Pastasciutta e libri, antifascisti
Articolo di Luca Casarotti
Oggi in tutt’Italia si ripete il gesto di festa della famiglia Cervi per la
caduta del Crapa pelada, del Pasta e fagioli, del (non ancora, ma entro un paio
d’anni) Salmone. Su queste stesse pagine Carlo Greppi ha ragionato del perché la
tradizione della pastasciutta antifascista sia così viva (e qui tradizione
s’intende per una volta in senso proprio e non abusivo). Qualcuno obietterà che
c’è un paradosso: della pastasciutta originaria ci manca, direbbe un Aristotele
antifascista, la causa finale. Che caduta possiamo mai festeggiare noi oggi, nel
2025, in tempo d’estrema destra governante e avanzante, dagli Usa a Israele, dal
Giappone a mezz’Europa, isole e Penisola comprese? Ma l’antifAristotele
risponderebbe prontamente:
> per intanto, la caduta del futuro Salmone di Predappio è stata la causa finale
> della pastasciutta del ’43, ma non ci dimentichiamo che è la causa formale
> anche del nostro pentolone odierno: senza quella, niente spaghetti a
> Gattatico, e quindi niente ripetizione posteriore della prima festa.
Ma anche dopo che l’antifAristotele ci ha obbligato a ripassare la sua teoria
della causalità, noi restiamo col dubbio. Cosa stiamo andando a festeggiare, di
preciso? Stiamo solo rievocando l’inizio palese della fine del fascismo? Certo è
questo un fatto che ben merita una festa: per sé, e per tutto ciò che n’è
venuto. Ma certo è pure che, in questo tornante della storia e della nostra
biografia collettiva, a contorno della pasta serviamo non solo la festa, ma
anche una frustrazione cocente: e noi stiamo insieme attorno a un tavolo per non
dovercela inghiottire da soli, davanti a uno schermo o negli altri modi più o
meno tossici in cui facciamo finta di non essere da soli.
In realtà quest’articolo non doveva parlare della pastasciutta antifascista.
Doveva parlare di cosa sarebbe bene fare per non cedere del tutto al modus
vivendi della frustrazione, e di libri che sostengono questo sforzo: ci
arriviamo, fidatevi.
È fuor di dubbio che il leviatano di neodestra (o di destra alternativa, o quale
che sia il nome della reazione contemporanea) è particolarmente antiumano e fa
paura. Altrettanto indubbio è che, anche solo al livello della speranza o
dell’utopia, chiunque gli si opponga ne cerca un qualche punto debole in cui
attaccarlo. Un primo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti il
sopra-o-sotto-valutare le forze nemiche, che appariranno dunque imbattibili nel
primo caso o effimere nel secondo. Discusso, invece, è quanto peso abbia la
cultura nell’apprezzamento della strategia nemica, e di conseguenza
nell’ipotizzare la strategia controffensiva. Se il fascismo avesse o meno una
cultura è stata a lungo in Italia una questione aperta, per ragioni molteplici.
Ha pesato il giudizio di Benedetto Croce, che come tutte le posizioni crociane
ha orientato in un modo o in un altro la cultura italiana novecentesca; hanno
pesato le letture troppo schematiche del rapporto tra struttura economica e
sovrastruttura culturale, che rischiano sempre di ridurre l’incidenza reciproca
tra le due all’azione unilaterale della struttura sulla sovrastruttura, e quindi
di concepire una politica culturale non all’altezza della cultura. E poi ha
pesato, com’è giusto che sia, anche un motivo retorico: è stato giusto che la
propaganda antifascista abbia screditato il fascismo negando tra l’altro la
consistenza della sua cultura. Giusto, a patto di riconoscere questo come
appunto un motivo della contesa politica, e non come un presupposto
storiografico: i due domini, della politica e della storiografia, spesso
s’intrecciano, e gli intrecci bisogna saperli riconoscere anche dove si celano,
ma restano comunque domini distinti. Un secondo carattere del modus vivendi
della frustrazione è infatti l’integralismo della politica, cioè la pretesa
sloganistica che tutto sia politico. Pretesa a cui corrisponde l’incomprensione
della (o la fuga dalla) politique politicienne, con il rischio d’esserne gabbati
o inconsapevolmente fagocitati. A furia di dire che tutto è politica, sembra che
solo la politica non lo sia.
Dicevamo del trattamento che la cultura di destra riceve a sinistra. Non è per
caso che l’indagine più originale in proposito sia venuta da uno studioso sui
generis, il Furio Jesi che i cultura-di-destrologi, incluso chi scrive, non
mancano mai di citare: da buon intellettuale torinese, Jesi cresce nell’ambiente
fervido e di sana intransigenza antifascista che è il post-azionismo della sua
città: l’ambiente dei Bobbio e dei Galante Garrone. Entra quindi nella redazione
di Resistenza, il periodico dell’associazione Giustizia e libertà. Ma poi rompe
con GL, quando l’associazione rimprovera alla redazione la linea innovativa
impressa al giornale: istruttivo, (intendo istruttivo anche per noi, riguardo a
due modi non ancora pacificati d’intendere l’antifascismo) è l’articoletto che
redattrici e redattori della nuova Resistenza pubblicano su Belfagor per dar
conto della frattura.
Sta di fatto che sono la dottrina onnivora di Jesi e quest’eterodossia rispetto
alla generazione d’antifascisti precedente a consentirgli di eleggere l’indagine
sulla cultura di destra a tema sia della sua ricerca sia della sua militanza.
Non è nemmeno un caso se gli studi alla Jesi abbiano avuto pochi epigoni. Un po’
è per via dell’originalità dell’autore, che è un’originalità vera, cioè
difficile da eguagliare se non per imitazione. Ciò non significa, dato che
effettivamente ne sono stati scritti, che non siano stati scritti libri
fondamentali sull’evoluzione della destra tra la fine del XX e l’inizio del XXI
secolo. Un po’ però è anche per via dell’oggetto stesso d’indagine: la cultura
di destra non è per niente retrocessa, né ha trascurato d’intonarsi ai media che
la diffondono. Ma resta al fondo, in quell’area, una certa fissità del canone
d’idee-forza, parole d’ordine, autori e testi di riferimento. Un conto è
ritenere, erroneamente, che il fascismo e ciò che n’è disceso non abbiano una
cultura, e dunque che non valga la pena occuparsene. Altro conto è ritenere, a
ragione, che la cultura fascista sia esigua. Il che non esime dallo studiarla.
E se forse ancora manca un lavoro che dissezioni la fase reazionaria attuale con
la stessa risolutezza e ambizione teorica di Cultura di destra (ma la cultura di
destra non offre molte occasioni per scriverne di nuovi, data la ripetitività di
cui dicevamo), senz’altro non mancano i contributi che fanno buon uso dello
strumentario fornito da Jesi per studiare qualcuno dei suoi volti. Giuliano
Santoro e Wu Ming 1, ad esempio, lo hanno fatto quando hanno demistificato la
serie di luoghi comuni implicati dall’enunciato «né di destra né di sinistra»;
Leonardo Bianchi quando ha osservato il populismo di destra della seconda metà
del decennio scorso; di nuovo Leonardo Bianchi e di nuovo, più esplicitamente,
Wu Ming 1 quando hanno scritto del cospirazionismo di QAnon e di altri fenomeni
paragonabili; e altri esempi ancora si potrebbero fare.
L’ultimo libro di Valerio Renzi, Le radici profonde. La destra italiana e la
questione culturale (Fandango, 2025), non si rifà direttamente a Jesi, non lo
cita mai, anche se per certi versi lo presuppone. Non per lo stile, affatto
diverso dal conoscere per citazioni che Jesi, evocando Walter Benjamin,
rivendicava a sua cifra, e dagli esiti vertiginosi a cui conduceva quello stile.
In comune, con la saggistica di Jesi e con altri libri d’intellettuali militanti
che hanno affrontato il tema, questo lavoro ha invece almeno due intenti:
confrontare le statuizioni teoriche dell’estrema destra con gli esiti pratici
della sua azione culturale, e concepire l’inchiesta sulla destra insieme come un
esercizio di professione e di militanza («giornalista e attivista» sono i due
predicati con cui Renzi si qualifica). A riprova della fissità e ristrettezza
della cultura d’area, già Jesi, che scriveva alla fine degli anni Settanta, si
era soffermato su alcuni dei testi che anche Valerio Renzi opportunamente oggi
prende a campione per illustrare gli orientamenti teorici della destra radicale:
Orientamenti, per inciso, è il titolo di un opuscolo di Julius Evola, spesso
ripetuto nei nomi dei centri studi neofascisti e nella loro pubblicistica. Un
esempio sono gli scritti di Adriano Romualdi, del quale Jesi con impeccabile
spietatezza rilevava, oltre al filonazismo patente, anche il più latente suo
vezzo piccolo borghese, da intellettualino salottiero. Jesi ci presentava il
Romualdi editore e apologeta delle SS, pure piuttosto maldestro nell’apologia;
Renzi ce lo presenta, e le due facce naturalmente si coimplicano, come
divulgatore Evoliano e come uno dei primi a mettere in questione la linea
culturale del Movimento sociale italiano. Romualdi, tra l’altro protagonista di
una delle svariate aggressioni fasciste a Pier Paolo Pasolini, muore nel 1973.
Poi, in fine di quel decennio, sarebbe venuta la generazione dei Marco Tarchi e
dei Campi Hobbit, a contestare la dirigenza missina e a importare dalla Francia
le indicazioni strategiche di Alain de Benoist e del gruppo che a lui fa capo,
il Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (acronimo
Grece, a proposito di manipolazione del mito: il francese per Grecia differisce
solo nell’accentazione). Di qui lo scontro tra gl’intellettuali d’area che Renzi
ben ricostruisce, sulla nostalgia del fascismo come mito incapacitante. Chissà
se Marcello Pera, quando da presidente del Senato ha detto lo stesso
dell’antifascismo, che appunto è un mito incapacitante, ha voluto usare di
proposito la medesima espressione.
Proprio l’accresciuta influenza di Benoist tra i riferimenti teorici d’estrema
destra è l’aggiornamento più sostanzioso rispetto al tempo della mappatura di
Jesi. Un’influenza cresciuta fino allo sdoganamento della sua presenza nel
dibattito generalista: prima nella Francia degli anni Ottanta, complici Le
Figaro e pure l’Académie Française; poi nell’Italia meloniana, dov’è stato
ospite d’onore al Salone del libro; e negli Usa trumpiani, dov’è tra i maestri
di pensiero dell’estrema destra, non diversamente da quel che succede al di qua
dell’Atlantico. Un aggiornamento, rispetto alla precedente linea
Spengler-Evola-Eliade, che è però più di nomi e modi di fare reclutamento che di
pensiero: viene da Benoist e dai suoi la parola magica «metapolitica», che sta
sulla bocca e nella penna d’ogni militante formato sul manuale del buon
militante estremadestro, come quello scritto dall’ideologo di Casaggì e Azione
studentesca Marco Scatarzi, Essere comunità, che Valerio Renzi esamina nel suo
libro. Precisamente da questa linea, la linea del pensiero antiegualitario che
da Spengler a Benoist giunge ai loro ripetitori per uso di partito (alla
Scatarzi o, su altri lidi, alla Gabriele Adinolfi), deriva il differenzialismo
che Renzi giustamente riconosce a tratto più marcato anche dell’odierna cultura
di destra, governativa e non. Differenzialismo, cioè diversità inconciliabile,
tra sessi, etnie, culture. L’opposto dell’uguaglianza, che ha nel suo fine il
superamento della separazione.
Il differenzialismo è davvero il tratto che dalle statuizioni teoriche si
mantiene nella concreta pratica di governo della destra italiana: le
Indicazioni Valditara, nei limiti consentiti dal burocratese che conviene a un
documento ministeriale (anzi, persino oltre la misura imposta dal tipo di
testo), sono l’espressione programmatica di questa linea di condotta. E lo
scazzo Giuli / Galli della Loggia il rivelatore contraltare comico.
Per il resto, non si può fare a meno di notare che alla magniloquenza dei
teorici d’area corrisponde un’arte del governo ben più triviale, ma non meno
repressiva. Lo iato più vistoso, Mimmo Cangiano ci insiste molto, è tra il
ribellismo antisistema vagheggiato dalla fazione spiritualista della destra e il
modo in cui questa, quando diventa fazione di governo, si accomoda docilmente
sotto l’ala del capitale.
Ma è nel costume, o se vogliamo nello spazio delle guerre culturali, che la
cultura di destra italiana si mostra retrograda in tutta evidenza. Retrograda
anche rispetto al nazionalpopolare, tanto da sdegnarsi delle labbra di Rosa
Chemical su quelle di Fedez nel sabato sera più visto di Raiuno. E Valerio
Renzi, che coglie il suggerimento, intitola «contro Sanremo» il capitolo in cui
discute del versante oscurantista dell’evo post-berlusconiano.
Sì, ma perché vi ho parlato di spaghetti e di libri? Che c’entrano?
Vi potrei dire che il libro di Valerio Renzi mi è molto piaciuto: è una messa a
punto esaustiva e comprensibile per i non addetti ai lavori, e un buon corso di
aggiornamento per gli addetti (o un ripasso per i più secchioni). Quindi volevo
parlarne. Siccome però volevo parlare anche di cose come il senso di solitudine
e di frustrazione nella militanza, che almeno a me capita sempre più spesso di
avvertire, ne ho approfittato per prendere due piccioni-argomenti con una
fava-articolo.
Ma c’è un motivo più serio dell’ego scrivente. Io sono tra coloro che pensano
che la cultura di destra va studiata. È chiaro che c’è un rischio: dedicare
tempo allo studio dell’avversario sottrae tempo a noi, al lavoro politico per la
nostra parte, a mettere a punto una risposta che non dipenda dalla strategia
altrui. Addirittura, perché succede anche questo, continuando a studiare
l’avversario si potrebbe finire a subirne la fascinazione. Tuttavia resta
decisivo un fatto, che è verificato dall’antifascismo storico, quello che oggi
ci fa mettere sul fuoco il pentolone di spaghetti. Noi capiamo cosa vogliamo e
per cosa lottiamo, a patto che ci sia chiaro, di una chiarezza sia razionale sia
emotiva, cosa ci fa ritenere l’avversario un avversario. Prendiamo la mistica
del martirio, del sacrificio per l’ideale quando tutto è perduto. Che ci sia del
fascino nel suo retaggio romantico è difficile negare. Ma noi sappiamo che
l’immagine dell’uomo tra le rovine, custode sopravvissuto della causa sconfitta,
è la scena madre dell’esistenzialismo fascista dopo il ’45. Sappiamo che
quell’immagine riesce consolatoria ai fascisti: sia perché, da fascisti, credono
nella gerarchia ontologica tra gli uomini, sia perché dà loro un senso
all’emarginazione in cui la sconfitta li ha relegati. Sappiamo, infine, quali
propositi si siano ingenerati, nell’Italia del secondo Novecento, tra i devoti
di quella mistica. Ragione per la quale dovremmo evitare d’accogliere con
leggerezza l’esaltazione del bel gesto simbolico, o peggio del sacrificio
martire (quasi sempre altrui). Un terzo carattere del modus vivendi della
frustrazione è infatti l’estetica virilistica e velleitaria dello scontro per lo
scontro, quando a essa corrisponde l’assoluta incapacità di sostenere il
manifestarsi del conflitto reale.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki,
è autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023).
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