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Pastasciutta e libri, antifascisti
Articolo di Luca Casarotti Oggi in tutt’Italia si ripete il gesto di festa della famiglia Cervi per la caduta del Crapa pelada, del Pasta e fagioli, del (non ancora, ma entro un paio d’anni) Salmone. Su queste stesse pagine Carlo Greppi ha ragionato del perché la tradizione della pastasciutta antifascista sia così viva (e qui tradizione s’intende per una volta in senso proprio e non abusivo). Qualcuno obietterà che c’è un paradosso: della pastasciutta originaria ci manca, direbbe un Aristotele antifascista, la causa finale. Che caduta possiamo mai festeggiare noi oggi, nel 2025, in tempo d’estrema destra governante e avanzante, dagli Usa a Israele, dal Giappone a mezz’Europa, isole e Penisola comprese? Ma l’antifAristotele risponderebbe prontamente:  > per intanto, la caduta del futuro Salmone di Predappio è stata la causa finale > della pastasciutta del ’43, ma non ci dimentichiamo che è la causa formale > anche del nostro pentolone odierno: senza quella, niente spaghetti a > Gattatico, e quindi niente ripetizione posteriore della prima festa. Ma anche dopo che l’antifAristotele ci ha obbligato a ripassare la sua teoria della causalità, noi restiamo col dubbio. Cosa stiamo andando a festeggiare, di preciso? Stiamo solo rievocando l’inizio palese della fine del fascismo? Certo è questo un fatto che ben merita una festa: per sé, e per tutto ciò che n’è venuto. Ma certo è pure che, in questo tornante della storia e della nostra biografia collettiva, a contorno della pasta serviamo non solo la festa, ma anche una frustrazione cocente: e noi stiamo insieme attorno a un tavolo per non dovercela inghiottire da soli, davanti a uno schermo o negli altri modi più o meno tossici in cui facciamo finta di non essere da soli.  In realtà quest’articolo non doveva parlare della pastasciutta antifascista. Doveva parlare di cosa sarebbe bene fare per non cedere del tutto al modus vivendi della frustrazione, e di libri che sostengono questo sforzo: ci arriviamo, fidatevi.  È fuor di dubbio che il leviatano di neodestra (o di destra alternativa, o quale che sia il nome della reazione contemporanea) è particolarmente antiumano e fa paura. Altrettanto indubbio è che, anche solo al livello della speranza o dell’utopia, chiunque gli si opponga ne cerca un qualche punto debole in cui attaccarlo. Un primo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti il sopra-o-sotto-valutare le forze nemiche, che appariranno dunque imbattibili nel primo caso o effimere nel secondo. Discusso, invece, è quanto peso abbia la cultura nell’apprezzamento della strategia nemica, e di conseguenza nell’ipotizzare la strategia controffensiva. Se il fascismo avesse o meno una cultura è stata a lungo in Italia una questione aperta, per ragioni molteplici. Ha pesato il giudizio di Benedetto Croce, che come tutte le posizioni crociane ha orientato in un modo o in un altro la cultura italiana novecentesca; hanno pesato le letture troppo schematiche del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura culturale, che rischiano sempre di ridurre l’incidenza reciproca tra le due all’azione unilaterale della struttura sulla sovrastruttura, e quindi di concepire una politica culturale non all’altezza della cultura. E poi ha pesato, com’è giusto che sia, anche un motivo retorico: è stato giusto che la propaganda antifascista abbia screditato il fascismo negando tra l’altro la consistenza della sua cultura. Giusto, a patto di riconoscere questo come appunto un motivo della contesa politica, e non come un presupposto storiografico: i due domini, della politica e della storiografia, spesso s’intrecciano, e gli intrecci bisogna saperli riconoscere anche dove si celano, ma restano comunque domini distinti. Un secondo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’integralismo della politica, cioè la pretesa sloganistica che tutto sia politico. Pretesa a cui corrisponde l’incomprensione della (o la fuga dalla) politique politicienne, con il rischio d’esserne gabbati o inconsapevolmente fagocitati. A furia di dire che tutto è politica, sembra che solo la politica non lo sia. Dicevamo del trattamento che la cultura di destra riceve a sinistra. Non è per caso che l’indagine più originale in proposito sia venuta da uno studioso sui generis, il Furio Jesi che i cultura-di-destrologi, incluso chi scrive, non mancano mai di citare: da buon intellettuale torinese, Jesi cresce nell’ambiente fervido e di sana intransigenza antifascista che è il post-azionismo della sua città: l’ambiente dei Bobbio e dei Galante Garrone. Entra quindi nella redazione di Resistenza, il periodico dell’associazione Giustizia e libertà. Ma poi rompe con GL, quando l’associazione rimprovera alla redazione la linea innovativa impressa al giornale: istruttivo, (intendo istruttivo anche per noi, riguardo a due modi non ancora pacificati d’intendere l’antifascismo) è l’articoletto che redattrici e redattori della nuova Resistenza pubblicano su Belfagor per dar conto della frattura.  Sta di fatto che sono la dottrina onnivora di Jesi e quest’eterodossia rispetto alla generazione d’antifascisti precedente a consentirgli di eleggere l’indagine sulla cultura di destra a tema sia della sua ricerca sia della sua militanza. Non è nemmeno un caso se gli studi alla Jesi abbiano avuto pochi epigoni. Un po’ è per via dell’originalità dell’autore, che è un’originalità vera, cioè difficile da eguagliare se non per imitazione. Ciò non significa, dato che effettivamente ne sono stati scritti, che non siano stati scritti libri fondamentali sull’evoluzione della destra tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Un po’ però è anche per via dell’oggetto stesso d’indagine: la cultura di destra non è per niente retrocessa, né ha trascurato d’intonarsi ai media che la diffondono. Ma resta al fondo, in quell’area, una certa fissità del canone d’idee-forza, parole d’ordine, autori e testi di riferimento. Un conto è ritenere, erroneamente, che il fascismo e ciò che n’è disceso non abbiano una cultura, e dunque che non valga la pena occuparsene. Altro conto è ritenere, a ragione, che la cultura fascista sia esigua. Il che non esime dallo studiarla. E se forse ancora manca un lavoro che dissezioni la fase reazionaria attuale con la stessa risolutezza e ambizione teorica di Cultura di destra (ma la cultura di destra non offre molte occasioni per scriverne di nuovi, data la ripetitività di cui dicevamo), senz’altro non mancano i contributi che fanno buon uso dello strumentario fornito da Jesi per studiare qualcuno dei suoi volti. Giuliano Santoro e Wu Ming 1, ad esempio, lo hanno fatto quando hanno demistificato la serie di luoghi comuni implicati dall’enunciato «né di destra né di sinistra»; Leonardo Bianchi quando ha osservato il populismo di destra della seconda metà del decennio scorso; di nuovo Leonardo Bianchi e di nuovo, più esplicitamente, Wu Ming 1 quando hanno scritto del cospirazionismo di QAnon e di altri fenomeni paragonabili; e altri esempi ancora si potrebbero fare. L’ultimo libro di Valerio Renzi, Le radici profonde. La destra italiana e la questione culturale (Fandango, 2025), non si rifà direttamente a Jesi, non lo cita mai, anche se per certi versi lo presuppone. Non per lo stile, affatto diverso dal conoscere per citazioni che Jesi, evocando Walter Benjamin, rivendicava a sua cifra, e dagli esiti vertiginosi a cui conduceva quello stile. In comune, con la saggistica di Jesi e con altri libri d’intellettuali militanti che hanno affrontato il tema, questo lavoro ha invece almeno due intenti: confrontare le statuizioni teoriche dell’estrema destra con gli esiti pratici della sua azione culturale, e concepire l’inchiesta sulla destra insieme come un esercizio di professione e di militanza («giornalista e attivista» sono i due predicati con cui Renzi si qualifica). A riprova della fissità e ristrettezza della cultura d’area, già Jesi, che scriveva alla fine degli anni Settanta, si era soffermato su alcuni dei testi che anche Valerio Renzi opportunamente oggi prende a campione per illustrare gli orientamenti teorici della destra radicale: Orientamenti, per inciso, è il titolo di un opuscolo di Julius Evola, spesso ripetuto nei nomi dei centri studi neofascisti e nella loro pubblicistica. Un esempio sono gli scritti di Adriano Romualdi, del quale Jesi con impeccabile spietatezza rilevava, oltre al filonazismo patente, anche il più latente suo vezzo piccolo borghese, da intellettualino salottiero. Jesi ci presentava il Romualdi editore e apologeta delle SS, pure piuttosto maldestro nell’apologia; Renzi ce lo presenta, e le due facce naturalmente si coimplicano, come divulgatore Evoliano e come uno dei primi a mettere in questione la linea culturale del Movimento sociale italiano. Romualdi, tra l’altro protagonista di una delle svariate aggressioni fasciste a Pier Paolo Pasolini,  muore nel 1973. Poi, in fine di quel decennio, sarebbe venuta la generazione dei Marco Tarchi e dei Campi Hobbit, a contestare la dirigenza missina e a importare dalla Francia le indicazioni strategiche di Alain de Benoist e del gruppo che a lui fa capo, il Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (acronimo Grece, a proposito di manipolazione del mito: il francese per Grecia differisce solo nell’accentazione). Di qui lo scontro tra gl’intellettuali d’area che Renzi ben ricostruisce, sulla nostalgia del fascismo come mito incapacitante. Chissà se Marcello Pera, quando da presidente del Senato ha detto lo stesso dell’antifascismo, che appunto è un mito incapacitante, ha voluto usare di proposito la medesima espressione. Proprio l’accresciuta influenza di Benoist tra i riferimenti teorici d’estrema destra è l’aggiornamento più sostanzioso rispetto al tempo della mappatura di Jesi. Un’influenza cresciuta fino allo sdoganamento della sua presenza nel dibattito generalista: prima nella Francia degli anni Ottanta, complici Le Figaro e pure l’Académie Française; poi nell’Italia meloniana, dov’è stato ospite d’onore al Salone del libro; e negli Usa trumpiani, dov’è tra i maestri di pensiero dell’estrema destra, non diversamente da quel che succede al di qua dell’Atlantico. Un aggiornamento, rispetto alla precedente linea Spengler-Evola-Eliade, che è però più di nomi e modi di fare reclutamento che di pensiero: viene da Benoist e dai suoi la parola magica «metapolitica», che sta sulla bocca e nella penna d’ogni militante formato sul manuale del buon militante estremadestro, come quello scritto dall’ideologo di Casaggì e Azione studentesca Marco Scatarzi, Essere comunità, che Valerio Renzi esamina nel suo libro. Precisamente da questa linea, la linea del pensiero antiegualitario che da Spengler a Benoist giunge ai loro ripetitori per uso di partito (alla Scatarzi o, su altri lidi, alla Gabriele Adinolfi), deriva il differenzialismo che Renzi giustamente riconosce a tratto più marcato anche dell’odierna cultura di destra, governativa e non. Differenzialismo, cioè diversità inconciliabile, tra sessi, etnie, culture. L’opposto dell’uguaglianza, che ha nel suo fine il superamento della separazione. Il differenzialismo è davvero il tratto che dalle statuizioni teoriche si mantiene nella concreta pratica di governo della destra italiana:  le Indicazioni Valditara, nei limiti consentiti dal burocratese che conviene a un documento ministeriale (anzi, persino oltre la misura imposta dal tipo di testo), sono l’espressione programmatica di questa linea di condotta. E lo scazzo Giuli / Galli della Loggia il rivelatore contraltare comico. Per il resto, non si può fare a meno di notare che alla magniloquenza dei teorici d’area corrisponde un’arte del governo ben più triviale, ma non meno repressiva. Lo iato più vistoso, Mimmo Cangiano ci insiste molto, è tra il ribellismo antisistema vagheggiato dalla fazione spiritualista della destra e il modo in cui questa, quando diventa fazione di governo, si accomoda docilmente sotto l’ala del capitale. Ma è nel costume, o se vogliamo nello spazio delle guerre culturali, che la cultura di destra italiana si mostra retrograda in tutta evidenza. Retrograda anche rispetto al nazionalpopolare, tanto da sdegnarsi delle labbra di Rosa Chemical su quelle di Fedez nel sabato sera più visto di Raiuno. E Valerio Renzi, che coglie il suggerimento, intitola «contro Sanremo» il capitolo in cui discute del versante oscurantista dell’evo post-berlusconiano. Sì, ma perché vi ho parlato di spaghetti e di libri? Che c’entrano?  Vi potrei dire che il libro di Valerio Renzi mi è molto piaciuto: è una messa a punto esaustiva e comprensibile per i non addetti ai lavori, e un buon corso di aggiornamento per gli addetti (o un ripasso per i più secchioni). Quindi volevo parlarne. Siccome però volevo parlare anche di cose come il senso di solitudine e di frustrazione nella militanza, che almeno a me capita sempre più spesso di avvertire, ne ho approfittato per prendere due piccioni-argomenti con una fava-articolo. Ma c’è un motivo più serio dell’ego scrivente. Io sono tra coloro che pensano che la cultura di destra va studiata. È chiaro che c’è un rischio: dedicare tempo allo studio dell’avversario sottrae tempo a noi, al lavoro politico per la nostra parte, a mettere a punto una risposta che non dipenda dalla strategia altrui. Addirittura, perché succede anche questo, continuando a studiare l’avversario si potrebbe finire a subirne la fascinazione. Tuttavia resta decisivo un fatto, che è verificato dall’antifascismo storico, quello che oggi ci fa mettere sul fuoco il pentolone di spaghetti. Noi capiamo cosa vogliamo e per cosa lottiamo, a patto che ci sia chiaro, di una chiarezza sia razionale sia emotiva, cosa ci fa ritenere l’avversario un avversario. Prendiamo la mistica del martirio, del sacrificio per l’ideale quando tutto è perduto. Che ci sia del fascino nel suo retaggio romantico è difficile negare. Ma noi sappiamo che l’immagine dell’uomo tra le rovine, custode sopravvissuto della causa sconfitta, è la scena madre dell’esistenzialismo fascista dopo il ’45. Sappiamo che quell’immagine riesce consolatoria ai fascisti: sia perché, da fascisti, credono nella gerarchia ontologica tra gli uomini, sia perché dà loro un senso all’emarginazione in cui la sconfitta li ha relegati. Sappiamo, infine, quali propositi si siano ingenerati, nell’Italia del secondo Novecento, tra i devoti di quella mistica. Ragione per la quale dovremmo evitare d’accogliere con leggerezza l’esaltazione del bel gesto simbolico, o peggio del sacrificio martire (quasi sempre altrui). Un terzo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’estetica virilistica e velleitaria dello scontro per lo scontro, quando a essa corrisponde l’assoluta incapacità di sostenere il manifestarsi del conflitto reale. *Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, è autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023). L'articolo Pastasciutta e libri, antifascisti proviene da Jacobin Italia.
La lunga storia antisionista della sinistra ebraica
Articolo di Benjamin Balthaser La storica Karen Brodkin racconta che il socialismo era «egemonico» nella vita degli ebrei statunitensi prima della Guerra fredda. Non nel senso che ogni ebreo americano fosse socialista, ma piuttosto nel senso che una «visione operaia» e «anticapitalista» era una posizione politica familiare, persino dominante, degli ebrei statunitensi delle prime ondate di immigrazione ebraica di massa negli anni Ottanta dell’Ottocento e la Paura rossa della fine degli anni Quaranta del Novecento. Queste posizioni si materializzarono in organizzazioni comunitarie di ampia base, sindacati, pubblicazioni socialiste e partiti di sinistra fondati nelle comunità ebraiche o in organizzazioni non ebraiche con partecipazione ebraica su larga scala. L’International Ladies’ Garment Workers’ Union (Ilgwu) e l’Amalgamated Clothing Workers of America (Acwa) non solo si formarono con una schiacciante maggioranza di lavoratori ebrei, ma si svilupparono anche attraverso scioperi militanti e costruirono una cultura che andava ben oltre il luogo di lavoro, nelle sale da ballo, nelle cooperative edilizie e nelle pubblicazioni yiddish di sinistra. Il Partito socialista godeva di un sostegno pressoché ineguagliabile tra i lavoratori ebrei, con Eugene Debs che ricevette quasi il 40% dei voti ebrei nel 1920, rispetto a meno del 4% dei voti della popolazione generale. Victor Berger, compagno di corsa di Debs e uno dei politici socialisti più popolari negli Stati uniti, era ebreo, così come Meyer London, deputato che si definiva socialista. Uno dei grandi equivoci sulla consistente sinistra ebraica dell’inizio e della metà del XX secolo (un errore ripetuto da Brodkin tra gli altri) è che il socialismo ebraico americano fosse un’importazione dall’Europa orientale. L’affermazione piuttosto ragionevole di Brodkin, e in effetti ciò che ritengo sia di buon senso tra gli ebrei statunitensi e gli storici della sinistra, è che il socialismo ebraico sia nato dal crogiolo dell’antisemitismo zarista e di una Haskalah tardiva, alimentata da una classe operaia iper-istruita seppur sottoccupata. Se questo può essere vero per l’arrivo del Bund all’inizio del XX secolo, per l’emergere della sinistra ebraica statunitense di fine Ottocento, secondo lo storico Tony Michels, c’era poco socialismo ebraico da importare. Come sostiene Michels, il movimento operaio e socialista ebraico precede di due decenni i movimenti operaio e socialista dell’Europa orientale; «l’ebreo non è sempre stato radicale; l’ebreo era diventato radicale a New York e in altre città americane». In parte, suggerisce Michels, ciò è dovuto ai contatti degli ebrei con i lavoratori radicali tedeschi statunitensi, che portarono con sé testi dell’Oyfklerung del socialismo tedesco, tra cui quelli di Karl Marx, Friedrich Engels, Ferdinand Lassalle e Wilhelm Liebknecht. L’osservazione storica di Michels rappresenta una critica a un presupposto molto più diffuso, secondo cui il socialismo ebraico è un fenomeno monogenerazionale e che, dopo l’assimilazione, gli ebrei socialisti si sono trasformati in liberal. Niente di più lontano dalla verità: piuttosto, il movimento del socialismo ebraico dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Quaranta del Novecento fa pensare a una crescente radicalizzazione man mano che gli ebrei si assimilavano negli Stati uniti e si sentivano più a loro agio nel loro ambiente. In effetti, il movimento comunista degli anni Trenta e Quaranta fu, come osservò Michael Denning, un movimento di immigrati «etnici statunitensi» in gran parte di seconda e terza generazione, piuttosto che di arrivi più recenti. Il movimento comunista fu anche, per molti aspetti, il culmine della sinistra ebraica negli Stati uniti, con il Partito comunista che all’epoca contava in media quasi centomila iscritti, oltre la metà dei quali ebrei. Dato l’elevato turnover del partito, ciò avrebbe significato che centinaia di migliaia di ebrei statunitensi entrarono e uscirono dai ranghi dell’organizzazione. Tuttavia, la portata e la portata del Partito comunista statuitense andavano ben oltre i suoi iscritti, estendendosi ai numerosi sindacati affiliati, alle organizzazioni per i diritti civili, alle organizzazioni anti-imperialiste e pacifiste e alle organizzazioni culturali nell’orbita del partito. L’ala sinistra del Congress of Industrial Organizations (Cio), del National Negro Congress, dell’American League Against War and Fascism, del Civil Rights Congress, del Jewish People’s Fraternal Order e di altri gruppi fece sì che milioni di statunitensi fossero compagni di viaggio del Partito o membri attivi di organizzazioni ad esso collegate. Ciò seguì e contribuì a produrre il più grande riallineamento della politica di massa nella storia Usa: una coalizione di liberal bianchi, sindacati, organizzazioni per i diritti civili, persone non bianche ed ebrei statunitensi. L’alleanza è un fondamento così profondo della vita statunitense moderna che, se comincia a sgretolarsi, genera confusione. In altre parole, il momento culminante della sinistra ebraica Usa coincise con il senso comune della politica di sinistra e contribuì a crearlo. Il movimento comunista degli anni Trenta rivendicava lo slogan del Fronte Popolare, «Il comunismo è l’americanismo del XX secolo», ma molti storici del comunismo e della storia ebraica hanno notato che il movimento degli anni Trenta e Quaranta era tutt’altro che assimilazionista. Come scrive Brodkin, «gli operai ebrei non accettavano l’idea che un’identità ebraica fosse periferica rispetto ai loro interessi di classe operaia» come i socialisti ebrei di fine Ottocento e Novecento. Descrivendo lo stesso fenomeno un decennio dopo il periodo descritto da Brodkin, Matthew B. Hoffman e Henry F. Srebrnik sostengono che il «comunismo ebraico» negli Stati uniti «era una combinazione di socialismo e nazionalismo ebraico laico». In effetti, leggendo la stampa di sinistra degli anni Trenta, l’«assimilazione» era intesa come un anatema per il socialismo; non solo qualcosa che un ebreo socialista non avrebbe voluto fare, ma un progetto concepito per contrastare il socialismo e indebolirlo. Come scrive Alexander Bittelman, uno dei principali redattori e teorici del Partito comunista tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta: > Tutti sanno che le forze non democratiche nella vita ebraica americana sono o > assimilazioniste… o nazionaliste-reazionarie. Gli assimilazionisti sono del > tutto contrari alla costruzione di una vita ebraica negli Usa o cercano di > ridurre la comunità ebraica a un gruppo religioso, il che equivale a negare la > vita ebraica. E su questo punto, i nazionalisti reazionari, che negano la > possibilità di costruire una vita ebraica nella diaspora (il Goluth), assumono > la stessa posizione degli assimilazionisti. Vale a dire: o si oppongono del > tutto alla costruzione di una vita ebraica negli Usa – il che è praticamente > la stessa cosa – vogliono confinarla a una comunità religiosa. Per Bittelman, l’alternativa all’«assimilazionismo» e al «nazionalismo reazionario» (ovvero il sionismo) sono i «valori ebraici progressisti». Proprio come «tikkun olam» una generazione dopo, «valori ebraici progressisti» nel lessico della sinistra ebraica degli anni Trenta e Quaranta si riferisce a una cultura laica di socialdemocrazia, antirazzismo e diversità culturale, espressa attraverso la tradizione ebraica. Come ha articolato lo studioso Yuri Slezkine, delle tre risposte ebraiche all’antisemitismo nel XX secolo – l’immigrazione nelle Americhe, l’emigrazione in Israele e la Rivoluzione bolscevica (ovvero assimilazione, nazionalismo o socialismo) – il socialismo è rimasto di gran lunga la risposta più popolare alla «questione ebraica» tra l’inizio e la metà del XX secolo. In questo senso, allora, il comunismo non era una forma di assimilazione, ma piuttosto un’alternativa ad essa. Naturalmente, questo solleva la domanda: cosa c’era negli Stati uniti che permise il fiorire del socialismo ebraico? Sebbene questa possa essere una domanda sovradeterminata, è chiaro che i socialisti ebrei esprimevano il loro impegno politico attraverso un linguaggio di identificazione etnica e solidarietà razziale; anzi, questi tendevano a essere inscindibili. Come scrive Amelia Glaser nella sua completa storia della poesia yiddishkeit di sinistra negli Stati uniti, parte dell’acculturazione degli ebrei di sinistra negli Stati uniti avvenne attraverso il linguaggio della solidarietà e dell’identificazione razziale. I poeti statunitensi che scrivevano in yiddish spesso trasponevano il linguaggio dei pogrom in storie di linciaggi e paragonavano le sofferenze degli afroamericani a quelle degli ebrei nella Zona di Residenza. I poeti di lingua yiddish traducevano persino l’idioma e gli stili poetici neri nei loro scritti. Sebbene tali forme di prestito e identificazione potessero far pensare a una sorta di menestrello di sinistra, esprimevano una critica alla modalità di Al Jolson di versare lacrime ebraiche attraverso il blackface. Piuttosto che esprimere il dolore ebraico attraverso la trasposizione, queste poesie erano un modo per comunicare l’oppressione degli afroamericani ad altri ebrei in un idioma che potessero comprendere. In una mossa analoga, il romanzo Jews Without Money del 1930 dello scrittore e editore Mike Gold, ambientato a metà secolo, presenta come eroe un ebreo dalla pelle scura e dai capelli ricci – soprannominato dalla comunità con la parola che inizia con la N. Piuttosto che considerarlo un’appropriazione, direi che Gold presenta questo personaggio per rifiutare una «teleologia dell’assimilazione» e abbracciare la solidarietà con gli altri statunitensi emarginati. Sebbene ci siano molte altre ragioni per cui il socialismo ebraico ha prosperato negli Stati uniti, tra cui una maggiore atmosfera di libertà rispetto alla Russia zarista (seppur spesso circoscritta), suggerirei che sia piuttosto la sinistra Usa ad essersi prestata a un’espressione della politica etnica come politica di liberazione socialista. Negli Stati uniti, a differenza dell’Europa, la solidarietà razziale era un’espressione di radicalismo. Bittelman, da teorico del Partito comunista, tentò di schematizzare l’identità ebraica ashkenazita e il suo rapporto con le persone di colore non ebree in tutto il mondo all’interno di un quadro marxista e intersezionale dopo la Seconda guerra mondiale. Bittelman concepisce inizialmente la vita ebraica ashkenazita negli Stati uniti come esistente all’interno di un quadro «nazionalista borghese» che cerca di incorporare la «borghesia ebraica» negli obiettivi del capitalismo globale dominato dagli Stati uniti e di offrire una forma di «assimilazione» subordinata alle masse ebraiche. Bittelman prosegue poi affermando che la razza negli Stati uniti non è semplicemente un epifenomeno di classe; piuttosto, «esiste negli Stati uniti un peculiare sistema di oppressione dei popoli, solitamente definiti minoranze, che è un sistema di persecuzione e discriminazione contro i popoli». In altre parole, gli Stati uniti non sono solo un paese capitalista che sopravvive grazie allo sfruttamento del lavoro, ma sono anche l’erede dell’Impero britannico all’esterno e il prodotto dell’insediamento e della schiavitù all’interno. Pur rifuggendo una rigida gerarchia di oppressione, Bittelman descrive comunque l’oppressione degli afrostatunitensi come simile alla colonizzazione, definendola un’«oppressione nazionale» analoga alla colonizzazione delle Filippine e di Porto Rico all’interno della «Cintura Nera del Sud» e un regime di oppressione e discriminazione in tutto il resto degli Stati uniti. Bittelman descrive un sistema di oppressione razziale che in ultima analisi serve gli interessi del capitalismo, pur ponendo gli «anglosassoni» come gruppo dominante e sottoponendo etnie bianche quali «polacchi, russi, italiani, ebrei e altri» a svariate forme di esclusione. Bittelman prosegue suggerendo che gli ebrei si distinguano da questo quadro generale nella misura in cui «l’antisemitismo stesso» è una forma di «oppressione e discriminazione nazionale» meno sistemica dell’oppressione subita dai neri, ma al tempo stesso più acuta e più importante per le forze della «reazione imperialista» rispetto alle forme generali di esclusione sociale subite dai non «anglosassoni». In questo contesto, è nell’interesse degli ebrei statunitensi allearsi con il «popolo nero» che lotta per la propria «liberazione nazionale» all’interno della Black belt e costituisce una «forza d’avanguardia contro l’intero sistema imperialista di discriminazione e oppressione nazionale negli Stati uniti». È logico, quindi, che nella sua analisi del ruolo dei socialisti ebrei negli Stati uniti, emerga una critica del sionismo dalla visione generale del mondo della sinistra ebraica. Pertanto, per Bittelman, l’identità ebraica americana è legata principalmente alle sue condizioni negli Stati uniti e alle sue solidarietà vissute con altre «nazionalità oppresse», in particolare afroamericani e popolazioni del mondo colonizzato. La teoria di Bittelman circa il rapporto tra ebrei statunitensi e sionismo deriva dalla sua teorizzazione generale di razza e capitalismo come formazioni transnazionali, collegate attraverso circuiti di forma militare ed economica. Se il sionismo è una forma di imperialismo, non solo è direttamente antagonista dei palestinesi, ma è anche contrario agli interessi personali degli ebrei della classe operaia. Bittelman ammette che gli ebrei formino un «gruppo nazionale» nello Yishuv, l’insediamento ebraico pre-statale nella Palestina mandataria. Ma il loro carattere nazionale, la loro lingua, il loro territorio e la loro cultura nazionale non garantiscono agli ebrei in Palestina il diritto di formare uno stato esclusivamente ebraico. Come scrive Bittelman: > La soluzione sionista alla questione palestinese, essendo antidemocratica e > reazionaria e orientata alla collaborazione con l’imperialismo contro il > popolo arabo, mette in pericolo la sicurezza dello Yishuv e tende a > trasformare il popolo ebraico in complici e partner dell’oppressione e dello > sfruttamento imperialista. Bittelman non era il solo a considerare il sionismo una forma di imperialismo negli anni Trenta e Quaranta; in effetti, questa era la visione di buon senso della sinistra. Non solo il sionismo, come aveva previsto con precisione Hannah Arendt, avrebbe cacciato centinaia di migliaia di palestinesi e messo una minoranza di ebrei contro un intero subcontinente di vicini arabi, ma si sarebbe allineato con l’imperialismo britannico e statunitense e con gli interessi borghesi della classe dirigente ebraica. Bittelman parlava a nome della maggior parte degli ebrei statunitensi di sinistra, tra cui luminari come Mike Gold, Albert Einstein, Leon Trotsky, Muriel Rukeyser e molti altri, quando scrisse che il sionismo era un anatema per i «valori ebraici progressisti». L’antisionismo sembrava ben integrato nella vita quotidiana degli ebrei statunitensi. Come ha affermato sinteticamente Robert Gessner, negli Stati uniti «circa l’1% degli ebrei è sionista». Per citare Stuart Hall a proposito di Antonio Gramsci, le idee «non si limitano mai al nucleo filosofico» della loro esistenza; per la loro presenza «organica» nei movimenti e nelle comunità, «devono toccare il senso comune pratico e quotidiano». È importante sottolineare che l’antisionismo ebraico è emerso organicamente, in senso gramsciano, dall’impegno socialista già esistente degli ebrei negli Stati uniti. Se la sinistra ebraica statunitense si sia «convertita» velocemente al sionismo non è avvenuto grazie all’abilità militare israeliana, ma grazie al sostegno dell’Unione sovietica alla Partizione in seno alle Nazioni unite. Eppure, durò poco sia per l’Unione sovietica che per la sinistra ebraica americana. Quando Israele tornò alla ribalta nel 1967, la risposta della New left fu sorprendentemente coerente con quella della sinistra ebraica della generazione precedente. Il Partito socialista dei lavoratori (Swp) trotskista rimase coerente sulla questione palestinese durante il nadir degli anni Cinquanta, per molti membri della dirigenza degli Students for a Democratic Society (Sds) ci fu un processo di riapprendimento. Quando lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc) nel 1968 si schierò a sostegno della nascente Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), i leader dell’Sds sentirono di dover essere sostenuti. Susan Eanet-Klonsky, che era nella dirigenza dell’Sds e lavorava presso la sede nazionale di Chicago, disse di aver ricevuto una pila di opuscoli e libri «sulla questione palestinese» da compagni più anziani e di aver intrapreso per la prima volta uno studio sulla questione. Scrivendo diversi articoli per il giornale della Sds, New Left Notes, Eanet-Klonsky inquadrò Israele e Palestina in modo molto simile a quanto avevano fatto i comunisti degli anni Trenta, come una conquista imperialista «analoga alla fuga dei primi coloni in America… verso una terra già occupata dal popolo indiano». Quando, cinquant’anni dopo, Jewish Voice for Peace lanciò la campagna Deadly Exchange per denunciare il razzismo sia dello stato di polizia statunitense che dello stato di apartheid israeliano, si stava articolando una tradizione centenaria di collegamento tra sionismo, violenza razziale e imperialismo. Sebbene in entrambi i casi le condizioni e il contesto potessero essere nuovi, la concezione transnazionale della razza da parte della sinistra è rimasta una costante. Una tale concettualizzazione della razza non è un fenomeno nuovo, ma emerge piuttosto dalle solidarietà e dalle articolazioni di una tradizione molto più lunga della sinistra ebraica statunitense. Sulla questione del sionismo e della solidarietà con altri gruppi etnici oppressi e minoranze religiose, esiste un filo rosso che va dal Partito comunista all’Sds, al Collettivo Chutzpah, alla Nuova Agenda Ebraica (Nja) e a Jewish Voice for Peace. In effetti, si possono persino rintracciare tali linee evolutive attraverso singoli individui e famiglie. Jewish Voice for Peace, Jews for Racial and Economic Justice (Jfrej) e Democratic Socialists of America (Dsa) sono organizzazioni intergenerazionali, e molti dei fondatori e attivisti provengono da famiglie di sinistra multigenerazionali, tra cui Melanie Kaye/Kantrowitz, la cui carriera si estende dalla Nja alla Jfrej; David Duhalde, un socialista ebreo nella Dsa i cui genitori sono esuli dal Cile; e Molly Crabapple, pronipote di un noto membro del Bund. In questo senso direi che la sinistra ebraica non è periferica rispetto all’identità ebraica, ma piuttosto parte integrante della comprensione delle attuali divisioni e opposizioni all’interno della comunità ebraica, così come della continua presenza di ebrei autoidentificati e di organizzazioni ebraiche nelle proteste di piazza contro l’ultima guerra di Israele. Queste vicende sono tutt’altro che accademiche. Mentre oggi le istituzioni ebraiche di destra, dall’American Jewish Committee all’Anti-Defamation League e all’Hillel International, tentano di soffocare il dibattito pubblico americano sul sionismo e sul continuo esodo dei palestinesi dalla loro terra, la memoria viva della sinistra ebraica non solo è una risorsa per gli ebrei statunitensi, ma può anche indicare la strada da seguire per coloro che desiderano sfidare tali istituzioni sulla base delle proprie basi culturali. A differenza delle teorie sulla «scomparsa» della sinistra ebraica o dell’interesse per la sinistra ebraica americana come forma di «nostalgia», va ricordato che gli ebrei di sinistra non erano semplicemente individui coraggiosi, ma rappresentanti di comunità radicate e prospettive di classe, parte di una più lunga storia di lotta di classe, antimperialismo e assimilazione alle modalità dominanti di «bianchezza» e potere. Per quanto questa sia una storia culturale della «sinistra ebraica», la sinistra ebraica è inseparabile dalla più lunga storia della sinistra radicale, di cui la sinistra ebraica è stata parte attiva e influente. Naturalmente, questo non significa che la sinistra americana (ebraica) sia stata infallibile (anzi, la cieca adesione alla politica estera dell’Unione sovietica è stata un disastro per la Palestina e per la credibilità del comunismo americano): le sue sconfitte sono principalmente il risultato del terreno accidentato della lotta di classe, non di contraddizioni interne. Le due Paure rosse, il Cointelpro e l’allineamento delle istituzioni ebraiche liberali con le inquisizioni della destra hanno giocato un ruolo sproporzionato nell’affermare il predominio del sionismo sulla politica ebraica e statunitense. Ma va ricordato che le lotte del passato sono emerse e si sono combattute su un terreno non del tutto diverso da quello che ci troviamo ad affrontare oggi: una superpotenza imperialista contro gli interessi della maggioranza globale. Il mio intervento non si basa sull’idea che gli ebrei di sinistra fossero eccezionali, lungimiranti o cosmicamente visionari, ma piuttosto sul fatto che tali sinistre siano emerse dagli interessi e dalle lotte quotidiane della gente comune in un mondo grottescamente ingiusto. In quanto tali, i primi ebrei di sinistra hanno costruito una sinistra ebraica – e una critica del sionismo – a partire dal terreno autoctono degli Stati uniti: un terreno in cui l’oppressione razziale, una borghesia rapace, un bilancio militare gonfiato e standard di vita precari persino per le persone istruite sono la norma piuttosto che l’eccezione. Gli ebrei statunitensi, come tutti quelli che fanno parte del 99%, hanno motivi per combattere tali formazioni nella loro lingua, in una lingua comune, nella propria lingua in comune con gli altri. *Benjamin Balthaser è professore associato di letteratura multietnica statunitense presso l’Università dell’Indiana, South Bend. Di recente ha scritto Citizens of the Whole World: Anti-Zionism and the Cultures of the American Jewish Left (Verso, 2025), dal quale è tratto questo testo, che è comparso anche su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo La lunga storia antisionista della sinistra ebraica proviene da Jacobin Italia.
Il PKK brucia le armi e attua il suo disarmo: e ora?
Le fiamme che hanno avvolto i mitra ieri mattina nella valle montuosa di Jasana, nel nord dell’Iraq, hanno illuminato non solo una cerimonia simbolica, ma un momento decisivo per un intero popolo. Davanti agli occhi di funzionari turchi, iracheni e curdi, trenta combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) […] L'articolo Il PKK brucia le armi e attua il suo disarmo: e ora? su Contropiano.
L’assassinio di Abele, per sempre sulla fronte di Caino
“NON IN NOME NOSTRO”, HANNO GRIDATO STUDENTESSE E STUDENTI EBREI A BERLINO E NEW YORK QUALCHE MESE FA, PRIMA DI ESSERE ARRESTATI DALLA POLIZIA. LE MANIFESTAZIONI CONTRO LE POLITICHE DEL GOVERNO ISRAELIANO CHE SI SVOLGONO FUORI DA ISRAELE VENGONO IMMEDIATAMENTE LIQUIDATE DALLA STAMPA COME ANTISEMITE, MA QUANDO SONO PROMOSSE DA EBREI, QUESTA ACCUSA NON REGGE. “QUESTA POTREBBE ESSERE L’UNICA LEVA CHE CI RIMANE… – SCRIVE BIFO – QUALUNQUE SIA L’ESITO DI QUEL CHE ACCADE A GAZA, QUESTO NOME NON SARÀ MAI CANCELLATO DALLA MEMORIA DEL MONDO… QUESTO MARCHIO NON RIMARRÀ FORSE IMPRESSO PER SEMPRE, PROPRIO COME L’ASSASSINIO DI ABELE SULLA FRONTE DI CAINO?…” Torre del Greco (foto Gaza FREEstyle) -------------------------------------------------------------------------------- Il volto dell’Altro dice: “Non uccidere!”. Questa è l’espressione più forte dell’etica ebraica, secondo il pensatore Emmanuel Lévinas. Eppure, ciò che vediamo di più oggi sono i volti supplichevoli che chiedono: “Perché ci uccidete?”. I palestinesi nella Striscia di Gaza muoiono di fame, sete, mancanza di medicine, droni assassini, bombardamenti aerei, sfollamenti forzati, sfinimento, terrore psicologico e fisico… Seppelliscono decine di bambini ogni giorno, i genitori, i mariti, le mogli, spesso intere famiglie, e vediamo devastazione e rivolta, fame e supplica sui loro volti ogni giorno. Immaginiamo per un attimo che due milioni di israeliani fossero sottoposti da uno stato straniero invasore a una reclusione equivalente. Se fossero stati assassinati più di quindicimila bambini ebrei, massacrate altrettante donne ebree, vergini, donne incinte, donne anziane, madri. Immaginiamo due milioni di ebrei israeliani circondati da ogni lato, morenti di fame, sete, malattie, mancanza di medicine, in città devastate, senza elettricità, senza telefono, costretti a spostarsi costantemente da un luogo all’altro, da una città all’altra, a piedi, alla ricerca di una possibile razione, in balia di bombardamenti casuali, sottoposti a umiliazioni, espropriazioni, alla distruzione delle loro minime condizioni di esistenza, con l’esplicita minaccia aleggiante nell’aria che invoca il loro sterminio totale. Il mondo occidentale non si solleverebbe all’unisono per denunciare un nuovo Olocausto, un genocidio, una barbarie senza precedenti, e usare tutti i mezzi di pressione, economici, mediatici, militari, atomici se necessario, per opporsi e cercare di evitare in tempo un simile massacro? L’Europa, sempre desiderosa di espiare la propria colpa, e gli Stati Uniti, sempre alleati incondizionati, non avrebbero forse inviato nella regione le loro flotte navali completamente equipaggiate? Mi direte che questo scenario immaginario si è già verificato durante la Seconda Guerra Mondiale e che nessuno si è fatto in tempo per contrastarlo. È vero! E questa macchia macchierà per sempre la storia europea e statunitense. All’epoca, secondo quanto ci viene detto, la maggior parte delle persone non sapeva nulla dei Campi. E i pochi che lo sapevano, dal papa al presidente Usa, non hanno fatto nulla. È vero. Ma oggi, lo sappiamo tutti, lo vediamo in diretta e a colori in televisione e sui social media, eppure guardiamo in silenzio, come se non ci riguardasse. Ma lo sappiamo! Lo vediamo! Siamo testimoni! Perché restiamo in silenzio? Il governo israeliano afferma di difendere Israele e di impedire che un nuovo Olocausto si ripeta: “Mai più!”. E afferma di farlo in nome degli ebrei di tutto il mondo. “Non in nome nostro”, hanno gridato studenti ebrei a Berlino e New York qualche mese fa, prima di essere arrestati dalla polizia. Lo Stato di Israele non ha ricevuto alcun mandato dalla diaspora ebraica per sterminare, in suo nome, la società palestinese ed espellerla dalla sua terra, tanto meno per decimarla. Le sciocchezze di Trump sulla Riviera mediorientale, così come quelle dei ministri del governo israeliano che propugnano una Nakba definitiva, dovranno comunque essere giudicate dalla storia, così come i loro autori. Ogni ebreo, per quanto lontano dalla vita della comunità ebraica, per quanto libero da qualsiasi marchio legato alla vita ebraica nella sua dimensione culturale, religiosa o comunitaria, è comunque sopravvissuto, nella maggior parte dei casi, in un modo o nell’altro a una catastrofe collettiva esplicitamente diretta contro la discendenza ebraica. Per questo mi prendo la libertà di rivolgermi a tutti gli ebrei che ancora provano un senso di repulsione per qualsiasi guerra genocida, soprattutto se commessa da ebrei. Mi rivolgo anche specificamente a tutti gli ebrei che hanno una certa influenza pubblica, scritta, orale, mediatica, accademica, istituzionale, scientifica, politica, artistica, religiosa ed economica (e non sono pochi, ma questo appello si estende ovviamente a tutti), perché so che nulla turba l’establishment israeliano più delle proteste provenienti dagli ebrei ribelli sparsi in tutto il mondo. Le manifestazioni contro le politiche del governo israeliano che si svolgono fuori da Israele vengono immediatamente liquidate dalla stampa come antisemite e vengono persino utilizzate per rafforzare la fuorviante convinzione che “tutti sono contro di noi”. Ma quando sono organizzate da ebrei, questa accusa non regge: i loro protagonisti saranno, al massimo, bollati come traditori. Questa potrebbe essere l’unica leva che ci rimane. E se questa ondata prenderà slancio, l’alibi che Israele stia agendo in nome e in difesa di tutti gli ebrei crollerà! No, ciò che è in gioco, anche oggi, con l’attacco all’Iran, non è la sopravvivenza del popolo ebraico, che la politica israeliana sta compromettendo direttamente diffondendo la sua rabbia bellicosa e fomentando l’antisemitismo in tutto il mondo, ma la sopravvivenza del governo più brutale, fascista e corrotto nella storia di questo Paese. E, naturalmente, la sopravvivenza del popolo palestinese. Gli ebrei credo che abbiamo il dovere etico di parlare pubblicamente e di incoraggiare la maggioranza silenziosa a trovare il coraggio di sfidare la tutela ideologica e politica che Israele esercita sulle istituzioni e sulle comunità ebraiche, riducendole al silenzio o costringendole ad adeguarsi automaticamente. Gli ebrei si sono sentiti personalmente presi di mira dai massacri perpetrati da Hamas contro gli israeliani: tutti si sono sentiti vittime. Com’è possibile che non si sentano personalmente coinvolti quando gli autori di queste torture di massa sono israeliani? Tutto è antisemitismo, tutti sono contro di noi, ripetono, incapaci di vedere le scene della tragedia umana a Gaza perché i media locali si rifiutano di trasmetterle. La narrazione che usa la sofferenza storica del popolo ebraico per giustificare la brutalità di un governo che ha trasformato lo Stato ebraico in un impero teocratico espansionista, coloniale, suprematista e genocida è crollata. È ora di rompere lo specchio che ci riflette l’immagine delle più grandi vittime della storia e di vedere i volti di coloro che, dall’altra parte, implorano e ripetono semplicemente: “Non uccidere”. Ogni giorno, l’evidenza diventa sempre più evidente: finché i diritti storici, politici e territoriali dei palestinesi non saranno riconosciuti, la legittimità di una patria nazionale ebraica sarà completamente compromessa. Gli israeliani avranno diritto alla pace e alla sicurezza solo se e quando i palestinesi godranno dello stesso diritto. E questo accadrà solo se e quando Israele (e il mondo) riconoscerà la propria responsabilità per la tragedia dei rifugiati palestinesi e mostrerà la volontà di offrire riparazioni storiche, tra cui la restituzione delle terre, il diritto al ritorno negoziato, il risarcimento materiale e immateriale per ogni tipo di perdita e danno, trauma e conseguenze, con un indennizzo adeguato. Qualunque sia l’esito di quel che accade a Gaza, questo nome non sarà mai cancellato dalla memoria del mondo. Aleggia sulla storia di Israele – e di conseguenza su quella degli ebrei – come una macchia indelebile, una macchia indelebile – proprio come il ghetto di Varsavia sarà per sempre inseparabile dalla storia tedesca. Come potrebbe questo non turbarci? Questo marchio non rimarrà forse impresso per sempre, proprio come l’assassinio di Abele sulla fronte di Caino? Ciò che un tempo era vergogna si è trasformato in rabbia. Eppure sentiamo che questi pochi gesti che intraprendiamo, queste parole che pronunciamo, questi dibattiti o azioni che proponiamo sono insufficienti. Per la nostra impotenza sulla scena del mondo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’assassinio di Abele, per sempre sulla fronte di Caino proviene da Comune-info.
Un giorno queste dichiarazioni saranno le prove dell’annientamento programmato di un popolo
Un giorno, nei libri sul genocidio, qualche manuale di storia, qualche documentario, verranno riportate queste parole. Saranno annotate come disumane, trascritte con orrore. Qualcuno domanderà: com’è stato possibile? Altri si chiederanno: ma mentre tutto questo accadeva, li lasciavano parlare? E agire? Ecco, sono state dette. Ecco, sono state ascoltate. Qui, […] L'articolo Un giorno queste dichiarazioni saranno le prove dell’annientamento programmato di un popolo su Contropiano.
[Ora di buco] E lo chiamano merito (1/4: trasmissione integrale)
Nella trasmissione affrontiamo con tre corrispondenze: 1) il tentativo di censura ministeriale del libro "Trame del tempo", edizione rossa di Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi, edito da Laterza. Ne parliamo con Giovanni Carletti, editor di Laterza; 2) la vita precaria delle precarie della scuola, tra attesa delle graduatorie, conclusione di concorsi pnrr, richiesta di naspi; 3) la povertà educativa istituzionalizzata dal ministero nel resoconto del "Progetto Futura" del Forum disuaglianza e diversità e Save the children. Ne parlaimo con Andrea Morniroli co-coordinatore del Forum
Il peso temporale delle nostre fedeltà
Che cosa significa oggi fare filosofia politica, situandosi nel solco della tradizione marxiana e marxista? In un contesto come quello francese, in cui il dibattito contemporaneo si svolge prevalentemente nel campo della filosofia sociale e della teoria critica, questo essai di Chiara Collamati su Sartre, Le passé qui vient, fornisce una risposta all’altezza della radicalità della crisi che la filosofia politica sta attraversando. L’autrice moltiplica le mediazioni concettuali per individuare qualcosa di terribilmente concreto e urgente: «la possibilità di assumere, con Sartre e attraverso i suoi strumenti concettuali, una delle sfide imprescindibili per la riflessione contemporanea sulla politica: pensare una riorganizzazione dei rapporti sociali e politici che non si esaurisca nella logica del contropotere e che non presupponga un soggetto collettivo che sarebbe per essenza “oppositivo” alla macchina Stato-capitale» (p. 39). Il compito è chiaro: si tratta di affrontare il presente come un défi lanciato al pensiero, utilizzando gli strumenti concettuali di un filosofo considerato superato e inattuale già dalle sue contemporanee e dai suoi contemporanei. Il che significa che Sartre, e in particolare la Critica della ragione dialettica, è il primo “passato a venire” che il libro ci propone. Se il compito è concreto, la sfida è nondimeno squisitamente teoretica – in tutti i sensi che questo termine ha in filosofia: dall’analisi dello statuto dei concetti politici alla necessità di scardinare l’ontologia della storia di matrice heideggeriana, dal tentativo di porre le basi per una teoria del legame sociale e della sua specifica temporalità, fino al rapporto tra normatività e contingenza storica. Come si sarà capito, il termine filosofia politica ricopre in realtà tutta la filosofia, al di là delle distinzioni disciplinari che dovrebbero rendere il percorso più “praticabile”. Chiara Collamati ci insegna innanzitutto che le opzioni filosofiche non si misurano in termini di fattibilità, come si evince da una formula che ricorre costantemente nel libro: si tratta di porre le «condizioni di “pensabilità“ delle lotte, o ancora di pensare l’intelligibilità della storia. Per evitare la trappola dell’astrazione, il libro non si stanca di problematizzare quello che Étienne Balibar ha definito “il concetto di concetto in politica“». > In ogni paragrafo, l’autrice cerca di pensare, in modo sempre più dettagliato, > una certa disciplina dell’impegno politico. La riconosce in due pratiche > distinte che fungono da motori dell’argomentazione: il giuramento da un lato e > gli esempi dall’altro. Vale a dire, rispettivamente, una pratica del gruppo > sociale e una pratica intellettuale. Proprio perché il sociale non possiede un essere in sé, l’accento viene posto sulla dimensione delle pratiche che definiscono un gruppo, marcando uno scarto rispetto agli approcci che si rifanno all’ontologia sociale. Se il problema della politica non è tanto quello dell’essere, quanto quello del dover essere, tale normatività non informa alcuna materia preesistente. Chiara Collamati ci ricorda che, per il filosofo politico, l’etica è sempre e solo un punto di arrivo; l’esito di un percorso che richiede, come condizione preliminare, di tracciare una me-ontologia (un modo di pensare il non-essere sociale) che non dia nulla per scontato, o meglio: che non dia questo nulla per scontato. È solo riconoscendo la cavità di tale assunto che gli strumenti della politica (diritto, istituzioni) possono essere definiti precisamente come strumenti forgiati per rendere il non-essere produttivo. Dal momento che, come scrive Sartre, ogni giuramento implica una «vertigine dell’abbandono», ciascun membro di un gruppo «ha paura di essere colui che potrebbe mettere a repentaglio il legame di reciprocità» (p. 75): in questione è dunque un modo di pensare la politica che, senza liquidare questa vertigine, ci aiuti a rimetterci in piedi per continuare a camminare insieme. La lettura che Chiara Collamati propone della Critica della ragione dialettica è guidata appunto dalla ricerca dei processi attraverso i quali il gruppo in fusione «cerca di inventare la forma della propria permanenza» (p. 63). A causa del suo carattere evanescente, la temporalità dell’azione storica ha uno statuto ambiguo che la condanna non tanto al fallimento sistematico, bensì a un’incertezza costitutiva, vissuta dall’individuo come una sensazione di perenne ritardo rispetto alla propria epoca. Un’asimmetria che si spiega con l’intreccio di due temporalità distinte: quella delle disposizioni corporee dell’individuo e quella delle condizioni oggettive storicamente determinanti. Dialetticamente, questi due poli si producono a vicenda nel loro incontro sfasato e ciò che conta sono le pratiche dei legami a venire: pratiche costrette ad assumere il passato come loro materiale costitutivo. La nozione di praxis viene quindi ripensata per analogia con la dimensione dello strumento: la filosofia politica sarebbe il suo savoir-faire, il passato il suo materiale. Le azioni storiche si rivelano infine come degli usi del passato. Le passé qui vient non prende mai la strada più facile. Nella veste di storica della filosofia, Collamati non si accontenta di esplorare le opere sartriane degli anni Sessanta, per smarcarle dalle critiche di Merleau-Ponty. In un punto nodale dell’opera, all’altezza del quarto capitolo, viene infatti proposta una lettura innovativa de L’essere e il nulla, opera a cui l’autrice restituisce tutta la sua carica esplosiva e il suo scandalo anti-heideggeriano – tornerò su questo punto. Ma l’aspetto forse più importante è che, nella veste di filosofa politica, Collamati non cade mai nell’astrazione dell’immediatezza, né in una concretezza storico-filosofica priva di riflessività. Pur non nominando esperienze di lotta o pratiche politiche contemporanee, il libro è attraversato da interrogativi quanto mai attuali: come costruire un senso condiviso della storia quando ci è stato detto che le nostre vite non valgono nulla o quasi? Quando sembra che nessuno delle nostre antenate e dei nostri antenati meriti di “passare alla storia”? Come selezionare il nostro “passato futuro” e distinguerlo dalle sue forme reattive? Possiamo davvero scegliere la nostra storia, nel duplice senso della praxis e della storiografia? > La posizione di Chiara Collamati è piuttosto inusuale per una filosofa formata > al pensiero hegeliano: la filosofia politica ci prepara a vivere ciò che ci > aspetta. Questo ci conduce a un altro aspetto importante del libro: la profondità con cui l’autrice tratta il tragico che la storia porta in sé, senza cadere nel romanticismo dell’azione collettiva – o ancora, dal momento che si tratta prioritariamente dello statuto del passato, senza lasciarsi sedurre da una qualche forma di “mito della storia”. Uno dei gesti fondamentali che il Sartre di Collamati permette di compiere è infatti quello di uscire dal problema della morte in prima persona: abbandonare un pensiero della morte al singolare per pensare i morti o, più profondamente, i nostri morti. Ma compresa dialetticamente, la verità della morte non sta nemmeno nel lutto, nella morte alla seconda persona. La vera morte sta tutta nello scioglimento del legame: non è tanto nella persona (che sia prima, seconda o terza) quanto nel passaggio dal singolare al plurale. Alla stanchezza e all’esaurimento del collettivo, alla vera morte, si oppone ciò che Collamati chiama «il comunismo» (p. 132): anzitutto un legame di reciprocità, una forma di fedeltà. Fondare collettivamente il “passato che viene” significa allora inventare dei modi per riattivare il passato (potremmo definirli dei rituali) capaci di riportare in vita i morti attraverso una forma di ripetizione selettiva. Sappiamo bene che i morti non devono mai ritornare come fantasmi. Quello che ancora non sapevamo, è che i nostri morti non devono tornare nemmeno come degli eroi. Possiamo nominare questo problema con l’aiuto del primo pensatore che lo ha posto correttamente, cioè il Nietzsche della Seconda considerazione inattuale, dove vengono descritte le forze e le debolezze della storia monumentale. Che uso possiamo fare del passato per uscire dalle semplificazioni della storia monumentale, per liberarci cioè, una volta per tutte, del concetto di storicità che Heidegger ha posto al centro di Sein und Zeit? Collamati conduce una feroce battaglia contro l’individualismo heideggeriano su almeno tre fronti: il circolo vizioso dell’essere-per-la-morte, lo sfondo nichilistico del decisionismo astratto, la visione del futuro come destino. Senza poter commentare in questa sede i densi passaggi analitici che l’autrice dedica al confronto tra Sartre e Heidegger, mi limito a riportare una frase tratta dal manoscritto Morale e storia, che potrebbe fungere da esergo alla critica a Heidegger realizzata nel libro: «l’eroe della guerra è molto spesso inadeguato per la pace che segue». Come adattare le nostre pratiche di legame, le nostre fedeltà, in modo che esse resistano in tempi di guerra e di pace? O meglio, in modo da poterci allontanare da questa separazione un po’ artificiale che ci impedisce di vedere che, in realtà, stiamo ancora continuando a combattere? > Rispondere a queste domande non significa conferire un senso alla storia – si > tratti di tutta la storia o dell’evento che è supposto riaprirla; significa, > piuttosto, farsi carico della necessità di ciò che non è più, e di coloro che > non sono più. Abbandonando gli eroi a favore degli esempi, sappiamo solo cosa stiamo perdendo, poiché «gli esempi sono sempre dubbiosi». In realtà, Collamati ci indica anche cosa stiamo guadagnando: dei concetti senza artigli, riprendendo e tradendo il lemma tedesco Begriff. Un rapporto del concetto rispetto alla storia e alla politica che non è più verticalmente normativo: il concetto lascia il posto a quella che Sartre definisce nozione dialettica. La teoria non è una rete che il filosofo getta sulla storia, ma una costellazione di punti o di intensità, lo spazio aperto dal filosofo affinché le praxis del passato possano connettersi tra loro e con il presente, secondo variabili modalità di riattivazione politica. Da qui, tre suggestioni che riprendono e interrogano i grandi luoghi del libro: la storia della filosofia, la filosofia politica e gli esempi. Le Passé qui vient instaura un rapporto con la storia della filosofia che appare al contempo intenso e ambiguo. La ricostruzione delle reti di influenze è acuta e sempre molto (quasi troppo) informata. Emblematiche a tal proposito le pagine costruite a partire da un articolo di Karl Löwith su Heidegger: l’autrice mostra come la critica di Merleau-Ponty a Sartre si sovrapponga a quella che Löwith rivolgeva a Heidegger – dal punto di vista della storia intellettuale si tratta di una congettura, la cui solidità sembra tuttavia patente se pensiamo che l’articolo di Löwith è stato pubblicato nella rivista Les Temps Modernes e che è stato letto e commentato da Merleau-Ponty. A ogni modo, dimostrare la fondatezza di tale congettura non è ciò che interessa Chiara Collamati: «Il lettore non dovrà cercare la pertinenza di questo gesto nei riferimenti o nelle allusioni, più o meno esplicite, che Merleau-Ponty, nel momento in cui si accingeva a criticare Sartre, avrebbe potuto fare a Heidegger, a Schmitt o a Löwith. È piuttosto su un piano strettamente concettuale, sul piano della sequenza logica che struttura l’argomentazione merleau-pontiana, che tale confronto trova, a mio avviso, la sua giustificazione filosofica» (p. 156). Ne Le Passé qui vient, la storia della filosofia è costantemente sottoposta alla questione dell’esposizione filosofica, della Darstellung, che ne determina una verità ulteriore rispetto a quella della ricerca storica. Sebbene Collamati dialoghi costantemente con la letteratura critica sul Sartre politico, è molto attenta a non allontanarsi dall’oggetto specifico che intende trattare: una filosofia politica della temporalità o, come scrive all’inizio e alla fine del libro, una «filosofia politica della storia». La verità della giustificazione filosofica si gioca tutta all’altezza di un’adeguata disposizione degli argomenti: la filosofia politica sfida la storia della filosofia, usandola come un serbatoio di risorse da cui attingere, seppur con rigore. Ci sembra, tuttavia, che l’autrice non assuma fino in fondo le conseguenze di questo gesto metodologico. Nell’ultima parte del libro, Chiara Collamati passa dalla Critica della ragione dialettica all’esplorazione di un’«etica materialista» di cui gli esempi sono al contempo «gli oggetti, il metodo e il contenuto» (p. 180) – una descrizione in linea con quelli che sopra ho definito dei «concetti senza artigli». Ora, non vi è dubbio che, dal punto di vista storico-filosofico, il metodo critico e il metodo normativo, le nozioni dialettiche e gli esempi, possano essere produttivamente accostati. Tuttavia, se ci poniamo dal punto di vista di una “filosofia politica della storia”, non siamo forse costretti a scegliere tra un metodo e l’altro, tra una forma e l’altra dell’esposizione? Il mosaico di nozioni dialettiche è davvero compatibile con la pretesa di «definire i criteri di intelligibilità formale di qualsivoglia storia» (p. 176)? Possiamo davvero integrare nell’esposizione critico-filosofica l’intelligibilità degli esempi che Sartre avrebbe scoperto o selezionato per noi, senza rinunciare alla pretesa della filosofia politica a inglobare «qualsivoglia storia»? Immagine di copertina di Julien (flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il peso temporale delle nostre fedeltà proviene da DINAMOpress.
Montepulciano nell’Ottocento, di Maria Stuart
Riceviamo in redazione il libro di Maria Stuart, animatrice del comitato il Serraglio che qualche anno fa si è battuto contro uno scellerato progetto di parcheggio in area panoramica di Montepulciano. Il volume si intitola Trame di vita. Viaggio nell’Ottocento … Leggi tutto L'articolo Montepulciano nell’Ottocento, di Maria Stuart sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Referendum e trasformazioni sociali: uno sguardo storico. Intervista con Michele Colucci
I referendum sono alle porte. L’8 e il 9 giugno lə elettorə si esprimeranno sui cinque quesiti. I primi quattro hanno a che fare con il diritto del lavoro; il quinto con l’accesso alla cittadinanza italiana per chi risiede stabilmente nel Paese. Attraverso un’analisi puntuale e appassionata, Michele Colucci, primo ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) – Istituto di studi sul Mediterraneo – ci aiuta a orientarci in questa tornata referendaria, richiamando il significato storico e politico di questo strumento, tra conquiste passate e battaglie da rilanciare. Dietro la frammentazione apparente tra “lavoro” e “cittadinanza”, dal dialogo con Colucci emerge un filo rosso che attraversa tanto la storia delle politiche migratorie quanto le trasformazioni del mercato del lavoro: l’indebolimento dei diritti e la precarizzazione delle vite passano spesso attraverso forme differenziali di esclusione. Anche per questa ragione, il referendum può avere un significativo impatto politico, anche al di là della sua funzione specifica – l’abrogazione di norme ingiuste. Può essere un’opportunità per riattivare immaginari collettivi e pratiche di trasformazione. I referendum dell’8 e 9 giugno 2025 propongono modifiche in materia di lavoro e cittadinanza. Quali sono, dal tuo punto di vista, le potenzialità e i limiti di questi referendum? Si tratta di tematiche molto importanti che hanno a che fare direttamente con la vita di milioni di persone. Inoltre, i cambiamenti che potrebbero introdurre avrebbero un effetto dirompente su tutta la popolazione. Facciamo qualche esempio per capire la portata di ciò di cui stiamo parlando. Iniziamo dal referendum sulla cittadinanza. Permettere un accesso più rapido all’acquisizione della cittadinanza può rendere meno precarie le persone che ne sono prive, meno ricattabili, più sicure dal punto di vista giuridico. Aumentare la solidità sul territorio dei soggetti sociali serve a tutte e tutti, perché può garantire l’inversione di una compressione verso il basso dei diritti di tutta la popolazione. In presenza di una fascia ampia di persone prive della cittadinanza italiana, è molto più facile la diffusione di forme di sfruttamento che legittimano e rilanciano a dismisura la disuguaglianza: oggi tocca soprattutto alla componente straniera (ma non solo), domani può toccare a chiunque. È un percorso che conosciamo bene, che rivela tutte le sue insidie proprio sul tema del lavoro. Nei primi anni Duemila, quando si materializzò una complessiva riorganizzazione delle politiche del lavoro, venne approvata prima la legge Bossi-Fini (2002) sull’immigrazione e poi di lì a breve la legge 30 (2003) dedicata alla riforma del mercato del lavoro per tutta la popolazione. Passando agli altri quesiti, il diritto al reintegro riguarda l’intero comparto del lavoro in realtà produttive con più di 15 dipendenti, un segmento estremamente ampio e diversificato che oggi non può ambire al reintegro del posto di lavoro a seguito di un licenziamento illegittimo. Anche il secondo quesito si occupa dei licenziamenti, ma è rivolto a estendere il risarcimento per dipendenti di aziende che hanno meno di 15 dipendenti, nelle quali non è mai stato previsto il reintegro. Il terzo quesito è orientato a una maggiore tutela del lavoro precario, ormai da tempo dilagante e sempre più privo di diritti e coperture. Il quarto è dedicato alla sicurezza sul lavoro e alla giungla di appalti e subappalti che ne peggiorano enormemente le garanzie: è un fronte su cui l’Italia è drammaticamente esposta ma dove non si intravedono mai interventi concreti, a parte chiacchiere di circostanza e lacrime di coccodrillo quando si verificano incidenti mortali. Vedo che non sempre anche nei discorsi dei promotori riesce facile tenere insieme i quattro quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza. In realtà sono tutti e cinque quesiti sulla cittadinanza e allo stesso tempo cinque quesiti sul lavoro. La ricerca sulla storia delle politiche migratorie e delle politiche sul lavoro in questo senso ci aiuta a capire le connessioni: come già accennato basta guardare a come le leggi sull’immigrazione hanno anticipato le leggi sul mercato del lavoro. Aver riaperto una discussione su questi temi è già più di una potenzialità: è un passo in avanti nel dibattito pubblico, un merito della campagna referendaria che bisogna riconoscere. Il problema è nelle conseguenze che si porta dietro la scadenza referendaria: in caso di mancato raggiungimento del quorum o di sconfitta dei “sì” l’impatto potrebbe essere molto pesante. Sarà dura soprattutto nel breve periodo riproporre le battaglie oggetto di un pronunciamento netto da parte della popolazione. E, visto che si tratta di battaglie cruciali su questioni che resteranno in campo indipendentemente dall’esito referendario, ci sarà molto da fare per riuscire a riproporle in forma vertenziale. Il quesito sulla cittadinanza mira a ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale richiesto, insieme a molti altri requisiti, per ottenere la cittadinanza italiana. Quali implicazioni storiche e politiche vedi in questa proposta? Qual è la sua portata? Non è una riforma che inverte la rotta rispetto alle modalità con cui si ottiene la cittadinanza, ma rappresenta una semplificazione che migliora sensibilmente la vita di molte persone. La cittadinanza resta intimamente legata alla dimensione familista, ai vincoli di sangue. In caso di vittoria dei “sì” resteranno in campo tutte le discriminazioni economiche e burocratiche che la contraddistinguono. Ma l’intervento sui tempi permette di ridurre il disallineamento sui tempi di vita che spezza drammaticamente in modo razzista la società italiana. Con la vittoria dei “sì” non finirà il razzismo istituzionale. Anzi, andando ben oltre il referendum, dobbiamo sapere che anche se di colpo tutte le persone residenti in Italia diventassero cittadine italiane, resterebbero aperte altre forme di disuguaglianza che pesano sui rapporti di forza e sugli equilibri sociali. Nella vita quotidiana delle persone straniere la variabile del tempo è però una delle forme di discriminazione più subdole e pervasive: si perde tempo in attesa davanti alle questure, si perde tempo nelle Asl, si perde tempo nei centri di orientamento al lavoro, si perde tempo nelle anagrafi e negli uffici municipali, si perde tempo al caf, si perde tempo dall’avvocato. Perciò un intervento sui tempi di attesa per richiedere la cittadinanza ha un valore concreto e un valore simbolico. Concretamente serve a semplificare, ma interviene sulla diminuzione di quel limbo che per molte e molti non rappresenta una breve parentesi ma una dilatazione all’infinito di una vita di serie B. In termini storici non ci sono grandi cambiamenti, può essere utile ricordare che la proposta referendaria interviene sui tempi previsti dalla legge del 1992 (dieci anni di residenza prima di chiedere la cittadinanza) per tornare alla legge del 1912 (cinque anni): sul nesso residenza/cittadinanza/persone straniere il Parlamento liberale 113 anni fa fu più aperto del Parlamento repubblicano 33 anni fa! La storia della Repubblica è stata segnata dai referendum, a cominciare dal suo momento fondativo. Quali sono stati i referendum che, più di altri, hanno contribuito a ridisegnare il profilo del Paese? Si tratta di una storia lunga e complessa. Quello del 2 giugno 1946 fu indubbiamente un momento di svolta, anche perché rappresentò la prima compiuta forma di suffragio universale nazionale non limitato alla componente maschile. La lista dei referendum che hanno inciso in modo determinante sulla società italiana è molto lunga. Rispetto alla situazione attuale è interessante ricordare che alcuni dei referendum più importanti sono stati pensati per interrompere l’effetto di leggi appena approvate dal Parlamento e voluti da soggetti politici che non gradivano una evoluzione della società sancita da quei passaggi legislativi. Pensiamo ad esempio al referendum sul divorzio del 1974 per abrogare la legge Fortuna-Baslini o a quello sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1981 per abrogare la legge 194. I “no” all’abrogazione vinsero in maniera chiara in entrambi i casi, certificando in modo netto che le leggi conquistate grazie alla mobilitazione popolare erano del tutto in linea con il sentimento della popolazione. Oggi i referendum vengono proposti all’interno di una cornice rovesciata: il Parlamento non intende legiferare su alcuni nodi ritenuti cruciali dai promotori e attraverso i quesiti si cerca di affrontare l’esigenza di imporre una svolta alla legislazione. Tornando agli anni Ottanta, due referendum ebbero indubbiamente una funzione periodizzante oltre a quello già citato sull’aborto: il referendum del 1985 sulla scala mobile e quelli del 1987 sul nucleare. La sconfitta dei promotori del referendum sulla scala mobile segnò in modo pesante la crisi della parabola della centralità delle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, rafforzando quella fase di riduzione del potere d’acquisto dei salari di cui oggi vediamo chiaramente gli effetti. La vittoria – schiacciante, contro ogni aspettativa – dei 3 referendum sul nucleare, arrivata a un anno dalla tragedia di Chernobyl, rese evidente le potenzialità e il ruolo crescente dei movimenti ambientalisti e pacifisti, insieme a una nuova sensibilità diffusa nell’opinione pubblica. Anche nel 2011 la vittoria dei “sì” ai referendum sull’acqua bene comune e sul nucleare suscitò molto clamore, dentro una congiuntura in cui la stretta della crisi economica mondiale sembrava togliere qualsiasi fiducia al ruolo dei movimenti sociali. Sono molti i referendum dimenticati, non solo quelli nazionali ma anche quelli comunali, che però possono avere solo carattere consultivo. Tra i referendum comunali recenti più rimossi dalla discussione pubblica voglio ricordare quello bolognese del 2013, quando il 59% dei cittadini e delle cittadine del comune di Bologna votarono contro il finanziamento pubblico alle scuole paritarie. La campagna elettorale spaccò gli schieramenti politici tradizionali (come avviene con la tornata di oggi) e rivelò l’importanza del dibattito sulla scuola, la sua dimensione pubblica e la sua importanza nella società. Un referendum che ha visto una grande partecipazione della popolazione italiana si è tenuto nel 1970, ma non in Italia, bensì in Svizzera. Ci sono alcune analogie con l’attuale referendum sulla cittadinanza: a mobilitarsi nelle strade e nelle piazze furono, come oggi, persone di origine straniera, che non avrebbero avuto diritto di voto alla scadenza elettorale per la quale si stavano impegnando. Il referendum in Svizzera venne promosso da uno schieramento conservatore contrario all’immigrazione, capeggiato da James Schwarzenbach, promotore dell’iniziativa referendaria contro quello che definiva “inforestieramento” della Svizzera. Si trattava di un referendum contro l’immigrazione, in caso di vittoria circa un terzo degli immigrati stranieri sarebbe stato espulso: una sorta di progetto di “remigrazione” ante litteram. La Svizzera aveva già norme rigidissime sull’immigrazione e il clima sociale non era particolarmente favorevole alle comunità straniere: sembrava scontato l’esito. Invece grazie a una mobilitazione senza precedenti del mondo dell’immigrazione, delle tante realtà solidali, a partire dal sindacato, delle associazioni, il risultato fu sorprendente: il referendum venne respinto dal 54% dei votanti. All’epoca, quella italiana era l’immigrazione più presente in Svizzera, per questo pur non essendo un referendum italiano ha avuto effetti importanti sulla popolazione italiana. Un caso interessante da ricordare è quello del 2005, quando si tenne il referendum per abrogare alcuni divieti contenuti nella legge 40 del 2004 in materia di fecondazione assistita e ricerca sulle cellule staminali: i votanti si espressero massicciamente per l’abrogazione, non fu raggiunto il quorum, ma la legge 40 venne negli anni seguenti smontata in molte sue parti dalle sentenze dei tribunali. Qual è l’attualità di questo istituto, anche alla luce della crisi profonda nella partecipazione al voto che investe, in maniera crescente? Il referendum di per sé non è più o meno attuale di altre forme di partecipazione politica. La crisi della partecipazione alle elezioni si riflette anche nella crisi di molte altre forme di partecipazione alla cosa pubblica. La via referendaria è spesso oggetto di discussioni, anche molto accese. Ci sono contesti territoriali attivissimi sul piano della mobilitazione sociale dove i soggetti protagonisti delle battaglie civili hanno combattuto l’idea di far esprimere la popolazione con un referendum: si pensi ad esempio allo scontro sul TAV in Piemonte. I comitati e i movimenti contrari hanno sempre guardato con scetticismo alla chiamata alle urne, rivendicata semmai a volte dalla controparte, dai favorevoli alle cosiddette “grandi opere”. Il referendum può anche avere una funzione tombale sui movimenti sociali, nel momento in cui può servire a chiudere le stagioni di attivazione collettiva. Credo che sia importante valutare caso per caso, a seconda dei contesti e delle differenti congiunture storiche e politiche. Alla luce della tua esperienza di studio dei movimenti sociali e delle trasformazioni nel lavoro e nella cittadinanza, che ruolo pensi possa avere oggi il referendum nel riattivare processi collettivi e partecipativi? Mi pare che possa avere un ruolo importante, come è evidente dalle tantissime iniziative di questi giorni. Se per risvegliare la coscienza sociale serve un referendum ben venga il referendum. Non credo tuttavia che la mobilitazione eccezionale per una scadenza straordinaria possa sistematicamente sostituirsi alla dimensione quotidiana della partecipazione, fatta di momenti “normali”, magari apparentemente ordinari, che rappresentano però l’ossatura di una rete di azioni capace di garantire un livello alto di partecipazione e di attivazione svincolato dalle scadenze elettorali. Per capirci: lo stillicidio degli incidenti sul lavoro continuerà, ma se dopo il referendum cambierà l’attenzione e si registrerà un incremento delle proteste e delle lotte collegate significa che il referendum è servito, al di là del risultato delle urne. Questo è solo uno dei tantissimi esempi possibili. Immagine di copertina di Sandrino14, wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Referendum e trasformazioni sociali: uno sguardo storico. Intervista con Michele Colucci proviene da DINAMOpress.