Le ragioni dello sperareCI SONO ALMENO TRE INSEGNAMENTI DI ERNST BLOCH CHE ILLUMINANO IL TEMPO CHE
VIVIAMO. IL PRIMO: LA SPERANZA NASCE DAL BUIO, DAL TRAGICO CHE INVESTE INDIVIDUI
E POPOLI: IL SUO STRAORDINARIO IL PRINCIPIO SPERANZA LO SCRIVE NELL’ESILIO
STATUNITENSE DAL 1938 AL 1949, GLI ANNI DEL NAZISMO, DEL FASCISMO, DELLA GUERRA
E DI HIROSHIMA. IL SECONDO: LA SPERANZA SI IMPARA, GLI INDIZI POSSIAMO CERCARLI
NEL PRESENTE, NELLE RELAZIONI E NELLA VITA DI OGNI GIORNO, NON SOLO NELLE GRANDI
COSE. LA SPERANZA, AD ESEMPIO, SI TROVA IN QUELLA GALASSIA DI MICRO-MOVIMENTI DI
BASE CHE IN TUTTO IL MONDO OFFRONO RISPOSTE A BISOGNI PRIMARI COME LA CASA, LA
SALUTE, LA SALVAGUARDIA DELLA BELLEZZA. IL TERZO: IMPARARE A SPERARE È UN
COMPITO ARDUO, RICHIEDE DI CONTRASTARE LA DIFFUSA CONVINZIONE CHE LA REALTÀ SIA
IMMUTABILE ANCHE SE INSOPPORTABILE. SU COSA FAR LEVA? SCRIVE GIULIANA CHIARETTI
IN LIBERARE LA SPERANZA (ENCICLOPEDIADELLADONNE.IT): «PENSO A QUEL SENTIMENTO DI
LIBERTÀ CHE PROVIAMO QUANDO CI È DATA LA POSSIBILITÀ DI “UNA CONTROMOSSA CHE
CONTRADDICE IL CATTIVO PRESENTE” E CHE PER ESSERE TALE NON AVVIENE
NELL’ISOLAMENTO, NEL PURO ATTIVISMO INDIVIDUALE, MA DEVE ESSERE COMPIUTA INSIEME
AD ALTRE E ALTRI. NON SI SPERA MAI DA SOLI…»
Mensa comunitaria nella striscia di Gaza (progetto SOS Gaza, promosso da Gaza
Freestyle, Mutuo Soccorso Milano, Centro Vik-Vittorio Arrigoni, Acs-
Associazione di Cooperazione e Solidarietà, Dis- Donne in Strada)
--------------------------------------------------------------------------------
Le ragioni dello sperare
Accudisco il presente
come un ponte di corda
tra due abissi.
Ne rattoppo i fianchi.
Olio le funi,
testo la tenuta del fondo.
Non lo attraverso.
Osservo i passanti
mattino pomeriggio,,
prime ore della sera
tornano e vanno.
Di notte dormo,
sul ponte che vacilla,
spavaldo nelle intemperie.
(Chandra Candiani, Pane del bosco, 2020-2023)
La speranza ha a che fare con il presente, ne accompagna con il suo pathos la
vita e la conoscenza, sollevandole e portandole al di là del qui ed ora, senza
pretendere di liberarle interamente da quelle opacità che caratterizzano
entrambe.
Parole che traggo da Il principio speranza di Ernst Bloch, punto di riferimento
per queste pagine dedicate alle ragioni dello sperare. La traduzione italiana di
quel libro sembra segnata da uno strano destino. Dopo essere stata a lungo
attesa giungeva a noi nel 1994, proprio “nel momento sbagliato”, come ebbe a
scrivere Remo Bodei, in apertura alla sua Introduzione al testo:
“Questo libro sembra giungere al lettore italiano nel momento sbagliato, quando
le quotazioni del ‘principio speranza’ e dei connessi ideali di utopia si
approssimano alla zero. Al sospetto diffuso che essi abbiano provocato immani
disastri nel recente passato – proprio mentre promettevano il paradiso in terra
– si accompagna la percezione disincantata di un futuro imprevedibile e
disperatamente improgrammabile in direzione del meglio”.
Quegli anni, invece, erano il momento giusto, il momento in cui occorreva
riaffermare le ragioni della speranza proprio nel senso di Bloch: come “affetto”
e arricchita da una conoscenza sul presente storico. Lo stesso Bodei,
concludendo l’introduzione, invitava il lettore a riscoprire quelle ragioni
nell’opera di Bloch, e penso avesse in mente fossero da riscoprire anche nei
cambiamenti che allungavano su di essa non poche ombre.
È innegabile che la fine del sogno in un mondo conciliato con sé stesso,
l’esaurirsi della fiducia nelle “grandi promesse”, portassero a decretare
l’inattualità del pensiero utopico di Bloch. Ma è in ogni pensiero inattuale,
proprio lì “con tutta probabilità, che si annida il futuro, l’inespresso che
attende il suo riscatto”:
“Interrogarsi sullo stato attuale degli studi blochiani in Italia significa,
implicitamente, porsi l’interrogativo circa l’attualità stessa del filosofo
della speranza. Domanda cui si potrebbe rispondere con una provocazione: se
Bloch fosse attuale non avrebbe futuro. L’inattualità, infatti, è un elemento
qualificante della filosofia della speranza, perché misura l’ostinatezza con cui
certe idee riaffioreranno alla luce della storia tradendo, temporaneamente, il
loro fluire carsico”.
Uno degli insegnamenti di Bloch è che la speranza nasce dal buio, dal tragico
che investe individui e popoli.
Si dedica alla scrittura del testo negli anni dell’esilio americano, dal 1938 al
1949: gli anni dell’immenso disastro che sono stati il nazismo, il fascismo, la
guerra e l’atomica Little boy su Hiroshima, anni che hanno sconvolto il mondo
umano e naturale. È allora che Bloch disegna “la grande mappa di tutti i
territori della speranza”, realizzando quella che ancora oggi è l’unica e vera
“enciclopedia della speranza”.
Era il momento giusto
Il 1994 è il momento giusto per la pubblicazione di questo libro. Perché si è
compiuta l’affermazione del neo-liberismo come “la nuova ragione del mondo”, la
nuova promessa, “una ricetta di arricchimento generalizzato”. E un ben diverso
principio punta a divenire egemone: il principio della concorrenza, “come forma
generale delle attività di produzione e come principio base dell’azione dello
Stato e di quella dell’individuo”.
L’affermazione del neoliberismo non riguarda solo l’economia. Le ricadute
culturali e ideologiche vanno a toccare in profondità la vita relazionale e
sociale delle persone, il loro “mondo dentro”. Profonda, infatti, è l’influenza
e l’ampio consenso che la dottrina neoliberale conquista: un pensiero “unico”,
un insieme di “verità” accettate come se fossero naturali. La migliore sintesi
di tale pensiero si trova negli slogan pronunciati da Margaret Thachter: “la
società non esiste, esistono solo gli individui”; “l’economia è il mezzo,
l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”, “There Is No Alternative”.
Slogan che sanno di assoluto, che evadono la domanda di senso, inneggiano al
primato del mercato, alla soddisfazione dei bisogni singoli, alla competizione
che rischia di assumere la forma estrema dell’arrivismo, alle aspirazioni
particolaristiche che indeboliscono il senso dell’interesse generale e dei
valori di solidarietà e giustizia, fino a quel momento considerati universali.
Il successo dei principi e dei valori della dottrina neoliberista, il fatto che
sia riuscita a incarnarsi in un’effettiva “forma di vita”, ci avverte che non è
stato solo un inganno. È stata una risposta al disagio, alle ansie e paure di
quei decenni; ha potuto far leva su emozioni e sentimenti, e
sull’assenza-debolezza di alternative politiche. Al suo grande e iniziale
successo contribuirono anche il desiderio di libertà, lo spirito
anti-istituzionale e antiburocratico sostenuto dai movimenti degli anni
Sessanta, che la dottrina neoliberale riprese, esaltò e interpretò a suo modo.
“Cambiare il cuore e l’anima”: Bloch aveva ben presente la forza della
propaganda che muove sentimenti, fantasie ed emozioni, che mette in campo anche
simboli e archetipi per ottenere consenso: un giacobinismo del mito, così
definiva il nazionalsocialismo. Nell’articolo “Socrate e la propaganda”, scritto
negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, Bloch, cui non mancava il gusto
dell’ironia, racconta un aneddoto circa la natura del desiderio in campo
politico.
“Ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino. Il rappresentante
del Kpd tiene un discorso estremamente complesso, tecnico e irto di cifre sulla
caduta tendenziale del saggio di profitto in Marx, di cui nessuno capisce
niente. Arriva il nazista e, usando sfacciatamente dei miti falsi, ma che
toccano corde profonde dell’animo umano e di quello dei tedeschi in quel
particolare momento storico (l’identità, l’appartenenza, la patria), parla di
pugnalata alla schiena, di tradimento, ed esce alla fine trionfante dal
confronto”.
Già prima della pubblicazione de Il principio speranza, Remo Bodei nel saggio La
speranza dopo il tramonto delle speranze individuava alcuni tra i nodi
fondamentali che stavano ridisegnando una “nuova forma di vita”: l’indebolimento
delle esperienze acquisite, lo svanire del senso della tradizione e di un futuro
laico che accolga una speranza progettuale. Muta il senso e il modo di vivere il
presente; svincolato dalle tradizioni e dall’impegno di costruire un futuro, si
colora di un particolare senso di libertà limitato a sperimentare le buone
occasioni del momento, a godere dell’immediata soddisfazione dei propri
desideri.
“Il soggiornare nel presente sembra talvolta avere un carattere predatorio, come
se – nell’incertezza di tutte le cose – ci si affidasse a vantaggi casuali, per
paura che situazioni analoghe non ritornino. Ciò porta in alcuni casi a
concepire l’esistenza individuale come un bricolage di esperienze disparate,
provvisorie e rivedibili. Si è sempre aperti all’irruzione del nuovo e
dell’imprevisto (una volta che vengano preventivamente “normalizzanti”) ma meno
coinvolti in progetti di costruzione dell’avvenire che non siano meramente
tecnici”.
È stato scritto e detto tanto sull’epoca delle crescenti incertezze e delle
passioni tristi, e su quel tempo – il futuro – che è venuto a mancare. “Il
futuro è morto”, “capitalismo senza futuro”, “il demone della paura del futuro”.
Un’ondata di parole, di libri, di saggi, di discorsi, sul venir meno della
capacità di sperare e sulla fatica a trovare un senso al presente. Un’ondata
simile scorre su youtube e ogni altro tipo di social network. Non è chiaro
l’effetto di tutti questi discorsi, ma c’è il rischio che rafforzino la
convinzione che non ci sia via d’uscita, e non rimanga altro che adattarsi alle
cose così come stanno. Nei giovani risuonano spente le parole che alludono alla
speranza: il senso del futuro è loro sfuggito di mano e barcolla sotto il peso
dei tanti “chissà” che riguardano progetti e aspirazioni: chissà come, chissà
dove, chissà quale, chissà quando.
There is (No) Alternative
Eppure, non è mancata nei decenni trascorsi fino ad oggi la ricerca di possibili
alternative, in varie forme e ambiti, dove possiamo rintracciare segni di una
speranza indebolita ma irrinunciabile per porre rimedi a questo cattivo
presente.
Ci è stato consegnato un ricco bagaglio di riflessioni, di teorie e analisi in
ambito umanistico e un “pensiero critico” adeguato a cogliere la realtà nella
sua sostanza instabile e contraddittoria, quindi non necessaria né immutabile,
un bagaglio di cui però non molti possono disporre, confinato com’è nel
cosiddetto mondo della cultura.
Allo stesso modo poco sappiamo (anche perché non è facile averne un quadro
completo) di quella galassia di micro-movimenti di base simili a
sperimentazioni, a “pratiche del possibile”, la cui caratteristica è di
affondare le radici nella concreta vita quotidiana per dare risposte a bisogni
primari come la casa, la salute, l’inquinamento, la salvaguardia della bellezza
o di parchi, orti e giardini. Sono come sprazzi di resistenza che vanno e
vengono e che la politica finge di non vedere e forse non vede affatto.
Ci sono, anche, esempi d’alleanza tra iniziative dal basso, organizzazioni di
cittadinanza attiva e centri di ricerca, con l’obiettivo di “fare rete”, di
acquisire voce sui problemi, di progettare soluzioni e ottenere un
riconoscimento pubblico, per arrivare, fra molte difficoltà, a incidere sulle
scelte politiche. Sono cresciute le tensioni nell’ambito del lavoro e della sua
precarizzazione; è cresciuto il fenomeno del lavoro povero e delle famiglie
povere; si sono acuiti i rischi ambientali, sanitari e alimentari, sono nati, si
sono spenti e sono rinati movimenti internazionali e globali nella
consapevolezza che un destino e un problema comune investano a livello
planetario il tema dei beni comuni.
La risposta a questo accendersi e ribollire per un cambiamento è stata
repressiva e violenta. Per il ristabilimento dell’ordine, e in nome della
governabilità, lo Stato mostra il suo peggiore volto autoritario e securitario e
agisce di conseguenza. Predomina una logica normativa globale, procedure
coercitive che fanno paura, ma che non riescono ad attenuare le tensioni, non
spengono l’azione dei movimenti né impediscono il riorganizzarsi delle proteste,
le manifestazioni in difesa dei diritti umani, civili e sociali.
Per distrarre da tutto ciò e costruire un consenso attraverso la propaganda, si
additano i nemici dell’ordine, gli attentatori a presunte integrità: gli
immigrati, la comunità Lgbtq+, gli ambientalisti, i poveri. Come sempre nella
storia, alta è l’efficacia della costruzione del nemico nell’opinione pubblica.
La sofferenza che colpisce i corpi e le vite delle popolazioni che abitano il
pianeta è il terreno dove la speranza può configurarsi come lotta, senza cessare
di andare incontro a incertezze delusioni sconfitte ed è la storia umana che ce
ne mostra le sue alterne vicende, il suo non desistere, le tante narrazioni che
l’hanno accompagnata.
Per questo non si approssimavano né si approssimano a zero le quotazioni della
speranza nel senso di Bloch. Non la speranza fatalistica, passiva espressione di
un’attesa inoperosa che genera illusioni, ma, come riafferma nelle pagine
dedicate alla libertà di una contromossa che contraddice il cattivo presente, la
speranza che ha una dimensione cognitiva e operativa, basata sul dinamismo della
realtà:
“Pensare significa oltrepassare. Ma in modo che quanto è semplicemente presente
non venga abbandonato, e non si scantoni. Non nelle sue ambasce e nemmeno nel
movimento per uscirne. Non nelle cause dell’ambascia, e nemmeno nelle avvisaglie
di svolta che vi maturano. Perciò un reale oltrepassamento non va mai a finire
nel vuoto pneumatico di un davanti-a-noi, dedito solo a esaltazioni e
descrizioni astratte”.
Pensare significa oltrepassare
“Pensare significa oltrepassare” è un’espressione che, all’inizio de Il
principio speranza, mi ha colta di sorpresa, mentre sfogliavo per la prima volta
le pagine del libro. Per questo, penso, l’ho inseguita e a sua volta mi ha
inseguito nel procedere della lettura, come parola chiave per apprendere il
fondamento della speranza blochiana.
Cercherò di chiarire il perché della mia emozione. Il fine è arrivare a dire
perché annovero quella idea di Bloch tra le rag ioni per riscoprire il valore
della speranza, anche oggi.
Partirei da come Bodei commenta questo punto soffermandosi in particolare sulla
parola “oltrepassare”.
“In tutto l’arco dello scibile e in tutta l’estensione delle esperienze lo
sguardo cerca acutamente di spingersi oltre l’immediatezza del percepito e del
compreso, di penetrare l’‘ultravioletto’ attraverso un pensare (un co-agitare di
concetti, immagini, fantasie) che è per sua natura un Überschein, ossia un
‘oltrepassare’ e, insieme, un ‘trasgredire’ che individua i contorni di una
possibile ‘logica della speranza’”.
Imparare a sperare nel senso di Bloch è dunque imparare a “co-agitare”, ad
agitare dentro di sé, il fantasticare, l’immaginare, in un gioco di associazioni
a vari colori, fino ad arrivare al “concetto”. È un modo di pensare che lega e
distingue nello stesso movimento, che mette insieme tutti questi elementi
mutuamente interconnessi.
Preciserei (è importante per me) che è un movimento del corpo-mente, un punto
d’incontro di fisicità sentimento intelletto: proprio per questo non è chiuso in
sé stesso, tutto interiore, ma è aperto alla relazione e al mondo esterno. Non è
naturale, è intriso di cultura, di memoria, trova un suo ordine, una sua forma
comunicativa.
La speranza si impara, afferma Bloch, se ne cercano gli indizi nel presente, la
si coglie e condivide nelle relazioni e la si ritrova nella vita quotidiana,
nelle piccole cose, non solo nelle grandi.
La prima parte de Il principio speranza è dedicata a Piccoli sogni a occhi
aperti e ci porta per mano attraverso le età della vita, esponendo come si
configura la mancanza prima da bambini, poi da adolescenti, giovani e adulti
fino a “quello che nella vecchiaia resta da desiderare”. Pagine da leggere,
almeno il primo paragrafo Vuoto è l’inizio che comincia: “Mi desto. Fin dal
primo mattino siamo alla ricerca. Siamo pieni di brama, gridiamo. Non abbiamo
quel che vogliamo”. E si conclude così: “La brama del meglio resta, per quanto a
lungo il meglio venga impedito. Se il desiderio si avvera, esso in ogni caso
sorprende”.
Tornando al punto in questione, a quel co-agitare, a quell’agire dentro di sé
fantasie pensieri sensazioni, intenzionato anche all’oggetto desiderato, e
dunque alla speranza come “atto orientativo di specie cognitiva”, possiamo dire
che lì si compie il ricongiungimento tra ragione e sentimento; e non solo,
perché (richiamo ancora Bodei) “un oltrepassare è insieme un trasgredire”.
La sorpresa per me sta esattamente qui: scoprire fin dalle prime pagine che il
principio speranza blochiano è in un senso più generale una critica
all’affermazione della razionalità tecnico-strumentale nei diversi ambiti della
vita. Di questo il testo tratta: agire la speranza è un sottrarsi alla logica
raziocinante che ha messo radici nella nostra mente, lasciando che il corpo vada
da sé mentre le nostre idee obbediscono a un paradigma di disgiunzione. Il
paradigma che logicamente procede con il connettivo “o-o” e materialmente
pretende di barrare la connessione tra il pensare e il sentire, tra corpo e
mente, che esiste ed è da tempo al centro di ferventi dibattiti in ogni campo
del sapere e dei miei caldi interessi.
È un compito arduo; ci richiede di contrastare, come ho detto, la diffusa
convinzione che la realtà sia immutabile anche se insopportabile; di vincere una
certa fiacchezza – fiacchezza del corpo che è scoraggiamento dell’anima, mancato
appagamento del desiderio – nel cercare le risorse scarse, ma indispensabili a
fronteggiare frustrazioni e paure. Già il semplice pensare, ricondotto alla sua
origine etimologica, è un “pesare”, un ponderare, un soppesare, un riflettere su
quello che succede in noi e intorno a noi, compreso quello che non va bene: un
“peso” difficile da portare.
L’inerzia e la passività che tolgono vigore e capacità di aspirare al meglio ci
riportano all’inizio di queste pagine, all’alleanza tra forze economico-sociali
protese alla conservazione dello status quo e interessate solo a quei
cambiamenti atti alla propria riproduzione ed espansione.
Su che cosa far leva allora? Sul fatto che per gli esseri umani rinunciare alla
speranza è insopportabile più di ogni altra cosa. Una conferma la troviamo nel
fatto che – come scrive Bloch:
“Perfino l’inganno, per funzionare, deve lavorare suscitando speranza con
lusinghe e corruzione. È proprio per questo che da tutti i pulpiti si continua a
predicare la speranza, ma accuratamente rinchiusa nella pura interiorità o
legata consolatoriamente all’aldilà”.
C’è anche qualcosa d’altro su cui far leva. Penso a quel sentimento di libertà
che proviamo quando ci è data la possibilità di “una contromossa che contraddice
il cattivo presente” e che per essere tale non avviene nell’isolamento, nel puro
attivismo individuale, ma deve essere compiuta insieme ad altre e altri. Non si
spera mai da soli.
--------------------------------------------------------------------------------
LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY:
> Imparare a pensare la speranza
--------------------------------------------------------------------------------
L'articolo Le ragioni dello sperare proviene da Comune-info.