La lunga storia antisionista della sinistra ebraica

Jacobin Italia - Wednesday, July 23, 2025
Articolo di Benjamin Balthaser

La storica Karen Brodkin racconta che il socialismo era «egemonico» nella vita degli ebrei statunitensi prima della Guerra fredda. Non nel senso che ogni ebreo americano fosse socialista, ma piuttosto nel senso che una «visione operaia» e «anticapitalista» era una posizione politica familiare, persino dominante, degli ebrei statunitensi delle prime ondate di immigrazione ebraica di massa negli anni Ottanta dell’Ottocento e la Paura rossa della fine degli anni Quaranta del Novecento.

Queste posizioni si materializzarono in organizzazioni comunitarie di ampia base, sindacati, pubblicazioni socialiste e partiti di sinistra fondati nelle comunità ebraiche o in organizzazioni non ebraiche con partecipazione ebraica su larga scala. L’International Ladies’ Garment Workers’ Union (Ilgwu) e l’Amalgamated Clothing Workers of America (Acwa) non solo si formarono con una schiacciante maggioranza di lavoratori ebrei, ma si svilupparono anche attraverso scioperi militanti e costruirono una cultura che andava ben oltre il luogo di lavoro, nelle sale da ballo, nelle cooperative edilizie e nelle pubblicazioni yiddish di sinistra. Il Partito socialista godeva di un sostegno pressoché ineguagliabile tra i lavoratori ebrei, con Eugene Debs che ricevette quasi il 40% dei voti ebrei nel 1920, rispetto a meno del 4% dei voti della popolazione generale. Victor Berger, compagno di corsa di Debs e uno dei politici socialisti più popolari negli Stati uniti, era ebreo, così come Meyer London, deputato che si definiva socialista.

Uno dei grandi equivoci sulla consistente sinistra ebraica dell’inizio e della metà del XX secolo (un errore ripetuto da Brodkin tra gli altri) è che il socialismo ebraico americano fosse un’importazione dall’Europa orientale. L’affermazione piuttosto ragionevole di Brodkin, e in effetti ciò che ritengo sia di buon senso tra gli ebrei statunitensi e gli storici della sinistra, è che il socialismo ebraico sia nato dal crogiolo dell’antisemitismo zarista e di una Haskalah tardiva, alimentata da una classe operaia iper-istruita seppur sottoccupata. Se questo può essere vero per l’arrivo del Bund all’inizio del XX secolo, per l’emergere della sinistra ebraica statunitense di fine Ottocento, secondo lo storico Tony Michels, c’era poco socialismo ebraico da importare. Come sostiene Michels, il movimento operaio e socialista ebraico precede di due decenni i movimenti operaio e socialista dell’Europa orientale; «l’ebreo non è sempre stato radicale; l’ebreo era diventato radicale a New York e in altre città americane». In parte, suggerisce Michels, ciò è dovuto ai contatti degli ebrei con i lavoratori radicali tedeschi statunitensi, che portarono con sé testi dell’Oyfklerung del socialismo tedesco, tra cui quelli di Karl Marx, Friedrich Engels, Ferdinand Lassalle e Wilhelm Liebknecht.

L’osservazione storica di Michels rappresenta una critica a un presupposto molto più diffuso, secondo cui il socialismo ebraico è un fenomeno monogenerazionale e che, dopo l’assimilazione, gli ebrei socialisti si sono trasformati in liberal. Niente di più lontano dalla verità: piuttosto, il movimento del socialismo ebraico dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Quaranta del Novecento fa pensare a una crescente radicalizzazione man mano che gli ebrei si assimilavano negli Stati uniti e si sentivano più a loro agio nel loro ambiente.

In effetti, il movimento comunista degli anni Trenta e Quaranta fu, come osservò Michael Denning, un movimento di immigrati «etnici statunitensi» in gran parte di seconda e terza generazione, piuttosto che di arrivi più recenti. Il movimento comunista fu anche, per molti aspetti, il culmine della sinistra ebraica negli Stati uniti, con il Partito comunista che all’epoca contava in media quasi centomila iscritti, oltre la metà dei quali ebrei. Dato l’elevato turnover del partito, ciò avrebbe significato che centinaia di migliaia di ebrei statunitensi entrarono e uscirono dai ranghi dell’organizzazione.

Tuttavia, la portata e la portata del Partito comunista statuitense andavano ben oltre i suoi iscritti, estendendosi ai numerosi sindacati affiliati, alle organizzazioni per i diritti civili, alle organizzazioni anti-imperialiste e pacifiste e alle organizzazioni culturali nell’orbita del partito. L’ala sinistra del Congress of Industrial Organizations (Cio), del National Negro Congress, dell’American League Against War and Fascism, del Civil Rights Congress, del Jewish People’s Fraternal Order e di altri gruppi fece sì che milioni di statunitensi fossero compagni di viaggio del Partito o membri attivi di organizzazioni ad esso collegate. Ciò seguì e contribuì a produrre il più grande riallineamento della politica di massa nella storia Usa: una coalizione di liberal bianchi, sindacati, organizzazioni per i diritti civili, persone non bianche ed ebrei statunitensi.

L’alleanza è un fondamento così profondo della vita statunitense moderna che, se comincia a sgretolarsi, genera confusione. In altre parole, il momento culminante della sinistra ebraica Usa coincise con il senso comune della politica di sinistra e contribuì a crearlo.

Il movimento comunista degli anni Trenta rivendicava lo slogan del Fronte Popolare, «Il comunismo è l’americanismo del XX secolo», ma molti storici del comunismo e della storia ebraica hanno notato che il movimento degli anni Trenta e Quaranta era tutt’altro che assimilazionista. Come scrive Brodkin, «gli operai ebrei non accettavano l’idea che un’identità ebraica fosse periferica rispetto ai loro interessi di classe operaia» come i socialisti ebrei di fine Ottocento e Novecento. Descrivendo lo stesso fenomeno un decennio dopo il periodo descritto da Brodkin, Matthew B. Hoffman e Henry F. Srebrnik sostengono che il «comunismo ebraico» negli Stati uniti «era una combinazione di socialismo e nazionalismo ebraico laico».

In effetti, leggendo la stampa di sinistra degli anni Trenta, l’«assimilazione» era intesa come un anatema per il socialismo; non solo qualcosa che un ebreo socialista non avrebbe voluto fare, ma un progetto concepito per contrastare il socialismo e indebolirlo. Come scrive Alexander Bittelman, uno dei principali redattori e teorici del Partito comunista tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta:

Tutti sanno che le forze non democratiche nella vita ebraica americana sono o assimilazioniste… o nazionaliste-reazionarie. Gli assimilazionisti sono del tutto contrari alla costruzione di una vita ebraica negli Usa o cercano di ridurre la comunità ebraica a un gruppo religioso, il che equivale a negare la vita ebraica. E su questo punto, i nazionalisti reazionari, che negano la possibilità di costruire una vita ebraica nella diaspora (il Goluth), assumono la stessa posizione degli assimilazionisti. Vale a dire: o si oppongono del tutto alla costruzione di una vita ebraica negli Usa – il che è praticamente la stessa cosa – vogliono confinarla a una comunità religiosa.

Per Bittelman, l’alternativa all’«assimilazionismo» e al «nazionalismo reazionario» (ovvero il sionismo) sono i «valori ebraici progressisti». Proprio come «tikkun olam» una generazione dopo, «valori ebraici progressisti» nel lessico della sinistra ebraica degli anni Trenta e Quaranta si riferisce a una cultura laica di socialdemocrazia, antirazzismo e diversità culturale, espressa attraverso la tradizione ebraica. Come ha articolato lo studioso Yuri Slezkine, delle tre risposte ebraiche all’antisemitismo nel XX secolo – l’immigrazione nelle Americhe, l’emigrazione in Israele e la Rivoluzione bolscevica (ovvero assimilazione, nazionalismo o socialismo) – il socialismo è rimasto di gran lunga la risposta più popolare alla «questione ebraica» tra l’inizio e la metà del XX secolo. In questo senso, allora, il comunismo non era una forma di assimilazione, ma piuttosto un’alternativa ad essa.

Naturalmente, questo solleva la domanda: cosa c’era negli Stati uniti che permise il fiorire del socialismo ebraico? Sebbene questa possa essere una domanda sovradeterminata, è chiaro che i socialisti ebrei esprimevano il loro impegno politico attraverso un linguaggio di identificazione etnica e solidarietà razziale; anzi, questi tendevano a essere inscindibili.

Come scrive Amelia Glaser nella sua completa storia della poesia yiddishkeit di sinistra negli Stati uniti, parte dell’acculturazione degli ebrei di sinistra negli Stati uniti avvenne attraverso il linguaggio della solidarietà e dell’identificazione razziale. I poeti statunitensi che scrivevano in yiddish spesso trasponevano il linguaggio dei pogrom in storie di linciaggi e paragonavano le sofferenze degli afroamericani a quelle degli ebrei nella Zona di Residenza. I poeti di lingua yiddish traducevano persino l’idioma e gli stili poetici neri nei loro scritti. Sebbene tali forme di prestito e identificazione potessero far pensare a una sorta di menestrello di sinistra, esprimevano una critica alla modalità di Al Jolson di versare lacrime ebraiche attraverso il blackface. Piuttosto che esprimere il dolore ebraico attraverso la trasposizione, queste poesie erano un modo per comunicare l’oppressione degli afroamericani ad altri ebrei in un idioma che potessero comprendere.

In una mossa analoga, il romanzo Jews Without Money del 1930 dello scrittore e editore Mike Gold, ambientato a metà secolo, presenta come eroe un ebreo dalla pelle scura e dai capelli ricci – soprannominato dalla comunità con la parola che inizia con la N. Piuttosto che considerarlo un’appropriazione, direi che Gold presenta questo personaggio per rifiutare una «teleologia dell’assimilazione» e abbracciare la solidarietà con gli altri statunitensi emarginati. Sebbene ci siano molte altre ragioni per cui il socialismo ebraico ha prosperato negli Stati uniti, tra cui una maggiore atmosfera di libertà rispetto alla Russia zarista (seppur spesso circoscritta), suggerirei che sia piuttosto la sinistra Usa ad essersi prestata a un’espressione della politica etnica come politica di liberazione socialista. Negli Stati uniti, a differenza dell’Europa, la solidarietà razziale era un’espressione di radicalismo.

Bittelman, da teorico del Partito comunista, tentò di schematizzare l’identità ebraica ashkenazita e il suo rapporto con le persone di colore non ebree in tutto il mondo all’interno di un quadro marxista e intersezionale dopo la Seconda guerra mondiale. Bittelman concepisce inizialmente la vita ebraica ashkenazita negli Stati uniti come esistente all’interno di un quadro «nazionalista borghese» che cerca di incorporare la «borghesia ebraica» negli obiettivi del capitalismo globale dominato dagli Stati uniti e di offrire una forma di «assimilazione» subordinata alle masse ebraiche. Bittelman prosegue poi affermando che la razza negli Stati uniti non è semplicemente un epifenomeno di classe; piuttosto, «esiste negli Stati uniti un peculiare sistema di oppressione dei popoli, solitamente definiti minoranze, che è un sistema di persecuzione e discriminazione contro i popoli». In altre parole, gli Stati uniti non sono solo un paese capitalista che sopravvive grazie allo sfruttamento del lavoro, ma sono anche l’erede dell’Impero britannico all’esterno e il prodotto dell’insediamento e della schiavitù all’interno.

Pur rifuggendo una rigida gerarchia di oppressione, Bittelman descrive comunque l’oppressione degli afrostatunitensi come simile alla colonizzazione, definendola un’«oppressione nazionale» analoga alla colonizzazione delle Filippine e di Porto Rico all’interno della «Cintura Nera del Sud» e un regime di oppressione e discriminazione in tutto il resto degli Stati uniti. Bittelman descrive un sistema di oppressione razziale che in ultima analisi serve gli interessi del capitalismo, pur ponendo gli «anglosassoni» come gruppo dominante e sottoponendo etnie bianche quali «polacchi, russi, italiani, ebrei e altri» a svariate forme di esclusione. Bittelman prosegue suggerendo che gli ebrei si distinguano da questo quadro generale nella misura in cui «l’antisemitismo stesso» è una forma di «oppressione e discriminazione nazionale» meno sistemica dell’oppressione subita dai neri, ma al tempo stesso più acuta e più importante per le forze della «reazione imperialista» rispetto alle forme generali di esclusione sociale subite dai non «anglosassoni». In questo contesto, è nell’interesse degli ebrei statunitensi allearsi con il «popolo nero» che lotta per la propria «liberazione nazionale» all’interno della Black belt e costituisce una «forza d’avanguardia contro l’intero sistema imperialista di discriminazione e oppressione nazionale negli Stati uniti».

È logico, quindi, che nella sua analisi del ruolo dei socialisti ebrei negli Stati uniti, emerga una critica del sionismo dalla visione generale del mondo della sinistra ebraica. Pertanto, per Bittelman, l’identità ebraica americana è legata principalmente alle sue condizioni negli Stati uniti e alle sue solidarietà vissute con altre «nazionalità oppresse», in particolare afroamericani e popolazioni del mondo colonizzato. La teoria di Bittelman circa il rapporto tra ebrei statunitensi e sionismo deriva dalla sua teorizzazione generale di razza e capitalismo come formazioni transnazionali, collegate attraverso circuiti di forma militare ed economica.

Se il sionismo è una forma di imperialismo, non solo è direttamente antagonista dei palestinesi, ma è anche contrario agli interessi personali degli ebrei della classe operaia. Bittelman ammette che gli ebrei formino un «gruppo nazionale» nello Yishuv, l’insediamento ebraico pre-statale nella Palestina mandataria. Ma il loro carattere nazionale, la loro lingua, il loro territorio e la loro cultura nazionale non garantiscono agli ebrei in Palestina il diritto di formare uno stato esclusivamente ebraico. Come scrive Bittelman:

La soluzione sionista alla questione palestinese, essendo antidemocratica e reazionaria e orientata alla collaborazione con l’imperialismo contro il popolo arabo, mette in pericolo la sicurezza dello Yishuv e tende a trasformare il popolo ebraico in complici e partner dell’oppressione e dello sfruttamento imperialista.

Bittelman non era il solo a considerare il sionismo una forma di imperialismo negli anni Trenta e Quaranta; in effetti, questa era la visione di buon senso della sinistra. Non solo il sionismo, come aveva previsto con precisione Hannah Arendt, avrebbe cacciato centinaia di migliaia di palestinesi e messo una minoranza di ebrei contro un intero subcontinente di vicini arabi, ma si sarebbe allineato con l’imperialismo britannico e statunitense e con gli interessi borghesi della classe dirigente ebraica. Bittelman parlava a nome della maggior parte degli ebrei statunitensi di sinistra, tra cui luminari come Mike Gold, Albert Einstein, Leon Trotsky, Muriel Rukeyser e molti altri, quando scrisse che il sionismo era un anatema per i «valori ebraici progressisti». L’antisionismo sembrava ben integrato nella vita quotidiana degli ebrei statunitensi. Come ha affermato sinteticamente Robert Gessner, negli Stati uniti «circa l’1% degli ebrei è sionista».

Per citare Stuart Hall a proposito di Antonio Gramsci, le idee «non si limitano mai al nucleo filosofico» della loro esistenza; per la loro presenza «organica» nei movimenti e nelle comunità, «devono toccare il senso comune pratico e quotidiano». È importante sottolineare che l’antisionismo ebraico è emerso organicamente, in senso gramsciano, dall’impegno socialista già esistente degli ebrei negli Stati uniti. Se la sinistra ebraica statunitense si sia «convertita» velocemente al sionismo non è avvenuto grazie all’abilità militare israeliana, ma grazie al sostegno dell’Unione sovietica alla Partizione in seno alle Nazioni unite. Eppure, durò poco sia per l’Unione sovietica che per la sinistra ebraica americana.

Quando Israele tornò alla ribalta nel 1967, la risposta della New left fu sorprendentemente coerente con quella della sinistra ebraica della generazione precedente. Il Partito socialista dei lavoratori (Swp) trotskista rimase coerente sulla questione palestinese durante il nadir degli anni Cinquanta, per molti membri della dirigenza degli Students for a Democratic Society (Sds) ci fu un processo di riapprendimento. Quando lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc) nel 1968 si schierò a sostegno della nascente Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), i leader dell’Sds sentirono di dover essere sostenuti. Susan Eanet-Klonsky, che era nella dirigenza dell’Sds e lavorava presso la sede nazionale di Chicago, disse di aver ricevuto una pila di opuscoli e libri «sulla questione palestinese» da compagni più anziani e di aver intrapreso per la prima volta uno studio sulla questione. Scrivendo diversi articoli per il giornale della Sds, New Left Notes, Eanet-Klonsky inquadrò Israele e Palestina in modo molto simile a quanto avevano fatto i comunisti degli anni Trenta, come una conquista imperialista «analoga alla fuga dei primi coloni in America… verso una terra già occupata dal popolo indiano».

Quando, cinquant’anni dopo, Jewish Voice for Peace lanciò la campagna Deadly Exchange per denunciare il razzismo sia dello stato di polizia statunitense che dello stato di apartheid israeliano, si stava articolando una tradizione centenaria di collegamento tra sionismo, violenza razziale e imperialismo. Sebbene in entrambi i casi le condizioni e il contesto potessero essere nuovi, la concezione transnazionale della razza da parte della sinistra è rimasta una costante. Una tale concettualizzazione della razza non è un fenomeno nuovo, ma emerge piuttosto dalle solidarietà e dalle articolazioni di una tradizione molto più lunga della sinistra ebraica statunitense.

Sulla questione del sionismo e della solidarietà con altri gruppi etnici oppressi e minoranze religiose, esiste un filo rosso che va dal Partito comunista all’Sds, al Collettivo Chutzpah, alla Nuova Agenda Ebraica (Nja) e a Jewish Voice for Peace. In effetti, si possono persino rintracciare tali linee evolutive attraverso singoli individui e famiglie. Jewish Voice for Peace, Jews for Racial and Economic Justice (Jfrej) e Democratic Socialists of America (Dsa) sono organizzazioni intergenerazionali, e molti dei fondatori e attivisti provengono da famiglie di sinistra multigenerazionali, tra cui Melanie Kaye/Kantrowitz, la cui carriera si estende dalla Nja alla Jfrej; David Duhalde, un socialista ebreo nella Dsa i cui genitori sono esuli dal Cile; e Molly Crabapple, pronipote di un noto membro del Bund. In questo senso direi che la sinistra ebraica non è periferica rispetto all’identità ebraica, ma piuttosto parte integrante della comprensione delle attuali divisioni e opposizioni all’interno della comunità ebraica, così come della continua presenza di ebrei autoidentificati e di organizzazioni ebraiche nelle proteste di piazza contro l’ultima guerra di Israele.

Queste vicende sono tutt’altro che accademiche. Mentre oggi le istituzioni ebraiche di destra, dall’American Jewish Committee all’Anti-Defamation League e all’Hillel International, tentano di soffocare il dibattito pubblico americano sul sionismo e sul continuo esodo dei palestinesi dalla loro terra, la memoria viva della sinistra ebraica non solo è una risorsa per gli ebrei statunitensi, ma può anche indicare la strada da seguire per coloro che desiderano sfidare tali istituzioni sulla base delle proprie basi culturali. A differenza delle teorie sulla «scomparsa» della sinistra ebraica o dell’interesse per la sinistra ebraica americana come forma di «nostalgia», va ricordato che gli ebrei di sinistra non erano semplicemente individui coraggiosi, ma rappresentanti di comunità radicate e prospettive di classe, parte di una più lunga storia di lotta di classe, antimperialismo e assimilazione alle modalità dominanti di «bianchezza» e potere. Per quanto questa sia una storia culturale della «sinistra ebraica», la sinistra ebraica è inseparabile dalla più lunga storia della sinistra radicale, di cui la sinistra ebraica è stata parte attiva e influente.

Naturalmente, questo non significa che la sinistra americana (ebraica) sia stata infallibile (anzi, la cieca adesione alla politica estera dell’Unione sovietica è stata un disastro per la Palestina e per la credibilità del comunismo americano): le sue sconfitte sono principalmente il risultato del terreno accidentato della lotta di classe, non di contraddizioni interne. Le due Paure rosse, il Cointelpro e l’allineamento delle istituzioni ebraiche liberali con le inquisizioni della destra hanno giocato un ruolo sproporzionato nell’affermare il predominio del sionismo sulla politica ebraica e statunitense. Ma va ricordato che le lotte del passato sono emerse e si sono combattute su un terreno non del tutto diverso da quello che ci troviamo ad affrontare oggi: una superpotenza imperialista contro gli interessi della maggioranza globale.

Il mio intervento non si basa sull’idea che gli ebrei di sinistra fossero eccezionali, lungimiranti o cosmicamente visionari, ma piuttosto sul fatto che tali sinistre siano emerse dagli interessi e dalle lotte quotidiane della gente comune in un mondo grottescamente ingiusto. In quanto tali, i primi ebrei di sinistra hanno costruito una sinistra ebraica – e una critica del sionismo – a partire dal terreno autoctono degli Stati uniti: un terreno in cui l’oppressione razziale, una borghesia rapace, un bilancio militare gonfiato e standard di vita precari persino per le persone istruite sono la norma piuttosto che l’eccezione. Gli ebrei statunitensi, come tutti quelli che fanno parte del 99%, hanno motivi per combattere tali formazioni nella loro lingua, in una lingua comune, nella propria lingua in comune con gli altri.

*Benjamin Balthaser è professore associato di letteratura multietnica statunitense presso l’Università dell’Indiana, South Bend. Di recente ha scritto Citizens of the Whole World: Anti-Zionism and the Cultures of the American Jewish Left (Verso, 2025), dal quale è tratto questo testo, che è comparso anche su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

L'articolo La lunga storia antisionista della sinistra ebraica proviene da Jacobin Italia.