Pastasciutta e libri, antifascisti

Jacobin Italia - Friday, July 25, 2025
Articolo di Luca Casarotti

Oggi in tutt’Italia si ripete il gesto di festa della famiglia Cervi per la caduta del Crapa pelada, del Pasta e fagioli, del (non ancora, ma entro un paio d’anni) Salmone. Su queste stesse pagine Carlo Greppi ha ragionato del perché la tradizione della pastasciutta antifascista sia così viva (e qui tradizione s’intende per una volta in senso proprio e non abusivo). Qualcuno obietterà che c’è un paradosso: della pastasciutta originaria ci manca, direbbe un Aristotele antifascista, la causa finale. Che caduta possiamo mai festeggiare noi oggi, nel 2025, in tempo d’estrema destra governante e avanzante, dagli Usa a Israele, dal Giappone a mezz’Europa, isole e Penisola comprese? Ma l’antifAristotele risponderebbe prontamente: 

per intanto, la caduta del futuro Salmone di Predappio è stata la causa finale della pastasciutta del ’43, ma non ci dimentichiamo che è la causa formale anche del nostro pentolone odierno: senza quella, niente spaghetti a Gattatico, e quindi niente ripetizione posteriore della prima festa.

Ma anche dopo che l’antifAristotele ci ha obbligato a ripassare la sua teoria della causalità, noi restiamo col dubbio. Cosa stiamo andando a festeggiare, di preciso? Stiamo solo rievocando l’inizio palese della fine del fascismo? Certo è questo un fatto che ben merita una festa: per sé, e per tutto ciò che n’è venuto. Ma certo è pure che, in questo tornante della storia e della nostra biografia collettiva, a contorno della pasta serviamo non solo la festa, ma anche una frustrazione cocente: e noi stiamo insieme attorno a un tavolo per non dovercela inghiottire da soli, davanti a uno schermo o negli altri modi più o meno tossici in cui facciamo finta di non essere da soli. 

In realtà quest’articolo non doveva parlare della pastasciutta antifascista. Doveva parlare di cosa sarebbe bene fare per non cedere del tutto al modus vivendi della frustrazione, e di libri che sostengono questo sforzo: ci arriviamo, fidatevi. 

È fuor di dubbio che il leviatano di neodestra (o di destra alternativa, o quale che sia il nome della reazione contemporanea) è particolarmente antiumano e fa paura. Altrettanto indubbio è che, anche solo al livello della speranza o dell’utopia, chiunque gli si opponga ne cerca un qualche punto debole in cui attaccarlo. Un primo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti il sopra-o-sotto-valutare le forze nemiche, che appariranno dunque imbattibili nel primo caso o effimere nel secondo. Discusso, invece, è quanto peso abbia la cultura nell’apprezzamento della strategia nemica, e di conseguenza nell’ipotizzare la strategia controffensiva. Se il fascismo avesse o meno una cultura è stata a lungo in Italia una questione aperta, per ragioni molteplici. Ha pesato il giudizio di Benedetto Croce, che come tutte le posizioni crociane ha orientato in un modo o in un altro la cultura italiana novecentesca; hanno pesato le letture troppo schematiche del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura culturale, che rischiano sempre di ridurre l’incidenza reciproca tra le due all’azione unilaterale della struttura sulla sovrastruttura, e quindi di concepire una politica culturale non all’altezza della cultura. E poi ha pesato, com’è giusto che sia, anche un motivo retorico: è stato giusto che la propaganda antifascista abbia screditato il fascismo negando tra l’altro la consistenza della sua cultura. Giusto, a patto di riconoscere questo come appunto un motivo della contesa politica, e non come un presupposto storiografico: i due domini, della politica e della storiografia, spesso s’intrecciano, e gli intrecci bisogna saperli riconoscere anche dove si celano, ma restano comunque domini distinti. Un secondo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’integralismo della politica, cioè la pretesa sloganistica che tutto sia politico. Pretesa a cui corrisponde l’incomprensione della (o la fuga dalla) politique politicienne, con il rischio d’esserne gabbati o inconsapevolmente fagocitati. A furia di dire che tutto è politica, sembra che solo la politica non lo sia.

Dicevamo del trattamento che la cultura di destra riceve a sinistra. Non è per caso che l’indagine più originale in proposito sia venuta da uno studioso sui generis, il Furio Jesi che i cultura-di-destrologi, incluso chi scrive, non mancano mai di citare: da buon intellettuale torinese, Jesi cresce nell’ambiente fervido e di sana intransigenza antifascista che è il post-azionismo della sua città: l’ambiente dei Bobbio e dei Galante Garrone. Entra quindi nella redazione di Resistenza, il periodico dell’associazione Giustizia e libertà. Ma poi rompe con GL, quando l’associazione rimprovera alla redazione la linea innovativa impressa al giornale: istruttivo, (intendo istruttivo anche per noi, riguardo a due modi non ancora pacificati d’intendere l’antifascismo) è l’articoletto che redattrici e redattori della nuova Resistenza pubblicano su Belfagor per dar conto della frattura. 

Sta di fatto che sono la dottrina onnivora di Jesi e quest’eterodossia rispetto alla generazione d’antifascisti precedente a consentirgli di eleggere l’indagine sulla cultura di destra a tema sia della sua ricerca sia della sua militanza.

Non è nemmeno un caso se gli studi alla Jesi abbiano avuto pochi epigoni. Un po’ è per via dell’originalità dell’autore, che è un’originalità vera, cioè difficile da eguagliare se non per imitazione. Ciò non significa, dato che effettivamente ne sono stati scritti, che non siano stati scritti libri fondamentali sull’evoluzione della destra tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Un po’ però è anche per via dell’oggetto stesso d’indagine: la cultura di destra non è per niente retrocessa, né ha trascurato d’intonarsi ai media che la diffondono. Ma resta al fondo, in quell’area, una certa fissità del canone d’idee-forza, parole d’ordine, autori e testi di riferimento. Un conto è ritenere, erroneamente, che il fascismo e ciò che n’è disceso non abbiano una cultura, e dunque che non valga la pena occuparsene. Altro conto è ritenere, a ragione, che la cultura fascista sia esigua. Il che non esime dallo studiarla.

E se forse ancora manca un lavoro che dissezioni la fase reazionaria attuale con la stessa risolutezza e ambizione teorica di Cultura di destra (ma la cultura di destra non offre molte occasioni per scriverne di nuovi, data la ripetitività di cui dicevamo), senz’altro non mancano i contributi che fanno buon uso dello strumentario fornito da Jesi per studiare qualcuno dei suoi volti. Giuliano Santoro e Wu Ming 1, ad esempio, lo hanno fatto quando hanno demistificato la serie di luoghi comuni implicati dall’enunciato «né di destra né di sinistra»; Leonardo Bianchi quando ha osservato il populismo di destra della seconda metà del decennio scorso; di nuovo Leonardo Bianchi e di nuovo, più esplicitamente, Wu Ming 1 quando hanno scritto del cospirazionismo di QAnon e di altri fenomeni paragonabili; e altri esempi ancora si potrebbero fare.

L’ultimo libro di Valerio Renzi, Le radici profonde. La destra italiana e la questione culturale (Fandango, 2025), non si rifà direttamente a Jesi, non lo cita mai, anche se per certi versi lo presuppone. Non per lo stile, affatto diverso dal conoscere per citazioni che Jesi, evocando Walter Benjamin, rivendicava a sua cifra, e dagli esiti vertiginosi a cui conduceva quello stile. In comune, con la saggistica di Jesi e con altri libri d’intellettuali militanti che hanno affrontato il tema, questo lavoro ha invece almeno due intenti: confrontare le statuizioni teoriche dell’estrema destra con gli esiti pratici della sua azione culturale, e concepire l’inchiesta sulla destra insieme come un esercizio di professione e di militanza («giornalista e attivista» sono i due predicati con cui Renzi si qualifica). A riprova della fissità e ristrettezza della cultura d’area, già Jesi, che scriveva alla fine degli anni Settanta, si era soffermato su alcuni dei testi che anche Valerio Renzi opportunamente oggi prende a campione per illustrare gli orientamenti teorici della destra radicale: Orientamenti, per inciso, è il titolo di un opuscolo di Julius Evola, spesso ripetuto nei nomi dei centri studi neofascisti e nella loro pubblicistica. Un esempio sono gli scritti di Adriano Romualdi, del quale Jesi con impeccabile spietatezza rilevava, oltre al filonazismo patente, anche il più latente suo vezzo piccolo borghese, da intellettualino salottiero. Jesi ci presentava il Romualdi editore e apologeta delle SS, pure piuttosto maldestro nell’apologia; Renzi ce lo presenta, e le due facce naturalmente si coimplicano, come divulgatore Evoliano e come uno dei primi a mettere in questione la linea culturale del Movimento sociale italiano. Romualdi, tra l’altro protagonista di una delle svariate aggressioni fasciste a Pier Paolo Pasolini,  muore nel 1973. Poi, in fine di quel decennio, sarebbe venuta la generazione dei Marco Tarchi e dei Campi Hobbit, a contestare la dirigenza missina e a importare dalla Francia le indicazioni strategiche di Alain de Benoist e del gruppo che a lui fa capo, il Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (acronimo Grece, a proposito di manipolazione del mito: il francese per Grecia differisce solo nell’accentazione). Di qui lo scontro tra gl’intellettuali d’area che Renzi ben ricostruisce, sulla nostalgia del fascismo come mito incapacitante. Chissà se Marcello Pera, quando da presidente del Senato ha detto lo stesso dell’antifascismo, che appunto è un mito incapacitante, ha voluto usare di proposito la medesima espressione.

Proprio l’accresciuta influenza di Benoist tra i riferimenti teorici d’estrema destra è l’aggiornamento più sostanzioso rispetto al tempo della mappatura di Jesi. Un’influenza cresciuta fino allo sdoganamento della sua presenza nel dibattito generalista: prima nella Francia degli anni Ottanta, complici Le Figaro e pure l’Académie Française; poi nell’Italia meloniana, dov’è stato ospite d’onore al Salone del libro; e negli Usa trumpiani, dov’è tra i maestri di pensiero dell’estrema destra, non diversamente da quel che succede al di qua dell’Atlantico. Un aggiornamento, rispetto alla precedente linea Spengler-Evola-Eliade, che è però più di nomi e modi di fare reclutamento che di pensiero: viene da Benoist e dai suoi la parola magica «metapolitica», che sta sulla bocca e nella penna d’ogni militante formato sul manuale del buon militante estremadestro, come quello scritto dall’ideologo di Casaggì e Azione studentesca Marco Scatarzi, Essere comunità, che Valerio Renzi esamina nel suo libro. Precisamente da questa linea, la linea del pensiero antiegualitario che da Spengler a Benoist giunge ai loro ripetitori per uso di partito (alla Scatarzi o, su altri lidi, alla Gabriele Adinolfi), deriva il differenzialismo che Renzi giustamente riconosce a tratto più marcato anche dell’odierna cultura di destra, governativa e non. Differenzialismo, cioè diversità inconciliabile, tra sessi, etnie, culture. L’opposto dell’uguaglianza, che ha nel suo fine il superamento della separazione.

Il differenzialismo è davvero il tratto che dalle statuizioni teoriche si mantiene nella concreta pratica di governo della destra italiana:  le Indicazioni Valditara, nei limiti consentiti dal burocratese che conviene a un documento ministeriale (anzi, persino oltre la misura imposta dal tipo di testo), sono l’espressione programmatica di questa linea di condotta. E lo scazzo Giuli / Galli della Loggia il rivelatore contraltare comico.

Per il resto, non si può fare a meno di notare che alla magniloquenza dei teorici d’area corrisponde un’arte del governo ben più triviale, ma non meno repressiva. Lo iato più vistoso, Mimmo Cangiano ci insiste molto, è tra il ribellismo antisistema vagheggiato dalla fazione spiritualista della destra e il modo in cui questa, quando diventa fazione di governo, si accomoda docilmente sotto l’ala del capitale.

Ma è nel costume, o se vogliamo nello spazio delle guerre culturali, che la cultura di destra italiana si mostra retrograda in tutta evidenza. Retrograda anche rispetto al nazionalpopolare, tanto da sdegnarsi delle labbra di Rosa Chemical su quelle di Fedez nel sabato sera più visto di Raiuno. E Valerio Renzi, che coglie il suggerimento, intitola «contro Sanremo» il capitolo in cui discute del versante oscurantista dell’evo post-berlusconiano.

Sì, ma perché vi ho parlato di spaghetti e di libri? Che c’entrano? 

Vi potrei dire che il libro di Valerio Renzi mi è molto piaciuto: è una messa a punto esaustiva e comprensibile per i non addetti ai lavori, e un buon corso di aggiornamento per gli addetti (o un ripasso per i più secchioni). Quindi volevo parlarne. Siccome però volevo parlare anche di cose come il senso di solitudine e di frustrazione nella militanza, che almeno a me capita sempre più spesso di avvertire, ne ho approfittato per prendere due piccioni-argomenti con una fava-articolo.

Ma c’è un motivo più serio dell’ego scrivente. Io sono tra coloro che pensano che la cultura di destra va studiata. È chiaro che c’è un rischio: dedicare tempo allo studio dell’avversario sottrae tempo a noi, al lavoro politico per la nostra parte, a mettere a punto una risposta che non dipenda dalla strategia altrui. Addirittura, perché succede anche questo, continuando a studiare l’avversario si potrebbe finire a subirne la fascinazione. Tuttavia resta decisivo un fatto, che è verificato dall’antifascismo storico, quello che oggi ci fa mettere sul fuoco il pentolone di spaghetti. Noi capiamo cosa vogliamo e per cosa lottiamo, a patto che ci sia chiaro, di una chiarezza sia razionale sia emotiva, cosa ci fa ritenere l’avversario un avversario. Prendiamo la mistica del martirio, del sacrificio per l’ideale quando tutto è perduto. Che ci sia del fascino nel suo retaggio romantico è difficile negare. Ma noi sappiamo che l’immagine dell’uomo tra le rovine, custode sopravvissuto della causa sconfitta, è la scena madre dell’esistenzialismo fascista dopo il ’45. Sappiamo che quell’immagine riesce consolatoria ai fascisti: sia perché, da fascisti, credono nella gerarchia ontologica tra gli uomini, sia perché dà loro un senso all’emarginazione in cui la sconfitta li ha relegati. Sappiamo, infine, quali propositi si siano ingenerati, nell’Italia del secondo Novecento, tra i devoti di quella mistica. Ragione per la quale dovremmo evitare d’accogliere con leggerezza l’esaltazione del bel gesto simbolico, o peggio del sacrificio martire (quasi sempre altrui). Un terzo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’estetica virilistica e velleitaria dello scontro per lo scontro, quando a essa corrisponde l’assoluta incapacità di sostenere il manifestarsi del conflitto reale.

*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, è autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023).

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