
A Sarajevo bisogna camminare in fretta
Comune-info - Wednesday, November 12, 2025«Per raggiungere il palazzo del parlamento bosniaco nel centro di Sarajevo bisogna camminare in fretta, senza fermarsi. Ci hanno raccomandato di farlo Dijana e Lasna, inquiline del sesto piano dell’edificio che ha voluto ospitare la delegazione italiana giunta a Sarajevo, ultima tappa dell’iniziativa “Tre città, una pace” del Consorzio italiano di solidarietà…». Comincia così il reportage di Marco Calabria e Matteo Moder pubblicato su il manifesto del 7 gennaio 1994 e raccolto oggi nel libro Gridare, fare, pensare mondi nuovi (Eleuthera). In questi giorni, grazie a un esposto del giornalista Ezio Gavazzeni (in realtà la notizia si è più volte diffusa in passato ma non ha raggiunto i “grandi” media), apprendiamo che durante l’assedio di Sarajevo, tra il 1993 e il 1995, quando undicimila persone furono uccise, ci furono diversi “cecchini del weekend” italiani, appassionati di armi e simpatizzanti dell’estrema destra, che raggiunsero le colline intorno alla città, pagando i militari serbo-bosniaci, per sentire l’adrenalina della morte: i bambini costavano di più, poi gli uomini armati, quindi quelli non armati, le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis
Sarajevo. Foto unsplash.com«Resistenza per Sarajevo» (Marco Calabria e Matteo Moder)
Per raggiungere il palazzo del parlamento bosniaco nel centro di Sarajevo bisogna camminare in fretta, senza fermarsi. Ci hanno raccomandato di farlo Dijana e lasna, inquiline del sesto piano dell’edificio che ha voluto ospitare la delegazione italiana giunta a Sarajevo, ultima tappa dell’iniziativa «Tre città, una pace» del Consorzio italiano di solidarietà.
Dobbiamo incontrare Kemal Muftic, consigliere del presidente Izetbegovic e direttore dell’agenzia B.H. Press. Muftic esprime perplessità per il percorso che ha preceduto l’arrivo della delegazione nella capitale bosniaca. È molto scettico sulla partecipazione, certo non di massa, dei cittadini di Zagabria e Belgrado alle manifestazioni promosse dai pacifisti italiani. «Per le operazioni umanitarie bisogna aprire l’aeroporto di Tuzla. Tutto il mondo è d’accordo, i serbi no. Non ci può essere pace senza libertà – chiarisce Muftic – Non so spiegare perché tanta ferocia, non dovete domandare a me perché anche padri di famiglia e contadini vengano a sparare a noi». L’unica risposta è che vivono in un regime fascista di tipo cileno, ma con una fortissima sindrome da accerchiamento.
«La comunità internazionale – prosegue il portavoce governativo – ha lasciato che l’armata serba si scatenasse senza intervenire e oggi non ci consente ancora di poterci difendere. Questa guerra ha già fatto più di 300.000 vittime in Bosnia e a Sarajevo si continua a morire» [a oggi le morti stimate sono poco più di centomila N.d.C.].
Muftic si fa poche illusioni sull’utilità di un’informazione critica in Europa. Descrive con pungente ironia l’incontro avuto con Valery Giscard d’Estaing, venuto a Sarajevo a portare la solidarietà del parlamento francese. «La politica di non intervento dei governi occidentali ha già dato i suoi frutti. Guardate dalla finestra», è il suo amaro commento sostenuto dalle voci di fabbricazione europea delle armi usate dagli assedianti. A Sarajevo lo sanno tutti, lo leggono sulle migliaia di schegge di granate che si possono raccogliere in strada. Non servono conferme o smentite ufficiali, non cambia poi molto se si tratta ‘Parlal por «L’Onu noi di forniture dirette o passate per mani terze.
Muftic pensa che l’Europa non potrà tollerare culturalmente ciò che è avvenuto a Sarajevo, ma la scelta di non intervento è ai suoi occhi cinicamente lineare. «La gente qui non ha fiducia, né si sente protetta dall’Unprofor. Noi stessi non ci sentiamo sicuri nell’affidare una delegazione straniera alle forze dell’Onu. Un anno fa è stato ucciso il vicepresidente del nostro governo su un mezzo blindato dell’Onu. Se altri non vogliono farlo, chiediamo ancora una volta di poterci difendere da soli. L’Onu deve togliere l’embargo. Dobbiamo difendere molti civili in questa città che ha deciso di non arrendersi, a Mostar e nelle altre città bosniache assediate. La nostra capacità di resistenza aumenta ogni giorno, nonostante lo stillicidio dei massacri quotidiani. Ma ad ogni nostra avanzata sulle colline di Sarajevo consegue una rappresaglia sui civili in altre zone, magari non di guerra, come Banja Luka. Lì i serbi hanno distrutto 1.200 moschee, cimiteri, luoghi di culto, tutte le tracce di una cultura che vogliono estirpare».
La situazione è del tutto chiara per Il consigliere di Izetbegovic, l’idea della Grande Serbia nata nel XIX secolo, è stata rinnovata con l’ascesa al potere di Milosevic. «Qui a Sarajevo non hanno optato per un golpe – prosegue Muftic – che non sarebbe stato troppo difficile da organizzare con una repentina decapitazione del governo bosniaco. Hanno scelto di fare come gli europei con le popolazioni indigene in America: cancellazione sistematica delle persone fisiche, della cultura, dei monumenti e della storia. L’Europa invita alla pace e alla vita in comune. In Bosnia questo esiste da otto secoli. Sarajevo è questo, ma la Jugoslavia è stata distrutta e adesso vogliono distruggere la Bosnia per fare una grande Serbia e una grande Croazia. Ma non si può fermare il fascismo solo con le parole. Dovreste saperlo, ci vuole la Resistenza», conclude in italiano Muftic.

Questo articolo, pubblicato originariamente su il quotidiano il manifesto del 7 gennaio 1994, fa parte oggi del libro Gridare, fare, pensare mondi nuovi (Eleuthera).
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