
Missioni di pace?
Pressenza - Friday, June 6, 2025Tra le tante proposte in cartellone nel ricco programma del Critical Wine di quest’anno (24-25 maggio a Bussoleno, ne abbiamo già parlato qui) è passata inosservata una mostra fotografica, nei locali dell’Ass.ne Culturale “La Credenza” dal titolo Missioni di Pace? con chiarissimo punto interrogativo. Documentazione di un’esperienza molto ‘particolare’ di cui il fotografo Diego Fulcheri – che i lettori di questo sito ben conoscono come ‘front line reporter’ circa i fatti e misfatti che succedono in Val Susa – è stato in più riprese protagonista nel ruolo di pilota elicotterista, nell’ambito di cosiddette ‘missioni di pace’, prima in Libano con l’UNIFIL e poi in Bosnia, Kosovo, Afghanistan. Un’esperienza che ha generato in lui parecchie domande, sullo sfondo di interessi economici e tornaconti anche personali che di ‘umanitario’ non avevano proprio niente, come sintetizzato in questo testo che accompagnava la mostra e che vi riproponiamo. (ndr)
L’accusa d’ipocrisia rivolta alle ‘missioni di pace’ in genere verte principalmente sul fatto che, pur essendo state istituite per garantire la pace, non hanno quasi mai raggiunto gli obiettivi prefissati, spesso mostrando un approccio superficiale e inadeguato alla risoluzione dei conflitti, se non addirittura connivente con i signori della droga, delle armi o del petrolio: strumento insomma delle manovre di geopolitica, con i più deboli, soprattutto i bambini, a pagare le conseguenze maggiori. Come ho avuto modo di capire prestando servizio in Afghanistan e a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina.
Afghanistan, una guerra per l’oppio e a favore delle case farmaceutiche
“Venti anni di guerra in Afghanistan in sintesi”: questo l’incipit di un articolo a firma di Lorenzo Poli su Invictapalestina, in data 24.8.2021. Bilancio: 240.000 morti tra gli afgani di cui 71.000 civili, oltre ai 4.000 morti per la NATO tra cui 54 militari italiani. 2.000 miliardi di dollari sparati contro l’umanità, contro i ”solo 55” spesi in investimenti (dati di Fabrizio Tonello, Il Manifesto). Tutto questo, a detta di Joe Biden, per vendicare l’11 settembre ed eliminare Osama Bin Laden.
In realtà la guerra ha soprattutto incrementato il mercato della droga, se pensiamo che nel 2001 la produzione di oppio non superava i 180 kg, mentre solo quindici anni dopo (cfr Massimo Fini su Il Fatto Quotidiano del 7.5.2016: “Afghanistan 2001-2016, l’unica ‘liberazione’ è quella dell’oppio”) si toccavano picchi di 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, qualificando l’Afghanistan come produttore del 93% dell’oppio a livello mondiale mondiale.
“Facendo un bilancio, la guerra in Afghanistan è stata un beneficio non per gli afghani, ma per le case farmaceutiche occidentali, i produttori di armi, le società di mercenari, le mafie anche italiane, le organizzazioni terroristiche islamiche, ma soprattutto gli Stati capitalisti”. (Lorenzo Poli nell’articolo già citato).

Foto di Diego Fulcheri
Enrico Piovesana, giornalista di grande esperienza, ha scritto un libro dal titolo Afghanistan 2001-2016, La nuova guerra dell’oppio (Arianna Edizioni): un libro coraggioso, sufficientemente piccolo per passare quasi inosservato, ma ricco di informazioni che dovrebbero far arrossire di vergogna i Paesi che hanno invaso l’Afghanistan e hanno continuato ad occuparlo fino al 2021.
Nel luglio del 2001 il Mullah Omar aveva proibito la coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio e, una volta raffinato, l’eroina. Decisione difficile perché colpiva soprattutto la base del regime di Omar, cioè i contadini, cui andava peraltro solo l’1 per cento dei ricavi. Fatto sta che nel 2002 la produzione di oppio in Afghanistan era crollata a 185 tonnellate. Quindici anni dopo (come appunto documentava Massimo Fini nel succitato articolo) la produzione raggiungeva le 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, e l’Afghanistan diventava il maggior produttore d’oppio a livello mondiale. Come mai, visto che fra gli obiettivi della coalizione ISAF (International Security Assistance Force), oltre a portare la democrazia, “liberare” le donne eccetera, c’era anche quello di sradicare il traffico di stupefacenti, cosa a cui peraltro aveva già provveduto il Mullah Omar?

Foto di Diego Fulcheri
Le ragioni sono principalmente due. La prima è che per combattere i talebani i contingenti NATO (soprattutto americani, inglesi, canadesi), benché forti d’indiscussa superiorità militare (aerei, droni, bombe all’uranio impoverito e sofisticatissimi strumenti tecnologici), sono stati costretti ad allearsi con i “signori della droga” che il governo di Omar aveva cacciato dal Paese. La seconda, anche più grave, è che gli stessi militari NATO, insieme ai soldati del cosiddetto esercito “regolare” e la quanto mai corrotta polizia, diventarono protagonisti di buona parte del traffico di droga.
La guerra in Afghanistan tanto voluta dagli USA è stato un business enorme per Big Pharma: la maggior parte dei farmaci è a base di oppio e solo nel 2017 le case farmaceutiche americane hanno potuto contare su circa 500.000 kg di oppio a prezzi ‘agevolati’. Un’inchiesta del giornalista e scrittore Franco Fracassi ha rivelato che la maggior parte dei generali NATO in Afghanistan non si occupavano solo di guerra, ma di lobbismo per le case farmaceutiche, delegati a trattare il prezzo dell’oppio per loro conto.
“Oltre 90 miliardi di dollari l’anno è il fatturato che le case farmaceutiche totalizzano dalla vendita di farmaci a base di oppiacei, di cui una buona parte proviene dall’Afghanistan e la cui produzione è aumentata del 5.000.000% dall’inizio della guerra nei primi anni 2000” scriveva infatti nell’agosto del 2021 Lorenzo Poli nel suo articolo per Invictapalestina. “Non è un caso infatti che tra il 1991 e il 2011 le prescrizioni negli Usa si sono triplicate, da 76 milioni a 219 milioni di ricette l’anno, per poi arrivare a 289 milioni di ricette nel 2016.”

Foto di Diego Fulcheri
Dopo 14 anni di guerra, suonano crude le conclusioni del giornalista americano Eric Margolis per The Huffington Post citato anche da Massimo Fini: “Quando verrà scritta la storia di questa guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina e la sua alleanza con i signori della droga sarà uno dei capitoli più vergognosi”.
Nulla è mai come sembra
“In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, che vede implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali: sulla Bosnia ed Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio”, parola di Kofi Annan, nel Report of the UN Secretary-General.
La guerra in Bosnia ed Erzegovina si è combattuta tra i primi di marzo del 1992 e il 14.12.1995, fino alla stipula dell’accordo di Dayton (Ohio), che pose ufficialmente fine alle ostilità.
L’intervento della comunità internazionale fu per gran parte del conflitto piuttosto blando, limitandosi a promuovere sterili trattative di pace. Del tutto insufficiente si rivelò anche l’invio di un contingente ONU, l’UNPROFOR, che non impedì il perpetrarsi di massacri contro la popolazione civile. La tragedia danneggiò profondamente la legittimità dell’ONU: “Tra gli attori internazionali, nessuno più delle Nazioni Unite ha perso credibilità a causa del crollo della Bosnia”.
Si stima che l’assedio di Sarajevo (dal 5.4.1992 al 29.2.1996, il più lungo assedio nella storia bellica del XX° secolo) abbia registrato 12.000 morti oltre ai 50.000 feriti, l’85% dei quali tra i civili. A causa dell’elevato numero di morti e della migrazione forzata, nel 1995 la popolazione si ridusse a 334.664 unità, il 64% della popolazione precedente allo scoppio della guerra. E allora perché l’intervento della NATO, si è chiesto l’economista Sean Gervasi?
Decisiva sulle decisioni politiche e militari (come l’intervento della NATO) soprattutto in Occidente, fu l’influenza della copertura giornalistica televisiva in Bosnia, in particolare della CNN, ma le cose potrebbero essere andate diversamente. Un articolo dell’economista Sean Gervasi, pubblicato sul sito del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia il 14.1.1996 motiva l’intervento occidentale nella penisola balcanica come “il risultato delle enormi pressioni per un’estensione generale della NATO verso est (…) in vista di un allargamento in tempi relativamente rapidi anche alla Polonia, alla Repubblica Ceca e all’Ungheria (…) in ragione di una scelta strategica finalizzata al controllo delle risorse della regione intorno al Mar Caspio e per ‘stabilizzare’ i paesi dell’Europa Orientale e in ultima analisi la stessa Russia e i paesi della Comunità degli Stati Indipendenti…” Notare la data: siamo solo nel 1996!
C’era sostanzialmente, secondo Gervasi, un piano occidentale “per far implodere la Jugoslavia che rappresentava l’ultimo ostacolo…”
Inquietante, col senno di poi, la comparsa di un trafiletto su La Stampa di Torino, che in data 29.11.1990 così recitava: “La Jugoslavia si disintegrerà entro il 1992”, parola della CIA!
MISSIONI DI PACE O PER LA GUERRA PERMANENTE?