Missioni di pace?Tra le tante proposte in cartellone nel ricco programma del Critical Wine di
quest’anno (24-25 maggio a Bussoleno, ne abbiamo già parlato qui) è passata
inosservata una mostra fotografica, nei locali dell’Ass.ne Culturale “La
Credenza” dal titolo Missioni di Pace? con chiarissimo punto interrogativo.
Documentazione di un’esperienza molto ‘particolare’ di cui il fotografo Diego
Fulcheri – che i lettori di questo sito ben conoscono come ‘front line reporter’
circa i fatti e misfatti che succedono in Val Susa – è stato in più riprese
protagonista nel ruolo di pilota elicotterista, nell’ambito di cosiddette
‘missioni di pace’, prima in Libano con l’UNIFIL e poi in Bosnia, Kosovo,
Afghanistan. Un’esperienza che ha generato in lui parecchie domande, sullo
sfondo di interessi economici e tornaconti anche personali che di ‘umanitario’
non avevano proprio niente, come sintetizzato in questo testo che accompagnava
la mostra e che vi riproponiamo. (ndr)
L’accusa d’ipocrisia rivolta alle ‘missioni di pace’ in genere verte
principalmente sul fatto che, pur essendo state istituite per garantire la pace,
non hanno quasi mai raggiunto gli obiettivi prefissati, spesso mostrando un
approccio superficiale e inadeguato alla risoluzione dei conflitti, se non
addirittura connivente con i signori della droga, delle armi o del petrolio:
strumento insomma delle manovre di geopolitica, con i più deboli, soprattutto i
bambini, a pagare le conseguenze maggiori. Come ho avuto modo di capire
prestando servizio in Afghanistan e a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina.
Afghanistan, una guerra per l’oppio e a favore delle case farmaceutiche
“Venti anni di guerra in Afghanistan in sintesi”: questo l’incipit di un
articolo a firma di Lorenzo Poli su Invictapalestina, in data 24.8.2021.
Bilancio: 240.000 morti tra gli afgani di cui 71.000 civili, oltre ai 4.000
morti per la NATO tra cui 54 militari italiani. 2.000 miliardi di dollari
sparati contro l’umanità, contro i ”solo 55” spesi in investimenti (dati di
Fabrizio Tonello, Il Manifesto). Tutto questo, a detta di Joe Biden, per
vendicare l’11 settembre ed eliminare Osama Bin Laden.
In realtà la guerra ha soprattutto incrementato il mercato della droga, se
pensiamo che nel 2001 la produzione di oppio non superava i 180 kg, mentre solo
quindici anni dopo (cfr Massimo Fini su Il Fatto Quotidiano del 7.5.2016:
“Afghanistan 2001-2016, l’unica ‘liberazione’ è quella dell’oppio”) si toccavano
picchi di 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, qualificando l’Afghanistan come
produttore del 93% dell’oppio a livello mondiale mondiale.
“Facendo un bilancio, la guerra in Afghanistan è stata un beneficio non per gli
afghani, ma per le case farmaceutiche occidentali, i produttori di armi, le
società di mercenari, le mafie anche italiane, le organizzazioni terroristiche
islamiche, ma soprattutto gli Stati capitalisti”. (Lorenzo Poli nell’articolo
già citato).
Foto di Diego Fulcheri
Enrico Piovesana, giornalista di grande esperienza, ha scritto un libro dal
titolo Afghanistan 2001-2016, La nuova guerra dell’oppio (Arianna Edizioni): un
libro coraggioso, sufficientemente piccolo per passare quasi inosservato, ma
ricco di informazioni che dovrebbero far arrossire di vergogna i Paesi che hanno
invaso l’Afghanistan e hanno continuato ad occuparlo fino al 2021.
Nel luglio del 2001 il Mullah Omar aveva proibito la coltivazione del papavero,
da cui si ricava l’oppio e, una volta raffinato, l’eroina. Decisione difficile
perché colpiva soprattutto la base del regime di Omar, cioè i contadini, cui
andava peraltro solo l’1 per cento dei ricavi. Fatto sta che nel 2002 la
produzione di oppio in Afghanistan era crollata a 185 tonnellate. Quindici anni
dopo (come appunto documentava Massimo Fini nel succitato articolo) la
produzione raggiungeva le 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, e l’Afghanistan
diventava il maggior produttore d’oppio a livello mondiale. Come mai, visto che
fra gli obiettivi della coalizione ISAF (International Security Assistance
Force), oltre a portare la democrazia, “liberare” le donne eccetera, c’era anche
quello di sradicare il traffico di stupefacenti, cosa a cui peraltro aveva già
provveduto il Mullah Omar?
Foto di Diego Fulcheri
Le ragioni sono principalmente due. La prima è che per combattere i talebani i
contingenti NATO (soprattutto americani, inglesi, canadesi), benché forti
d’indiscussa superiorità militare (aerei, droni, bombe all’uranio impoverito e
sofisticatissimi strumenti tecnologici), sono stati costretti ad allearsi con i
“signori della droga” che il governo di Omar aveva cacciato dal Paese. La
seconda, anche più grave, è che gli stessi militari NATO, insieme ai soldati del
cosiddetto esercito “regolare” e la quanto mai corrotta polizia, diventarono
protagonisti di buona parte del traffico di droga.
La guerra in Afghanistan tanto voluta dagli USA è stato un business enorme per
Big Pharma: la maggior parte dei farmaci è a base di oppio e solo nel 2017 le
case farmaceutiche americane hanno potuto contare su circa 500.000 kg di oppio a
prezzi ‘agevolati’. Un’inchiesta del giornalista e scrittore Franco Fracassi ha
rivelato che la maggior parte dei generali NATO in Afghanistan non si occupavano
solo di guerra, ma di lobbismo per le case farmaceutiche, delegati a trattare il
prezzo dell’oppio per loro conto.
“Oltre 90 miliardi di dollari l’anno è il fatturato che le case farmaceutiche
totalizzano dalla vendita di farmaci a base di oppiacei, di cui una buona parte
proviene dall’Afghanistan e la cui produzione è aumentata del 5.000.000%
dall’inizio della guerra nei primi anni 2000” scriveva infatti nell’agosto del
2021 Lorenzo Poli nel suo articolo per Invictapalestina. “Non è un caso infatti
che tra il 1991 e il 2011 le prescrizioni negli Usa si sono triplicate, da 76
milioni a 219 milioni di ricette l’anno, per poi arrivare a 289 milioni di
ricette nel 2016.”
Foto di Diego Fulcheri
Dopo 14 anni di guerra, suonano crude le conclusioni del giornalista americano
Eric Margolis per The Huffington Post citato anche da Massimo Fini: “Quando
verrà scritta la storia di questa guerra in Afghanistan, il sordido
coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina e la sua alleanza con i
signori della droga sarà uno dei capitoli più vergognosi”.
Nulla è mai come sembra
“In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, che vede
implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali: sulla Bosnia ed
Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo
millennio”, parola di Kofi Annan, nel Report of the UN Secretary-General.
La guerra in Bosnia ed Erzegovina si è combattuta tra i primi di marzo del 1992
e il 14.12.1995, fino alla stipula dell’accordo di Dayton (Ohio), che pose
ufficialmente fine alle ostilità.
L’intervento della comunità internazionale fu per gran parte del conflitto
piuttosto blando, limitandosi a promuovere sterili trattative di pace. Del tutto
insufficiente si rivelò anche l’invio di un contingente ONU, l’UNPROFOR, che non
impedì il perpetrarsi di massacri contro la popolazione civile. La tragedia
danneggiò profondamente la legittimità dell’ONU: “Tra gli attori internazionali,
nessuno più delle Nazioni Unite ha perso credibilità a causa del crollo della
Bosnia”.
Si stima che l’assedio di Sarajevo (dal 5.4.1992 al 29.2.1996, il più lungo
assedio nella storia bellica del XX° secolo) abbia registrato 12.000 morti oltre
ai 50.000 feriti, l’85% dei quali tra i civili. A causa dell’elevato numero di
morti e della migrazione forzata, nel 1995 la popolazione si ridusse a 334.664
unità, il 64% della popolazione precedente allo scoppio della guerra. E allora
perché l’intervento della NATO, si è chiesto l’economista Sean Gervasi?
Decisiva sulle decisioni politiche e militari (come l’intervento della NATO)
soprattutto in Occidente, fu l’influenza della copertura giornalistica
televisiva in Bosnia, in particolare della CNN, ma le cose potrebbero essere
andate diversamente. Un articolo dell’economista Sean Gervasi, pubblicato sul
sito del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia il 14.1.1996 motiva
l’intervento occidentale nella penisola balcanica come “il risultato delle
enormi pressioni per un’estensione generale della NATO verso est (…) in vista di
un allargamento in tempi relativamente rapidi anche alla Polonia, alla
Repubblica Ceca e all’Ungheria (…) in ragione di una scelta strategica
finalizzata al controllo delle risorse della regione intorno al Mar Caspio e per
‘stabilizzare’ i paesi dell’Europa Orientale e in ultima analisi la stessa
Russia e i paesi della Comunità degli Stati Indipendenti…” Notare la data: siamo
solo nel 1996!
C’era sostanzialmente, secondo Gervasi, un piano occidentale “per far implodere
la Jugoslavia che rappresentava l’ultimo ostacolo…”
Inquietante, col senno di poi, la comparsa di un trafiletto su La Stampa di
Torino, che in data 29.11.1990 così recitava: “La Jugoslavia si disintegrerà
entro il 1992”, parola della CIA!
MISSIONI DI PACE O PER LA GUERRA PERMANENTE?
Centro Sereno Regis