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Alle soglie di una nuova era
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- “Alle soglie di una nuove era. Gustavo Esteva – Vita e opere di un intellettuale de-professionalizzato” è il nuovo libro di Elias González Gómez e Carlos Tornel uscito nella collana “Ripensare il mondo” (curata da Aldo Zanchetta) per la casa editrice Mutus liber. Un anno dopo l’uscita di Speranza forza sociale (ed. Mutus Liber), il libro di Gustavo Esteva che approfondisce il tema della speranza, questa nuova pubblicazione individua nei testi e nelle esperienze di Esteva le bussole con cui orientarsi in questi tempi cupi. Nella quarta di copertina, tra l’altro, si legge: “Stiamo vivendo un passaggio di era, un cambiamento epocale sempre più violento e caotico. Non è facile viverlo con lucidità. Non si tratta di una semplice crisi. È il crollo di tutti i riferimenti di base su cui era strutturato il nostro mondo. Quali saranno i paradigmi (cioè i valori di riferimento) della nuova era? C’è chi azzarda nuovi nomi che potrebbero caratterizzarla: antropocene, capitalocene, digitalocene, trans-umanesimo… Come vivere questa transizione perché non ci conduca – come aveva ammonito Ivan Illich – alla perdita definitiva dell’umano, almeno nella forma che abbiamo conosciuto fino ad oggi? Ragioniamone con Gustavo Esteva, «intellettuale de-professionalizzato e operatore sociale», amico e collaboratore di Ivan Illich. Prima di rinunziare a questa umanità, proviamo a sperimentare altri modi di essere umani, rinunziando al mito dell’uomo prometeico e riscoprendo l’uomo epimeteico (Illich). «Speranza, amicizia, sorpresa» sono le basi di un mondo nuovo, che Esteva ritiene possibile”. Nell’archivio di Comune sono leggibili oltre 150 articoli di Gustavo Esteva. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Alle soglie di una nuova era proviene da Comune-info.
Muoversi nel buio
L’ORRORE PRECIPITATO SULLA PALESTINA E SUL MONDO INTERO NON È SOLO UN PROBLEMA POLITICO, MA ESISTENZIALE, ANTROPOLOGICO: STIAMO PERDENDO LA CAPACITÀ STESSA DI ESSERE UMANI NEL SENSO PIENO, DI ENTRARE IN RELAZIONE AUTENTICA CON GLI ALTRI. CHI CI PUÒ GUIDARE FUORI DA QUESTO LABIRINTO? PER DIRLA CON SIMONE WEIL, NON SI TRATTA DI ATTENDERE GRANDE LEADER O DI INDIVIDUARE QUALCHE INTELLETTUALE DA SEGUIRE, IL NOSTRO SGUARDO DEVE CERCARE NELLA VITA DI OGNI GIORNI DI TANTE PERSONE COMUNI CHE SANNO PRENDERSI CURA DEGLI ALTRI SENZA CERCARE RICONOSCIMENTO, SANNO VIVERE PER LA GIUSTIZIA SENZA PROTAGONISMO. “NON È ROMANTICISMO INGENUO – SCRIVE EMILIA DE RIENZO – È LA SCOPERTA CHE IL CAMBIAMENTO PIÙ PROFONDO PASSA ATTRAVERSO LA TRASFORMAZIONE DELLA QUALITÀ DELLE RELAZIONI UMANE… È LÌ, IN QUELLA FEDELTÀ APPARENTEMENTE INSIGNIFICANTE, CHE PUÒ NASCERE QUALCOSA DI NUOVO…” Cucina popolare di al-Mawasi (Khan Younis), nel sud della Striscia di Gaza, promossa dalla campagna “SOS GAZA” (qui le informazioni per sostenere la campagna) -------------------------------------------------------------------------------- “Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. Solo una parte del male di cui soffriamo è da attribuire al fatto che il trionfo dei movimenti autoritari e nazionalisti distrugga un po’ dovunque la speranza che uomini onesti avevano riposto nella democrazia e nel pacifismo: esso è ben più profonda e ben più vasto. Ci si può chiedere se esista un ambito della vita pubblica o privata dove le sorgenti stesse dell’attività e della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali viviamo”. Queste parole di Simone Weil, scritte negli anni Trenta di fronte all’ascesa dei totalitarismi europei, risuonano oggi con una forza inquietante. Come allora, assistiamo al fallimento delle democrazie, al ritorno di nuovi fascismi. Ma Weil ci aveva avvertiti: il problema non è solo politico. È più profondo, più vasto. La crisi che viviamo è esistenziale e antropologica. Stiamo perdendo la capacità stessa di essere umani nel senso pieno: di pensare autonomamente, di entrare in relazione autentica con gli altri, di sentirci radicati in qualcosa che abbia senso. Il lavoro precario e frammentato, l’impossibilità di progettare il futuro, la sensazione di essere ingranaggi di meccanismi che ci sfuggono completamente – tutto questo corrode quelle che Weil chiamava le “radici” dell’anima umana. E chi ci può guidare fuori da questo labirinto? Gli intellettuali, anche quelli che proclamano belle idee, sembrano presi dai loro interessi personali, chiusi in circoli autoreferenziali, troppo lontani dalla gente comune. Weil lo aveva capito sulla propria pelle: aveva abbandonato l’insegnamento per andare a lavorare in fabbrica, convinta che la verità si trovasse nell’esperienza concreta, non nei discorsi su di essa. Forse la risposta non sta nel cercare guide esterne, ma nel ripartire da quella che lei chiamava “attenzione”: la capacità di vedere realmente ciò che ci sta davanti, senza filtri ideologici. Le guide, se esistono, sono quelle persone – spesso anonime – che nella loro vita quotidiana praticano forme autentiche di resistenza: chi si prende cura degli altri senza cercare riconoscimento, chi lavora per la giustizia senza protagonismo. Ma allora, viene da chiedersi, che senso ha? Diventare una piccola lucina nel buio totale non sembra forse inutile, insignificante? Eppure, chi di noi non ha sperimentato la gioia profonda che nasce quando incontriamo una persona che ci presta vera attenzione, che usa gentilezza nei nostri confronti? In quel momento il respiro si apre, qualcosa in noi si risveglia. È la prova che l’essere umano ha bisogno di questo riconoscimento autentico per esistere pienamente. E quando ringraziamo quella persona, quando le facciamo sapere che la sua gentilezza non è stata inutile, chiudiamo un cerchio prezioso. Non è più un gesto disperso nel vuoto, ma qualcosa che ha toccato un’altra vita umana, che probabilmente si moltiplicherà in altri gesti simili. Per Weil questi momenti di vera connessione umana erano preziosi. Perché è lì che si sperimenta concretamente cosa significa essere trattati come persone e non come oggetti, cosa vuol dire la giustizia nelle relazioni quotidiane. Non è romanticismo ingenuo. È la scoperta che il cambiamento più profondo passa attraverso la trasformazione della qualità delle relazioni umane, una persona alla volta, un incontro alla volta. È l’intuizione che ogni gesto autentico di attenzione, di verità, di giustizia, ha un valore assoluto, non perché produca effetti visibili, ma perché è l’unica risposta degna dell’essere umano di fronte al male: essere fedeli a ciò che sentiamo giusto. È lì, in quella fedeltà apparentemente insignificante, che può nascere qualcosa di nuovo. In un’epoca in cui le “sorgenti stesse dell’attività e della speranza” sembrano avvelenate, la piccola lucina che accendiamo nella nostra vita quotidiana non è un gesto consolatorio. È un atto di resistenza. È il modo in cui scegliamo di rimanere umani. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Imparare a pensare la speranza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Muoversi nel buio proviene da Comune-info.
Affrontare la tormenta
PRENDENDO SPUNTO DALL’ARTICOLO DI RAÚL ZIBECHI, CREATE DUE, TRE, MOLTE ARCHE, CHE UNISCANO RESISTENZA, PROTEZIONE COLLETTIVA DALLA TORMENTA E CREAZIONE DI UN MONDO NON CAPITALISTA, ALDO ZANCHETTA RAGIONA SUL VIOLENTO CAOS GLOBALE, SUL DOMINIO DELLO SVILUPPO CHE CONTINUA A CONDIZIONARE ANCHE PARTITI E MOVIMENTI PROGRESSISTI E SUL BISOGNO DI CAPOVOLGERE IL NOSTRO MODO DI PENSARE PER RICONOSCERE ALTRI MONDI GIÀ ESISTENTI CAPACI DI PROTEGGERE LA COMPLESSITÀ DEL SISTEMA UMANO E LE SUE CONNESSIONI CON L’AMBIENTE MATERIALE E IMMATERIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- La tormenta: così gli indigeni maya zapatisti del Chiapas definiscono l’attuale caotica situazione mondiale. Essa cresce di intensità ed ogni giorno “è più grande di sempre”, usando un’espressione sgrammaticata creata per la “narrazione” del risaldamento climatico in corso. Difficile farne una descrizione complessiva abbastanza veritiera perché si presenta in modi diversi nei vari punti della “selva”, e contraddittorie sono le “narrazioni” che ne fanno i vari osservatori. Molti, i cosiddetti “esperti”, si affannano a elaborare previsioni sulla sua evoluzione, che si dimostrano puntualmente errate nel momento in cui si passa dal “futuro” al “presente”. Inoltre queste “narrazioni” hanno, per molti di loro, finalità precise: aumentare le paure e il disorientamento per perseguire meglio, nel caos che ne consegue, i propri interessi, fra loro in genere conflittuali. Quello che segue è un tentativo di intelligibilità azzardato, frammentato e mutevole, dato l’accelerarsi e accavallarsi frenetico degli avvenimenti. Lo condivido cercando dialogo e correzioni. Costruire due, tre, molte arche «Per questo ci tocca proteggerci come possiamo, sulla base delle nostre risorse, prima di tutto attraverso i lavori collettivi, la minga, il tequio1, che permettono allo stesso tempo di creare nuove realtà e difenderle. Ma la cosa più importante è la certezza che non ci si può aspettare nulla da governi o Stati. Seguendo il consiglio di Che Guevara quando il popolo vietnamita resistette all’invasione e alla guerra degli Stati Uniti “creare due, tre, molti Vietnam”), credo che si tratti di costruire arche, molte arche, che uniscano resistenza, protezione collettiva dalla tormenta e creazione di un mondo non capitalista. Non è una ricetta, né una linea da seguire. È semplicemente una verifica di ciò che la gente sta facendo». Questo è un brano di un articolo di Raúl Zibechi apparso su Comune il 27 giugno, significativo perché l’idea dell’arca, come dirò dopo, negli stessi giorni era venuta anche a me come metafora da usare in un incontro programmato fra persone amiche con le quali da un anno sto lavorando per costruire un’arca.2 Alle soglie di una nuova era Un’era, quella “moderna”, sta chiudendosi con il fallimento dell’utopico perseguimento dell’organizzazione della società umana secondo un modello capitalista ritenuto l’unico corretto nella sua ultima formulazione neoliberista e globalista, (ricordate il libro di Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo?). A questo fallimento sta facendo seguito l’intensificarsi della tormenta con un susseguirsi di violenze che superano ogni precedente immaginazione, mentre un’altra era sta aprendosi in una situazione appunto metaforica di tormenta. Nell’articolo citato, Zibechi ha scritto: «Il mondo che conoscevamo sta giungendo al termine. Prima che un altro mondo possa nascere, vivremo un caos sistemico che durerà decenni. Solo l’organizzazione collettiva può illuminare quel futuro». Questo è accaduto nei precedenti cambiamenti di era che conosciamo, ogni volta in maniera più drammatica e lunga. Questa volta però la situazione presenta un aspetto nuovo particolarmente drammatico: non solo la transizione da un modello di civiltà ad un altro, ma la possibile fine dello stesso genere umano. Umanità a rischio di estinzione Questa ipotesi venne analizzata da Ivan Illich nel VII capitolo del libro Descolarizzare la società, intitolato Rinascita dell’uomo epimeteico. Egli non fu il primo a porsi tale problema, che era già stato sollevato in tempi passati, ma solo all’interno di una ristretta cerchia di pensatori e nella prospettiva di una catastrofe cosmica, subita e non causata dall’uomo. La novità introdotta da Illich fu l’idea che questa fine potesse essere auto-generata e che fosse necessario sottoporre il problema al dibattito pubblico perché si cercasse un rimedio per evitarla. Non dovrebbe essere questo il problema oggi più grave, da affrontare prioritariamente? Estinzione tout court, o veloce, dovuta al «pulsante di Hiroshima» premuto da un militare, oppure lenta, causata da «istituzioni non militari» che, senza pulsanti da premere, «creano bisogni più rapidamente che soddisfazioni e nel tentativo di appagare i bisogni che esse stesse suscitano, consumano la Terra»3, rendendola inabitabile al genere umano. Ma possibile anche per trasformazione: «Gli stregoni rimpiazzano le levatrici e promettono di trasformare l’uomo in qualche altra cosa: programmato geneticamente, purificato farmacologicamente e capace di restare malato molto più a lungo. L’ideale contemporaneo è un mondo totalmente asettico, dove ogni contatto fra gli uomini, o tra gli uomini e il loro ambiente, sia frutto di previsioni e manipolazioni».4 Quest’ultima è una fotografia esatta del modello a cui attualmente si sta lavorando, scattata con un anticipo di cinquant’anni. Lo sviluppo, storia di una credenza occidentale5 Questa estinzione avverrà se una forza antropologica propria degli esseri umani, la speranza, non verrà risvegliata come forza sociale capace di far passare le persone dallo stato di attesa passiva a cui sono state abituate dal mito dello “sviluppo” a una assunzione nelle proprie mani di una responsabilità attiva. Il mito dello “sviluppo” era stato lanciato in orbita nel punto IV del “discorso al caminetto” fatto dal presidente statunitense Truman nel dicembre 1949 in occasione della sua rielezione. Sviluppo che, grazie alla forza trainante del progresso tecnologico, avrebbe generato una disponibilità crescente di beni materiali atti a soddisfare i “bisogni”, sia quelli primari (cibo, abitazione. salute …) che quelli indotti (questi ultimi illimitati e in parte convertiti in “diritti”).6 Questo è il clima mentale in cui viviamo più o meno tutti, sia gli affezionati a questo sistema sia, in misura ridotta e inconscia, gli stessi suoi critici, perché questo è l’ethos, lo stato d’animo del tempo in cui stiamo vivendo.7 «L’uomo ha conquistato il potere frustrante di chiedere qualunque cosa perché non riesce a immaginare niente che non possa essergli fornito da un’istituzione».8 Le cose, come oggi sappiamo, non sono andate esattamente così: lo “sviluppo” ha creato una serie di danni “collaterali” tutt’altro che trascurabili e purtroppo crescenti, che preannunziano un futuro oscuro del quale – incredibile dictu! – ha dato una prospezione, estrapolata al 2071, Klaus Schwab,9 membro fra i più autorevoli dell’élite mondiale, presente in forze al World Government Summit (WGS),10 tenutosi a Doha, nel Qatar, dal 13 al 15 febbraio 2023, con lo slogan «Shaping Future Governments» (Plasmare i governi futuri): «Le proiezioni prevedono un futuro distopico di cambiamenti climatici catastrofici, migrazioni di massa, licenziamenti di massa dovuti all’automazione, conseguenti disordini sociali e la fusione di esseri umani e tecnologia».11 Come fotografo del futuro anche Schwab non è male, bisogna riconoscerlo. Ma il suo obiettivo era quello di convincere del fatto che i problemi collaterali dovuti al progresso tecnologico potevano e dovevano essere curati con un’ulteriore dose dello stesso progresso, come giù aveva intuito e denunciato Illich in un brano che riporteremo più avanti. Questo summit vide anche quello che secondo alcuni fu uno “scontro” e secondo altri uno “scambio” fra Schwab e un altro esponente autorevole dell’élite, Elon Musk, il quale, secondo il resoconto pubblicato sul sito Money.it, avrebbe detto che «troppa unità potrebbe far crollare l’intero sistema. “So che questo si chiama Vertice del governo mondiale, ma penso che dovremmo essere un po’ preoccupati nell’andare troppo nella direzione di un unico governo mondiale… Questo perché un unico governo mondiale potrebbe comportare un “collasso della civiltà”. Se, infatti, si avesse una “singola civiltà”, il ‘crollo’ di quest’ultima coinvolgerebbe l’intero sistema e nulla ne resterebbe al di fuori».12 Un discorso certamente sensato, inatteso dato il personaggio, che secondo i maligni lo avrebbe fatto a proprio vantaggio per rallentare l’avanzamento di alcuni progetti sponsorizzati anche da altri e rispetto ai quali i suoi erano in ritardo. E infatti è stato subito dimenticato. Il progresso tecnologico Una delle attese oggi più consistenti generata dalla credenza nel progresso tecnologico che promette di colmare i difetti collaterali da esso generati, secondo i suoi fautori è rappresentata dalla AI, l’Artificial Intelligence. Il processo della sua crescita e affermazione è in corso con velocità inaspettata, generando a un tempo speranze e timori che stanno dando luogo a un dibattito intenso. Uno dei punti di arrivo agognati dai suoi fan è l’uomo transumano, dalla vita prolungata anche fino a duecento anni, ma addirittura eterna nella sua versione cyber. In effetti oggi la vita nelle parti più “progredite” del mondo è prolungata a scapito di chi vive nelle altre parti (e a quale prezzo!).13 Personalmente non faccio parte di questi fan e nemmeno li comprendo. Trovo significativo quanto riportato recentemente da Pierluigi Fagan in uno dei suoi frequenti brevi e densi scritti, intitolato L’erosione della mente: il prezzo biologico e culturale della delega cognitiva: «La nostra mente è la funzione dell’organo detto cervello, il quale è la centrale del sistema nervoso ramificato. Il cervello è fatto di molte cellule non interconnesse che ancora non abbiamo del tutto capito quali funzioni presiedono e di un sistema fortemente interconnesso di cellule che si scambiano impulsi chimici ed elettrici. Il tipo e grado di interconnessione cerebrale fa un cervello più abile in alcuni compiti piuttosto che altri. In linea generale, meno interconnessioni, più limitata l’attività mentale, più limitato il comportamento del soggetto e le sue capacità. Il MIT ha fatto un esperimento sul funzionamento cerebro-mentale di tre gruppi diversi. Si trattava di scrivere un breve componimento a soggetto. Un gruppo doveva usare solo le proprie capacità mentali, il secondo poteva usare Internet e Google, il terzo si affidava ai sistemi automatici di scrittura. Monitorati nello svolgimento dell’esperimento, quelli del secondo gruppo hanno mostrato una connettività cerebrale inferiore di circa il 40% rispetto al primo. Il terzo del 55%. Storicamente, sappiamo che poiché la biologia si fonda sul principio dell’uso e riuso di certe strutture e funzioni, meno le si usa meno saranno efficienti ed infine scompariranno. In pratica, tutto il nostro progresso nel sollevarci dalle fatiche funzionali del dover far qualcosa, modifica la nostra stessa complessione biologica».14 Vorrei qui riportare una frase che è scolpita come punto di riferimento nella mia ancorché ormai fragile memoria: «Forse, prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare alcuni degli altri modi di ‘essere’ umani».15 Sulla diversità di questi mondi già esistenti e non statici, ma in continua propria evoluzione, è particolarmente rilevante (lo è stato almeno per me) uno studio scientifico dell’etnopsichiatra Piero Coppo16, da uno scritto del quale cito un lungo periodo relativo a questa diversità: «Altre storie, quelle di altri popoli, hanno sviluppato altre prerogative, altre potenze. Le etnografie illustrano modalità di esserci nel mondo a noi aliene, che tengono conto molto più della complessità del sistema umano e delle sue connessioni con l’ambiente materiale e immateriale in cui evolve di quanto non faccia il modello che abbiamo ereditato e da cui, a partire dall’Ottocento e dal Novecento, si sono costituite le discipline della psiche insieme al loro oggetto, il soggetto psicologico. Volendo intenderci con altri, dobbiamo quindi trovare un minimo comun denominatore che sia genericamente umano, per concepire psiche. Possiamo, per esempio, pensarla come quella parte della sfera immateriale, invisibile e sovraindividuale alla quale i singoli che vi sono immersi hanno accesso, che li nutre e che loro nutrono. Questa dimensione e i suoi contenuti si particolarizzano progressivamente localizzandosi nello spazio e nel tempo, fino a costituire quel particolare aggregato di cultura e psiche condiviso da uno specifico gruppo, che contribuisce a differenziarlo dai gruppi vicini, agglomerato che poi si incarna ulteriormente individualizzandosi in una particolare forma, nel singolo».17 Krisis Parlando di questo periodo di “transizione”, tipico come si è visto di ogni passaggio d’era, e dei problemi appena descritti, Illich ne aveva dato questa descrizione: «Il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. “Crisi”, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: Guidatore, dacci dentro! Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale. Le cure intensive per i moribondi, la tutela burocratica per le vittime della discriminazione, la fissazione nucleare per i divoratori di energia sono, a questo riguardo, risposte tipiche. Così intesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari, e specialmente di quei recuperatori che si mantengono con i sottoprodotti della crescita di ieri: gli educatori che campano sull’alienazione della società, i medici che prosperano grazie ai tipi di lavoro e di tempo libero che hanno distrutto la salute, i politici che ingrassano sulla distribuzione di un’assistenza finanziata in primo luogo dagli stessi assistiti. La crisi intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vorrebbero servirsi delle proprie gambe. Ma ‘crisi’ non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero».18 Si tratta di una descrizione che a chi scrive sembra realistica e opportuna dopo quanto già detto a proposito della sollecitazione a fare della speranza una forza sociale attiva di contrasto al “progresso”, parola della quale oggi conosciamo meglio il significato. Arche, ponti ma anche loro costruttori A questo punto, dopo aver scritto varie cose che si presentano a prima vista frammentate e scollegate, faccio una pausa di riflessione e verifica delle dimenticanze, iniziando con la ricapitolazione veloce di quanto scritto. All’inizio è riportata la citazione tratta dell’articolo di Zibechi sulla necessità di costruire arche per scampare alla tormenta. Arche, per restare nella metafora, predisposte per una navigazione lunga e avventurosa, condotte da timonieri esperti nel resistere al canto lusingatorio delle astute sirene governative. Traducendo in termini reali, queste sirene sono esperte nelle arti della cooptazione, nel creare caos e diffondere narrazioni ingannevoli, travestire la rapina in beneficenza, fingere ravvedimenti e, in caso estremo, usare violenza a man salva.19 Metafore, sia la tormenta che le arche. La metafora è una figura retorica efficace e utile in casi come questo perché parla all’immaginazione, cioè al “senti-pensare”20, più che alla pura razionalità, cosa questa che può talora sconfinare nell’astrazione o in una pura registrazione di conoscenza in una zona dormiente della memoria, senza generare un’azione conseguente. Sono tanti i motivi razionali che la preannunciavano, questa tormenta, e che avrebbero dovuto spingerci a operare per evitare il suo formarsi. Ma non abbiamo fatto niente di concreto per evitarla. Costruire arche e ponti, quindi, capaci di resistere alla tormenta. Perché questo avvenga, è necessaria una conoscenza specifica che certamente la «gente comune» non ha appreso nelle scuole del “sistema”, destinate a formare gestori acritici e zelanti di esso. Per questo, avverte Zibechi, occorre non aspettarsi aiuti dall’alto ma darsi da fare qua in basso, dove ci troviamo, aiutandoci reciprocamente e organizzandoci. “Organizzare la speranza”, che è una forza sociale, aveva detto un altro esperto lottatore antisistema, Gustavo Esteva, che il sistema lo conosceva bene avendone salito le scale fin quasi alla stanza del comando, pensando che così avrebbe potuto cambiare il suo mondo, quello messicano, prima di rendersi conto che così non sarebbe stato e decidere di de-professionalizzarsi e di schierarsi con la «gente comune», appunto. La sua visione politica, una volta uscito dalle stanze del potere, era divenuta chiara: il «mondo nuovo» lo avrebbero costruito coloro che dal sistema avevano ricevuto bastonate ed erano stati incatenati a una vita di miserie: i popoli indigeni, gli emigranti, le donne che avevano preso coscienza dell’esistenza del patriarcato, i senza lavoro, e con loro alcuni altri, mossi da antichi ideali. E aveva preso atto che le forze rivoluzionarie organizzate in cui si era creduto erano cambiate, perché avevano perduto la fiducia in se stesse, erano scese a patti con le élites del sistema. Queste, in sintesi, le sue conclusioni: le sinistre organizzate nei partiti, come pure i movimenti sociali, ormai hanno cambiato natura, e quindi obiettivi e strategie. Non è più possibile contare su di loro per un reale cambiamento radicale del sistema. E neppure si può contare sulle élites, che da tempo si sono ritagliate il proprio angolino nel sistema. Quelle che si vogliono ancora “progressiste” si sono messe l’anima in pace con l’assunzione della scappatoia del «riformismo», ma mantenendo un linguaggio di sinistra dissociato dalla pratica. Dopo aver parlato di tormenta e di suoi responsabili, di costruire arche e ponti per resisterle, dobbiamo parlare anche dei loro costruttori. Sarà fatto. Aldo Zanchetta, dall’’arca del “tiglio di Gragnano” (Aldo Zanchetta ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura) -------------------------------------------------------------------------------- Note 1 Minga, tequio: termini indigeni per definire i lavori comunitari collettivi. 2 https://comune-info.net/create-due-tre-molte-arche/ > Create due, tre, molte arche 3 Illich I., Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 2019 [1971],p. 172. 4 Ibidem, p. 173. 5 Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1997. 6 Riporto volentieri il pensiero del Mahatma Gandhi sui “diritti”: «Tutti i diritti degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto. Così, lo stesso diritto alla vita ci viene soltanto quando adempiamo al dovere di cittadini del mondo. Secondo questo principio fondamentale, è probabilmente abbastanza facile definire i doveri dell’Uomo e della Donna e collegare ogni diritto a un dovere corrispondente che conviene compiere in precedenza. Si potrebbe dimostrare che ogni altro diritto è solo un’usurpazione per cui non val la pena di lottare» (risposta di Gandhi, interpellato dall’UNESCO sull’argomento). 7 Vedi Stefano Boni, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera 2014. 8 Ivan Illich, ibidem, p. 171. 9 Klaus Schwab, creatore e all’epoca ancora presidente del World Economic Forum di Davos (WEF). 10 WGS, Global Government Summit, una piattaforma globale di scambio di conoscenze interno all’élite del sistema dedicata a plasmare il futuro del governo unico mondiale, auspicato per il 2071. I partecipanti all’evento comprendevano oltre 300 relatori e 10.000 presenze, tra cui 250 ministri di governo e rappresentanti di 80 organizzazioni internazionali, regionali e governative, tra cui le Nazioni Unite, il World Economic Forum (WEF), l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. 11 https://childrenshealthdefense.org/defender/musk-contro-schwab-al-world-government-summit-scontro-su-due-visioni-del-futuro/?%20lang=it 12 https://www.money.it/wgs-lo-scontro-tra-musk-e-schwab-al-vertice-mondialista-delle-elite-tecnocratiche 13 Per vederne alcuni aspetti che più demenziali non si può, si può leggere l’inchiesta condotta dallo scrittore scozzese O’Connell (Essere una macchina, Adelphi 2017), in cui si narra delle cliniche criogeniche ove malati terminali ricchi si fanno ibernare in attesa che la scienza abbia trovato il modo di guarirli. 14 https://www.money.it/l-erosione-della-mente-il-prezzo-biologico-e-culturale-della-delega-cognitiva 15 Scott Eastham, Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica, in InterCulture n. 2, 2005, Città Aperta ed., p. 30. 16 Piero Coppo, Le ragioni degli altri. Raffaello Cortina ed., Milano, 2013. 17 Ibidem, p. 164. Lo stesso Coppo fa una osservazione: «Questa constatazione permette di uscire dalla scelta obbligata tra la fede in un solo dio-creatore e il pensiero o il relativismo culturale acritico, offrendo l’opportunità di un salto epistemologico importante che consente di passare in forze da una cosmologia universale a una pluri-versa. Oggi è cioè possibile, sulla scelta delle nuove teorie sulla complessità, sui sistemi acentrici e sull’autorganizzazione [ … ], accedere a una prospettiva tendenzialmente meta-culturale che permetta di sostenere, con uno sguardo dall’alto, l’esistenza e la coesistenza nello stesso spazio e tempo di molti mondi più o meno compatibili tra loro, sopportando la mancanza di un vertice che li riassuma in uno solo, in un solo edificio e destino che sarebbero, d’altra parte, inevitabilmente caotici e incoerenti» (Ibidem, pp. 191.192). 18 Ivan Illich (2005 [1978]), Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto all’impiego, trad. it. E. Capriolo, Boroli, Milano, pp. 20-21. 19 Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. social network, menzogne di Stato e ricostruzione del vivente, Edizioni Malamente, Urbino 2024. 20 Il senti-pensare è la fusione di due modi di percepire e interpretare la realtà a partire dalla riflessione e dall’emotività dando luogo a una concomitanza di pensiero e di azione, fino alla convergenza in un unico atto di conoscenza e di azione. Il senti-pensare è l’incontro intensamente consapevole tra sentimento e ragione. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI STEFANIA CONSIGLIERE: > Altri mondi reali -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Affrontare la tormenta proviene da Comune-info.
Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente
ABBIAMO BISOGNO DI IMPARARE FORME CONCRETE DI RESISTENZA ALL’OLOCAUSTO CAPITALISTA CHE OGGI EMERGONO DENTRO, CONTRO E OLTRE IL SUO PERIMETRO ASFISSIANTE. “LA COLLABORAZIONE NEI COMPITI CHE FAVORISCONO LE OPPORTUNITÀ DELLA SUSSISTENZA COLLETTIVA, COME COLTIVARE LA TERRA O COSTRUIRE CASE, È UN PROCESSO CHE POTENZIALMENTE TRASFORMA LA NECESSITÀ IN ETICA… – SCRIVE STAVROS STAVRIDES – GLI SFORZI DELLA SOPRAVVIVENZA COLLETTIVA FANNO EMERGERE FORME DI CONVIVENZA BASATE SULLA MUTUA DIPENDENZA…”. I MODI ATTRAVERSO I QUALI IN TUTTO IL MONDO DONNE E UOMINI LOTTANO OGNI GIORNO PER SOPRAVVIVERE POSSONO CREARE DEI SENTIERI VERSO L’EMANCIPAZIONE COLLETTIVA, ANCHE SE NON SIAMO ABITUATI A CONSIDERARE QUESTA PROSPETTIVA Foto tratta dalla pag. fb del Movimento dos Trabalhadores Sem Terra (MST) -------------------------------------------------------------------------------- L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il patriarcato scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe attuale non è inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e sperimentare con fatti che dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno bisogno di imparare dalle concrete resistenze all’olocausto capitalista che oggi emergono dentro, contro e oltre il suo perimetro asfissiante. Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a modelli basati su generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o etiche che cercano di afferrare il significato delle azioni degli altri? Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista: “consumiamo tutto ciò che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”, consoliamoci guardando come altri già vivono in questa catastrofe con la speranza di poterle sfuggire”. È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei loro mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a mantenersi vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono gli afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i discendenti degli schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una naturalizzazione di un’identità brutalmente forzata – a manifestare nella pratica la propria volontà di continuare a essere differenti e liberi per conferire forma al loro proprio mondo? Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi, questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”. Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva, necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione. La collaborazione nei compiti che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come coltivare la terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente trasforma la necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione possono trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi fondamentali. Solo per fare un esempio: il Mutirão in Brasile (parola con radici nella lingua tupí guaraní) è un processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e che si basa sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone senza terra e senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta che produce nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione di cura con la terra (Stavrides, 2024). -------------------------------------------------------------------------------- Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”) -------------------------------------------------------------------------------- Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima (condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda, emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo usare il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di cooperazione che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si pone la questione dell’accesso equo e della distribuzione del potere, questione inevitabile oltre al come la ricerca della sopravvivenza collettiva affronti questa questione. Se la catastrofe smaschera le differenze spesso accuratamente nascoste, gli sforzi della sopravvivenza collettiva fanno emergere forme di convivenza basate sulla mutua dipendenza. Gli sforzi individuali, specialmente tra coloro che sono i più vulnerabili e ignorati (a meno che non li si consideri dall’esterno come inutili) si rivelano ogni volta più sterili. Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche collettive e le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica nascono nella intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione sociale. Forse in un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi delle regole predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità degli atti che apparentemente seguono le tipologie predominanti del comportamento se distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello. Questa possibilità la suggerisce Giorgio Agamben: “… un paradigma implica un movimento che passa di singolarità in singolarità e, senza mai abbandonare la singolarità, trasforma ogni caso singolare in un esempio di una regola generale che non può mai enunciarsi a priori” (2009:22). Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente la generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo per presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una comparazione analogica. I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio la vita del fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie vite, uniche come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare questa pratica imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti comparati. La base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri nell’altro. La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa di molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il paradigma, come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare sospensione della propria specificità del suo significato. La sua singolarità, in un certo senso, rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la coniugazione del verbo “amare” per mostrare la regola della coniugazione di verbi simili). Un gesto paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola si formi a partire da tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E l’esempio è certamente uno di quelli. Agamben conclude: “Il caso paradigmatico si converte in ciò nel sospendere e, allo stesso tempo, nell’esprimere la sua appartenenza al gruppo, in modo che non sia mai possibile separare il suo modello dalla sua singolarità” (ibid. 31). Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in questa maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo perché identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre l’unicità dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione di differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di schemi dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano regole che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi. In questo senso, ogni azione è un esempio. -------------------------------------------------------------------------------- I bambini e le bambine del Palestine Youth Club di Shatila al Centro storico Lebowski di Firenze (luglio 2025): foto di Chiara Benelli (che ringraziamo) per Un ponte per -------------------------------------------------------------------------------- In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto differente o un insieme di pratiche differenti possono considerarsi controesempi se li paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non come un’eccezione: l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di essa come un verbo “irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si assomigliano nel non seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste nel dire che l’eccezione non sta al di fuori della regola, bensì ne è solo la sua sospensione. Per questo, le eccezioni rilevano gli elementi costitutivi della regola dalla quale si separa ogni eccezione particolare. Il detto popolare che recita che l’eccezione conferma la regola sembra rivelare più di quanto appare in un primo momento. Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando si trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma specifica. Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non dovrebbero descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole dominanti o espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una delle maniere di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia, più che una condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di sopravvivenza quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli immediati della catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri verso l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è necessariamente integrata in queste tattiche. Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La loro forza risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi sociali organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma anche grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare questi atti come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire delle teorie di emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto importante: il ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a confronto una molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In altre parole, l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in circostanze specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel rispettare il carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata, abbiamo quindi la necessità di considerare l’emancipazione sociale come il trionfo dell’inventiva collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati di inventiva possono emancipare sé stessi. -------------------------------------------------------------------------------- Stavros Stavrides è professore alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo sostegno. Nell’archivio di Comune, altri suoi articoli sono leggibili qui. Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. Traduzione di Massimo Zincone. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente proviene da Comune-info.
Tomás Hirsch: “Jeannette Jara rappresenta la speranza che in Cile sia possibile cambiare le cose in modo profondo”
Il 29 giugno in Cile Jeannette Jara ha vinto le primarie della sinistra e sarà la candidata delle forze democratiche, progressiste, indipendenti e umaniste alle elezioni presidenziali che si terranno a novembre, dove dovrà affrontare i rappresentanti della destra e dell’estrema destra. Discutiamo della situazione politica e sociale del Paese, delle prospettive aperte da questa vittoria e delle proposte della coalizione di sinistra con Tomás Hirsch, deputato e presidente di Acción Humanista, che ha partecipato con entusiasmo alla campagna elettorale che ha portato alla schiacciante vittoria di Jeannette Jara. Dopo quasi quattro anni di governo Boric, come vedi la situazione politica e sociale in Cile? Quali sono stati i principali progressi in questo periodo e quali le sconfitte? Indubbiamente in questi quasi quattro anni di governo del presidente Gabriel Boric, a cui abbiamo partecipato come Acción Humanista, sono stati compiuti importanti progressi, ma non abbastanza da poter dire che il Cile è un Paese in cui esistono una vera giustizia sociale e diritti sociali garantiti come quelli a cui aspiriamo. Sono stati fatti dei progressi, ma c’è ancora molta strada da fare. Perché c’è ancora molta strada da fare? Fondamentalmente perché, pur stando al governo, non avevamo la maggioranza al Congresso e questo ha significato un impedimento permanente da parte della destra a realizzare le principali trasformazioni proposte nel nostro programma di governo. Si trattava di trasformazioni strutturali nei settori della sanità, dell’istruzione, della casa, del lavoro e delle pensioni. Allo stesso tempo, la sconfitta subita nel plebiscito per l’approvazione di una nuova Costituzione è stata un colpo durissimo, che ha generato frustrazione e smobilitazione in molte persone. Da quel momento in poi c’è stato un cambiamento nelle priorità del governo, con una forte enfasi sulla sicurezza e su altre questioni che non erano incluse nel programma iniziale. In breve, credo che ci siano stati grandi progressi nei diritti delle donne, nei diritti del lavoro, nella riforma del sistema pensionistico e in quella del sistema educativo, per finire con il sistema di crediti e pagamenti per gli studenti, ma c’è ancora molta strada da fare e questa è la possibilità che si apre con un governo guidato da Jeannette Jara. Jeannette Jara ha sconfitto Carolina Tohá, la candidata del Socialismo Democratico, che fino a pochi mesi fa i sondaggi davano per sicura vincitrice. Quali sono stati, secondo te, gli elementi che l’hanno portata alla vittoria?   Credo che ci siano diversi elementi che hanno contribuito alla vittoria di Jeannette Jara. In primo luogo, le sue caratteristiche personali. La gente la percepisce come una persona genuina, sincera, vera, che non finge di essere ciò che non è, riconoscibile come una persona che viene dal popolo, con una madre che era una donna delle pulizie, con lei stessa che è stata una lavoratrice stagionale in gioventù, una bracciante agricola, ma allo stesso tempo come una persona che come Ministra del Lavoro è riuscita a far approvare importanti leggi come la riduzione della giornata lavorativa, l’aumento del salario minimo e la riforma del sistema pensionistico. In breve, direi che c’è un rifiuto dell’élite politica, un rifiuto di un ritorno alla vecchia Concertación, espresso nel voto molto basso per Carolina Tohá, che è stata percepita come un membro dell’élite, come una persona “distante”, che spiegava come dovrebbero essere le cose. La gente è stanca di quelli che vengono a pontificare, che vengono a spiegare dall’alto come dovrebbero essere le cose. Allo stesso tempo, credo che ci sia un’aspirazione a muoversi verso trasformazioni profonde come quelle proposte da Jeannette Jara e un rifiuto, una distanza da ciò che si percepiva di Carolina Tohá, come una politica che voleva rifondare, riprendere quella che era la vecchia Concertación. C’è stato anche un voto punitivo per il Frente Amplio, che credo rifletta anche la frustrazione per ciò che questo governo non ha fatto, per tutte le promesse e gli impegni non mantenuti, anche se in molti casi questo mancato adempimento è dovuto al fatto che l’opposizione di destra ha la maggioranza al Congresso. Jeannette Jara rappresenta quindi la speranza, il ritorno della speranza che sia possibile cambiare le cose in modo profondo. Credo che questo elemento abbia avuto una forte influenza, rafforzato anche dalle sue caratteristiche personali. Jeannette viene percepita come una persona molto semplice, comunicativa, che vive e conosce davvero i problemi di cui soffre la stragrande maggioranza della gente. In un certo senso queste elezioni primarie sono state definite come una scelta tra “popolo ed élite”. Vedi delle analogie con un’altra vittoria inaspettata e incoraggiante, quella di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per il candidato sindaco di New York?  Si possono certamente riconoscere delle analogie con la vittoria molto incoraggiante di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per la candidatura a sindaco di New York. In Cile e negli USA queste vittorie esprimono una ribellione alle vecchie proposte conservatrici che promettono, ma alla fine non cambiano nulla. Credo che entrambi rappresentino la freschezza del nuovo, la possibilità di cambiare, le speranze delle nuove generazioni. In breve, mi sembra che ci siano delle analogie e che ci siano anche delle somiglianze con quanto abbiamo visto in Messico con l’elezione e le politiche portate avanti da Claudia Sheinbaum, l’attuale presidente del Paese. Che cosa ha spinto Acción Humanista a sostenere la candidatura di Jeannette Jara? In Acción Humanista abbiamo deciso di sostenere Jeannette Jara diversi mesi fa, quando nessuno la vedeva come una candidata con possibilità di vincere le elezioni primarie. La decisione è stata presa in un ampio consiglio generale all’unanimità e grazie a un registro di coerenza. Abbiamo ritenuto che fosse la cosa giusta da fare, che non si trattava di un calcolo elettorale, ma che dovevamo fare la nostra scelta sulla base di un registro di coerenza, che lei rappresentava le aspirazioni più sentite del mondo dell’umanesimo, che la sua proposta rifletteva le nostre priorità, le nostre lotte fondamentali. Va sottolineato che, oltre ai comunisti, il suo partito, Acción Humanista è stata l’unico altro partito a sostenerla alle primarie. Da questo punto di vista, tralasciando tutti i calcoli, e pensando all’epoca che molto probabilmente non avrebbe vinto, c’è stato un consenso per appoggiare la sua candidatura. Lo abbiamo fatto in modo molto attivo, ci siamo uniti al suo direttivo, siamo stati tra i principali portavoce della sua campagna, sia la deputata e vicepresidente di Acción Humanista, Ana María Gazmuri, sia il nostro sindaco Joel Olmos, sia io, come deputato e presidente di Acción Humanista. La nostra gente ha partecipato molto attivamente in tutte le regioni e i Comuni in cui siamo presenti. Abbiamo anche creato un legame umano molto stretto con Jeannette e credo che siamo riusciti a dare un contributo in termini di sguardo, di stile, di atteggiamento, di collocazione dell’umanesimo nel rapporto che stavamo costruendo con lei, che andava avanti già da prima e che ora è proiettato verso il primo turno delle elezioni,  a novembre. Valutando la nostra decisione ora che Jeannette ha vinto con una maggioranza schiacciante alle primarie, crediamo che sia stato un atto molto valido, che ci permette di guardare al futuro con grande speranza. Come umanisti siamo molto impegnati a continuare a lavorare insieme, a contribuire con uomini e donne ai rispettivi team di lavoro, a collaborare negli aspetti programmatici, editoriali, organizzativi e comunicativi. Sappiamo che in questa nuova fase confluiranno anche le équipe degli altri partiti progressisti che hanno perso alle primarie e hanno promesso il loro sostegno, per cui si formerà un direttivo molto più ampio e diversificato e continueremo a contribuire con la visione e le proposte dell’umanesimo. Quali sono i punti principali del programma della sinistra? I punti principali del programma sono, in primo luogo, passare da un salario minimo, che è già cresciuto molto con questo governo, a quello che noi chiamiamo un salario vitale, cioè un salario che permetta a una famiglia di vivere in modo decente e dignitoso.  In secondo luogo, portare avanti e approfondire la riforma del sistema pensionistico, auspicabilmente fino a porre fine alle “Administradoras de Fondos de Pensiones” ( AFP)[1].  In terzo luogo, portare avanti un modello di sviluppo e crescita con una migliore distribuzione del reddito, dando priorità ai progressi verso un maggiore valore aggiunto nell’economia del Paese, che è fondamentalmente un’economia estrattivista ed esportatrice di materie prime. Quarto, migliorare le condizioni nello sfruttamento dei nostri minerali, aumentando le royalties e puntando a recuperare l’industria del litio come industria strategica per il nostro Paese. Quinto, fare progressi nella riforma del sistema sanitario, rafforzando la sanità pubblica, che oggi soffre ancora di enormi carenze a causa della mancanza di finanziamenti adeguati che le permettano di competere meglio con i sistemi sanitari privati. In sesto luogo, una politica che ponga l’accento sulla protezione dell’ambiente, tenendo conto delle crisi climatiche, del riscaldamento globale e dei rischi che queste crisi climatiche comportano oggi per il nostro Paese. Pertanto, i criteri ambientali costituiscono un aspetto strategico e fondamentale del nostro programma di governo. Settimo, rafforzare e far progredire le relazioni internazionali con la nostra regione, mantenendo i legami con i Paesi dei cinque continenti, ma promuovendo una politica di pace, soprattutto nella nostra regione latinoamericana. Questi sono alcuni degli aspetti del programma di governo, che in questa fase sarà arricchito con le proposte programmatiche degli altri candidati che hanno partecipato alle primarie e hanno perso. Ci siamo impegnati a includere anche le loro proposte, per elaborare un programma comune a tutto il progressismo e l’umanesimo. Quali prospettive vedi per le elezioni presidenziali di novembre? Qualche tempo fa si dava per scontato che le elezioni di novembre sarebbero state vinte dalla candidata di destra Evelyn Matthei e c’era anche il rischio che vincesse un candidato di estrema destra come José Antonio Kast. Oggi direi che questo scenario è cambiato. I primi sondaggi dopo le primarie danno un ottimo primo posto a Jeannette Jara, molto più avanti di Matthei e Kast. Naturalmente il panorama è ancora aperto, mancano cinque mesi e possono succedere molte cose, ma credo che oggi sia un’elezione aperta e che il mondo della sinistra, del progressismo e dell’umanesimo possa vincere. Metteremo tutto in gioco per ottenere questa vittoria, che probabilmente non sarà al primo turno di novembre, ma al secondo turno di dicembre. Oggi Jeannette Jara è chiaramente una candidata molto competitiva, che sta generando una grande speranza in molte persone, soprattutto tra i giovani. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo [1] Un sistema istituito nel 1981 dal regime militare di Pinochet, affidando le pensioni a società finanziarie private che gestivano i contributi dei lavoratori senza alcun intervento statale o contributo da parte dei datori di lavoro. Anna Polo
Leggere Levi oggi
-------------------------------------------------------------------------------- A proposito di rifiutare l’idea che non si possa cambiare nulla: una delle rotte europee più utilizzata dai migranti è quella dei Balcani che trova da diversi anni nella piazza di Trieste uno improvviso splendido spazio di relazioni, ascolto, solidarietà creato dal basso. Foto di Lorena Fornasir -------------------------------------------------------------------------------- Leggere Primo Levi resta un esercizio morale, un invito alla vigilanza e alla responsabilità, a non smettere di pensare. Leggerlo perché lui il male l’ha conosciuto, l’ha visto in faccia, l’ha patito sulla sua pelle. Ha sofferto e ha visto l’indicibile. E l’ha raccontato, l’ha analizzato. Non per coltivare l’orrore o cercare la compassione, ma per capire. Perché Levi non si limita a narrare l’orrore: lo interroga. Vuole comprendere come sia stato possibile, come il male abbia potuto insinuarsi così profondamente nelle persone comuni, nella burocrazia, nelle leggi. “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo. Questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”. Questo significa saper vedere le forme nuove dell’indifferenza, della discriminazione, della violenza. Perché non si ripetono mai identiche, cambiano linguaggio, si insinuano nei discorsi pubblici, nelle scelte quotidiane, nei silenzi. Oggi, ad esempio, non ci sono più i lager, ma ci sono i campi di detenzione per migranti, i muri alle frontiere, le guerre raccontate con freddezza numerica, i bambini bombardati descritti come effetti collaterali. C’è chi subisce, chi esegue ordini, chi volta lo sguardo. E Levi lo sapeva: non bastano i carnefici per far funzionare l’orrore, serve una zona grigia di complici passivi, di persone che si tirano fuori, “una zona di compromesso e di ambiguità, una nebulosa di figure che oscillano fra i due poli, spesso senza una chiara coscienza del loro ruolo” (I sommersi e i salvati). Ogni tempo ha il suo fascismo, scriveva: e comincia a insinuarsi proprio quando, in assenza di critica, qualcuno comincia a perseguitare i più deboli. I totalitarismi nascono in silenzio, trasformando intere categorie di persone in vite superflue. Si costruiscono sull’indifferenza, sulla rassegnazione, sul progressivo svuotamento del senso morale. Ma soprattutto spostano la colpa del disagio sociale, della paura, dell’insicurezza. Ma anziché guardare alle vere responsabilità – le scelte politiche, le disuguaglianze sistemiche, l’abbandono dei territori – si costruisce una verità di comodo. Il nemico diventa chi è povero, chi è straniero, chi è diverso. Chi non può difendersi, perché non ha voce, non ha diritti, non ha una rete. Un meccanismo perverso: scaricare il dolore su chi è già fragile. Ma non possiamo permettere che il male diventi normale, che la disumanizzazione diventi prassi quotidiana. Chi è stato torturato rimane torturato, diceva Jean Améry. Non si torna interi da quell’abisso. E chi nega il male, chi ne minimizza le conseguenze, chi costruisce menzogne collettive, si rende complice. Non basta dire “non sapevo”, “non toccava a me”. La storia di chi viene emarginato – anche oggi – rischia di essere cancellata. Privata della possibilità di essere narrata, sepolta sotto il peso dell’indifferenza. Come diceva Levi in una delle pagine più terribili: “In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi. Nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza. Ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà”. Cancellare i testimoni, spegnere ogni voce. È quello che Judith Butler chiama “privare del diritto alla sepoltura” – negare a qualcuno il diritto di essere pianto, di essere riconosciuto nella propria umanità. E se questo viene negato, tocca a noi diventare memoria. Basta guardare. È tutto sotto i nostri occhi. Politici che giocano a fare i forti con i deboli, che costruiscono carriere attorno alla parola nemico. Migranti descritti come minaccia. Chi salva vite trattato da criminale. Chi difende la Costituzione tacciato di ideologia. La crudeltà, oggi, non ha bisogno di uniformi: indossa giacche e cravatte. Viene applaudita. Viene votata. Naturalmente non basta ricordare. Bisogna anche agire. Non serve fare i puri, non basta prendere le distanze da ciò che non ci piace. Molti intellettuali, giornalisti, commentatori denunciano, ma la critica fine a sé stessa, se non si traduce in presenza, in ascolto, in azione, rischia di diventare un esercizio sterile. E spesso, senza volerlo, alimenta disillusione e distanza. Se tutto è perduto, perché provarci? E invece no: servono voci che sappiano non solo smascherare, ma anche costruire. Che non si chiudano nei salotti autoreferenziali, ma sappiano parlare dove c’è bisogno. Nei margini, nei luoghi abbandonati, dove cresce il rancore perché mancano alternative. Serve rifiutare il cinismo. Ricostruire legami. Parlare non solo a chi già sa, ma raggiungere chi è stato lasciato solo, nei quartieri dimenticati, nelle scuole, nei luoghi dove la politica arriva solo sotto forma di promesse vuote o slogan d’odio. Non serve essere irreprensibili, serve esserci. Servono parole che incontrano, occhi che restano aperti. E per chi fa cultura, politica, educazione, il compito è ancora più urgente: costruire un discorso alternativo, umano, non settario. Resistere insieme non è una parola poetica: è una scelta politica e quotidiana. Non per sentirsi migliori, ma per non arrendersi all’idea che non si possa cambiare nulla. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Create due, tre, molte arche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Leggere Levi oggi proviene da Comune-info.
Uscire dal capitalismo con Ivan Illich
FINCHÉ SIAMO CAPACI DI DIFFONDERE LA PRATICA E IL DISCORSO DELLA CONVIVIALITÀ, DEL FEMMINISMO, DELL’ANTIRAZZISMO, DELL’ANARCHIA, DELLO ZAPATISMO, E SOPRATTUTTO DI RENDERE VISIBILI E SOSTENERE LE ALTERNATIVE, FARLE CRESCERE, COSTRUIRE SPAZI DI VITA ANTICAPITALISTI, C’È SPERANZA A proposito del concetto di convivialità di Ivan Illich, nella foto un’iniziativa della cooperativa sociale Liberi sogni. Dal 31 maggio al 2 giugno, Liberi sogni promuove Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma completo e le informazioni per partecipare. Avete prenotato? -------------------------------------------------------------------------------- È davvero possibile uscire dal capitalismo? È diventato banale sottolineare che è più facile immaginare la distruzione dell’umanità che uscire dal sistema capitalistico. Nella post-modernità sono morte le grandi narrazioni che in precedenza ci davano luce e orientamento, come il socialismo o il cristianesimo; sembra che non sia più ideologicamente possibile costruire un obiettivo alternativo. Non stiamo solo affrontando il collasso climatico, ma anche quello delle idee. Intorno a me trovo persone incredule, nichiliste, anche nei movimenti sociali. Ho voluto scrivere questo tributo a Ivan Illich (1926-2002) per i “non convertiti”, per i critici radicali delle alternative, per coloro che sostengono che siamo arrivati “alla fine della storia” e che “non ci sono alternative”. Incontrare Ivan Illich significa tornare alla speranza. Nel mio caso particolare, è vero che la mia sintesi consiste nell’accettare che la spinta della modernità capitalista è brutale, difficile da arrestare (a volte lo sento come impossibile). Tuttavia tornare a Ivan mi riequilibra e mi permette di essere consapevole del fatto che finché siamo capaci di diffondere la pratica e il discorso della convivialità, del femminismo, dell’antirazzismo, dell’anarchia, dello zapatismo, e soprattutto di rendere visibili e sostenere le alternative, farle crescere, costruire spazi di vita anticapitalisti, c’è speranza. Sto già cominciando a sentire le critiche di chi ha letto queste prime righe, compresi i miei amici e familiari più cari: Carlos, tu non vivi in Messico; Carlos, noi non siamo indigeni; Carlos, in Messico questo è impossibile; o la migliore di tutte: Carlos, in Messico si possono creare alternative, ma qui in Europa o negli Stati Uniti è impossibile. Tuttavia ci sono autonomie come quelle di Ostula, di Cherán1 o dello Zapatismo, così come innumerevoli esperienze nel contesto dell’auto-organizzazione conviviale, come il confederalismo democratico e femminista del Kurdistan o settori del movimento indigeno in Sud America, per citare alcuni degli esempi più significativi. E ci sono esperienze in tutto il mondo in cui i beni comuni, gli ambiti comunitari che sono stati strappati ai popoli dal capitalismo, sono difesi o sono stati recuperati. O ci sono semplicemente piccoli gesti di ribellione individuale o collettiva di persone che cercano di fare le cose in un modo diverso: selezionare la spazzatura, riciclare, riparare, recuperare la medicina tradizionale e le ricette delle nonne, rifiutare l’auto e usare la bicicletta. Molti staranno pensando: eh, si… ma tutto ciò non è sufficiente per ribaltare l’inerzia e il caos causati dal capitalismo, soprattutto oggi, con tutto il peso di morte e distruzione che porta con sé. E questo è il momento in cui gli zapatisti, dopo essersi eroicamente organizzati in clandestinità per dieci anni, dopo aver preso le armi, dopo aver tentato di dialogare con il governo, dopo aver rinunciato alle armi e aver costruito in pratica per trent’anni ciò che, secondo Gustavo Esteva, Ivan Illich aveva immaginato, una società conviviale, un’alternativa al capitalismo, ti interpellano e ti chiedono: E tu…? Che cosa stai facendo? E poiché è normale che siamo smarriti, agganciati al sistema, senza bussola, incontrare Ivan ci dà speranza. Io l’ho conosciuto per caso, quando un compagno, a una fiera del libro anarchico, mi ha consigliato il libro intitolato Dizionario dello Sviluppo, con un prologo di Gustavo Esteva (un caro compagno che se n’è andato fisicamente due anni fa – e in gran parte questo testo si aggiunge agli scritti che rendono omaggio alla sua memoria). Questo incontro ha segnato un prima e un dopo nella mia vita. A quel punto volevo sapere tutto sui critici dello sviluppo, su Illich, Esteva, Jean Robert, Wolfgang Sachs. Per prima cosa, ho contattato Braulio Hornedo, a Cuernavaca, che mi ha dato Ripensare il mondo con Ivan Illich2 e mi ha anche raccomandato di procurarmi una copia delle Opere complete che erano state pubblicate in Messico dal Fondo de Cultura Económica, dietro sollecitazione di Javier Sicilia e Valentina Borremans. Non ricordo quando ho comprato Descolarizzare la società, Nemesi medica o La convivialità.3 Per me quest’ultimo è il libro chiave dall’epoca dei pamphlets di Ivan Illich, cioè degli anni Settanta, quando coordinava il CIDOC [Centro di Documentazione Interculturale] di Cuernavaca. Indubbiamente, Illich è ricordato nel mondo come il grande critico del sistema educativo, per aver fatto dichiarazioni radicali sulla sua contro-produttività: «Per la maggior parte delle persone l’obbligo della frequenza scolastica è un impedimento al diritto di apprendere».4 Sebbene molte delle affermazioni di questo libro possano sembrare obsolete, in realtà le idee di base contro il sistema educativo sono pienamente valide ancora oggi. L’impegno di Illich consiste nel puntare sull’apprendere e non sull’istruire, sulla generazione di spazi capaci di promuovere la curiosità e l’apprendimento collettivo invece che su un’istruzione diretta dall’alto e autoritaria.   Ma il pensiero di Illich va ben oltre la critica del sistema educativo: Ivan ci ha lasciato in eredità un’intera cassetta degli attrezzi per pensare alla modernità. «Illich ha anticipato con inquietante lucidità l’attuale disastro, la decadenza di tutte le istituzioni, il modo in cui una dopo l’altra hanno cominciato a produrre l’opposto di ciò che si presume giustifichi la loro esistenza. Ha mostrato precisamente come la corruzione del meglio sia il peggio. Ed ha anche anticipato il modo in cui la gente avrebbe reagito al disastro», ha scritto Gustavo Esteva a proposito del suo grande amico. E qui si comincia ad essere affascinati, quando si conosce la storia di Ivan, il rapporto tra la sua vita e le sue idee, il momento sociale e politico in cui ha generato il suo pensiero, i suoi percorsi e infine il suo impegno per l’amicizia. Sì, l’amicizia, ma anche l’interculturalità. È impressionante che dopo cinquant’anni, dopo aver attraversato un periodo di oblio, il pensiero di Ivan si presenti oggi come un corpus critico complesso, utile per affrontare il collasso sistemico. Il suo lavoro può essere interpretato come una revisione critica della moderna tensione tra autonomia e strumentalità, come ha fatto Humberto Beck.5 Le donne e gli uomini hanno creato strumenti [herramientas] o istituzioni per raggiungere una maggiore autonomia, ma Illich ha sottolineato che gli strumenti, invece che mezzi per raggiungere l’autonomia, sono diventati fini. Così perdiamo l’autonomia, e le istituzioni ci controllano generando l’opposto di quello che era il loro scopo originario. In La convivialità Illich ha proposto la sua teoria dei limiti. Egli ritiene che, a partire da una certa soglia di sviluppo, un’istituzione produca esattamente l’opposto di quello che, in teoria, è il suo fine. La medicina produce nuove malattie; Il sistema educativo genera meccanicismo e ignoranza e il trasporto motorizzato rallenta gli spostamenti, smantellando così i moderni concetti di progresso e sviluppo. Molte persone, leggendo questo, penseranno: sì, è chiaro, se qualcosa cresce troppo non va bene, gli estremi non sono mai buoni! Ma raramente ci fermiamo a pensare che lo Stato e le istituzioni moderne fanno parte di questi estremi. Abbiamo normalizzato il fatto che soggetti terzi si occupino di sfere chiave della nostra vita, supponendo anche che lo facciano altruisticamente, come se il potere e le strutture verticali attraverso le quali si sono arrampicati non li influenzassero. Vale a dire che le istituzioni educative, le istituzioni sanitarie, i moderni sistemi di trasporto, così come il sistema alimentare e molti altri, sono cresciuti così tanto che abbiamo delegato il nostro potere decisionale a “esperti”, e questi sistemi hanno generato, secondo Illich, “contro-produttività”. Recuperare collettivamente i nostri ambiti comunitari, strapparli allo Stato e alle grandi imprese, impiegare “i verbi” [invece dei sostantivi], come diceva Gustavo, è la sfida: imparare, seminare, curare, spostarsi. Queste indicazioni ci ricordano esattamente la necessità di un ritorno a quella dimensione comunitaria che è tanto rivendicata nella Tierra insumisa,6 l’Europa che gli zapatisti hanno voluto incontrare. Da dove è nata questa geniale intuizione? si chiede Javier Sicilia nel prologo al secondo volume dell’Opera Omnia di Illich pubblicata in Messico.7 Per Illich, la modernità come fase storica non rappresenta la fine del cristianesimo, né il suo esito positivo, ma il suo pervertimento. Per Illich, secondo le conversazioni che ebbe con l’amico David Cayley, pubblicate postume, i primi cristiani avevano la tradizione di tenere sempre in casa una candela e un pezzo di pane, nell’eventualità che Gesù si presentasse nelle vesti di uno straniero a chiedere di essere ospitato a casa loro.8 Tuttavia, con l’imperatore romano Costantino il cristianesimo fu istituzionalizzato come religione di Stato, così come la pratica dell’ospitalità. In tal modo, quello che prima era un segno del cristianesimo (accogliere il migrante, il prossimo, ospitarlo e nutrirlo) divenne qualcosa che solo l’istituzione poteva fare, il che spogliava i cristiani primitivi di una caratteristica che dava loro un’identità. È qui che Illich colloca la nascita della cultura delle istituzioni moderne: il momento in cui smettiamo di occuparci dei nostri affari vitali e comunitari e deleghiamo agli esperti il potere di svolgere quelle attività al nostro posto, in modo tale che a lungo andare gli strumenti diventano fini in se stessi, e prima o poi producono l’opposto di ciò per cui erano stati creati. In modo analogo, Illich reinterpreta la parabola del Buon Samaritano per renderci consapevoli dell’importanza di avere ben chiaro chi è il nostro prossimo, chi sono coloro con cui costruire l’alternativa. Nella versione di Ivan, il Buon Samaritano incontra un uomo ferito, un romano o qualcosa del genere, spiega Illich per farci capire tutte le potenzialità dello sguardo del Samaritano, come se ai nostri giorni, in cui assistiamo al genocidio palestinese da parte dello Stato israeliano, un palestinese incontrasse un ebreo ferito e decidesse di prendersene cura e di farsi carico delle spese della locanda che lo ospiterà. È un’azione radicale e trasgressiva: si tratta di recuperare la libertà di scegliere chi è il nostro prossimo, indipendentemente da ciò che il contesto ci indica. Alla fine della sua vita, Ivan si dedicò allo studio dell’origine delle certezze moderne e a coltivare l’amicizia. Indicò quest’ultima come il luogo in cui è possibile generare relazioni altre, conviviali. Una scelta che in realtà porta con sé un grande impegno. L’amore per le persone con cui viviamo, per gli amici, la famiglia, il partner, i compagni, porta in sé il seme del mondo nuovo. Quegli amici con cui si può condividere da una tavola apparecchiata fino alla generazione collettiva di nuove forme di vita, costituiscono il luogo illichiano della speranza, lo spazio ideale per uscire gradualmente dal capitalismo, come dicono gli zapatisti, ognuno a modo suo, costruendo un mondo in cui trovano posto molti mondi diversi. Anche la conversazione è uno spazio privilegiato e un’arte caldeggiata da Ivan. Poiché tutto inizia nella nostra mente, condividere ciò che abbiamo imparato, sottoporci a un esame critico, ideare qualcosa insieme agli altri è un tesoro di cui dobbiamo approfittare. È urgente mettere in pratica i nostri progetti conviviali verso un’uscita non violenta dal capitalismo, ma non porgendo l’altra guancia, come a volte viene mal interpretato nel contesto del pacifismo, ma con azioni collettive che generino alternative giuste, locali e sostenibili, che nello stesso tempo disarticolino e blocchino l’inerzia del sistema. Il potere insiste nel farci credere che non ci sono alternative, ma il futuro non è scolpito sulla pietra. Il messaggio di Ivan porta con sé questa speranza. Diffondiamo il suo messaggio nelle conversazioni con i nostri amici, mettiamo in pratica le sue idee, discutiamone, costruiamo la casa di tutti. -------------------------------------------------------------------------------- Fonte: «Salir del capitalismo con Iván Illich», in El Salto. Articolo pubblicato con l’autorizzazione dell’autore. Traduzione a cura di Camminardomandando. -------------------------------------------------------------------------------- 1 N.d.t. – Città che in Messico hanno realizzato un buon grado di autonomia. 2 N.d.t. – Museodei by Hermatena, Riola (BO) 2014 [2012]. 3 N.d.t. – Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, Mimesis, Milano-Udine, 2019 [1971] / Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Red Edizioni, Como 2013 [1976] / La convivialità, Boroli, Milano 2005 [1973]. 4 N.d.t. – Dall’Introduzione a Descolarizzare la società. 5 N.d.t. – Beck H., Otra modernidad es posible, Malpaso Ediciones, 2017. 6 N.d.t.- Arrivando in Europa nel loro «viaggio per la vita», così gli zapatisti hanno battezzato il continente: terra indomita, che non cede, che non si arrende. Si veda l’articolo di Esteva «Condizioni di forza e di debolezza», 28 giugno 2021. 7 N.d.t. – Obras reunidas, Fondo de Cultura Económica, México 2008. 8 N.d.t. – Illich I., I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Quodlibet, 2009 (testo originale: 2005), pp. 38-39. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Uscire dal capitalismo con Ivan Illich proviene da Comune-info.
Il centro non può reggere
IN TUTTO IL MONDO MILIONI DI PERSONE IN QUESTO MOMENTO DESIDERANO CHE TRA QUALCHE ANNO TRUMP, ORBÁN, MODI, ERDOGAN, MELONI SIANO SOLO UN RICORDO, UN BRUTTO SOGNO. DESIDERANO DIRIGERSI VERSO IL CENTRO, AD ESEMPIO, PER FAR VINCERE AI DEMOCRATICI LE ELEZIONI STATUNITENSI DI MEDIO TERMINE. EPPURE DOBBIAMO CONSIDERARE CHE IL CENTRO NON HA RETTO, NON HA POTUTO REGGERE. LE SOLUZIONI KEYNESIANE NON POSSONO PIÙ REGGERE. DOBBIAMO CONSIDERARE CHE LE ELEZIONI NON SONO UNO SPAZIO DI CAMBIAMENTO IN PROFONDITÀ. POSSIAMO PENSARE IN MODO DIVERSO? DOV’È LA SPERANZA IN QUESTA SITUAZIONE? DOV’È LA SPERANZA MENTRE IL MONDO GUARDA COSA ACCADE A GAZA? IN UN SIMPOSIO CONTRO IL CAPITALISMO ORGANIZZATO ADDIRITTURA ALLA HARVARD BUSINESS SCHOOL, JOHN HOLLOWAY HA DETTO CHE LA SPERANZA È INNANZITUTTO UN GRIDO DI RIFIUTO, UN NO. IN QUALCHE MODO, DOBBIAMO ENTRARE IN CONTATTO PERFINO CON LA RABBIA RISENTITA CHE STA DIETRO L’ASCESA DELLA DESTRA E RECLAMARLA COME NOSTRA, VIVENDO UNA NUOVA CULTURA POLITICA ANTI-IDENTITARIA, UNA POLITICA CHE CERCA E DISCUTE. DOBBIAMO PENSARE A UN MONDO BASATO SUL RICONOSCIMENTO RECIPROCO DELLE DIGNITÀ. “UNA FOLLIA. UNA FOLLIA È PRESENTARSI ALLA HARVARD BUSINESS SCHOOL E DIRE CHE DOBBIAMO ABOLIRE IL CAPITALISMO. EPPURE È UNA FOLLIA NECESSARIA…”. POSSIAMO PENSARE DUNQUE PARTENDO DALLA DISPERAZIONE, CHE NON È ANGOSCIA. L’ANGOSCIA È IL RIFIUTO DI CERCARE UNA RISPOSTA, È UNA RESA, UNA COMPLICITÀ. LA DISPERAZIONE INVECE È LA SPERANZA NELLA TEMPESTA, LA SPERANZA NELLA, CONTRO E OLTRE LA TEMPESTA. È LA LOTTA PER CREARE UN MONDO DIVERSO Roma, 10 maggio 2025. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- 1. Gaza. Sperare è come esprimere l’indicibile. Gaza. L’estrema espressione del dolore nel mondo di oggi. Dolore. Resistenza. Speranza. Gaza. Impossibile venire qui (l’autore si riferisce a convegno promosso a Harvard Business School di Boston, Ndr) senza confessarvi la mia esitazione nel parlare proprio nel cuore del paese che promuove e sostiene l’uccisione e la mutilazione spietata e sistematica di migliaia e migliaia di persone, molte delle quali bambini, l’annichilimento della speranza. Gaza. Vengo qui nonostante i miei dubbi, per esprimere la mia solidarietà con voi, che vivete in questo paese, nonostante il governo che subite ora e il governo che avete sofferto in passato. E per esprimere il mio più profondo rispetto e ammirazione per gli organizzatori di un evento con parole sovversive e pericolose come Razza, Genere e persino Equità. E per tutti voi che, in un modo o nell’altro, state camminando nella direzione sbagliata. Gaza, perché nulla mostra più chiaramente gli orrori del capitalismo contemporaneo, le terribili conseguenze di un sistema sociale governato dal denaro. Gaza, perché dobbiamo rompere il silenzio, il terribile silenzio di complicità che incombe sul mondo, la normalizzazione dell’angoscia. L’angoscia incombe su di noi. Ha molti nomi: Gaza, Sudan, il riscaldamento globale, il massacro della biodiversità, Trump, Milei, Orbán, la crescente minaccia di una guerra nucleare. Eppure, in mezzo a tutto questo, siamo venuti qui per dire No, è tempo di parlare di speranza, persino di speranza radicale. Non possiamo tuttavia accettare l’angoscia, perché uccide il pensiero scientifico. Ci resta solo una domanda scientifica: come si può rompere la dinamica sociale che ci spinge verso la nostra stessa autodistruzione, l’autodistruzione dell’umanità? A questa domanda non si può rispondere con l’angoscia. L’angoscia è il rifiuto di cercare una risposta, una resa, una complicità, per quanto riluttante. Diciamo no all’Angoscia. Anche se questo non ci regala una speranza vacua e felice. C’è una parola che assomiglia all’angoscia, ma diversa: Disperazione [l’autore elabora il ragionamento su due termini che suonano simili ma non sono sinonimi: despair, che traduciamo come angoscia (afflizione o sconforto), porta alla rassegnazione; desperation, che traduciamo come disperazione, porta all’azione estrema, Ndt]. La Disperazione non è angoscia. È il rifiuto di affliggersi, il rifiuto di rinunciare alla rabbia e alla speranza, anche in un mondo che ci dice che siamo pazzi se pensiamo ancora che un altro mondo è possibile. Nei dizionari, la disperazione è spesso equiparata all’angoscia, ma non è così. Ho trovato una definizione che si avvicina di più a ciò che sento: “Disperato: mostrare la volontà di correre qualsiasi rischio per cambiare una situazione negativa o pericolosa”. Forse non “qualsiasi rischio”, ma sì, la furia di cambiare una situazione negativa o pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione negativa, dove la situazione negativa è il capitalismo contemporaneo. La disperazione di cambiare il mondo perché sappiamo che non deve essere così, che abbiamo la capacità di creare qualcosa di diverso. La disperazione include la frustrazione, la frustrazione di ciò che potremmo fare, la frustrazione della nostra ricchezza, della nostra capacità di creare qualcosa di diverso. La disperazione è la speranza nella tempesta, la speranza nella e contro la tempesta, la speranza nella-contro-e-oltre la tempesta. Forse l’unico modo di parlare di speranza radicale oggi è attraverso la disperazione, disperata speranza-contro-speranza [i latini avrebbero usato l’espressione “spes contra spem”, NdT]. La speranza come negazione dell’anti-speranza. La speranza come resistenza. Chi segue queste cose (e dovreste farlo, perché sono stati gli esponenti più eloquenti della speranza negli ultimi trent’anni) si renderà conto che la mia attenzione alla disperazione riecheggia l’intervento di Marcos nell’incontro di dicembre organizzato dagli Zapatisti. La sfida, ha suggerito, è quella di “organizzare la nostra disperazione”. 2. Probabilmente tutti noi che siamo qui abbiamo un senso di comune disperazione. Il capitalismo in sé genera disperazione. In tutti i modi possibili. A livello personale, con la profonda e crescente incertezza della vita: come posso entrare all’università o trovare un lavoro, come posso ottenere la cattedra, trovare un posto decente dove vivere, in che tipo di mondo vivranno i miei figli, come posso far nascere dei bambini in un mondo come questo? Tutto ciò fa parte di una crescente disperazione sociale: guardate cosa sta succedendo ai migranti, guardate la distruzione della biodiversità da cui dipende la vita umana, guardate il riscaldamento del pianeta, sempre più fuori controllo, guardate l’ascesa della nuova Destra, guardate il crescente pericolo di nuove guerre. -------------------------------------------------------------------------------- Foro Quarticciolo ribelleUna donna del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo, “coloro che vivono nelle baracche” -------------------------------------------------------------------------------- Allora, da dove prendiamo la nostra disperazione, la nostra speranza, malgrado tutto? La cosa più ovvia, nella situazione attuale, è dirigersi verso il centro, sperare che i Democratici possano vincere le elezioni di medio termine, che né Trump né Vance vincano le elezioni del 2028, che tra dieci anni guarderemo a Orbán, Meloni, Modi, Erdogan, Trump come a un brutto sogno, una sfortunata parentesi nella storia, che ci sarà un ritorno a qualcosa che possiamo riconoscere come civiltà. Ma c’è una frase che è stata spesso citata negli ultimi anni. La frase, “il centro non può reggere”, viene da una poesia di W.B. Yeats, “La seconda venuta” (in coda la poesia completa). Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga il falco non può udire il falconiere; ogni cosa crolla; il centro non può reggere; assoluta l’anarchia dilaga nel mondo, dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque il rito dell’innocenza annega. Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori rigurgitano furia di passioni. Il centro non può reggere. Ovviamente, qui negli Stati Uniti e in altri Paesi, il centro non ha retto. Eppure rimane resta come una sorta di calamita per la nostalgia, un’attrazione irresistibile per il mondo che si sta disgregando intorno a noi. Questa spinta nostalgica verso un ritorno alla normalità è probabilmente ineludibile, forse persino desiderabile. Eppure dobbiamo considerare che il centro non ha retto, non ha potuto reggere, e che forse dobbiamo andare oltre la lotta per il suo ripristino. 3. Ora pensiamo al centro attraverso la prospettiva dell’attuale offensiva. Gli attacchi al pensiero critico nelle università, gli attacchi ai migranti, la dissoluzione dell’ordine mondiale basato sul diritto, e così via. Forse, più in generale, possiamo pensare al centro come a una sorta di contratto sociale globale, una sorta di normalità stabilita dopo la Seconda guerra mondiale che comprende un’idea di democrazia come auspicabile, livelli minimi di benessere sociale, un certo modo di intendere la politica, del tipo di relazioni che dovrebbero esistere tra gli Stati, una certa idea dei diritti umani e dello Stato di diritto. Non voglio certo idealizzare questa normalità. È una fase della civiltà del denaro, una civiltà criminale basata sullo sfruttamento, il razzismo, il sessismo, il colonialismo, la repressione, l’incarcerazione e la distruzione di altre forme di vita. Ciononostante, esiste una sorta di normalità, una sorta di contratto sociale, a volte indicato come stato sociale keynesiano, in seguito attaccato radicalmente da quello che molti chiamano neoliberismo. Eppure questo stato, se visto soprattutto dal punto di vista del presente, ha mostrato più continuità di quanto possa sembrare: lo stesso sistema di relazioni tra gli Stati, un simbolico rispetto per la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto. 4. Questo centro è stato messo sempre più in discussione dopo la crisi finanziaria del 2008. È allora evidente che non può essere dato per scontato. A prescindere dal fatto che si trovi o meno attraente quella normalità, o almeno migliore di quella che viene ora imposta, ci sono almeno due ragioni per pensare che non sia più realistica. In primo luogo, essa aveva una base materiale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata il risultato della grande ristrutturazione del capitale ottenuta attraverso la distruzione e il massacro della guerra. Questa spinta alla produttività e alla redditività è stata sempre più compressa a partire dalla fine degli anni Sessanta e dall’inizio degli anni Settanta. Dopo il crollo di Bretton Woods e il cambiamento di politica sotto Reagan e Thatcher, la riproduzione del capitalismo si è basata sempre più sulla costante espansione del debito, cioè non sul plusvalore effettivamente prodotto ma sull’aspettativa di una futura produzione di plusvalore. Negli ultimi quarant’anni c’è stata un’espansione senza precedenti del debito su scala globale, che ha significato un’espansione della fragilità sistemica, espressione del divario tra l’accumulazione di valore e la sua espressione monetaria. Questa fragilità è amministrata principalmente dalla Fed e da altre banche centrali, ma è esplosa con la crisi finanziaria del 2007/8 e la minaccia di collasso rimane latente e costante. In altre parole, la base economica della normalità a cui siamo stati abituati è diventata sempre più fragile. Il neoliberismo, lungi dall’essere la politica di un capitale trionfante, è (o era) la politica della sua crisi. L’altra ragione per dubitare della possibilità di ripristinare il centro è il grado di rabbia e disperazione che ha generato. La promessa di una crescente prosperità personale in cambio dell’accettazione del sistema, ignorandone la forza distruttiva, ovvero una parte cruciale del contratto sociale del dopoguerra, non è stata mantenuta per gran parte della popolazione, negli ultimi quarant’anni o quasi. L’accumulo apparentemente casuale di enormi ricchezze da parte di pochi ha contribuito a incanalare la rabbia in rancore. Come ha detto Abahlali baseMjondolo, l’importante movimento degli abitanti delle baracche in Sudafrica, dopo le rivolte razziali nel 2020, “Abahlali ha sempre avvertito che la rabbia dei poveri può andare in molte direzioni. Abbiamo avvertito più e più volte che siamo seduti su una bomba a orologeria”. Il centro, la normalità degli ultimi anni, è stato costruito su due bombe a orologeria: la fragilità finanziaria e il crescente risentimento. Probabilmente non è auspicabile né realistico ricrearlo. Dobbiamo certamente lottare per la difesa della democrazia liberale, ma dobbiamo guardare oltre, andare più avanti e chiederci se la situazione attuale possa creare una svolta nello sviluppo di una politica radicale della speranza. 5. Se il centro non può reggere, può farlo la destra? Non possiamo saperlo. Di certo ci sta spingendo in direzioni che vanno al di là della nostra capacità di immaginare, in termini di distruzione climatica e possibilità di una guerra nucleare, forse riuscirà a creare un incubo per l’umanità. Ma è anche possibile che crolli, da un lato, di fronte all’opposizione popolare, e dall’altro, delle forze del mercato: paradossalmente ciò accade a causa della sua incapacità di comprendere e accettare la realtà del potere del denaro. -------------------------------------------------------------------------------- Incontro di Mediterranea al Centro Fonti di San Lorenzo, Recanati -------------------------------------------------------------------------------- Dov’è dunque la speranza in questa situazione? Innanzitutto, deve essere un grido di rifiuto, un No. Mi piace pensare che questo sia qualcosa che tutti noi qui condividiamo. Si riflette nelle proteste di massa degli ultimi fine settimana e si spera che queste continuino a crescere, crescere e crescere. Ma dove può portarci questo No? Forse al centro, alla democrazia liberale. Forse alle prossime elezioni le persone ragionevoli vinceranno, i risentiti perderanno. Ma allora la fragilità continuerà a crescere e anche il risentimento. In qualche modo, dobbiamo entrare in contatto con la rabbia risentita che sta dietro l’ascesa della destra e reclamarla come nostra. La nostra risposta non può essere “Siate ragionevoli, mettete da parte la vostra rabbia!”, ma piuttosto “Condividiamo la vostra rabbia contro un sistema che ci umilia e ci uccide. Proviamo a vedere come sviluppare la nostra rabbia in modo diverso”. La speranza oggi è davvero una questione di come incanalare la nostra rabbia. La rabbia dei poveri può andare in molte direzioni, dice Abahlali. Una direzione sembra essere dominante al momento: la rabbia come rancore. Ma c’è anche un’altra rabbia, espressa da migliaia e migliaia di movimenti in tutto il mondo (e, speriamo, da questa conferenza). Si tratta di quella che gli Zapatisti chiamano “digna rabia”. Un’espressione difficile da tradurre, ma forse si può chiamare rabbia dignitosa, o rabbia giusta: una rabbia che nasce dall’oppressione quotidiana della società esistente e ci indirizza verso un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle nostre dignità. In altre parole, una rabbia contro il modo in cui sono organizzate le relazioni sociali (capitalismo) che spinge verso la creazione di un altro mondo, un mondo fatto di molti mondi. Una rabbia contro il dominio del denaro e una spinta verso lo sviluppo della vita. Una rabbia fatta di risentimento e una rabbia fatta di speranza. Qui c’è una questione di grammatica, la grammatica dell’identificazione. Il risentimento produce identificazione: dirige la sua rabbia contro gruppi specifici di persone, siano essi migranti o accademici di Harvard. Si scaglia contro l’élite come gruppo di persone, ma non mette in discussione il sistema che produce l’élite o i migranti. L’ascesa della destra è un’esplosione di politica identitaria che disumanizza, trattando i gruppi di persone come oggetti o categorie astratte. L’identificazione è un processo che parte da una rabbia indefinita e la concentra su oggetti umani specifici, che siano neri, arabi, ebrei, stranieri, trans. Il processo di identificazione viene rafforzato dai gruppi di destra, ma è anche profondamente radicato nella società esistente. Lo Stato è un processo di identificazione: la sua stessa esistenza è la proclamazione di una netta distinzione tra “noi” e gli altri, gli stranieri, che possiamo maltrattare e, quando necessario, uccidere. L’esistenza stessa dello Stato come forma di organizzazione sociale è un processo di costruzione di “alterità”, una scuola di fascismo e di guerra. Cittadini. Una politica della speranza parte dalla stessa rabbia identificata dalla destra, ma resiste al processo di identificazione. Inondandolo. Una politica della speranza è necessariamente una politica anti-identitaria, non nel senso di negare l’identità, ma nel senso di andare verso, contro e oltre di essa. Siamo indigeni, ma la nostra lotta va oltre, per un mondo basato sul riconoscimento della dignità umana. Siamo Curdi, una nazione oppressa, ma la nostra lotta va oltre, per la creazione di un mondo diverso. Lottiamo contro il riscaldamento globale, sappiamo che non è solo una questione di combustibili fossili, combattiamo invece contro un mondo in cui lo sviluppo è plasmato dalla ricerca del profitto. Laddove una politica identitaria chiude per dare risposte, una politica della speranza apre e pone domande. Preguntando caminamos, camminiamo facendo domande, come dicono gli Zapatisti. Una politica della speranza è una politica che chiede, cerca, discute. La sua forma di organizzazione ha una lunga storia, costantemente rinnovata: l’assemblea, il consiglio, il comune, una forma di organizzazione pensata per promuovere l’espressione di opinioni e la discussione di soluzioni, lontana dallo Stato o dal partito che stabilisce la linea da seguire. Un luogo come questo dove possiamo dissentire, dove possiamo dire “questo è quello che voglio dire”. Tu cosa ne pensi?”. Un luogo in cui si condivide la rabbia e le etichette si confondono semplicemente grazie a quella condivisione. 6. La speranza, quindi, è una rabbia dignitosa, una rabbia determinata ad abolire un sistema sociale che ci sta distruggendo, e determinata a creare un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle dignità. Una follia. Una follia è presentarsi alla Harvard Business School e dire che dobbiamo abolire il capitalismo. Eppure è una follia necessaria. Ci sono molti segnali che indicano il perdurare dell’attuale forma di organizzazione sociale come incompatibile con la sopravvivenza della vita umana. Certo, il capitalismo è sempre stato una combinazione di creazione e distruzione, ma ora è il suo lato distruttivo a dominare sempre di più. La speranza è follia. La speranza è disperazione che cammina sull’orlo dell’abisso dell’angoscia. Ma dobbiamo accettare la nostra follia, per esprimerla con forza. Perché dobbiamo vincere. Questa volta, noi, i soliti sconfitti, dobbiamo vincere, o altrimenti sedere a godersi la corsa verso la catastrofe, verso la possibile estinzione. 7. Concludo con una piccola storia raccontata da Marcos nell’incontro organizzato dagli Zapatisti alla fine di dicembre. Egli racconta come i giovani Zapatisti, tecnicamente avanzati, che sono riusciti a organizzare la diretta streaming dell’evento, sono riusciti anche a stabilire un collegamento telefonico con una comunità indigena dell’anno 2145. Così Marcos chiama la comunità e al telefono risponde una ragazzina. Marcos chiede “Come state?” e lei risponde “Dipende”. E Marcos pensa “che risposta assurda, perché non poteva rispondere un adulto?”. E dice, un po’ più forte: “Come stai Tu?”. E la ragazza ripete, più chiaramente: “Dipende. Da te”. Dipende. Da noi. Se quella ragazzina esisterà mai. O in quali condizioni. La speranza non è un gioco o una virtù, è la lotta per creare un mondo diverso. -------------------------------------------------------------------------------- La Seconda Venuta (W. B. Yeats) Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga il falco non può udire il falconiere; ogni cosa crolla; il centro non può reggere; assoluta l’anarchia dilaga nel mondo, dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque il rito dell’innocenza annega. Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori rigurgitano furia di passioni. Qualche rivelazione di certo s’avvicina la Seconda Venuta, di certo s’avvicina la Seconda Venuta! E non appena pronunciata un’immensa immagine emanata dallo Spiritus Mundi mi turba la vista: in qualche luogo tra le sabbie del deserto una forma dal corpo di leone e dalla testa d’uomo, occhi vuoti e impietosi come il sole, avanza sulle lente cosce, mentre attorno vorticano le ombre degli sdegnati uccelli del deserto La tenebra ancora torna, ma ora so che venti secoli d’un sonno di pietra furono oppressione e incubo per una culla a dondolo, e quale bestia informe, giunto infine il suo tempo avanza senza grazia per Betlemme, a prender vita? (Traduzione di Alfredo Rienzi, 2016) – (larecherche.it) -------------------------------------------------------------------------------- Questo testo è stato preparato per un simposio promosso alla Harvard Business School dal titolo Radical Hope. Traduzione per Comune di Marcella Ravaglia. Nell’archivio di Comune gli articoli di Holloway sono leggibili qui. Il suo ultimo libro è La speranza in un tempo senza speranza (Ed. Punto Rosso). John Holloway e Marcella Ravaglia hanno aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- La versione dell’articolo in inglese: Centre cannot HoldDownload -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il centro non può reggere proviene da Comune-info.
Partire dalla speranza e non dalla paura
COME POSSIAMO ACCENDERE QUALCHE LUCE NEL TEMPO BUIO CHE VIVIAMO? AGGRAPPARSI ALLA SPERANZA APPARE RIDICOLO. MA DI QUALE SPERANZA PARLIAMO? C’È AD ESEMPIO LA SPERANZA COME FORZA SOCIALE IN GRADO DI TRASFORMARE IL MONDO: È LA SPERANZA CHE NON HA NULLA A CHE FARE CON IL DESIDERIO NÉ CON L’OTTIMISMO, PERCHÉ NON PREVEDE LA DELEGA E NON È DIRETTA AL FUTURO QUANTO ALLE POSSIBILITÀ LATENTI DEL QUI E ORA. IN CHE MODO PUÒ ORIENTARE IL RACCONTO DI UN’ESPERIENZA DI COMUNICAZIONE INDIPENDENTE ASSAI FRAGILE COME COMUNE? AI TANTI CHE LEGGONO E CHE SCRIVONO QUESTE PAGINE CHIEDIAMO UN MESSAGGIO DI ADESIONE ALLA CAMPAGNA (NEL COMMENTI DI QUESTO ARTICOLO O SCRIVENDO A INFO@COMUNE-INFO.NET) E CHI PUÒ MANDI ANCHE UN LIBERO SOSTEGNO ECONOMICO (IBAN IT17A0501803200000011641644; CAUSALE CAMPAGNA 2024/25). L’ELENCO DELLE ADESIONI, IN COSTANTE AGGIORNAMENTO, IN CODA A QUESTA PAGINA -------------------------------------------------------------------------------- Ass. Persone Comuni, editore di Comune IBAN IT17A0501803200000011641644; Banca Pop. Etica; causale Campagna 2024/25 (Foto è di Leonora Marzullo) -------------------------------------------------------------------------------- “A noi, los de abajo, tocca affrontare la maggiore sfida immaginabile: difendere la vita di fronte al progetto letale de los de arriba” (Raúl Zibechi, Politica, geografia e lotta antisistema) Di cosa abbiamo bisogno quando non possiamo fare altro che cercare di sopravvivere alla notte? Oggi è più facile parlare di angoscia, miseria, orrore che di speranza. In tempi terrificanti aggrapparsi alla speranza appare goffo, fuori luogo. Da cosa sono provocate le nostre angosce e paure è noto: dalla guerre e dal genocidio in corso, dal cambiamento climatico e dalle devastazioni ambientali, dalle morti dei migranti abbandonati in mare e nei deserti, dal patriarcato e dal razzismo che umiliano e uccidono ogni giorno, dalla povertà che schiaccia i nessuno invisibili, dall’ascesa dei governi di destra, dall’ostentata ricchezza in mano a una manciata di imprese… Tutto questo, con modalità e impatti diversi, ci sta distruggendo. Tuttavia viene da chiedersi se soltanto qualche anno fa, quando l’angoscia e la paura erano meno diffuse, era un altro mondo: non esiste forse un gigantesco problema legato alla percezione di quello che accade e al racconto dei grandi media occidentali? Un’altra domanda ci sembra essenziale: quale speranza vogliamo mettere in comune? C’è ad esempio la speranza come forza sociale in grado di trasformare il mondo, anche se lentamente. È la speranza che non ha nulla a che fare con il semplice desiderio meno ancora con l’ottimismo, perché non prevede la delega e non è diretta al futuro quanto alle possibilità, spesso latenti, del qui e ora. A volte quella speranza appare attraverso grandi rivolte e movimenti (in Chiapas come in Valsusa o nel Rojava…), altre tramite forme diverse di diserzione a un sistema di morte, più spesso attraverso tentativi che, malgrado inevitabili contraddizioni, sperimentano già modi diversi, limitati ma desiderabili, di vivere, relazioni legate alla vita di ogni giorno non orientate dal profitto. Ovunque esistono modi differenti di fare in comune che mettono in discussione la paura che paralizza (leggi anche Imparare a pensare la speranza di John Holloway). Come possiamo riconoscere, raccontare, proteggere il cammino di questa speranza? In che modo il racconto della barchetta Comune può accompagnare la sfida di quelli che sono in basso? Non abbiamo molte risposte, sappiamo però che queste domande possono indirizzare la navigazione di Comune. Non è una campagna come le altre per la “cucina” di Comune Da qualche settimana, la fragilità di questo spazio di comunicazione indipendente fa i conti con un vuoto enorme: in quella che chiamiamo la cucina di Comune, l’improvvisa scomparsa di Marco Calabria ci costringe a pensare più in profondità a quello che facciamo. Abbiamo sbirciato spesso in questo periodo tra gli articoli di Marco per conservare qualcosa della sua capacità di aprire i concetti intorno ai quali costruiamo il racconto quotidiano di Comune e per fare nostro il suo sguardo sul mondo, ricco di profondità e tenerezza. Anche per questo uno degli obiettivi della campagna Partire dalla speranza, non dalla paura, è di curare una pubblicazione che raccoglierà alcuni scritti di Marco. Intanto ci sembra fondamentale continuare a prenderci cura della complessa vita ordinaria di Comune, dove ogni settimana pubblichiamo oltre 30 articoli (l’archivio ne conta 18.000, scritti da più di 5.000 persone sparse in tutto il mondo). La pubblicazione quotidiana è affiancata da due Newsletter (una inviata ogni lunedì e l’altra ogni giovedì a oltre 11.000 indirizzi) e dagli aggiornamenti dei social, a partire dalla pagina Facebok (57.000 follower). Ci sono poi le testate interne e le relative Newsletter tematiche settimanali: Benvenuti Ovunque (dedicata ai temi delle migrazioni e curata insieme a Recosol) e Territori Educativi (che racconta e approfondisce, grazia a una collaborazione con la rete nazionale Scuole Aperte Partecipate, la relazione tra scuola/educazione e territorio). Spesso ci sono da organizzare anche alcuni laboratori di giornalismo per studenti, i cicli di seminari per i più grandi Raccontare la società che cambia (buona parte di questi laboratori e seminari hanno trovato rifugio nella piattaforma Saperi comuni), le taverne comunali… Per questo a coloro che scrivono e leggono queste pagine chiediamo un messaggio di adesione alla campagna (nello spazio commenti in coda a questo articolo oppure scrivendo a info@comune-info.net). Chi può mandi anche un libero sostegno economico. Qui l’invito ad aderire rivolto a realtà collettive: Lettera a collettivi, associazioni, cooperative, Ong, reti…. Due sorprese per chi aderisce Ci sono due ottime ragioni in più per aderire alla campagna Partire dalla speranza, non dalla paura e sostenere Comune. La prima: chi aderisce entro il 31 dicembre 2024 ha in regalo un mese di Zalab View, la nuova piattaforma streaming dedicata al cinema del reale curata dai nostri amici di ZaLab (che da oltre dieci anni produce e distribuisce cinema indipendente e sociale): uno spazio di visione ma anche di condivisione, con una ricca selezione di film che si arricchisce di mese in mese (penseremo noi a comunicare a ZaLab i nomi e gli indirizzi email di chi aderisce alla campagna di sostegno di Comune). La seconda: la possibilità di prenotare subito con lo sconto del 25% (15 invece di 19,50 euro, a cui aggiungere le eventuali spese di spedizione) una copia di Speranza forza sociale (ed. Mutus Liber): il libro uscirà in ottobre ed è stato curato da Gustavo Esteva, grande amico di Ivan Illich e di Comune, affidando ad altri lo sviluppo di alcuni temi. Esteva è morto prima di concludere il suo capitolo: il libro raccoglie – oltre ai capitoli di Elías González Gómez (ll risveglio della speranza secondo Ivan Illich) e Ana Cecilia Dinerstein (L’arte di organizzare la speranza ) – un fertile scambio di mail tra Esteva e Aldo Zanchetta su questi temi, integrato con specifici scritti di Esteva (se siete interessati/e a prenotare con lo sconto del 16% una copia del libro scrivetelo quando inviate qualche riga di adesione a questa campagna). Ha scritto Stefania Consigliere: “I segnali che arrivano dal pianeta dicono che mondi altri – fragili, imperfetti e tutt’altro che idilliaci, ma indubbiamente altri – ancora vivono… esistono e stanno lottando duramente per continuare a esistere…”. Si tratta dunque di accorgersi e di difendere questi mondi. Proviamo a farlo insieme. Ripartiamo da noi. Non per paura, ma per speranza. [Redazione di Comune] -------------------------------------------------------------------------------- Empezar desde la esperanza y no desde el miedo (en español) -------------------------------------------------------------------------------- Versamenti sul: c/c bancario dell’associazione Persone Comuni IBAN IT17A0501803200000011641644; Banca Pop. Etica, Roma; causale Campagna 2024/25 È possibile inviare il sostegno anche con PAYPAL -------------------------------------------------------------------------------- – – -------------------------------------------------------------------------------- Adesioni alla campagna 2024/25 di sostegno di Comune-info “Partire dalla speranza e non dalla paura” 1. Sperare è folle? Grazie Comune di questa nuova chiamata alla follia Stefania Consigliere 2. Per Comune con amore e con dolore Raúl Zibechi 3. Tra le bancarelle di Valencia Donatella Donato 4. Per una convivenza più giusta e solidale Lea Melandri 5. Tendere una mano nuda Mauro Armanino 6. Di questo abbiamo bisogno Barbara Bonomi Romagnoli 7. Scuola, pensiero critico e speranza Renata Puleo 8. Amicizia e allegria… Mentre la guerra ritorna e il fascismo dilaga Franco Berardi Bifo 9. Comune deve crescere e prosperare, per il bene comune Lorenzo Guadagnucci 10. Una barca nel bosco Lino Di Gianni 11. Dalla Piazza del Mondo di Trieste Gian Andrea Franchi 12. La speranza (s minuscola) è il cuore delle narrazioni di Comune Massimo De Angelis 13. Ora che abbiamo paura… Cristina Formica 14. Vedo orizzonti dove tu disegni confini Fernando Battista 15. Cercare spiragli di speranza nel buio della realtà Diego Montemagno 16. Quella prima pagina di giornale, accartocciata e gettata in terra Alessandro Ghebreigziabiher 17. Le sorti del mondo non sono segnate Nicola Cotugno 18. Esiste sempre un non-ancora Emilia De Rienzo 19. Sperare l’unione autentica fra Terra e umanità Daniele Ferro 20. Quando il destino sembrava chiudersi per sempre Emanuela Bussolati 21. Luta sem guerra Antonio Lupo 22. La vostra campagna è anche la mia Beppe Bagni 23. Grazie per l’ottimo lavoro informativo che fate Sandra Cangemi 24. L’angoscia si supera insieme Filippo Mondini 25. L’eros che ci appassiona Dimitris Argiropoulos 26. Grazie di esistere! Giovanni Scavazza 27. Speranza tra proposta e conflitto Sergio Segio 28. Siamo tutti matti per il quartiere. E la speranza è la nostra compagna Antonella Cammarota 29. La speranza spinge a immaginare e a muoverci verso mondi nuovi Carlo Patrizi 30. Accogliere tutte le voci di ribellione e di speranza Bruna Bianchi 31. Nutrire il pensiero della speranza Gaetano Stella 32. Partecipiamo con gioia a questa carovana Comunità brasiliana 33. Un termine desueto? Piera Nobili 34. Una comunità di speranza tra territorio, scuola e cultura Paolo Moscogiuri 35. Lottare, sperare e costruire ponti. Con Comune, ogni giorno Un ponte per 36. Costruire luoghi di agio per fare crescere senso critico Patrizia Sentinelli, AltraMente 37. Divenire voce comune Annamaria Manzoni 38. Quella telefonata di Marco Massimo Angrisano 39. Un percorso comune quotidiano Libero Ponticelli 40. Per una nuova era fuori dai vertici globali del capitale Gianluca Ricciato 41. Dal nulla, secoli fa, apparvero gli Umiliati… Miguel Martinez 42. Toccar con mano, approfondire e stare vigili Paola Alphandery 43. Una speranza che non rimanda a un altrove Nicoletta Pirotta 44. Una luce nella caverna Pasquale Iannamorelli 45. Andate avanti sempre così Marina Leone 46. Avvicinando la campagna alla città Luigi 47. Non siamo soli Maria Rosa Mura 48. Grazie Comune per questa campagna Teresa Dotta 49. Mi gioco anche l’ultimi frammento di cuore Mariangela Pace 50. Divergenze e patrimonio valoriale della nostra Casa Comune Giuseppe Giannini 51. Affrontiamo insieme la paura Davide Lamanna 52. La speranza resiste se condivisa Alessandra Motta 53. Cambiare ciò che non si può accettare Marco Bersani 54. Un cammino comune Andrea Guerrizio 55. Persone e comunità che lottano Arci Solidarietà 56. Il potere dell’azione collettiva Mariangela De Blasi 57. L’amarezza dell’impotenza e la ricerca di un senso alla nostre vite Paolo Piacentini 58. “Perché la speranza non è in vendita” Dora Antonini Ricci 59. Proteggere il senso critico Fabio Marcelli 60. La forza della speranza Daniele Moschetti 61. Nutrirsi e nutrire Comune Anna Bruno 62. Comune è un porto sicuro e accogliente Rita Coco 63. Fare il verso al tuono Soana Tortora 64. Porterò nel parlamento europeo i temi che ci accomunano Dario Tamburrano 65. Tra le macerie si aprono possibilità di comune Paolo Vernaglione Berardi 66. Raccogliere i pensieri scacciati dai commercianti delle paure Leonardo Animali 67. Aderisco per tutto quello che fate Massimiliano Bonacci 68. La notte più lunga eterna non è Moreno Biagioni 69. Compagni di cammino Franco Violante 70. Alla più insistente speranza Mario Agostinelli 71. Una campagna di noi tutti Roberta Ferruti 72. Invadiamo le strade contro la guerra Maria Teresa Punzo 73. La dignità della vita si difende da sé Francesca Molinari 74. La consapevolezza di non essere soli Martina Pignataro, GRIDAS 75. Reagire alla paura, ricostruire la speranza Anna Maria Bianchi, Ass. Carteinregola 76. Ottima iniziativa Anna Serafino 77. Se a sperare sono i palestinesi, chi siamo noi per non farlo e lottare? Virginia Benvenuti 78. Per un mondo “muy otro” Annamaria Pontoglio 79. Proteggere l’indipendenza di Comune Laura Avellino 80. Una speranza fatta di pensieri, parole e opere Vittorio Agnoletto 81. I partigiani della pace per non dimenticare Hiroshima Laura Tussi e Fabrizio Cracolici 82. La speranza solidale Jason Nardi 83. Semi preziosi Martina Camarda 84. Continuate a starmi vicino Grazia Covella 85. Comune è un luogo fidato, dotato della capacità di attesa Eleonora Russo 86. Resistere alla catastrofe senza perdere lucidità Mirco Pieralisi 87. Convintamente dalla parte degli ultimi e degli invisibili Maria Teresa Messidoro 88. Non restare a guardare Ascanio Celestini 89. Cercare l’alba dentro l’imbrunire Alberto 90. Quel grande bisogno di ritrovarsi Nicola Sorgi 91. Comune è un’esperienza Andrea Staid 92. Aderisco con convinzione Eliana Baia 93. Un’avventura di speranza crea possibilità Clotilde Barbarulli 94. Organizzare la speranza, dare concretezza all’utopia Pasquale Pugliese 95. La speranza è qui, tra noi, ed è una pianta immensa Stefania Chinzari 96. Una storia di libertà Felice Zingarelli, “FelynX FX” 97. Creare nuovi motivi per avere speranza, quale compito più alto? Elena Andreoni 98. Quel rassicurante e soffocante abbraccio della disillusione Massimo Zincone 99. Un cammino di lotta Alisa Del Re 100. Aderisco alla campagna Gianpaola Di Caprio 101. Conoscere e confrontarsi col mondo Alessia Rapone 102. L’unica cosa che possiamo fare Maria Teresa Pecchini 103. Speranza e affetto Gaia Capogna 104. Lavorare per la speranza Andrea 105. In Chiapas, in Kurdistan e con i richiedenti asilo Nelly Bocchi 106. Abbiamo bisogno di fuochi di resistenza e voci di speranza Floriana Lipparini 107. La speranza, con tutta la nostra vulnerabilità Federico Battistutta 108. Una piccola oasi nel deserto del conformismo che avanza Giovanni Caprio 109. Abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile Alessandro Metz 110. Una campagna che allontana le paure Gloria Zannini 111. La speranza la costruiamo noi con le nostre mani Giovanni Pandolfini 112. Alimentare la speranza Barbara Bonomi 113. Lo sguardo di Comune Alessandra Algostino 114. Informazione libera Maddalena Mori 115. Dal Rojava e dall’Abya Yala nell’amicizia con Comune Alessia Dro 116. Voce, onda e azione comune Raffaella Mulato 117. Aderisco Roberto Renzoni 118. Scelgo di sostenere Comune perché mi fido di chi ci lavora Carla Fedele 119. Aderisco con gioia Toni Peratoner 120. Informazione indipendente Giulio Todescan 121. Grazie di esserci Iolanda D’Errico 122. Restiamo umani Ugo Maria Poce 123. Come una goccia nel mare Tiziana Tomassini 124. Aderisco Liliana Frascati 125. “Saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno…” Igia 126. Speranza e ricerca di strade nuove Gennaro Ferrillo 127. Vi ringrazio per l’importante lavoro che state portando avanti Roberto Guglielmetti 128. Un mare di speranza Marco Meo 129. Mi manchereste se ci foste Ersilia Monti 130. Il senso di esserci. Sempre Stefania Pizzolla 131. Aderisco Francesco Castelgrande 132. Imparare, ribellarsi e crescere insieme Marines Zanini 133. Ho voglia di guardare il cielo Paolo Venezia M. 134. Prendiamoci cura … di chi prende cura di Comune Kyra Grieco 135. Aderisco! Claudia Melotti 136. Ovunque crescono dighe di resistenza, a volte inaspettate Donatella Barazzetti 137. La loro oppressione e la nostra libertà Michela Giovannini 138. Grazie Comune Alessandra Inglese 139. Aderisco alla campagna Anna Littardi 140. Aderisco anche io Lucilla De Vito Franceschi 141. Aderisco Nicola Cotugno 142. Riflettere, collegare e scoprire semi di libertà Silvana Rossi 143. Qui c’è un filo per non perdersi nel labirinto dello sconforto Cinzia Sbardella 144. La nostra associazione è nata da una speranza Ass. Vivi i tuoi sogni 145. Affratellarsi nella notte che avanza. Anche verso l’alba Alessandro Triulzi, Archivio Memorie Migranti 146. La speranza è il sentiero Maria Grazia Cavecchi 147. Abbiamo bisogno di educare alla speranza Elisa De Sanctis 148. Aderisco Cesare Dagliana 149. La scandola della speranza Paolo Cacciari 150. Non c’è nessuno da temere, solo altri mondi da creare John Holloway 151. Ogni anno, con piacere Fiorella Palomba 152. Aderisco Maurizio Schiano Di Cola 153. Un baluardo saldo Emanuela Arduino 154. Sette tesi sull’autorganizzazione rete Yabasta!-Nova Koinè-SmallAxe 155. Fare Comune Francesco Biagi 156. Ultima muore la speranza Michele Mavropulos 157. Sottrarsi al giogo del potere Margherita Ciervo 158. Condividere un percorso di strada senza paure Emanuela Manfredi 159. Aderisco Bive Parodi 160. Contro ogni guerra, contro ogni tipo di fascismo Beniamino Gaudio 161. Aderisco alla campagna Mauro Carlo Zanella 162. Speranza e alleanza Mag2 163. Non siamo soli, non siamo sole! Elisabetta Cangelosi 164. Buona Resistenza a tutti e tutte Marcella Corsi 165. Uno spazio indipendente prezioso Stefania Lepore 166. Curare il senso di isolamento interiore Fausta Bicchierai 167. Aderisco Marcello Cicirello 168. Aderisco speranzoso Giancarlo Vitali Ambrogio 169. Aderisco con questo racconto da Venaus: “Sta nel sogno realizzato” Chiara Sasso 170. Come un seme sotto la neve collettivo redazionale di elèuthera 171. La nostra Resistenza culturale tra i boschi di castagni cooperativa sociale Liberi Sogni 172. Sguardo critico Micol Dell’Oro 173. Quei piccoli passi che costruiscono speranza Oreste Magni 174. Un faro nella notte Mirella De Gregorio 175. Aderisco alla campagna Alfredo Ancora 176. Il mio abbonamento Gavino Duras 177. Hanno ammazzato mio figlio. Non perdo la Speranza… Haidi Gaggio Giuliani 178. Se non ci foste ci toccherebbe inventarvi! Cric 179. Tra reti di Pace e cantieri di Tela Elisabetta Caroti 180. Seminare pensiero come forma di speranza Severina Corbetta 181. Alimentare la speranza in un mondo migliore Giancarlo Brunelli 182. Per un comune auto-organizzato Andrea Fumagalli 183. Inventare e praticare forme di lotta Giuseppe Natale, Anpi Crescenzago di Milano 184. Dove la speranza non è mai morta Mauro Matteucci, Centro di accoglienza di Vicofaro 185. A cosa serve la speranza? A camminare Laura Nanni 186. Quello sforzo collettivo alternativa alla paura Emanuele Leonardi 187. È sempre il tempo di gridarlo: io non me ne frego! Marina Favatà 188. Partire dalla speranza e non dalla paura è la premessa per la riuscita Marilena Pedroni 189. Possiamo regalarci un mondo nuovo Massimo Zincone 190. La speranza è la forza sociale che può rendere questo mondo più umano Aldo Zanchetta 191. Dire la verità al potere per cambiare il mondo Gaetano Di Monte 192. Buona speranza a tutt* Carmen Festa 193. Coltivare dialogo e immaginazione Cinzia Bergantini 194. Resistere e sperare Giuditta Peliti 195. Per uscire dalla palude del non senso Mariagrazia Arghittu 196. Con la ragione del cuore pensante Patrizia Gallo 197. Cominciamo dallo spirito critico a scuola Alessandra Sannazzaro Aboukhalil 198. Per dirla con Emily Dickinson… Fulvia Antonelli 199. Continuate, per favore, a ispirarci! Valentina Pescetti 200. Grazie per tutto quello che fate! Paola Garofoli 201. Con gratitudine! Mario Agostinelli 202. Non ci toglieranno anche la speranza Roberto Melone 203. Speranza come radice verso l’altrove non ancora concluso Clelia Ricci 204. Coltivare una parola comune Arianna Damiani 205. Attingere dalle culture dal basso dei popoli Gabriele Cipriani 206. Quel filo di felicità che c’è nell’agire insieme Elvira Federici 207. Perché dobbiamo parlare di bellezza Luciana Bertinato 208. Aderisco alla campagna Mariella Balbo 209. Grazie per questa campagna Dina Rosa 210. Leggo da poco Comune, quanto basta per decidere di sostenerlo Francesco Ghidotti 211. La speranza, forza sociale per immaginare e creare mondi diversi ZaLab 212. Sono contenta di aderire a questa campagna Silvana Costantini 213. Incontro la speranza ogni giorno in tante periferie Carlo Cellamare 214. La bellezza esiste e resiste fuori e dentro di noi Marta Gatti 215. Riappropriarsi dell’attenzione Stefano P. 216. Aderisco! Diana Arena 217. Parlare di speranza è già una rivoluzione Roberto D’Angelo 218. Fare comunità con coraggio e gioia Nicole Covella 219. Aprire spiragli di speranza nelle nostre vite spaventate Gloria Torlone 220. Quel germoglio che buca la dura terra Cosetta Lomele 221. Comune è un punto di riferimento Daniela Dallago 222. La parmigiana, la rivoluzione e la speranza Donpasta 223. La speranza delle Donne in nero Erminia Romano, Donne in nero Napoli 224. Riprendere la voce Pierluigi Bianconcini 225. Un grande abbraccio collettivo dalla fattoria senza padroni Mondeggi Bene Comune 226. Nelle crepe scoprire vita Maria Picotti 227. Ripartiamo da noi Mario Festa 228. Finché c’è lotta, c’è speranza Giulia Abbate 229. Vi leggo sempre con fame di speranza Letizia Chiti 230. Aderisco Cinzia Di Fenza 231. Vi seguo con costanza e speranza Raffaella Campanile 232. Un desiderio sommesso Francesca Panarello 233. Costruire e sentirsi parte di un mondo migliore Isabella Moretti 234. Aderisco alla campagna Annalisa Bosco 235. Le sfide del nostro tempo dentro il paradigma della complessità Toni Peratoner 236. Non posso farne a meno Pasquale Faraco 237. Perché siete differenti. E fate discutere Giorgio Dal Fiume 238. La speranza come disperazione attraversata Carlo Perazzo 239. Grazie per il vostro bellissimo lavoro Emanuela Arduino 240. Nutrimento comune Giovanna Smiraglia 241. Dov’è il testo Canc? Ivano Cantori 242. Trovare una speranza Silvia Giamberini 243. Andare verso chi sta in basso Francesco De Lellis 244. Vi leggo con occhi attenti e speranzosi Marcella Ravaglia 245. Speranza e futuro migliore camminano sempre per mano Carola Manfrinetti 246. La nostra speranza si incarna nel percorso di ogni persona Alberto C. 247. Pick a side Marco Gatto 248. Ovunque c’è una lotta c’è la nostra casa comune. Lì c’è speranza Maria Amelia D’Agostino 249. Nulla oggi spinge a sperare. Ma ovunque nei muri si aprono crepe… Roberto De Lena 250. Una dea magnifica Giuseppe Campagnoli 251. Speranza come forza sociale Anna Foggia 252. Resistere insieme ogni giorno Lorella Antonioli 253. Fare Comune insieme Gianni Ruocco 254. Cogliere l’essenza del momento politico e sociale Onofrio Petillo 255. Il mondo visto dalla Piagge Fabrizio e Chiara 256. Eccomi, aderisco Davide Pelanda 257. La speranza non è un sentimento, è una prassi collettiva Guido Viale 258. Un racconto corale di speranza e lotta Laura Morreale 259. Oggi sperare è un atto rivoluzionario Adriana De Mitri 260. Aderisco anche io Giancarlo Vitali 261. La compagnia di chi spera Marco Codebò 262. “Più lenti, più dolci, più profondi” Vesna Scepanovic 263. Grazie per quello che scrivete Anna Cavalli 264. Quella spiaggia di aquiloni chiamata Comune Marco Deriu e Chiara Marchetti 265. Ripartire dalla speranza cari compagni è una bella sfida, eh! Patrizia Cecconi 266. Cattive adesioni collettivo Cattive ragazze 267. Sperare Michele Sorice 268. Non smettere di lottare per un mondo migliore Alfredo Ciano 269. Aderisco alla campagna Barbara Grandi 270. Comune aiuta le forme di resistenza oggi possibili Giorgio Sermasi 271. Rendere la nostra storia ancora aperta al futuro Carmine Miccoli 272. In ogni luogo Michele 273. Immaginiamo altri mondi, costruiamo l’impossibile Teresa Rossano 274. Aderisce anche il Forum per il Diritto alla Salute Elisabetta Papini, Coordinatrice nazionale del Forum 275. Comune ci fa sentire meno soli Maria Grazia Giordano 276. Aderisco Barbara De Rosa 277. Comune non mi convince sempre, una buona ragione per aderire Roberto Renzoni 278. Un mondo che sia per ciascuna persona degno, attraversabile, giusto Mag 4 Piemonte 279. Una speranza sì, ma per nulla astratta Elisa Lello 280. Aderisco alla campagna Lucia Bertolini 281. Qui e ora Corrado G. 282. Le lotte non finiranno mai Marco Mani 283. Affacciarsi sulle sfaccettature del mondo Tiziana Cicero 284. Ma dove eravate? Davide Morabito 285. Grazie di esistere Gaia Crocella 286. Quelli che sono in alto puntano sulla paura Claudia Cipriani 287. Senza delegare Angela Bergonzi 288. Condivisione e speranza Ornella Di Leo 289. Sognare e sperare con il Caffè Basaglia Ugo Zamburru 290. Contro la paura, rafforzare l’essere in comune in ogni espressione Alessandro Marzolino 291. Tasselli di speranza Amici di Silvestro Montanaro 292. Per coltivare il pensiero Gabriella Morandi 293. Quando leggo Comune sono meno triste Diletta Bevacqua 294. Resistere e sperare Raffaella Sutter 295. Comune mi aiuta a meglio affrontare il cupo quotidiano Françoise 296. La poetica di Glissant per una campagna di utopia e azione Teresa Menchetti 297. Tessere fili per l’alternativa Stefania Zamagni 298. Speranza, lotta e dignità Angelo Gelmini 299. La speranza come compagna di viaggio. Ad esempio a Rebibbia Laura Fersini 300. Per un “Comune Speranza” attraversato da tante vie Andrea 301. Nei tempi bui si canterà? Erica Sereno 302. La speranza attiva è l’unica strada Giuseppe Campagnoli 303. La speranza è un Nonostante Leontine Regine 304. Abbiamo qualcosa in Comune Antonio Totaro 305. Insieme a tutti noi Loredana Vigliano 306. La speranza va coltivata ogni giorno Giuliano 307. Scavare crepe nel muro per far entrare la luce Alessandra Mecozzi 308. Con una certa speranza Paolo Boido 309. Grazie per quello che fate Ines Rielli 310. Aderisco contro la violenza nascosta Anna Maria Bruni 311. Sperare soprattutto quando sembra un esercizio inutile Milvia Vincenzini 312. Un altro giorno Marco Chiletti 313. Una luce di speranza nella società dell’emergenza Francesco Fantuzzi 314. La speranza non è l’attesa che qualcosa ci venga in soccorso Francesco Paniè 315. Siete bellezza allo stato puro Riccardo Bossi e Manuela Zotti 316. Democrazia disinnescata Paolo Sanzani 317. Abbiamo bisogno di spazi come Comune, per ri-conoscerci Sara Rossetti 318. Per fortuna che c’è Comune che fa rete con molti di noi Raffaele Sisca 319. La speranza non è comoda, richiede un rischio personale Manuela Baliva, Reti di pace 320. Perseguire la speranza Patrizia Ciancone 321. Aprirci verso l’altro e l’altrove Clelia Ricci 322. Aderiamo! Movimento Ubuntu Varese 323. Semi di speranza nei territori della marginalità Rosangela Pesenti 324. Fare e sapere Gianluca Gabrielli 325. Ciò che raccoglie questa pagina… Angelo Loy 326. Aderisco Luca Ciastellardi 327. La speranza come passione che muove i corpi Stefano Rota 328. Forza! Maddalena Sala 329. La speranza che ci spinge a combattere Giulio Marchesini 330. Dà forza sapere che altri sperano e realizzano mondi nuovi Antonio De Lellis 331. Noi aspetteremo seduti tempi migliori Raffaele Barbiero 332. Comune stimola una lettura del vivere Livia Rosato 333. La speranza è oscena Andrea Saroldi 334. Costruire politica e disobbedienze Italo Di Sabato 335. La nonviolenza è speranza Mao Valpiana 336. Costruire comunità autogestite Domenico Luciani 337. Namasté Mauro Benati 338. La pace senza la giustizia sociale è propaganda Mariangela Isaia -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Partire dalla speranza e non dalla paura proviene da Comune-info.