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Pensare la politica al tempo di Gaza
I POPOLI E I SINGOLI NON UTILI A UN POTERE, LA CUI MATRICE È L’ECONOMIA DI MERCATO, POSSONO ESSERE ELIMINATI, CIOÈ SPOSTATI COME PACCHI OPPURE UCCISI. IL GENOCIDIO DI GAZA NE È LA MANIFESTAZIONE PIÙ FEROCE. MA GIÀ LA REPRESSIONE E L’INDIFFERENZA VERSO LE PERSONE CHE MIGRANO, SCRIVE GIAN ANDREA FRANCHI, HANNO PREPARATO NEGLI ULTIMI VENTI ANNI IL TERRENO VERSO IL SALTO ISRAELIANO NELL’ABISSO DI UN FUTURO CATASTROFICO. “DIRE CATASTROFICO, PERÒ, NON IMPLICA AGGIUNGERE ANCHE L’AGGETTIVO INEVITABILE: L’IMPEGNO, AD ESEMPIO, DI COLORO CHE SI RICONOSCONO INTORNO ALL’INCONTRO QUOTIDIANO CON I MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA NELLA PIAZZA DELLA STAZIONE DI TRIESTE, “PIAZZA DEL MONDO”, VUOL PROPRIO ESSERE UN TENTATIVO DI INIZIARE UNA PRATICA MEDITATIVA DI COSTRUZIONE POLITICA DI RELAZIONI COMUNITARIE, NEL RIFIUTO DI OGNI FORMA DI DELEGA… SI TRATTA DI INIZIARE A COSTRUIRE RESISTENZA SOCIALE A PARTIRE DAL RAPPORTO CON L’ALTRO BASATO SULLA COSTRUZIONE DI FORME COMUNITARIE UNITE DALLA RECIPROCITÀ DELLA CURA… UN IMPEGNO CHE È POLITICO NELLA PRECISA MISURA IN CUI È DIVENTATO ORMAI, SIC ET SIMPLICITER, UN IMPEGNO PER LA VITA…” Trieste, “Piazza del mondo” (settembre 2025) -------------------------------------------------------------------------------- È oggi d’estrema evidenza la necessità di aprire cammini verso una dimensione comunitaria e collettiva della vita e non solo umana. Scrivo queste parole mentre cerco di compiere, a modo mio, questo cammino, anche se spesso mi viene il dubbio di segnar tracce sulla sabbia di fronte a un mare sempre più cupo… È in atto e ben visibile una distruzione della vita in quanto tale sotto la sferza del dominio assoluto del valore di scambio, nato nella Cultura europea fa XVI e XVII secolo per venir imposto ovunque. Il genocidio di Gaza ne è la manifestazione di fronte al mondo senza nessuna mediazione (e con troppo modeste forme di resistenza). Il ministro israeliano Bezalel Smotrich ha detto “La striscia è un Eldorado da spartire con gli Usa”. Si tratta di una frattura nella continuità storica mai avvenuta prima: l’eliminazione attuale e tendenziale di un intero popolo, giuridicamente chiamata genocidio1, viene eseguito di fronte al mondo intero. “Genocidio” è una parola ormai giornalisticamente banale. Primo Levi, nell’introduzione a I sommersi e i salvati, ricorda il “cinico ammonimento” dei militi SS: “E quando anche qualche prova dovesse rimanere [delle camere a gas], e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono talmente mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo tutto”2. Quello che sta quotidianamente accadendo a Gaza dal 7 ottobre del 2023 proclama, invece, pubblicamente che le popolazioni e i singoli non utili a un potere, la cui matrice è l’economia di mercato, ovvero il capitalismo, possono essere eliminati: uccisi o spostati come pacchi inutili per essere abbandonati in qualche luogo remoto. Questa violenza radicale era in germe nella violenza originaria del nascente capitalismo in Europa, con la sottrazione dei beni di uso collettivo e la violenza contro tutti i gruppi sociali considerati improduttivi e, contemporaneamente, in forme ab origine largamente “genocidarie”, nella conquista europea del resto del mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, questa consapevolezza si era attenuata e anche culturalmente rimossa, in quella fase storica che possiamo chiamare “socialdemocratica”, legata anche alla diffusione di dinamiche sociali di contestazione e di lotta. Oggi, senza più alcun velame giustificatorio, chi non è utile al sistema del potere economico può essere tolto di mezzo. Stiamo entrando in una nuova fase della storia del mondo, che indicherei come una sorta di atroce sintesi di vecchio e di nuovo. Vecchio: perché ultimo frutto velenoso dell’esasperazione della cultura dell’individualismo concorrenziale che porta alla lotta di tutti contro tutti; una società della concorrenza è una società concepita come lotta per vivere e sopravvivere, è una società che porta nelle sue viscere la solitudine e la guerra. Nuovo, perché è ormai scomparsa ogni copertura ideologica, ad esempio l’ideologia dei “diritti umani”, ma soprattutto perché il potere capillare intrinseco alle dinamiche economiche sta ormai palesemente distruggendo la vita intera, senza più contrasti efficaci, limiti o cautele. Ci sono qua e là resistenze, lotte e anche tentativi d’innovazione, ma al momento non in grado di contrastare veramente il processo distruttivo dell’equilibrio essenziale alla vita, così come la conosciamo, che appare sempre più inesorabile. L’intera natura – l’ambito del nascere per tutti i viventi – è coinvolta in un illimitato processo di mercificazione, ovvero di distruzione funzionale al capitalismo. Bisogna prendere atto che questa cultura, nel suo sviluppo incontrollato e che ormai appare incontrollabile, sta distruggendo le basi della vita. Occorre far risuonare nella sua profondità originaria una parola, resa banale, come “natura”: la vita è la temporalità del nascere, del crescere e del finire. Finisce un percorso di vita per dar seguito ad un altro: il nascere e il morire, l’iniziare e il finire, costituiscono due facce di una sola dinamica vitale e, nel caso umano, storica. Detto in termini più astratti, la vita si articola nel ciclo di riproduzione e produzione (produzione del necessario alla riproduzione, il nutrimento), ma è ormai storicamente lanciata verso la rottura dell’equilibrio fra queste due dinamiche fondanti. Siamo, infatti, catturati da un processo in cui la produzione si sta mangiando la riproduzione, perché il fine ultimo della riproduzione è diventato la produzione di oggetti che non sono necessari o anche utili alla riproduzione, al contrario, molto spesso nocivi, servono soltanto alla loro trasformazione in valore di scambio, in denaro, peraltro dissolto ormai in meccanismi finanziari. Potere allo stato puro, sganciato da ogni fine che non sia uno smisurato impulso ad invadere – a divorare – ogni anfratto vitale. Questa dinamica illimitata di potere ha oggi, nel genocidio pubblico di Gaza, la sua proclamazione, locale ma con valenza generale: non c’è più alcun limite a un potere che si manifesta come trasformazione della vita in merce, ossia in valore di scambio fine a sé stesso. È l’instaurazione di un illimitato dominio antropologico sulla vita – ma di cui responsabile è solo una piccola parte degli umani -, che sta mettendo in crisi l’equilibrio della vita stessa. Oggi noi non possiamo più avere un immaginario e quindi neanche delle rappresentazioni del futuro. Possiamo avere speranze e desideri per il futuro, senza però un rapporto con la dinamica storica effettiva e quindi con possibili alternative. Ciò significa che è avvenuta, per la prima volta nella storia, una rottura a livello mondiale della trasmissione fra le generazioni, una rottura della narrazione storica, cioè del senso stesso della vita, sociale e singolare: un genitore oggi non può prefigurare al figlio il mondo in cui vivrà da adulto. Oggi mettere al mondo un figlio è qualcosa di diverso da ieri: un bambino è gettato in un mondo, le cui dinamiche future ci sono ignote. In tal modo la vita storica tende a perdere senso: per quel che riguarda i singoli, sembra evaporare in un pulviscolo caotico di cunicoli individuali, di drammi di sopravvivenza, coinvolti e sconvolti da lotte mondiali di potere. È necessario allora, per ridare senso alla nostra vita e a quella dei nostri figli e delle generazioni future, scavare a fondo. Il compito antropologico, storico, politico di ridare senso alla vita deve partire dalla consapevolezza che la vita e la morte non sono contrapposte, come la cultura moderna dell’Occidente vuol imporre, ma sono complementari – altre culture dall’Occidente distrutte o recluse lo sapevano. Ciò significa fondare un orizzonte narrativo politico, quindi comunitario, nel quale accogliere il transito generazionale: la morte. È questo il fondamento di una vita storica comunitaria. Accogliere la finitezza di ogni singola vita come intrinseca portatrice di un messaggio del proprio transito vitale da lasciare agli altri, a chi resta e a chi nasce, vuol dire creare le condizioni della trasmissibilità fondamento della storia in quanto comunicazione fra le generazioni. Questo è il tratto, che si può chiamare “ontologico”, alla base della dimensione comunitaria della vita, che l’umano potrebbe e dovrebbe esaltare, mentre ha finito con l’esaltare un’altra dimensione, che pur nella vita esiste: la predazione. Il capitalismo, accentuando al massimo il fenomeno predatorio contenuto in natura entro limiti certi, ha finito con il contrapporre la morte al contesto della vita e della storia. Ha annullato la funzione culturale della morte: il passaggio del testimone nel tempo della narrazione storica, il passaggio comunicativo fra le generazioni. Ha reso la morte soverchiante e distruttiva per il tramite di una illimitata espansione dell’umana capacità di agire, divenuta predazione della vita stessa. Ha modificato, in tal modo, le basi stesse della vita, riducendola a materiale da predazione: consumare la vita invece di alimentarla: una dinamica tendenzialmente suicida. Questo è accaduto nel contesto di una complessa dinamica storica di rimozione dell’angoscia propria della condizione umana: l’angoscia per la morte che abita ogni vivente umano e la cui elaborazione è stata il fondamento di tutte le culture: dalle prime mitologie alle religioni più complesse. Rimozione è il contrario di elaborazione. Sembra opportuno un rapidissimo cenno storico. Questo percorso storico di rimozione è sorto in Europa, principalmente, nei meandri della corrente calvinista della Riforma del cristianesimo agli inizi di ciò che chiamiamo “epoca moderna” (XVI-XVII secolo). Sommariamente: sotto la spinta iniziale del bisogno di capire il misterioso disegno divino sulla condizione umana – chi sarà salvato e chi perduto3 – il calvinismo poneva il senso e lo scopo della vita nell’affermazione sociale, intesa ormai in termini individuali e non comunitari, che si veniva rapidamente identificando con il successo sociale, cioè in definitiva economico, sciolto infine da ogni connotazione religiosa. La vita e l’opera di Benjamin Franklin, il cui volto appare esemplarmente sulla banconota da cento dollari, offre una narrazione perfettamente adeguata di questo fondamentale passaggio storico nell’affermazione di una vita operosa tutta dedita, con incrollabile serenità, all’”onesto guadagno”. Nel 1787 scrive: “Più vivo, più colgo prove convincenti di questa verità, ovvero che è Dio a governare le umane faccende”; ma per il tramite del denaro quale controllo e misura del tempo4: “il tempo è denaro”, “il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”. In Franklin, infatti, si può leggere con grande chiarezza il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia nell’operatività quotidiana: il denaro usurpando e sterilizzando la misteriosa e drammatica fecondità della vita, riducendola alla misura quantitativa, produce un ordine astratto ma rassicurante e una garanzia di controllo del futuro che trova nella “Rivoluzione“ americana l’esempio più caratteristico5. Lo ribadisce molto bene un’ulteriore considerazione dei nostri giorni: “La Banca Mondiale ha fatto sua la teoria dell’economista peruviano Hernan de Soto secondo cui solo il denaro è produttivo, mentre la terra in sé è sterile e se utilizzata per la sussistenza è causa di povertà…”6. Il denaro viene visto come garanzia di vita e, almeno, sopravvivenza. Ma oggi possiamo capire che è vero esattamente il contrario. L’atteggiamento di sereno distacco di Franklin non è alternativo alla violenza più estrema. Ne possiamo trovare un esempio estremamente significativo un secolo prima, proprio nel pieno di quella rivoluzione calvinista in Inghilterra, che è alla base di questa dinamica storica, nell’invasione dell’Irlanda da parte del New Modern Army guidato da Cromwell. La violenza estrema, giunta fino al genocidio, e la serena operosità di ogni giorno sono perfettamente complementari, come il fascismo e la socialdemocrazia, dinamiche diverse ma che perseguono lo stesso scopo7. Oggi, nella fase di violento neoliberismo che sta imperversando senza più alcun limite, possiamo ben dire che, abbandonato ogni tipo di giustificazione, il mero potere del valore di scambio indica pienamente il valore, ovvero il grado di potere, di un individuo o di un gruppo. Importante, però, è cercar di comprendere le origini di un fenomeno storico che oggi sembra ormai privo di ogni capacità di autocontrollo. In tale contesto, di cui ho sommariamente accennato la matrice storica, l’impegno con il nuovo fenomeno migratorio, nato e sviluppato da circa un ventennio, è un punto fondamentale d’azione e d’osservazione. Dato che chi scrive è un cittadino europeo, mi riferisco soprattutto al comportamento degli Stati europei e “occidentali” in cui, – sotto l’affaticata egemonia degli Usa -, appaiono senza veli l’indifferenza per la vita e la supremazia indiscutibile del valore di scambio8, accompagnati dalla fine di tutto ciò che si raccoglieva storicamente sotto l’etichetta “diritto”. L’indifferenza per le decine di migliaia di morti migranti in Mediterraneo, e anche nei Balcani, il cinico ma tradizionale uso politico del razzismo – e, in particolare ricadendo in casa nostra, la complicità dell’attuale governo, con le bande criminali libiche, esemplificato dal “caso Almasri” – sono stati un passaggio fondamentale verso il salto israeliano nell’abisso di un futuro che si preannuncia catastrofico. Questi morti indifferenti sono un esercizio della libertà di uccidere il cui culmine “osceno” – ma di un fuori scena sbattuto brutalmente in scena – si manifesta quotidianamente a Gaza: Israele è l’avanguardia sperimentatrice di un capitalismo ormai pienamente epidemico. Dire “catastrofico”, però, non implica aggiungere anche l’aggettivo “inevitabile”: l’impegno, ad esempio, di coloro che si riconoscono intorno all’incontro quotidiano con i migranti della Rotta balcanica nella piazza della stazione di Trieste – la “Piazza del Mondo” – vuol proprio essere un tentativo di iniziare una pratica meditativa di costruzione politica di relazioni comunitarie, nel rifiuto di ogni forma di delega a qualsivoglia pretesa di rappresentanza. Si tratta di iniziare a costruire resistenza sociale a partire dal rapporto con l’altro basato sulla costruzione di forme comunitarie unite dalla reciprocità della cura, prevedendo in futuro anche possibili nuove forme di lotta: è necessario essere consapevoli che siamo ormai in una nuova diffusa forma di Terza guerra mondiale, che non è esagerato chiamare guerra contro la vita. Il nostro compito oggi, concreto e quotidiano, sta nel raccogliere il messaggio inciso dalla violenza delle frontiere sui corpi umiliati e offesi dei migranti, corpi memori delle violenze genocide di secoli di colonialismo, ma che ci indicano anche un futuro di devastazione dell’equilibrio vitale. Ciò implica il coinvolgimento in un impegno che è politico nella precisa misura in cui è diventato ormai, sic et simpliciter, un impegno per la vita. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Ho qualche remora a usare il termine “genocidio”, nato in ambito giuridico e fortemente segnato da questa origine in termini di potere. 2 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Opere Complete, vol. II, Einaudi 2016, p. 1147. 3 Questa è la lettura di Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-1905. 4 D. Sassoon, Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia, Garzanti, Milano 2024, p. 110. 5 Un articolo di Francesco Raparelli, sul “Manifesto” del 13 marzo 2025, p. 15, intitolato “Musk innovatore nel solco della storia Usa”, tenta un collegamento storico fra una figura come quella di Elon Musk e la storia statunitense di cui Franklin è figura esemplare, proprio in riferimento al testo di Sassoon. 6 Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Ombre corte, Verona 2018, p.28. LEGGI ANCHE: > Le insurrezioni delle donne 7 È necessario però ricordare che all’epoca di Cromwell sorsero anche i Levellers e altri movimenti di contestazione radicale e di scelte comunitarie. federici8 Da notare il lucido conciso articolo di Chiara Mattei ‘Austerità, militarismo, censura: Trump ci mostra il loro legame’ sul “Fatto quotidiano” del 18 agosto, p. 12 -------------------------------------------------------------------------------- Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi è da anni impegnato con i migranti della cosiddetta rotta balcanica a Trieste. Il suo ultimo libro è Per un comunismo della cura (DeriveApprodi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pensare la politica al tempo di Gaza proviene da Comune-info.
Quel dimenticato appello di Antigone
-------------------------------------------------------------------------------- Roma, 6 settembre. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Non sono nata per l’odio, ma per l’amore. Sono parole di duemila e cinquecento anni fa. Le scrisse Sofocle, per il personaggio di Antigone, la figlia di Edipo. Sono nata per condividere l’amore, non l’odio. Rilette oggi, risuonano di una sconvolgente contemporaneità.  Di fronte alle immagini che arrivano ormai da mesi e mesi dalla striscia di Gaza, e a quelle terribili di questi ultimi giorni, la trama di quell’antica tragedia rivive la sua ultima messinscena. Ma l’uso di questa parola, messinscena, è inappropriato, perché questa volta non si tratta di una rappresentazione ma della realtà. Il corpo del fratello di Antigone, condannato da Creonte, il re di Tebe, all’insepoltura, a essere cioè fatto a pezzi dai cani e dagli uccelli, è il corpo del popolo palestinese rinchiuso nella sua terra, senza vie di fuga, e costretto a morire di fame o a essere dilaniato dalle bombe e dai droni.  Creonte assume oggi le fattezze di Netanyahu, un despota intestardito nel male, che ascolta soltanto chi gli dà ragione, allontana ogni altro parere e oltraggia la saggezza e la condizione umana. È il campione del più volgare patriarcato, dice al figlio: “Proprio questo è il principio che devi tenere saldo dentro di te: assecondare in tutto la volontà paterna”. Un principio che è alla base di ogni regime totalitario e di ogni esercizio autoritario e sanguinario del potere. Anche per lui valgono le parole dell’indovino Tiresia: “Per tuo volere, la città è malata”. E valida è la profezia di una contaminazione morale che ricadrà sul suo popolo – è questo il suicidio di Israele – per i corpi insepolti o sfregiati dei bambini e delle donne palestinesi, dei vecchi e degli uomini, per tutta la carne innocente violentata. Prendere coscienza, ci ricorda il teatro greco, è un percorso tragico, costellato di lutto e di sofferenza, ma a cui non ci si può e non ci si deve sottrarre. Per tutto questo, la ribellione che Antigone porta già nel nome è la ribellione alla logica omicida del mondo, all’offesa e all’umiliazione insensate o mosse soltanto da fini economici o colonialisti o vendicativi. È in definitiva la ribellione alla mentalità della guerra, generatrice soltanto di sventura e di rovina, moltiplicatrice di altra violenza e innesco di altre guerre, all’infinito. Antigone è colei che si pone contro – contro il potere, contro la violenza, contro l’odio – perché già alla nascita è contronatura, essendo figlia di un incesto. Antigone è impura. Nasce dal lato della devianza. Antigone è la letteratura e la poesia. Ed è sola. Condannata a essere murata viva.  Se vogliamo uscire da questo circolo vizioso, dobbiamo accogliere il suo appello, l’appello di una donna, sorella di tutti, e provare ad avere il suo stesso coraggio nel difendere i diritti fondamentali che spettano a ogni persona, “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”, come recita la Dichiarazione Universale dei diritti umani. In nome di un senso condiviso di giustizia. In nome di un senso condiviso di giustizia. Siamo tutti liberi ed uguali, in dignità e diritti. Abbiamo tutti diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza. Nessun individuo può essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù. Nessun individuo può essere torturato.  Ogni essere umano, in ogni luogo, ha diritto ai suoi diritti. Perché siamo tutti uguali di fronte alla legge e protetti dalla legge. Nessun individuo può essere arbitrariamente detenuto o esiliato. Ogni individuo ha libertà di movimento e diritto a chiedere asilo in altri paesi. Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza.  E a formarsi una famiglia. Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero e di espressione, alla libertà di riunione e di pubblica assemblea. Ogni individuo ha diritto alla democrazia. Al lavoro. A un letto. A un salario. All’istruzione. E al gioco, al riposo, allo svago. Ogni individuo ha diritto a un mondo più libero e più giusto. Nessuno, nemmeno il più potente tra i potenti, può togliere a un altro essere umano i suoi diritti. Ma la pace è il primo dei diritti, perché è la condizione necessaria in cui tutti gli altri diritti potranno essere rispettati. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Fabio Stassi Bebelplatz. La notte dei libri bruciati e Notturno francese, entrambi editi da Sellerio. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel dimenticato appello di Antigone proviene da Comune-info.
Dove siamo?
-------------------------------------------------------------------------------- Migliaia di persone sono in fuga in questi giorni da Gaza (Ph pixabay.com) -------------------------------------------------------------------------------- All’inferno. Ogni discorso che non parta da questa consapevolezza, siamo all’inferno, è semplicemente privo di fondamento. I gironi in cui ci troviamo non sono disposti verticalmente, ma disseminati nel mondo. Ovunque gli uomini si associano, producono inferno. I gironi e le bolge sono dappertutto intorno a noi, che riconosciamo, come nei caprichos di Goya, i mostri e i diavoli che li governano. Cosa possiamo fare in quest’inferno? Non tanto o non solo, come diceva Italo, custodire una parcella di bene, quello che nell’inferno non è inferno (riferimento alla citazione “Riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” provenente dal libro Le città invisibili di Italo Calvino, amico fraterno di Agamben, ndr). Poiché è stata anch’essa, tutta o in parte, contaminata – in ogni caso no te escaparas. Piuttosto fermati, taci, osserva, e, al giusto momento, parla, spezza la cortina di menzogne su cui riposa l’inferno. Perché lo stesso inferno è una menzogna, la menzogna delle menzogne che impedisce il varco al non inferno, al lietamente, semplicemente, anarchicamente esistente. Al mai stato che l’inferno ogni volta ricopre col suo stato, come se non ci fosse altra possibilità al di fuori delle bolge e i gironi in cui ti hanno già sempre necessariamente iscritto. Sii tu il punto, la soglia in cui lo stato viene meno, in cui sorgivamente sbuca il possibile, la sola vera realtà. Il pensiero non consiste nel realizzare il possibile, come i demoni ti invitano a fare, ma nel rendere possibile il reale, nel trovare una via di uscita dall’ineluttabilità dei fatti che l’ideologia dominante cerca di imporre in ogni ambito – e innanzitutto nella politica. Mentre nell’infernale vocio intorno a te tutti cercano di realizzare diabolicamente, tecnicamente a qualsiasi costo il possibile, per te ogni stato, ogni cosa, ogni filo d’erba, se li percepisci nella loro verità, diventano nuovamente, silenziosamente, lucidamente possibili. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra i i libri più importanti di Giorgio Agamben: Homo Sacer. Edizione integrale 1995-2015, (Quodlibet) e L’uomo senza contenuto (Quodlibet). Il suo ultimo libro invece è Amicizie (Einaudi). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dove siamo? proviene da Comune-info.
Che cosa ha di inquietante l’autocoscienza maschile?
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Quelli che oggi chiamiamo “stereotipi di genere”, se li guardiamo più profondamente, ci accorgiamo che non si tratta di “differenze”, ma di un processo sempre in atto di “differenziazione”, la spaccatura che ha diviso, contrapposto nella loro complementarità, parti inscindibili dell’umano, come il corpo e il pensiero, la ragione e i sentimenti, la biologia e la storia, e che perciò stesso tende alla loro riunificazione. Femminilità e virilità parlano di rapporti e di gerarchie di potere, di sfruttamento e di violenza, ma è innegabile che ritornano, sotto un altro aspetto, come i volti di quel desiderio di unità, appartenenza intima, che è il sogno d’amore: “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso” (Sibilla Aleramo). Di questa ambiguità delle figure di genere, strette dentro logiche di desiderio e di paura, di amore e di odio, di vita e di morte, a dare conto è stata finora la pratica che il femminismo ha chiamato “autocoscienza”: un pensiero e una parola spinti fin dentro le acque insondate della persona, ai confini tra inconscio e coscienza, tanto da portare allo scoperto vissuti che sfuggono alle costruzioni teoriche e al discorso politico tradizionalmente inteso, o che restano “impresentabili”. Nei rari casi in cui sono stati uomini a vincere, nelle loro scritture, la ritrosia a parlare di sé, a esporre sentimenti, fantasie, ritenute “naturali” inclinazioni femminili, non sono mancate voci critiche anche nel femminismo. Il vissuto di un figlio, l’intreccio di sentimenti opposti di amore e odio, tenerezza e violenza, affidamento e autonomia, destano comprensibilmente inquietudini nella donna che, suo malgrado, ha fatta propria come portato “naturale” la maternità: madre sempre e comunque, che abbia o non abbia avuto figli. Se è stato storicamente lo sguardo dell’uomo, l’ideologia del patriarcato, a identificarla con la sessualità e la maternità, è nell’immaginario di un figlio maschio che prende corpo negli anni dell’infanzia e della adolescenza una relazione destinata a prolungarsi nella vita amorosa adulta, con tutte le sue contraddizioni e ambivalenze. “Non c’è rivoluzione senza la liberazione delle donne”, scrivevamo nei volantini degli anni Settanta. Oggi direi “Non c’è liberazione senza una rivoluzione della coscienza maschile”. Se invece pensiamo che le donne siano “innocenti”, toccate dal patriarcato solo come vittime, e gli uomini malvagi “per natura”, allora non resta che chiederci perché continuiamo a mettere al mondo dei mostri. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Lea Melandri Come nasce il sogno d’amore e Dialogo tra una femminista e un misogino (Bollati Boringhieri). Nell’archivio di Comune, gli oltre duecento suoi articoli sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Che cosa ha di inquietante l’autocoscienza maschile? proviene da Comune-info.
Con quel che resta del mondo
-------------------------------------------------------------------------------- Gaza (pixabay.com) -------------------------------------------------------------------------------- Dopo il ritorno definitivo dal Niger e quattordici anni di permanenza nel Sahel maltrattato da gruppi armati che usano la morte e il terrore come strategia. Dopo che le frontiere che si armano da troppe parti e i muri spuntano dappertutto al quotidiano. Dopo i morti migranti di chi cerca un altro mondo nel mondo. Dopo che le armi e le guerre che le utilizzano per perfezionarle sembra ormai la diplomazia tra Paesi con interessi divergenti. Dopo che gli imperi tornano a mostrare con arroganza il volto cinico del potere che non avevano mai abbandonato. Dopo che le illusioni del progresso illimitato e della globalizzazione felice sono state realizzate. Dopo che la giustizia sociale appare tradita e venduta per alcune denari di “coesione sociale”. Dopo che le grandi narrazioni della storia hanno lasciato il posto alla cronaca del quotidiano. Dopo i colpi di stato militari che tutto promettono di rifondare perché nulla cambi. Dopo tutto ciò ci si dovrebbe domandare che fare con ciò che resta del mondo. Dopo l’ipocrisia del diritto internazionale con applicazione variabile. Dopo la democrazia esportata di forza e mistificata alla sorgente dalla sete di potere e del denaro. Dopo aver mutilato il mistero della persona umana alla sola dimensione del commercio e del consumo. Dopo aver continuato a scavare il fosso che separa i mondi tra chi può viaggiare liberamente e chi è destinato a scomparire tra i superflui. Dopo aver dichiarato e subito dopo confiscato l’affermazione che tutte le persone nascono uguali in dignità e possibilità. Dopo avere lottato per anni le conquiste del lavoro e vederle diluirsi nello sfruttamento programmato dell’esclusione a partire dalla nascita. Dopo le ideologie che hanno ingabbiato la realtà falsificandone i contorni e la portata sovversiva. Dopo aver creduto alla redenzione attraverso la violenza sacrificale degli innocenti. Dopo avere mentito per anni sul senso della storia per ritrovarsi in una storia senza senso. Che fare con ciò che resta del mondo. Dopo l’epoca coloniale quella imperiale e infine quella del nulla o nichilista. Dopo che la merce e il mercato diventano tutto e tutto diventa mercanzia, compreso il corpo umano. Dopo che le parole sono state, svilite, svuotate, offese, manipolate e travisate da impostori. Dopo che si è banalizzata la violenza. Dopo che il confine tra vero e falso è reso negoziabile a seconda degli interessi. Dopo che la giustizia si è gradualmente trasformata in carità poi diventata appannaggio dell’ambiguità umanitaria. Dopo che i ricchi e i potenti hanno confezionato il mondo a loro immagine e somiglianza. Dopo che le religioni affiancano il potere per garantirne la durata e la stabilità. Dopo che le informazioni sono gestite da mestieranti e mercenari al soldo del dittatore di turno. Dopo che si confonde la pace con la dominazione della menzogna. Dopo che sembra impossibile credere ancora che un altro mondo è possibile. Che fare con ciò che resta del mondo. Ricucire, ripulire, rinnovare, ricreare e ridare statuto e dignità alle parole. Rigenerale la politica e rimetterla davanti e prima delle scelte dell’economia. Ripristinare il senso della democrazia sostanziale a partire dai dimenticati, emarginati e traditi. Riscrivere la storia con e degli umiliati, impoveriti, abbandonati e svenduti del sistema. Riprendere ad ascoltare il silenzio perduto nel dolore delle madri e dei padri. Ridare spazio ai sogni e alle visioni dei giovani, soli a immaginare un mondo che ancora non si intravvede. Riconciliare l’utopia del disarmo senza sfilate militari, fabbriche di armi e testate nucleari. Rieducarsi a cancellare dal lessico ogni traccia di nazionalismo armato perché escludente dell’altro. Risuscitare la verità sepolta nelle lacrime degli esiliati quando troveranno una dimora. Riparare i ponti abbandonati e distrutti dall’indifferenza. Rifare quel che resta del mondo per affidare al vento, ogni mattina, le poesie dei bambini. -------------------------------------------------------------------------------- Mauro Armanino, Casarza Ligure, settembre 2025 -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Il capitalismo è sinonimo di criminalità -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Con quel che resta del mondo proviene da Comune-info.
I molti mondi di Aldo
ALDO ZANCHETTA HA DEDICATO ANIMA E CORPO, IN MOLTI MODI DIVERSI, LAVORANDO TANTISSIMO CON I GIOVANI, PER COSTRUIRE UN MONDO CAPACE DI CONTENERE MOLTI MONDI, PER DIRLO CON GLI ZAPATISTI. APPUNTI DOPO L’INCONTRO DI SABATO 6 SETTEMBRE, A LUCCA, QUANDO OLTRE DUECENTO PERSONE HANNO VARCATO L’INGRESSO DELLA CASA DI ALDO E BRUNELLA PER RICORDARLO Aldo Zanchetta, al centro, affiancato da Gustavo Esteva (destra) e Marco Calabria (sinistra) in un’iniziativa promossa a Roma dalla redazione di Comune insieme al Casale Podere Rosa (13 aprile 2013: “La rivoluzione di ogni giorno”). Foto di Alessandro Di Ciommo -------------------------------------------------------------------------------- Aldo Zanchetta è nella terra della sua Gragnano, a pochi metri dalla tomba del figlio Moreno, scomparso tragicamente nel 2002. In una bella giornata di sole, sabato 6 settembre, oltre duecento persone hanno varcato l’ingresso della casa di Aldo e Brunella, per ricordare insieme uno degli intellettuali che più hanno dato alla città di Lucca negli ultimi trent’anni, da quando cioè Zanchetta, dopo aver lasciato l’azienda che aveva fondato si è dedicato anima, mente e corpo a costruire ponti tra i mondi, lavorando tantissimo con i giovani affinché avessero piena consapevolezza dell’esigenza di costruire un altro mondo, un mondo capace di contenere molti mondi come spiegano gli indigeni del Chiapas, gli zapatisti che son stati uno dei suoi punti di riferimento da quando – era il 1994 – sollevandosi in armi contro l’esercito messicano avevano gridato pubblicamente che la globalizzazione avrebbe solo alimentato ed accresciuto le disuguaglianze in tutto il mondo.  Aldo in Chiapas ha costruito una scuola, in memoria di Moreno “Neno”: una scuola secondaria, per formare “promotores de educacion”, maestri autonomi di un nuovo sistema educativo ribelle laddove le scuole non c’erano. Simbolo di un approccio, quello di Aldo, al tempo stesso pragmatico e sognatore. Capace di tenere insieme il pensiero altissimo e l’agire trasformativo, di cogliere dinamiche e aderire ai processi sociali più innovativi e capaci di mettere in discussione il concetto di “sviluppo” (come ReCommon, di cui è stato presidente).  “L’unica cosa che possiamo fare è essere fiammelle accese nel buio di questo mondo, per mantenere accesa la luce” scriveva nella prefazione a un libro sul pensiero di Ivan Illich (Altrapagina, 2007). Lui aveva iniziato a farlo da libraio, accanto alla figlia Chiara e a Mario Ciancarella, lo ha fatto da editore e poi dirigendo la Scuola per la Pace della provincia di Lucca, che permise a noi giovani di formarci incontrando alcune delle intelligenze più fini del ventesimo secolo, da Ivan Illich a Eduardo Galeano, da Fratel Arturo Paoli e Giulio Girardi, di cui ha ereditato la biblioteca, da Majid Rahnema a Don Samuel Ruiz, il vescovo degli indigeni del Chiapas, a cui lo ha legato un rapporto di profonda stima e amicizia.  Sabato, mentre Marco Panattoni cantava Te Recuerdo Amanda, in tanti avevano gli occhi lucidi. Perché sono tanti (compreso chi scrive questo ricordo) quelli che possono riconoscersi nelle parole scelte da Roberto Sensi nel ricordarlo: “Resterai per sempre uno degli incontri più significativi della mia vita, e sono grato per questo”.  -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Alle soglie di una nuova era -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I molti mondi di Aldo proviene da Comune-info.
Rompere gli argini della narrazione
Sono centinaia le mobilitazioni spontanee ed organizzate che attraversano dal più piccolo paese alla più grande delle metropoli. Sono partecipate da moltitudini che eccedono l’attivismo e sono attraversate da un protagonismo sociale come non si vedeva da tempo. Hanno di fronte una narrazione dominante –“Israele ha diritto alla difesa, partecipazione diretta alla guerra in Ucraina, necessità del riarmo, percezione del nemico e postura culturale bellicista”- che giorno dopo giorno viene erosa da quelle piazze, gremite di persone molto diverse fra loro ma accomunate dall’esigenza di fermare guerra, riarmo, genocidio e autoritarismo. L’iniziativa simbolica e concreta che tutte le racchiude è la Global Sumud Flotilla: dice a chiare lettere che se i governi sono complici, l’azione va intrapresa dal basso tutte e tutti insieme, chi sulle barche pronte a salpare per Gaza, chi da terra con gli occhi puntati e pronti a reagire in caso di attacco, bloccando i porti, le città, i trasporti, le scuole e quant’altro. E’ una marea contro il governo, ma che inevitabilmente denuncia anche gli enormi limiti delle opposizioni e dei grandi sindacati, perché ciò che sta accadendo a Gaza ha trasformato il mondo e niente sarà più come prima; perché la nuova dimensione dell’economia della guerra non può essere temperata, ma fermata con ogni mezzo necessario; perché le parole stanno a zero e il giocattolino dell’alternanza di governo sul medesimo paradigma non reggerà il confronto con la realtà. La scommessa dei prossimi mesi è se questo movimento tellurico che attraversa il Paese saprà trovare momenti di accumulazione di forze in grado di incidere sull’agenda politica, obbligandola a rivedere obiettivi e strategie. Ci aspettano anni di risorse destinate alla guerra e sottratte al lavoro, ai diritti e alla conversione ecologica della società. Ci aspettano anni di arruolamento culturale e materiale all’ideologia della guerra. Possiamo trasformarli in anni nei quali pretendere, tutte e tutti assieme, un futuro diverso e una vita degna per chiunque abita questo pianeta. All eyes on Gaza, all eyes on Global Sumud Flotilla, all hearts for an alternative society! L'articolo Rompere gli argini della narrazione proviene da Comune-info.
Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile
-------------------------------------------------------------------------------- Disegno di Giulia Crastolla -------------------------------------------------------------------------------- L’informazione sui siti online “Mia moglie” e “Phica.net” continua e permette di vedere, dietro l’attualità di eventi effettivamente sconcertanti – le foto rubate a donne senza il loro consenso e scambiate nel gruppo degli uomini attraverso i social – un fenomeno più esteso e legato solo in parte alle nuove tecnologie comunicative. L’insistenza sull’aspetto giudiziario e sull’effetto della visualizzazione online è sicuramente importante, così come l’invito che viene rivolto alle vittime perché denuncino la violenza subita. Ma c’è il rischio che venga così occultato il “sistema” che c’è dietro tutto questo, e cioè la “normalità” del dominio maschile, della cultura patriarcale che accompagna la nostra storia da sempre. Ciò che viene a mancare, se si continuano a mettere in evidenza solo questi aspetti, è un salto della coscienza politica. In altre parole, si rimanda ancora una volta la necessità di andare all’origine del rapporto tra i sessi, a quello spostamento o proiezione che l’uomo ha fatto sulla donna dell’animalità, di tutto ciò che a che fare col corpo, con l’appartenenza alla materia vivente e alla sua finitezza. Non è una novità, dal momento che ne parlano sia la cultura greco romana cristiana che il senso comune, il fatto di aver visto nella donna la sessualità, il corpo che genera e il corpo erotico, così come non dovrebbe stupire sapere che gli uomini vantano le loro conquiste femminili: “avere”, “possedere” una bella moglie. Parlare della “normalità” significa anche uscire dall’idea che il sessismo riguardi solo alcuni uomini, che sia un problema da rimandare alla patologia e alla illegalità, per cui la maggior parte dei loro simili può dire “io non sono così”. Un problema non secondario, quando si parla della relazione tra i sessi, è oggi la difficoltà degli uomini a pensarsi come “genere”, a vedere nella “virilità” un elemento identitario diventato anche per loro “destino naturale”, il marchio che assicura privilegi ma anche la mutilazione di tratti essenziali dell’umano. “Genere” sono state considerate storicamente solo le donne, anzi, la Donna, un tutto omogeneo, un ruolo, una funzione necessaria per “rendere buona la vita” all’altro sesso (Rousseau). Gli uomini, al contrario, si sono pensati come “individui”, persone prese nella loro singolarità, e come tali continuano a pensarsi, ragione per cui possono anche mettere distanza tra sé e quelli che considerano le devianze dei loro simili. Per un altro verso, si potrebbe dire che le donne rischiano a loro volta di restare legate a ruoli – madri, mogli, amanti, ecc. – che hanno dato loro un qualche potere, sostitutivo di altri da cui sono state escluse, un potere che non giova alla loro creatività e individuazione. Andare alla radice del sessismo vuole dire rendersi consapevoli che per lo sguardo maschile le donne sono ancora “essenzialmente corpi”. Quando si dice di una donna che ha subito violenza “se l’è cercata”, si va a toccare un pregiudizio di fondo della nostra cultura, e cioè l’identificazione delle donne con la sessualità. E il paradosso, come ha detto il femminismo degli anni Settanta con l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, è che la sessualità femminile è stata cancellata e che dominante storicamente è stata solo quella maschile. Tra l’altro, come ha sottolineato Carla Lonzi, una sessualità generativa che ha procurato non poche sofferenze alle donne per gravidanze indesiderate. Dietro le infinite forme di sessismo, diventate la “normale” violenza quotidiana, interiorizzata purtroppo come tale dalle donne stesse, c’è dunque una profonda misoginia, che passa allo stesso modo attraverso i saperi, le discipline scolastiche, la cultura alta che abbiamo ereditato e che ancora trasmettiamo, e il senso comune. Oggi si parla molto più che in passato di “educazione di genere”, e questo è senza dubbio un cambiamento della coscienza storica, ma di fatto, stando alla situazione attuale della scuola, si fa molto poco per renderla operate nei processi educativi fin dalla prima infanzia. Le giovani insegnanti, per lo più precarie, sanno i rischi che corrono, da parte dell’autorità scolastica o delle famiglie, quando tentanto di portare “il corpo a scuola”, di vedere nell’alunno la persona nella sua interezza, dando ascolto alle vite e a ciò che di “impresentabile” passa ancora “sotto i banchi”. Il disagio, l’insicurezza, la fragilità e la violenza diffusa tra gli adolescenti, oltre al sessismo e alla pornografia online degli adulti, sono gli altri temi ricorrenti di una lamentazione collettiva che spinge quasi inevitabilmente, se non verso un inasprimento della carcerazione minorile, a una svolta dell’educazione in chiave patologica, con ricorso quasi esclusivo agli esperti, psicologi e sessuologi. I social hanno senza dubbio modificato l’idea, che è stata del movimento antiautoritario nella scuola e del femminismo, di portare allo scoperto la materia di esperienza, la più universale dell’umano, sepolta nel “privato”, considerata “non politica”, fuori dalla cultura e dalla storia. Lo hanno fatto purtroppo ricalcando modalità note di spettacolarizzazione e voyeurismo, enfasi narcisistica e competizione, e lasciando di nuovo in ombra le consapevolezze che sono emerse da mezzo secolo e oltre fino ad oggi. Se la scuola rimane il deserto di un’educazione capace di andare alle radici dell’umano, il luogo di quell’analfabetismo dei sentimenti che è alla radice della violenza, i social non avranno difficoltà e prendere il sopravvento. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su il manifesto del 6 settembre -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile proviene da Comune-info.
Il capitalismo è sinonimo di criminalità
LE INDAGINI SUL PRIMO COMANDO CAPITALE, IL PIÙ GRANDE GRUPPO DI NARCOTRAFFICANTI IN BRASILE, NATO IN CARCERE NEGLI ANNI NOVANTA E OGGI DIFFUSO IN TUTTO L’AMERICA LATINA, MOSTRANO UNA REALTÀ GIGANTESCA – CON 40.000 AFFILIATI – CHE NON SOLO È ALLEATA PER IL TRAFFICO DI COCAINA CON LA ‘NDRANGHETA ITALIANA, MA CONTROLLA IN FORTE RELAZIONE CON TANTE IMPRESE “TRADIZIONALI”, DECINE DI FONDI INVESTIMENTO IMMOBILIARE, IMPIANTI DI RAFFINAZIONE, AZIENDE AGRICOLE, PERFINO UNA BANCA. COMPAGNIE MINERARIE E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA, SCRIVE RAÚL ZIBECHI, COLLABORANO OVUNQUE PER SFRATTARE LE COMUNITÀ CHE CONSIDERANO UN OSTACOLO ALLO SFRUTTAMENTO DI MADRE TERRA. «NOI, IL POPOLO, NOI ESSERI UMANI, SIAMO DIVENTATI UN OSTACOLO ALL’INFINITA ACCUMULAZIONE DI CAPITALE. PERTANTO, D’ORA IN POI, IL GENOCIDIO SARÀ LA NORMA… È UN ATTEGGIAMENTO IRRESPONSABILE E PERVERSO DIFFONDERE L’IDEA CHE POSSA ESISTERE UN “BUON” CAPITALISMO, COME HANNO RIPETUTAMENTE AFFERMATO I PRESIDENTI PROGRESSISTI… QUALSIASI FORMA DI POLITICA CHE NON AVVERTA LA GENTE CHE VIVIAMO NELL’ERA DEL GENOCIDIO, O CHE UN GENOCIDIO È IN CORSO ALTROVE, LA CONDUCE AL PATIBOLO…» Foto pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- A volte i rapporti tra criminalità organizzata e capitalismo diventano chiari e trasparenti, offrendoci l’opportunità di valutare lo stato attuale del sistema e la sua direzione. Qualche giorno fa, il governo federale brasiliano ha lanciato una massiccia operazione contro la criminalità organizzata nel settore dei carburanti, con risultati sorprendenti. Ha individuato 40 fondi di investimento immobiliare per un valore di 5,5 miliardi di dollari, controllati dal Primo Comando Capitale (PCC), il più grande gruppo di narcotrafficanti in Brasile. Questi fondi hanno finanziato l’acquisto di un terminal portuale, quattro impianti di raffinazione, 1.600 camion per il trasporto di carburante e oltre 100 immobili (PCC controla ao menos 40 fundos de investimentos com patrimônio de mais de R$ 30 bilhões, diz Receita Federal). Inoltre, hanno acquistato aziende agricole per un valore di altri 5 miliardi di dollari e una banca ombra, la fintech BK Bank, che ha movimentato fino a 8 miliardi di dollari. Oltre 1.000 stazioni di servizio in 10 stati brasiliani vengono utilizzate per riciclare denaro della criminalità organizzata, ma si stima che le operazioni del PCC raggiungano fino a 2.500 stazioni di servizio in tutto il paese. Il PCC è stato fondato nel 1993 nel carcere di Taubaté a San Paolo. Oggi opera nel 90% delle carceri e si è diffuso in Uruguay, Paraguay, Bolivia e Colombia. È la più grande banda criminale dell’America Latina, con un potenziale di 40.000 membri, molti dei quali detenuti. Attraverso il traffico di cocaina, ha stretto alleanze con la ‘Ndrangheta italiana e si ritiene che goda di un forte sostegno nei paesi africani ed europei. Ciò che le indagini degli ultimi anni hanno rivelato è una crescente sofisticazione delle operazioni di riciclaggio di denaro, nonché il loro coinvolgimento in siti web di gioco d’azzardo online e investimenti in squadre di calcio. L’attuale indagine ha rivelato che la PCC domina la filiera della canna da zucchero, attraverso l’acquisto di aziende agricole, impianti di raffinazione, stazioni di servizio e trasporti. I dati di cui sopra rivelano chiaramente la stretta relazione tra le imprese “tradizionali” e la criminalità organizzata. Questa realtà merita ulteriori indagini. Da un lato, vediamo come la criminalità adotti i metodi delle grandi imprese capitaliste. Investono con la stessa logica, cercando di monopolizzare ogni settore per massimizzare i profitti. La cosiddetta criminalità organizzata fa parte del capitalismo, da cui si differenzia solo per il fatto che le sue attività non sono considerate legali, il che le consente di aumentare esponenzialmente i profitti. I metodi della criminalità sono identici a quelli dell’estrattivismo, come si può osservare nell’attività mineraria. D’altro canto, emerge un’ampia zona grigia tra ciò che è legale e ciò che è illegale: la criminalità cerca di legalizzare il proprio capitale investendo in terreni, immobili, attività minerarie e, soprattutto, finanza, perché è il modo migliore per riciclare i propri beni. Le imprese “legali” adottano metodi di stampo mafioso evadendo le tasse (cosa che ormai è la norma in qualsiasi settore), supportate da specialisti come avvocati e notai. Mentre la criminalità si muove verso la legalizzazione, gli imprenditori tradizionali si muovono verso l’illegalità. Entrambi cercano di corrompere giudici e politici, investire nello sport e in qualsiasi cosa permetta loro di superare le difficoltà e aumentare i profitti. Neutralizzano lo Stato o lo prendono d’assalto, comprando la benevolenza o usando minacce, a seconda della situazione. Per tutte queste ragioni, in molte regioni, compagnie minerarie e criminalità organizzata collaborano per sfrattare le comunità che considerano un ostacolo allo sfruttamento di Madre Terra. Se accettiamo che il capitalismo esistente sia una guerra di espropriazione contro il popolo – la “Quarta Guerra Mondiale”, come la chiamano gli zapatisti – dobbiamo anche accettare che non c’è nulla di illegale nelle guerre, poiché la legge del più forte regna. Gaza è il miglior esempio dell’evaporazione di ogni legalità, di tutta l’umanità, perché si tratta di espropriare e sfrattare il popolo palestinese per trasformare i suoi territori e le sue terre in semplici merci. La criminalità opera esattamente allo stesso modo a Cherán, a Chicomuselo o in qualsiasi parte del mondo, perché noi, il popolo, noi esseri umani, siamo diventati un ostacolo all’infinita accumulazione di capitale. Pertanto, d’ora in poi, il genocidio sarà la norma, come lo fu durante la Conquista delle Americhe. È un atteggiamento irresponsabile e perverso diffondere l’idea che possa esistere un “buon” capitalismo, come hanno ripetutamente affermato i presidenti progressisti di questa regione. Come ha osservato Immanuel Wallerstein, il capitalismo è stato un’enorme battuta d’arresto per due terzi dell’umanità, donne, ragazze e ragazzi, popoli del colore della terra. Ciò che segue sono forni crematori, genocidi e i media mainstream che mascherano questa realtà. Qualsiasi forma di politica che non avverta la gente che viviamo nell’era del genocidio, o che un genocidio è in corso altrove, la conduce al patibolo. Come ha osservato lo storico del lavoro Georges Haupt, chiunque intrattenga la gente con storie accattivanti “è criminale quanto il geografo che disegna false mappe per i navigatori”. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a La Jornada -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il capitalismo è sinonimo di criminalità proviene da Comune-info.
The grammar of fantasy
PUBBLICATO PIÙ DI MEZZO SECOLO FA E ANCORA ATTUALISSIMO, GRAMMATICA DELLA FANTASIA DI GIANNI RODARI È STATO TRADOTTO E PUBBLICATO ANCHE NEGLI STATI UNITI. DESTINO ANALOGO, IN QUESTO 2025, PER C’ERA DUE VOLTE IL BARONE LAMBERTO. LE DUE EDIZIONI SONO ARRIVATE ORA ANCHE IN ITALIA. IN REALTÀ NUOVE EDIZIONI DI RODARI NEGLI ULTIMI MESI SONO APPARSE ANCHE IN ALTRI PAESI. IL SUO SGUARDO SUL MONDO È IN VIAGGIO, HA IL BIGLIETTO DIRETTO SU UN TRENO FRECCIA AZZURRA CARICO DI TUTTE LE LINGUE DEL PIANETA. IN QUESTI TEMPI NON È UNA BELLA NOTIZIA? Gianni Rodari è uno degli autori italiani più tradotti al mondo, le prime traduzioni delle sue opere letterarie avvengono già negli anni Cinquanta con Il romanzo di Cipollino e Il libro delle filastrocche, prima nei paesi dell’est Europa poi nell’Oriente, addirittura in Giappone. Nel corso di pochi anni dalla pubblicazione di Il romanzo di Cipollino Rodari divenne una vera star in URSS, prima ancora che in Italia. I suoi testi raggiunsero il Vietnam, ma anche il Regno Unito, la Francia, altri stati oggi europei, ma non solo. All’inizio di questo anno, ha suscitato enorme entusiasmo la pubblicazione di Grammatica della fantasia per l’edizione newyorkese Enchanted Lion Books (traduzione di Jack Zipes, illustrazioni di Matthew Forsythe). Famosissimo saggio di Rodari che tutte e tutti dovrebbero avere sul comodino. La notizia è stata data infatti anche da Mac Barnett per il The New York Times. È il valore del contenuto pedagogico, didattico, ma soprattutto per l’intento alla propositività creativa (oltre che all’esperienza vissuta che ha fatto nascere tale libro) che rende importantissima la notizia. Gli Stati Uniti, come tutti i Paesi al mondo, oggi più che mai, hanno estrema necessità di fantasia, una fantasia capace di creazioni nuove e culture cooperative.  È importante ricordare, per migliore conoscenza editoriale, che già nel 2020, anno del centenario di Rodari, la stessa casa editrice pubblicò la traduzione di Favole al telefono (Telephon tales), grazie alla traduzione di Antony Shugaar e alle illustrazioni di Valerio Vidali (stessa copertina per l’omonima edizione italiana Einaudi EL – 100 Gianni Rodari; Einaudi EL è infatti la casa editrice ufficiale delle edizioni di Gianni Rodari).   In questo 2025 non solo Grammatica della fantasia viene pubblicata da Enchanted Lion Books, ma bensì anche C’era due volte il barone Lamberto, traduzione di Antony Shugaar e illustrazioni di Roman Muradov e Il libro dei perché sempre per la traduzione di Antony Shugaar e illustrazioni di JooHee Yoon. Rodari sta attraversando ogni luogo. Lo sta facendo, come sempre lo ha fatto, con grazia, intelligenza e umorismo, e con vere e pacifiche intenzioni.  Intanto, nel gennaio del 2025 è stato approvato anche il progetto di ricerca “A Non-Western Grammar of Fantasy: the Reception and Translation of Gianni Rodari’s works from North Africa and the Middle East to East Asia”, progetto finanziato da Sapienza Università di Roma, diretto dalla docente Alessandra Brezzi che vede la partecipazione di docenti, dottorandi e bibliotecari del Dipartimento Istituto Italiano di Studi Orientali. Del gruppo di ricerca che vi lavora ne faccio parte anch’io. Si andranno a studiare tutte le traduzioni orientali di Gianni Rodari. Un’indagine importantissima mai affrontata prima.  Pochi anni fa l’opera di Rodari è arrivata anche in Africa, è stata infatti utilizzata in alcune iniziative nel progetto “Health Africa” di Amref, che ha usato la traduzione di L’omino della pioggia per attività didattiche in contesti educativi. A breve invece verrà finalmente pubblicato lo studio del Fondo librario di Rodari (di cui sono ricercatrice e autrice) della catalogazione dei migliaia di volumi. Progetto finanziato dall’Ente INDIRE con fondi PNR di cui responsabile di progetto la professoressa Pamela Giorgi e grazie a lei la nascita del rapporto di lavoro con l’Università di Siviglia, partnership del progetto, con cui la primavera scorsa c’è stato il primo Convegno nella loro Facultad de Comunicación, proprio su Gianni Rodari.  Sono tantissime, negli ultimi anni, anche le edizioni spagnole per le traduzioni rodariane. È tradotto in catalano, castigliano, in galiziano e in basco.  Tutti questi studi e collaborazioni permetteranno approfondimenti e maggiore conoscenza, non solo accademica, ma a chiunque avrà voglia di credere ancora. Il lavoro su Rodari è in viaggio… ha il biglietto diretto su un treno Freccia Azzurra carico di tutte le lingue del mondo.  «Io credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire ad educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo…» (Gianni Rodari, 1970, in occasione del conferimento del Premio Hans Christian Andersen). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo The grammar of fantasy proviene da Comune-info.