e la fusione di esseri umani e tecnologia».11 Come fotografo del futuro anche Schwab non è male, bisogna riconoscerlo. Ma il suo obiettivo era quello di convincere del fatto che i problemi collaterali dovuti al progresso tecnologico potevano e dovevano essere curati con un’ulteriore dose dello stesso progresso, come giù aveva intuito e denunciato Illich in un brano che riporteremo più avanti. Questo summit vide anche quello che secondo alcuni fu uno “scontro” e secondo altri uno “scambio” fra Schwab e un altro esponente autorevole dell’élite, Elon Musk, il quale, secondo il resoconto pubblicato sul sito Money.it, avrebbe detto che «troppa unità potrebbe far crollare l’intero sistema. “So che questo si chiama Vertice del governo mondiale, ma penso che dovremmo essere un po’ preoccupati nell’andare troppo nella direzione di un unico governo mondiale… Questo perché un unico governo mondiale potrebbe comportare un “collasso della civiltà”. Se, infatti, si avesse una “singola civiltà”, il ‘crollo’ di quest’ultima coinvolgerebbe l’intero sistema e nulla ne resterebbe al di fuori».12 Un discorso certamente sensato, inatteso dato il personaggio, che secondo i maligni lo avrebbe fatto a proprio vantaggio per rallentare l’avanzamento di alcuni progetti sponsorizzati anche da altri e rispetto ai quali i suoi erano in ritardo. E infatti è stato subito dimenticato. Il progresso tecnologico Una delle attese oggi più consistenti generata dalla credenza nel progresso tecnologico che promette di colmare i difetti collaterali da esso generati, secondo i suoi fautori è rappresentata dalla AI, l’Artificial Intelligence. Il processo della sua crescita e affermazione è in corso con velocità inaspettata, generando a un tempo speranze e timori che stanno dando luogo a un dibattito intenso. Uno dei punti di arrivo agognati dai suoi fan è l’uomo transumano, dalla vita prolungata anche fino a duecento anni, ma addirittura eterna nella sua versione cyber. In effetti oggi la vita nelle parti più “progredite” del mondo è prolungata a scapito di chi vive nelle altre parti (e a quale prezzo!).13 Personalmente non faccio parte di questi fan e nemmeno li comprendo. Trovo significativo quanto riportato recentemente da Pierluigi Fagan in uno dei suoi frequenti brevi e densi scritti, intitolato L’erosione della mente: il prezzo biologico e culturale della delega cognitiva: «La nostra mente è la funzione dell’organo detto cervello, il quale è la centrale del sistema nervoso ramificato. Il cervello è fatto di molte cellule non interconnesse che ancora non abbiamo del tutto capito quali funzioni presiedono e di un sistema fortemente interconnesso di cellule che si scambiano impulsi chimici ed elettrici. Il tipo e grado di interconnessione cerebrale fa un cervello più abile in alcuni compiti piuttosto che altri. In linea generale, meno interconnessioni, più limitata l’attività mentale, più limitato il comportamento del soggetto e le sue capacità. Il MIT ha fatto un esperimento sul funzionamento cerebro-mentale di tre gruppi diversi. Si trattava di scrivere un breve componimento a soggetto. Un gruppo doveva usare solo le proprie capacità mentali, il secondo poteva usare Internet e Google, il terzo si affidava ai sistemi automatici di scrittura. Monitorati nello svolgimento dell’esperimento, quelli del secondo gruppo hanno mostrato una connettività cerebrale inferiore di circa il 40% rispetto al primo. Il terzo del 55%. Storicamente, sappiamo che poiché la biologia si fonda sul principio dell’uso e riuso di certe strutture e funzioni, meno le si usa meno saranno efficienti ed infine scompariranno. In pratica, tutto il nostro progresso nel sollevarci dalle fatiche funzionali del dover far qualcosa, modifica la nostra stessa complessione biologica».14 Vorrei qui riportare una frase che è scolpita come punto di riferimento nella mia ancorché ormai fragile memoria: «Forse, prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare alcuni degli altri modi di ‘essere’ umani».15 Sulla diversità di questi mondi già esistenti e non statici, ma in continua propria evoluzione, è particolarmente rilevante (lo è stato almeno per me) uno studio scientifico dell’etnopsichiatra Piero Coppo16, da uno scritto del quale cito un lungo periodo relativo a questa diversità: «Altre storie, quelle di altri popoli, hanno sviluppato altre prerogative, altre potenze. Le etnografie illustrano modalità di esserci nel mondo a noi aliene, che tengono conto molto più della complessità del sistema umano e delle sue connessioni con l’ambiente materiale e immateriale in cui evolve di quanto non faccia il modello che abbiamo ereditato e da cui, a partire dall’Ottocento e dal Novecento, si sono costituite le discipline della psiche insieme al loro oggetto, il soggetto psicologico. Volendo intenderci con altri, dobbiamo quindi trovare un minimo comun denominatore che sia genericamente umano, per concepire psiche. Possiamo, per esempio, pensarla come quella parte della sfera immateriale, invisibile e sovraindividuale alla quale i singoli che vi sono immersi hanno accesso, che li nutre e che loro nutrono. Questa dimensione e i suoi contenuti si particolarizzano progressivamente localizzandosi nello spazio e nel tempo, fino a costituire quel particolare aggregato di cultura e psiche condiviso da uno specifico gruppo, che contribuisce a differenziarlo dai gruppi vicini, agglomerato che poi si incarna ulteriormente individualizzandosi in una particolare forma, nel singolo».17 Krisis Parlando di questo periodo di “transizione”, tipico come si è visto di ogni passaggio d’era, e dei problemi appena descritti, Illich ne aveva dato questa descrizione: «Il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. “Crisi”, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: Guidatore, dacci dentro! Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale. Le cure intensive per i moribondi, la tutela burocratica per le vittime della discriminazione, la fissazione nucleare per i divoratori di energia sono, a questo riguardo, risposte tipiche. Così intesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari, e specialmente di quei recuperatori che si mantengono con i sottoprodotti della crescita di ieri: gli educatori che campano sull’alienazione della società, i medici che prosperano grazie ai tipi di lavoro e di tempo libero che hanno distrutto la salute, i politici che ingrassano sulla distribuzione di un’assistenza finanziata in primo luogo dagli stessi assistiti. La crisi intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vorrebbero servirsi delle proprie gambe. Ma ‘crisi’ non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero».18 Si tratta di una descrizione che a chi scrive sembra realistica e opportuna dopo quanto già detto a proposito della sollecitazione a fare della speranza una forza sociale attiva di contrasto al “progresso”, parola della quale oggi conosciamo meglio il significato. Arche, ponti ma anche loro costruttori A questo punto, dopo aver scritto varie cose che si presentano a prima vista frammentate e scollegate, faccio una pausa di riflessione e verifica delle dimenticanze, iniziando con la ricapitolazione veloce di quanto scritto. All’inizio è riportata la citazione tratta dell’articolo di Zibechi sulla necessità di costruire arche per scampare alla tormenta. Arche, per restare nella metafora, predisposte per una navigazione lunga e avventurosa, condotte da timonieri esperti nel resistere al canto lusingatorio delle astute sirene governative. Traducendo in termini reali, queste sirene sono esperte nelle arti della cooptazione, nel creare caos e diffondere narrazioni ingannevoli, travestire la rapina in beneficenza, fingere ravvedimenti e, in caso estremo, usare violenza a man salva.19 Metafore, sia la tormenta che le arche. La metafora è una figura retorica efficace e utile in casi come questo perché parla all’immaginazione, cioè al “senti-pensare”20, più che alla pura razionalità, cosa questa che può talora sconfinare nell’astrazione o in una pura registrazione di conoscenza in una zona dormiente della memoria, senza generare un’azione conseguente. Sono tanti i motivi razionali che la preannunciavano, questa tormenta, e che avrebbero dovuto spingerci a operare per evitare il suo formarsi. Ma non abbiamo fatto niente di concreto per evitarla. Costruire arche e ponti, quindi, capaci di resistere alla tormenta. Perché questo avvenga, è necessaria una conoscenza specifica che certamente la «gente comune» non ha appreso nelle scuole del “sistema”, destinate a formare gestori acritici e zelanti di esso. Per questo, avverte Zibechi, occorre non aspettarsi aiuti dall’alto ma darsi da fare qua in basso, dove ci troviamo, aiutandoci reciprocamente e organizzandoci. “Organizzare la speranza”, che è una forza sociale, aveva detto un altro esperto lottatore antisistema, Gustavo Esteva, che il sistema lo conosceva bene avendone salito le scale fin quasi alla stanza del comando, pensando che così avrebbe potuto cambiare il suo mondo, quello messicano, prima di rendersi conto che così non sarebbe stato e decidere di de-professionalizzarsi e di schierarsi con la «gente comune», appunto. La sua visione politica, una volta uscito dalle stanze del potere, era divenuta chiara: il «mondo nuovo» lo avrebbero costruito coloro che dal sistema avevano ricevuto bastonate ed erano stati incatenati a una vita di miserie: i popoli indigeni, gli emigranti, le donne che avevano preso coscienza dell’esistenza del patriarcato, i senza lavoro, e con loro alcuni altri, mossi da antichi ideali. E aveva preso atto che le forze rivoluzionarie organizzate in cui si era creduto erano cambiate, perché avevano perduto la fiducia in se stesse, erano scese a patti con le élites del sistema. Queste, in sintesi, le sue conclusioni: le sinistre organizzate nei partiti, come pure i movimenti sociali, ormai hanno cambiato natura, e quindi obiettivi e strategie. Non è più possibile contare su di loro per un reale cambiamento radicale del sistema. E neppure si può contare sulle élites, che da tempo si sono ritagliate il proprio angolino nel sistema. Quelle che si vogliono ancora “progressiste” si sono messe l’anima in pace con l’assunzione della scappatoia del «riformismo», ma mantenendo un linguaggio di sinistra dissociato dalla pratica. Dopo aver parlato di tormenta e di suoi responsabili, di costruire arche e ponti per resisterle, dobbiamo parlare anche dei loro costruttori. Sarà fatto. Aldo Zanchetta, dall’’arca del “tiglio di Gragnano” (Aldo Zanchetta ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura) -------------------------------------------------------------------------------- Note 1 Minga, tequio: termini indigeni per definire i lavori comunitari collettivi. 2 https://comune-info.net/create-due-tre-molte-arche/ > Create due, tre, molte arche 3 Illich I., Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 2019 [1971],p. 172. 4 Ibidem, p. 173. 5 Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1997. 6 Riporto volentieri il pensiero del Mahatma Gandhi sui “diritti”: «Tutti i diritti degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto. Così, lo stesso diritto alla vita ci viene soltanto quando adempiamo al dovere di cittadini del mondo. Secondo questo principio fondamentale, è probabilmente abbastanza facile definire i doveri dell’Uomo e della Donna e collegare ogni diritto a un dovere corrispondente che conviene compiere in precedenza. Si potrebbe dimostrare che ogni altro diritto è solo un’usurpazione per cui non val la pena di lottare» (risposta di Gandhi, interpellato dall’UNESCO sull’argomento). 7 Vedi Stefano Boni, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera 2014. 8 Ivan Illich, ibidem, p. 171. 9 Klaus Schwab, creatore e all’epoca ancora presidente del World Economic Forum di Davos (WEF). 10 WGS, Global Government Summit, una piattaforma globale di scambio di conoscenze interno all’élite del sistema dedicata a plasmare il futuro del governo unico mondiale, auspicato per il 2071. I partecipanti all’evento comprendevano oltre 300 relatori e 10.000 presenze, tra cui 250 ministri di governo e rappresentanti di 80 organizzazioni internazionali, regionali e governative, tra cui le Nazioni Unite, il World Economic Forum (WEF), l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. 11 https://childrenshealthdefense.org/defender/musk-contro-schwab-al-world-government-summit-scontro-su-due-visioni-del-futuro/?%20lang=it 12 https://www.money.it/wgs-lo-scontro-tra-musk-e-schwab-al-vertice-mondialista-delle-elite-tecnocratiche 13 Per vederne alcuni aspetti che più demenziali non si può, si può leggere l’inchiesta condotta dallo scrittore scozzese O’Connell (Essere una macchina, Adelphi 2017), in cui si narra delle cliniche criogeniche ove malati terminali ricchi si fanno ibernare in attesa che la scienza abbia trovato il modo di guarirli. 14 https://www.money.it/l-erosione-della-mente-il-prezzo-biologico-e-culturale-della-delega-cognitiva 15 Scott Eastham, Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica, in InterCulture n. 2, 2005, Città Aperta ed., p. 30. 16 Piero Coppo, Le ragioni degli altri. Raffaello Cortina ed., Milano, 2013. 17 Ibidem, p. 164. Lo stesso Coppo fa una osservazione: «Questa constatazione permette di uscire dalla scelta obbligata tra la fede in un solo dio-creatore e il pensiero o il relativismo culturale acritico, offrendo l’opportunità di un salto epistemologico importante che consente di passare in forze da una cosmologia universale a una pluri-versa. Oggi è cioè possibile, sulla scelta delle nuove teorie sulla complessità, sui sistemi acentrici e sull’autorganizzazione [ … ], accedere a una prospettiva tendenzialmente meta-culturale che permetta di sostenere, con uno sguardo dall’alto, l’esistenza e la coesistenza nello stesso spazio e tempo di molti mondi più o meno compatibili tra loro, sopportando la mancanza di un vertice che li riassuma in uno solo, in un solo edificio e destino che sarebbero, d’altra parte, inevitabilmente caotici e incoerenti» (Ibidem, pp. 191.192). 18 Ivan Illich (2005 [1978]), Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto all’impiego, trad. it. E. Capriolo, Boroli, Milano, pp. 20-21. 19 Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. social network, menzogne di Stato e ricostruzione del vivente, Edizioni Malamente, Urbino 2024. 20 Il senti-pensare è la fusione di due modi di percepire e interpretare la realtà a partire dalla riflessione e dall’emotività dando luogo a una concomitanza di pensiero e di azione, fino alla convergenza in un unico atto di conoscenza e di azione. Il senti-pensare è l’incontro intensamente consapevole tra sentimento e ragione. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI STEFANIA CONSIGLIERE: > Altri mondi reali -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Affrontare la tormenta proviene da Comune-info.